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Salvini e Famiglia Cristiana: uno scontro che viene da lontano

Lo scontro tra Matteo Salvini e Famiglia Cristiana data da lontano, e non solo perché da sempre i vertici leghisti, da Irene Pivetti in poi, hanno sempre vissuto con insofferenza la linea del settimanale dei paolini. Si tratta di due mondi che si guardano con sospetto e incapacità di capirsi, con lo stesso spirito con cui i seguaci di Paolo IV si studiavano con Sadoleto e gli erasmiani.

La tentazione di mettersi a fare il tifo è fortissima. Sarebbe però un errore. È vero che la linea adottata dal ministro dell’interno verso migranti e Rom è contraria alle basi stesse non solo della religione cristiana, ma dell’umanesimo che è la radice della nostra cultura (anche di quella sanamente laica). Allo stesso tempo è difficile immaginare che quella copertina contribuisca a indebolirne l’azione, o a creare un risveglio delle coscienze di quei moltissimi italiani che non riescono a provare un briciolo di umana pietà di fronte agli occhi di Josepha che viene strappata alle acque. Verrebbe da dire: trent’anni di politica e vita comune private dei valori cristiani non sono passati senza lasciare traccia. E a questa costante scristianizzazione Salvini, e Bossi prima di lui, hanno contribuito volontariamente e volenterosamente. Partito povero di idee, tradizionalmente, la Lega ha oscillato culturalmente dal neopaganesimo delle ampolle del dio Po al vangelo e rosario sbandierati 48 ore prima di un voto. Se ci si svuota di Dio si è pronti a riempirsi di qualsiasi cosa in un batter di ciglia: e così Salvini non ha avuto problemi a divenire l’ultimo ed il più perfetto degli atei devoti. Categoria, quest’ultima, che in passato è piaciuta tanto anche alle gerarchie, e mal gliene incolse.

Proprio per questo lo scontro tra Salvini e Famiglia Cristiana andava evitato. Astutamente (e per favore evitiamo di ricordarci che i figli delle tenebre sono molto più astuti dei figli della Luce) Salvini, dopo un primo sbotto di bile, ha corretto il tiro e parlato di perdono nei confronti di chi lo accusa. Artificio retorico che puzza di falso lontano un miglio, ma perfetto nel fornire a chi, tra i cattolici, è in cerca di un appiglio seppur minimo per dargli ragione. Come dava ragione a Oriana Fallaci, che ne “La rabbia e l’orgoglio” si atteggiava (lei, che più laica non si poteva) a più cattolica della Chiesa di Roma; o anche a Giuliano Ferrara che nel nome dei valori di un Occidente cristiano – perché posto ad ovest di Gerusalemme – ci spingeva alla nuova crociata contro Saddam Hussein. Esistono cattolici che hanno sostenuto in passato la tesi della punizione divina dietro cataclismi naturali come il terremoto in Giappone di alcuni anni fa: orecchie del genere sono sempre in attesa costante di una parola che giustifichi una totale mancanza di comprensione e approfondimento del messaggio evangelico.

Ma di fronte a uno schieramento del genere la maniera più efficace di porsi non è quella del tono apocalittico. Accostare Salvini a Satana è come usare l’atomica contro uno sciame d’api. Fa di più il fumo della canapa. Vale il precedente di Berlusconi, che si indebolì definitivamente agli occhi del mondo cattolico solo quando esplose l’evidente incoerenza tra le pile baciate e i comportamenti privati, tra le perdonanze di Celestino e le cene con le olgettine. Ci vuole tempo, perché i tempi maturino. Magari qualcuno non capirà mai, e sarà pronto a danzare attorno al prossimo totem. Ma andando di clava, in questo momento, si rischia di rafforzare Salvini, e le sue false soluzioni.

Intendiamoci: avere il coraggio di indignarsi è cosa positiva. L’immediata scomunica, però, può essere dannosa per una giusta causa come è quella di riportare il livello culturale di questo Paese un po’ più vicino alla decenza. Ambrogio fece bene ad affrontare Teodosio dopo il massacro di Tessalonica, parlando delle sue mani sporche di sangue. Fece altrettanto bene Paolo VI a promuovere la strategia della lenta penetrazione a sostegno delle chiese del silenzio, sottoposte al giogo comunista.

