25 Aprile | Via Tasso nella testimonianza del cattolico Mastino Del Rio.

Avvocato, esponente della Resistenza romana, medaglia d’argento al valor militare, deputato dc nelle prime due legislature, nel dopoguerra raccoglieva in un libro i suoi ricordi di vita sul frangente più duro della lotta antifascista. Riportiamo di seguito alcune pagine del libro.

[…] 

Siamo accompagnati, il P. ed io, nell’ufficio delle perquisizioni, da due soldati e dall’interprete. P. ha subito in precedenza la perquisizione e si allontana subito con un soldato. Ci accomiatiamo senza una parola ma con lo sguardo sgombro di risentimenti. La mia sofferenza indulge alla sua debolezza. Siamo ormai fuori della vita, entrambi. Un sottufficiale germanico mi ordina di denudarmi, ma si rende conto delle mie condizioni, mi libera egli stesso degli abiti e fruga con un ferro, nelle tasche, nelle pieghe, nei risvolti degli indumenti. Resto con la sola camicia e questa nasconde la catenina con la medaglia della Madonna. Poi il sottufficiale e l’interprete mi aiutano a rivestirmi e mi traducono, quasi a braccia, verso una cella. Aperta rumorosamente la porta, segnata col n. 5, mi buttano sul pavimento e si allontanano richiudendo. Alcuni dormienti, svegliati bruscamente, hanno la visione di un corpo insanguinato che si abbandona e urlano di raccapriccio. Balzano dal loro giaciglio, mi interrogano:

 

– Chi è lei? Che cosa è successo? –

 

Mi sollevano e mi depongono su un graticcio di legno che funge da branda. Un ragazzo che sento chiamare Orlandino, lascia a sua volta il posto nel graticcio ed aiuta a collocarmi. Soffro terribilmente e non riesco a trovare sollievo sulle sconnesse assi, dagli spigoli aguzzi. Prego i compagni di rimettermi per terra, e, dopo qualche minuto, giaccio sul pavimento, con una coperta sotto il corpo e un’altra sotto la testa. Uno dei soccorritori, il dottor Manlio Gelsomini, mi spruzza il viso con un po’ d’acqua, lava la testa e il collo, con un fazzoletto; altri compagni, svegliati dal trambusto, offrono le loro coperte. Dopo alcuni minuti, tutti si riaddormentano. Solo Gelsomini mi rivolge qualche domanda, poi tace per non affaticarmi.

 

Studio una giacitura che mi consenta un po’ di riposo. Non posso poggiare il fianco, secondo la mia abitudine, perché i fianchi e il petto sono gravemente contusi. Debbo giacere supino, ma ogni mossa mi procura dolore.

 

La cella è immersa nell’oscurità, attenuata dalla fioca luce di una lampada. Giaccio spasimando, ma la mente si riattiva alacremente.

 

Sono dunque in via Tasso, prigioniero tra prigionieri. Sono nel fondo del baratro; e tra poco sarà la fine. Tuttavia, una divina pace si stende nel mio spirito. Ho lottato e sono caduto, come un soldato. Flagellato, insanguinato, mi sono battuto fino all’estremo. Non ho salvato la vita, ma ho conservato l’onore. Nessuno cadrà per causa mia, nessuno maledirà il mio nome; mia moglie e i miei figli saranno fieri del mio sacrificio. Iddio accoglierà la mia anima nella Sua misericordia. Muoio in pace con la coscienza, in pace con gli uomini, in pace con Dio.

 

Per qualche ora queste riflessioni mi procurano, nelle sofferenze della carne, un senso di quiete. Mi sento staccato dal mondo, liberato da ogni scoria.

 

D’improvviso sinistri presagi irrompono nel mio spirito. Conserverò questa pace nell’ora del trapasso? Come potrò resistere alle torture che ancora mi attendono senza disonorare me stesso, compromettendo compagni di lotta? Come potrò tra poco affrontare di nuovo la grinta di Schultz, il cinismo dell’interprete, la frusta piombata del n. 1, le zanne della muta? E’ certo che non potrò resistere. Il mio corpo è tutto una piaga. Basterà toccarmi con un dito perché urli e mi abbandoni senza forza. Ora la mia testa è un vúlcano e tutta la mia anima brucia. Mi rivolto sul pavimento, ma il dolore mi ricaccia nella posizione supina. Faccio per sollevarmi e con sforzo riesco a tenermi seduto. Guardo i corpi dei miei compagni distesi vicino a me: vedo sul giaciglio di legno il pallido viso di Gelsomini. Seduto sul graticcio sotto la chiazza di luce della lampadina, egli traccia delle note su un taccuino. Mi osserva, mi dice che la fame gli toglie il sonno, mi chiede se ho bisogno di qualche cosa. Assicuro di star bene, ringrazio, ricado gemendo in posizione supina. 

 

Impossibile dormire, impossibile riposare col chiodo che è infisso nel cervello. Mi agito, strazio la carne; finalmente prendo una risoluzione. Se i tedeschi alzeranno ancora le mani su di me schiaffeggerò Schultz che mi farà uccidere all’istante; oppure confesserò la mia colpa scagionando gli altri e chiedendo di morire subito.

[…]

* Tratto da G. M. Del Rio, Ho invocato un morto (ricordi di via Tasso), con prefazione di V. E. Orlando, Roma, II^ edizione, 1963, pp.39-41.