L’avventura di Salvini nel mare magnum dell’ultra destra

Il leader leghista si gioca tutto perché la sua ambizione è rimasta, anche se oggi appare totalmente infondata, la scalata a Palazzo Chigi, non volendo rimanere un semplice vassallo del Premier pro-tempore.

Matteo Salvini si gioca tutto e evidentemente ritiene che la candidatura del generale Vannacci possa aiutarlo. Uno spostamento all’estrema destra che radicalizza ulteriormente un partito che ha condotto su posizioni sempre più anti-europeiste, filo-putiniane, trumpiane e quant’altro. Un partito, però, che sta andando in ebollizione. Una pentola a pressione destinata ad esplodere: subito nel caso di un modesto risultato elettorale a giugno, il prossimo autunno nel caso di un esito appena sufficiente alle urne europee. 

Certo, Salvini punta ad un successo e ha immaginato di poterlo conseguire ai danni di Fratelli d’Italia, sottraendogli consenso reazionario divenuto scettico nei confronti di Giorgia Meloni durante questi mesi di sua attività di governo. Ma è una scommessa tutta da verificare alla prova dei fatti: anche perché la premier sul piano interno ha da tempo capito l’antifona, bloccando di conseguenza ogni possibile scivolamento “moderato” del suo partito (vista la cui composizione, peraltro, senza troppe difficoltà!) che invece destina al suo profilo internazionale quale Presidente del Consiglio. Una scommessa da verificare, inoltre, perché nella stessa base leghista, soprattutto al nord dove essa è più forte, crescono le perplessità quando non lo scetticismo acuto, e questi sentimenti non favoriranno di sicuro un impegno entusiasta e inesauribile nel corso delle prossime settimane.

Dopo la scomunica bossiana (perché di questo si è trattato) e le valutazioni critiche verso Salvini di altri esponenti della vecchia guardia stanno ora arrivando i distinguo e le prese di distanza da parte di importanti esponenti della Lega nei confronti dell’operazione Vannacci (dal ministro Giorgetti al governatore del Friuli Fedriga ad altri ancora). Segnali inequivocabili del declino di Salvini, la cui segreteria decennale ha ormai stancato molti, anche nella base popolare del partito, a maggior ragione ora che non ci sono più gli eccellenti risultati elettorali di qualche anno fa.

Salvini però ritiene in un qualche modo esaurita la “spinta propulsiva” del primo Carroccio, limitato territorialmente e non in grado di intercettare quel voto un po’ reazionario un po’ populista che il suo fiuto politico tutto immediatezza e niente strategia ha annusato in Europa e pure in Italia (dove un anno e mezzo fa ha premiato Meloni). E dunque cerca di inseguirlo.

Ma c’è pure un altro motivo. Salvini si gioca tutto perché la sua ambizione è rimasta (anche se oggi appare totalmente infondata) la scalata a Palazzo Chigi, non volendo rimanere un semplice vassallo del Premier pro-tempore. Non voleva esserlo di Conte, e infatti – sbagliando clamorosamente i conti – gli tolse la fiducia senza aver compreso quanto quello fosse vendicativo e soprattutto attaccato al potere. E ora non vuole esserlo di Meloni e sa bene che la posizione “nordista” dei suoi governatori, da Zaia a Fedriga, allo stesso Fontana, è inevitabilmente destinata a un ruolo ancillare (ma decisivo nella logica della “Lega Nord”, cosa ben differente dalla “Lega per Salvini premier”) di rappresentante degli interessi del settentrione in un governo nazionale.

Del resto, fu così anche per Bossi, che dovette piegarsi a Berlusconi e giungere a un compromesso che però gli consentiva di gestire un po’ di potere ma soprattutto di conservare intatta tutta la mitologia e la coreografia imperniate sul Grande Nord oppositore di “Roma ladrona”, anche se poi nella realtà ogni ipotesi para-secessionistica era stata accantonata. Ma per lo meno il Cavaliere era anch’egli un “uomo del Nord”, un “uomo del fare”, e alla sua maniera era pure populista, antistatalista, antipolitico. Mentre al contrario Giorgia Meloni col suo partito è l’emblema del nazionalismo, della romanità, della politica professionale. Tutta un’altra storia.

Laddove Bossi si era, magari a malincuore, ritagliato uno spazio se si vuole limitato rispetto alle ambizioni originarie e ai proclami celtici ma in ogni caso vitale, Salvini deve invece conquistarsene uno più ampio in competizione con la Premier, pena la decadenza e l’oblio. Questa è dunque la sua sfida. Molto difficile da vincere e quindi imponente un qualche azzardo. Ma il rischio, elevato, è di perdere (quasi) tutto. A cominciare dal suo partito.