Un’ultima riflessione può essere dedicata, dopo la citazione paolina, al progetto dei cattolici in politica. Colpisce che dalle colonne de Il Giornale un sacerdote e teologo parta proprio dal caso Salvini-Famiglia Cristiana per ribadire il suo no ad ogni progetto riaggregatore. C ‘è già Salvini che difende i veri valori, dice. Coetera tolle.

Bene, vuol dire che siamo dalla parte giusta.

Le poesie tengono compagnia e ci aiutano a capire il mondo

Giorgio Rodano

Una volta, durante un’intervista televisiva, Italo Calvino, uno scrittore italiano del secolo scorso, consigliò alle giovani generazioni di imparare poesie a memoria, “perché tengono compagnia”. Ormai quel consiglio viene seguito ben poco (o forse affatto). Ma è un peccato. Nella mia esperienza le poesie tengono davvero compagnia. I versi dei poeti tornano improvvisamente alla mente, illuminando in modo inatteso e mai banale qualcosa dell’attualità. E ci costringono a pensare. La poesia che segue mi è tornata in mente riflettendo sulle drammatiche vicende dei migranti che cercano di approdare alle nostre coste in cerca di un futuro migliore. Questa poesia è stata scritta alla fine degli anni quaranta del secolo scorso, e descrive l’umanità dei lager nazisti. Ma la misteriosa capacità dei poeti è quella di parlarci di cose che ci riguardano anche al di là della lettera di quel che hanno scritto. In questa poesia amara e terribile Primo Levi ci sta parlando anche di una umanità derelitta dei nostri giorni. E ci sta parlando del nostro atteggiamento.

Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.

Primo Levi

[Post dell’autore su Fb. Il titolo è redazionale]

Tornare coerentemente sulle orme di Sturzo

Pubblichiamo l’articolo apparso sulla rivista “Servire l’Italia” che s’inserisce, criticamente, nel dibattito aperto dall’articolo sulla  “svolta sturziana“. Seguirà a breve la risposta di Lucio D‘Ubaldo

È un fatto positivo che l’avvicinarsi del centenario (1919-2019) del doppio evento sturziano (fondazione del PPI e Appello ai liberi e forti) stia riportando una meritata attenzione sul pensiero del grande sacerdote e statista di Caltagirone. Ma l’attenzione deve essere corretta nel rispetto del suo effettivo pensiero.

Il Direttore de “Il Domani d’Italia”, nello scrivere un equilibrato e in definitiva favorevole commento alla svolta sturziana di Marco Taradash (svolta che tuttavia non è una sorpresa, perché già compiuta da tempo), fa due riferimenti non corretti. Nel primo, non solo storpia il cognome di Gobetti con Giretti, ma sembra fare del giovane Gobetti il leader di una scuola radical-democratica alla quale avrebbe aderito anche Sturzo, nato ben 30 anni prima di Gobetti.

Ovviamente Sturzo non fu mai un radicale, nel senso politico del termine, pur se Pannella fu poi un suo incoerente ammiratore.

Nel secondo riferimento, Lucio Alessio D’Ubaldo sembra fare di Moro uno sturziano e di Sturzo un anti-liberista. In effetti nella citata commemorazione fatta da Moro in Parlamento nel settembre del 1959, Sturzo venne lodato dall’allora Segretario Politico della DC per la sua vita di combattente in difesa della moralità in politica ed economia, e in favore degli ideali di giustizia e libertà, opponendosi dapprima al liberalismo giolittiano e al fascismo, poi al comunismo e al socialismo.

Tuttavia in quel discorso Moro non citò il fatto che Sturzo era solito definirsi un “liberista impenitente”, specificando che il suo liberismo non era quello irresponsabile del “lasciar fare , lasciar passare” del giolittismo, ne’ quello miope della Confindustria degli anni ‘50 (ma anche dei decenni successivi), che si opponeva alla stretta alleanza tra capitale e lavoro, stretta alleanza invece sempre sostenuta dalla dottrina sociale della Chiesa e realizzata da grandi imprenditori come Adriano Olivetti e Michele Ferrero.

