Il partito del leader è il modello che produce partiti impoveriti

Ha scritto bene Follini di recente: “Si organizzano partiti tutti d’un pezzo nel timore che una discussione appena appena più franca e diretta possa uscire dai confini della comodità”.

Scrive bene Giorgio Merlo circa la differenza democratica fra gli attuali “partiti del capo” e il pluralismo correntizio che animava i partiti democratici di un tempo. Ovviamente al netto delle degenerazioni che, pure, quel sistema produceva, le quali però non sono certo state eliminate dal sistema imperniato sul comando assoluto di una sola persona.

Il metodo correntizio, di cui era maestra la Dc, come giustamente rileva Giorgio, consentiva non solo una selezione più severa dei gruppi dirigenti ai diversi livelli in quanto costringeva i militanti a dimostrare il proprio impegno e le proprie qualità in due sedi distinte ancorché collegate (la corrente ed il partito), aumentando così il tasso di selettività; ma altresì garantiva ampie possibilità di dialettica, di riflessione, di proposta che poi arricchivano il confronto interno al partito, svolto nelle sedi statutarie ad ogni livello territoriale, sino a quello nazionale.

Un sistema a un certo punto demonizzato causa troppi errori e troppi scandali che però non necessariamente erano dovuti ad esso o solo ad esso, come pure si disse e si scrisse, ma che, osservato in sé per quello che esso era, ha consentito l’emersione di leadership di qualità assai alta, a tutti i livelli: sindaci, segretari provinciali, parlamentari, leader nazionali. Un sistema che, pur incapsulato nel mitico “manuale Cencelli” lasciava comunque, misteriosamente e in realtà genialmente, un pertugio per l’eccellenza, anche se sprovvista di un adeguato numero di tessere da presentare alla conta congressuale. Ne fu esempio luminoso, ma a livello locale tanti altri casi simili si verificarono negli anni, proprio uno dei leader più grandi della Dc, Aldo Moro, che guidò il partito, direttamente o di fatto, per lunghi anni pur senza essere a capo di una corrente numericamente rilevante. Sia quando si trovava in maggioranza sia quando veniva relegato in minoranza. Lo spazio per l’eccellenza, però, non poteva essere compresso. E non lo fu.

Cosa sarebbe stato uno come Moro negli odierni partiti personali, nei quali se si contesta il capo si viene sostanzialmente messi alla porta? Questo fatto, ovvero che sempre più si fa riferimento al leader del partito e non al partito, indebolisce la democrazia. Osservando le cose con quello sguardo lungo che dovrebbe avere chi fa politica, e pure chi la analizza, questo “rischio democratico” non può essere ignorato. Non dovrebbe essere ignorato, in verità, perché purtroppo pare proprio che lo sia.

Del tema ha scritto qualche giorno fa, sulle colonne de la Stampa, anche Marco Follini con il consueto garbo letterario, sempre piacevole a leggersi. “Si organizzano partiti tutti d’un pezzo nel timore che una discussione appena appena più franca e diretta possa uscire dai confini della comodità. E quasi tutto il ceto politico che non sta in primissimo piano viene considerato al modo dell’intendenza di napoleonica memoria. Il suo compito è solo quello di seguire”. Proprio così.

Tralasciando i partiti imperniati sul leader-fondatore e limitandosi a osservare i due maggiori non può non destare preoccupazione il fatto che pure essi, in modo diverso, siano soggetti al culto del capo. Giorgia Meloni domina Fratelli d’Italia, che peraltro ha ideato e fondato, ben rendendosi conto della scarsa qualità delle sue truppe e dovendo dunque guidare il partito con mano ferrea affidandosi al supporto di poche persone di sua massima fiducia (la sorella, in primis). Del resto gli elettori il 25 settembre dell’anno scorso hanno votato lei, prima che il suo partito, e i sondaggi confermano il trend.

Elly Schlein non domina il Pd, unico partito che tuttora ha un involucro tradizionale. Ma a ben vedere anche lì è il capo del momento che determina il tutto (linea politica, liste, temi prevalenti) e l’opposizione interna (quando c’è, se c’è) deve mordere il freno, muoversi con circospezione, limitarsi a qualche puntura di spillo pena altrimenti essere accusata di indebolire il partito e il suo condottiero (la sua condottiera, nel caso presente). Il problema del Pd è che il leader che tutto o quasi controlla, e che nel sistema mediatico odierno è di fatto l’unico punto di riferimento per l’elettorato, viene eletto da una platea – quella delle Primarie – esterna e, almeno in parte, estranea al partito. Depotenziando così quel ruolo di selezione qualitativa che il meccanismo pluralista interno potrebbe favorire. Perché è poi il leader che determina le liste elettorali e conseguentemente, per i più, quelli dell’intendenza: alla resa dei conti il silenzio diviene d’oro, come usa dire.

Anche qui, in questo penoso impoverimento qualitativo dei partiti, stanno le ragioni della loro crescente distanza dai cittadini che pure dovrebbero rappresentare al meglio. E con essa della latente crisi del nostro sistema democratico.