Ecco i partiti ridotti a megafono del Capo

Lo spettacolo è questo: dirigenti politici che devono semplicemente seguire, come l’intendenza di Napoleone, non sapendo però se il loro sia davvero un Napoleone. E, comunque, alla fine Napoleone è finito a Sant’Elena.

 Chiamatemi Giorgia. Votate Giorgia. Più confidenziale, tra amici. A questo siamo arrivati. Il trionfo del leaderismo, del “personal branding” insegnato nelle scuole di marketing. E la fine ormai decretata dei partiti. Ridotti a mero supporto organizzativo dei propri capi, divenuti l’unico prodotto offerto al pubblico. Al punto che questi ultimi si candidano per istituzioni che poi nemmeno frequenteranno, e lo dicono ai loro elettori con la sfrontatezza di chi li considera meri recettori di un messaggio verticale proveniente dall’alto e veicolato tramite social media. Chiedono loro un like, prima ancora che un voto.

Non solo Meloni. Si candidano quasi tutti capi-partito, quasi sempre in tutte le circoscrizioni elettorali. Così alla fine scende in lizza pure Calenda, che non pareva intenzionato. Come Tajani, che aveva negato l’ipotesi, non essendo mica Berlusconi…E come Schlein, che si è dovuta limitare a due sole circoscrizioni perché il suo è un partito ancora un po’ complicato, un po’ refrattario nei confronti del leaderismo, ma comunque ormai la direzione è presa, e il prof. Prodi dovrà farsene una ragione. Infine ha deciso di candidarsi (quasi ovunque) anche Renzi, un altro che di sé stesso ha un’ottima opinione.

E invece chi non si candida (in genere perché i sondaggi non dicono bene) si trova nella necessità assoluta di individuare una bandierina momentanea, alimentata da un buon vento (se poi è temporaneo non fa nulla, anzi forse meglio, l’importante è che colga il momentum).

Conte ha rinunciato perché è troppo furbo e sa bene che le carte vere il suo partito le può giocare solo nella contesa nazionale E dunque non conviene enfatizzare oltre modo una votazione non facile per il Movimento 5 Stelle, maggiormente attrezzato per le polemiche anticasta che per le politiche europee. Salvini è invece terrorizzato dal possibile esito negativo del voto e allora ha pensato bene di sfruttare il fenomeno del momento, appunto (col rischio, però, che il “momento” sia già passato, in quanto la velocità internettiana crea e disfa alla velocità della luce). Stessa operazione (arricchita dal ricorso ai buoni sentimenti, intesi a liberare una nostra compatriota da un carcere odioso) che prova il duo Fratoianni-Bonelli con Ilaria Salis (una seconda chance per loro di affidarsi a un nome divenuto noto dopo il disastroso esperimento fatto con il difensore dei migranti Aboubakar Soumahoro).

E le direzioni dei partiti, e i loro militanti che fanno, cosa dicono? Niente. Non che oggi non vi siano contrasti interni e dispute personali e politiche ma mentre nel passato le discussioni erano accese e alla luce del sole, codificate negli organismi di governo democratico interni ai partiti, il sistema attuale non prevede più nulla di tutto ciò: tutto è nascosto, ridotto a (eventuale) trattativa privata. Al punto che qualche impuntatura, come quelle che Schlein ha dovuto affrontare nel Pd o adesso i mugugni che si avvertono nella Lega vengono rubricati alla voce dissenso laddove una volta non sarebbero stati neppure avvertiti, abituati a ben altro livello di scontro.

Il risultato è quello che vediamo: partiti personali, simboli di partito sovrastati dal nome del leader, che poi spesso è un capo più che un leader, inaridimento del processo di selezione di nuova classe dirigente politica perché ora si cercano figurine esterne o vassalli interni in luogo di carisma e capacità. Dipendenti dal capo in tutto e per tutto e dunque muti o semplici ripetitori dei suoi slogan. Dirigenti politici che devono seguire il Numero Uno, il Capolista Unico, come l’intendenza di Napoleone. Senza neppure avere la certezza che il proprio Napoleone sia davvero un Napoleone. E, comunque, alla fine Napoleone è finito a Sant’Elena.