Poi Moro abbandonò le sue convinzioni anti-comuniste (espresse in diversi discorsi fatti negli anni ‘50), ebbe fede nelle capacità dello Stato imprenditore e banchiere, e decise di aprire a sinistra, apertura sempre osteggiata da Sturzo per motivi innanzitutto morali. Questi era giustamente convinto che quanto più la politica mette le mani nell’economia, tanto più politica ed economia corrompono e si corrompono.

Quindi ben venga la “resurrezione” del pensiero sturziano dopo la “sepoltura” decisa coerentemente dalla DC con la politica di centro- sinistra, che andava in direzione contraria a quella auspicata da Sturzo. Ma è una “resurrezione” che esige vera coerenza nella difesa dei valori morali, liberali e sociali (non socialisti) in cui credeva Sturzo. Non basta dire che oggi il suo Appello è ancora attuale, va attualizzato. Senza dimenticare che una delle prime decisioni di Mussolini fu quella di rimettere il crocifisso (dopo oltre 50 anni) in tutte le aule scolastiche per far capire a Pio XI che non aveva bisogno del PPI per difendere i valori cristiani. Poi sappiamo come è andata, a dimostrazione del fatto che quei valori più che appesi al muro devono essere impressi coerentemente nei cuori.

 

Don Luigi Sturzo tra Marco Taradash e Lucio D’Ubaldo

Caro Lucio,

conosco, in realtà mi ritengo suo amico, Marco Taradsh da cinquant’anni, da quando lui, giovane liberale,  ed io altrettanto giovane, ma democristiano, ci confrontavamo quasi quotidianamente con i nostro coetanei livornesi, comunisti e socialisti, ai quali cercavamo di spiegare i limiti delle loro visioni manichee.

Erano i tempi della contestazione studentesca e pensavamo, tutti quanti, di cambiare il mondo superando le barriere create dai fronti contrapposti del dopoguerra. In una città, sia detto per inciso, che fu proprio l’ultima a rompere la regola delle amministrazioni da Cnl del dopoguerra e a subire la logica della rigida contrapposizione tra sinistra social comunista e tutti gli altri.

Ricordo di Marco la passione nel suo riferirsi a Piero Gobetti e alla possibilità di una “ rivoluzione liberale” e, così, non mi meravigliai di ritrovarlo a Roma,  anni dopo, tra i più vicini a Marco Pannella.

Gobetti lo stavo allora studiando in relazione al  suo interloquire con Giuseppe Donati, don Luigi Sturzo e Francesco Luigi Ferrari. Rapporti forti su cui è sceso un silenzio impressionante, perché l’originale pensiero liberale di Gobetti “ disturbava” anche molto mondo laicista. Paradossalmente, noi giovani dc di allora avevamo, invece, tra le nostre letture gli scritti di un liberale come Gobetti.

Così, il riferimento di Taradash  a don Sturzo, dopo cinquant’anni, non mi lascia indifferente e mi stimola, come ho visto che ha provocato le tue importanti riflessioni. Abbiamo un’occasione di analisi vera, lontana dalla opprimente, a volte persino vacua, polemica quotidiana che caratterizza l’attuale fase  italiana.

Contrariamente a chi ritiene che si parli di cose da “ iperuranio”, lontane dalla sensibilità della gente di oggi, credo che il vero sforzo da fare in questi tempi sia, invece,  quello di riprendere i fili tranciati delle grandi scuole di pensiero che, ancorché apparentemente elitari anche allora, hanno permeato sin dagli inizi del ‘900 l’intero Paese e ne hanno reso possibile un più alto ed autentico sbocco democratico. In una prima fase, dopo il ’19,  interrotta dal fascismo, e, poi, definitivamente nel secondo dopoguerra.

Checché se ne dica, sono le idee  a muovere le donne e gli uomini. Alle idee dobbiamo ritornare se vogliamo salvare un Paese smarrito,  cui è necessario ritrovare una propria identità e, persino, le basi di un forte assetto democratico condiviso e del senso di un comune vivere civile.

Don Luigi Sturzo le chiamava “ correnti ideali”. Quelle che  egli contrapponeva al “ pragmatismo politico, esperimentato dalla borghesia”  che finì per darci il fascismo.

Il pragmatismo politico, disse con grande lungimiranza Sturzo, “ inquina e corrompe la cosa pubblica, alimenta ed incrementa il girellismo, rende inconsistente  e vuote le correnti ideali, e disfa la classe dirigente che non ha più la forza per resistere agli urti delle masse organizzate e del nazionalismo esasperato”. Oggi, dovremmo aggiungere i grandi gruppi finanziari e le “ lobbies”, più o meno, rese  nobili dall’importanza degli interessi che le muovono.

Il tuo articolo di ieri,  “Taradash a sorpresa sulle orme di Sturzo” , mi ha subito spinto a riflettere sul fatto  che bisognerebbe, davvero, per la parte nostra, poter approfondire tanta parte del pensiero di don Luigi. Un pensiero  da affrontare nella sua globalità, perché come scrisse Moro nel 1960, ” Tutto unì e conciliò nella sua coscienza, tutto accettò nell’ordine, tutto visse nel suo particolare significato ed insieme inserito nell’ordine totale”.

Si tratta, dunque, di non ridurre ad uno una complessità ed un’ampiezza di visione che fanno di lui uno dei più grandi pensatori del secolo passato.

La concezione dello Stato in Sturzo, infatti, è articolata, perché lo Stato è inteso come organismo che “ vive della stessa vita di coloro che ad esso imprimono le direttive e l’impronta“. Uno Stato, dunque, non “ ente astratto”, neppure “ principio etico”, bensì “organismo concreto”, fatto di persone vere. Sturzo muove la sua idea di Stato  dal presupposto che esso trovi dei limiti nella sfera della propria competenza nei rapporti con la vita sociale, le cui dinamiche non sono, certo, esaurite nella sola organizzazione politica della società.

Non a caso scrisse: ” Non è lo Stato che crea ex nihilo un ordine, perché la politica non può creare l’etica; ma è lo Stato che riconosce un ordine etico sociale che gli uomini elaborano ed esprimono perché soggetti razionali”. Da qui nasce la sua negazione dell’assolutizzazione della presenza e del ruolo dello Stato.

Egli, però, supera anche la visione liberale dello Stato perché , oltre all’assoluta salvaguardia della libertà individuale, devono essere assicurate l’uguaglianza e la giustizia sociale.

In Sturzo, come ricordò tanti anni orsono Piero Pratesi, la riflessione sullo Stato significa impegnarsi in un  profondo mutamento dei rapporti tra i cittadini ed il potere centralistico, attraverso il dispiegarsi di una società “ pluralista” composta da “ varie società interne di cui lo Stato avrebbe dovuto garantire libertà e che avrebbe dovuto mantenere nell’ordine”.  

Una visione che niente aveva a che fare con quella liberale tradizionale del “ giolittismo”, o meglio, che ne coincideva solo per alcune parti,  e che costituì il motivo del suo continuo, fecondo interloquire, così come avveniva a Donati e Ferrari, con Piero Gobetti e con altri del mondo liberal democratico, radicali e socialisti, a partire dal conte Sforza e da Gaetano Salvemini.

L’attenzione del prete di Caltagirone, infatti, andava alle donne e agli uomini visti quali esseri concreti; andava al loro unirsi ed organizzarsi spontaneamente in un impegno, soprattutto al sud, ma non solo, di riscatto e di partecipazione; andava  verso le organizzazioni intermedie della vita civile, all’autonomia degli enti locali, alle leghe bianche dei contadini, alle cooperative, alle banche popolari, alla borghesia lombarda d’impronta manzoniana e a quella delle principali città italiane che sfuggiva alla logica massonico anticlericale.

Ciò portò Sturzo a concepire un’idea di impegno dei cattolici democratici in politica inteso come movimento capace di puntare ad una democrazia “ che prenda dai liberali la libertà, una libertà per tutti; dai radicali le riforme, ma non il materialismo e la lotta anticlericale ( vera e propria istantanea di Piero Gobetti , nda); dai socialisti la elevazione del proletariato, ma non la dittatura. La democrazia cristiana- scrisse-  è in sostanza una democrazia integrale, illuminata dai valori immortali di solidarietà e fraternità, dati dal cristianesimo, per il concorde progresso delle classi e dei popoli”.

C’è dunque molto da riflettere e studiare per rinnovare la sostanza ed il metodo di analisi e proposta politica di don Sturzo ed è molto positivo il fatto che dei laici sensibili portino un contributo in questo senso. Come ha fatto Marco Taradash, il quale ti ha risposto  valutando la tua come “Una riflessione senza pregiudizi e intelligente sulla prospettiva che Centromotore (il nuovo movimento fondato da Taradash, nda)sta aprendo in Italia. Da sviluppare e tradurre presto in iniziativa politica comune.”

E’ indubbio, lo dicevo prima, che questo bisogno di riflettere necessita di approfondimenti comuni, di scambi  fecondi di opinioni. E’ il primo passo da intraprendere per dissodare un campo incolto, dopo decenni di impoverimento culturale e politico e per portare ragionevolezza e un ordine mentale collettivo in cui possano essere riscoperte chiare priorità sia nei diritti, sia nei doveri.

Noi cattolici democratici ci riferiamo alla continua evoluzione del pensiero che chiamiamo Dottrina sociale della Chiesa. Un insieme organico di suggerimenti, sollecitazioni e suggestioni , che potrebbero valere non  solo per i cattolici, per la forza dirompente di un messaggio che mette al centro la persona, la dignità umana, la valorizzazione di quelle “ società interne” cui si riferiva Sturzo e di molto altro frutto dell’articolata visione che gli uomini di Chiesa hanno grazie alla loro conoscenza di situazioni e fenomeni che interessano l’intero mondo.

La questione sociale è diventata antropologica, dopo una crisi economica  che ha prostrato stati e popoli, e si aggiunge così alla questione della Pace, al rispetto della vita umana, sin dal concepimento. Si aggiunge a quella della famiglia, che per noi nasce attorno all’amore tra una donna ed un uomo, al di là del fatto che il suo riconoscimento avvenga in Chiesa o in un ambito civile. Si aggiunge alla riflessione sul ruolo della scienza e delle sue influenze potenziali sull’essere umano, soprattutto a seguito di applicazioni tecnologiche che, partendo dal bene, possono portare anche  al male: la bomba atomica ne è l’esempio più clamoroso; cui si aggiunge, però, subito dopo , molta sperimentazione bio etica dagli sbocchi potenzialmente disumani.

Credo che un confronto, un arricchimento reciproco, la condivisone di importanti impegni politici e programmatici,  possa essere avviato a partire da tutto ciò. Superando antiche preclusioni, stereotipi, pregiudizi e preconcetti, ma sulla base di mettere  al centro la persona tutta intera e tutta la sua ricchezza di connessioni e vitalità all’interno di una società da rendere davvero democratica ed uguale, come auspicavano sia Sturzo, sia Gobetti, sia Salvemini.

I democratici e l’appello di Sturzo

Articolo apparso già su  HuffingtonPost

Non è un caso che attorno al pensiero di Sturzo, in vista del centenario dell’Appello ai liberi e forti (19 gennaio 2019), si sia aperta una discussione dai tratti vivaci, capace di offrire per altro alcuni spunti di novità.

Al popolo dei credenti aveva rivolto l’invito il Presidente della Conferenza episcopale, il card. Bassetti: l’Appello costituisce una pietra miliare nella storia del cattolicesimo politico italiano. È una lezione che va ripresa, aggiornandola con intelligenza.

Su altri versanti, l’ex radicale Taradash auspica vivamente la ripresa del progetto sturziano. Lo fa, come altri in passato, per rinverdire il contributo di un grande uomo di Chiesa e un fine intellettuale politico alla battaglia per la libertà in un’Italia strozzata, ieri come oggi, dal vincolismo e dalle resistenze dei tanti corporativismi.

Qual è la novità nell’intervento di Taradash? Non basta il cenno al liberismo – tutto da interpretare e tradurre – di Sturzo: in effetti, leggendo l’Appello, emerge il richiamo alla costruzione di un blocco culturale e politico, contro il degrado morale e l’anarchia del primo dopoguerra, capace di unire “elementi di conservazione e di progresso”.

Era nel 1919 e potrebbe essere, appunto, ancora oggi la missione legata all’alleanza di tutti i riformisti democratici, per mettere argine allo straripante fenomeno del populismo. Un secolo fa non aveva caratteri molto dissimili, il populismo: salvo che, all’inizio del Novecento, a prevalere non era il tema dell’emergenza emigrazione ma l’opposto, ovvero il dramma degli Italiani costretti a emigrare per sfuggire alla condizione di povertà endemica, con ampie fasce di disoccupazione.

Spiace dunque osservare che nel Partito democratico manchi la capacità, in questa fase estremamente delicata, di ricollegare al discorso di Sturzo sulla convergenza tra gli elementi di “conservazione e progresso” lo sforzo compiuto nel 2007 per associare a un’unica impresa democratica le forze a lungo divise dei riformisti di diversa matrice e tradizione. È come se, a tale riguardo, una suggestione potente trovasse infine strade diverse, o anche alternative, per potersi manifestarsi di nuovo.

Di questo passo, a forza di ragionare in modo esclusivo sul perché del declino della sinistra, il Partito democratico è destinato a incarnare la smentita delle proprie ambizioni originarie. Può darsi che l’amalgama tentato all’epoca fosse azzardato, ma ipotizzare oggi, in termini pratici, la cancellazione dell’esigenza sottostante ad esso è il vero errore che incombe sulla politica dei Democratici.

Per questo il confronto su Sturzo non può essere derubricato – ecco la responsabilità degli attuali vertici del Nazareno – a indagine identitaria dei cattolici, dentro un castello di solitudine per essi, ma certo anche per altri, con una perdita di significato per tutti. Occorre invece fissare bene l’obiettivo prioritario, quello di una nuova alleanza contro i populisti, unendo con intelligenza e flessibilità i diversi “mondi vitali” di un’Italia non rassegnata alla deriva dell’intolleranza e alla pratica della demagogia.

Se non assume questa funzione di riordino e ricomposizione, senza iattanza, il Partito democratico è minacciato di lenta agonia. Dobbiamo evitarlo, insieme, da dentro e da fuori. Ma per evitarlo serve una lettura più rigorosa della crisi attuale, facendo del popolarismo sturziano, in accordo con altre lezioni politiche, la leva di una proposta ai “liberi e forti” di oggi.

Vaccini: se il popolino, istigato da alcuni politici, si oppone alle disposizioni degli scienziati

Anche Jenner, Koch e Pasteur dovettero confrontarsi, nel corso del XVII e del XIX secolo, con le prime forme di opposizione (già allora, per altro, abbastanza feroci) di una parte dell’opinione pubblica alla somministrazione dei vaccini sperimentati. Le rimostranze dei movimenti che oggi si contrappongono alle indicazioni della comunità scientifica non costituiscono affatto una novità relativa agli anni Duemila, dunque, ma hanno radici secolari che risalgono addirittura ai tempi della battaglia contro il vaiolo e dello studio delle mongolfiere.

Tuttavia, in Italia la questione sta assumendo contenuti sconcertanti, poiché è la stessa classe dirigente che sembra “piegarsi” alle volontà delle minoranze agguerrite sostenitrici sine die dell’antivaccinismo. Il problema è che oggi, al contrario di qualche decennio fa, quando le proteste avevano un carattere sia ideologico (legato al tema della predestinazione) che pratico (si contestava il ricorso della medicina alle cellule animali), le tesi sostenute dai movimenti secondo cui i vaccini possono provocare gravissimi danni collaterali sono prive di qualsiasi fondamento scientifico e di ogni controprova medica. A differenza di allora, però, la protesta degli anni Duemila ha assunto un carattere talmente violento e diffamatorio che ha indotto (motivi di opportunità elettorale?) il Ministero della Salute dell’esecutivo testé insediato a rendere le vaccinazioni più o meno facoltative : di fatto, basterà solo una autocertificazione.

E non serviranno certo i futuri controlli a campione – se ci saranno – a evitare il rischio di diffusione di alcune malattie virali strasuperate, eppure, nel caso si manifestassero nuovamente, ancora molto gravi.
Obiettivamente, la attuale battaglia contro i vaccini non costituisce la rivendicazione del rispetto della libertà di scelta dell’individuo, bensì la facoltà di poter mettere a repentaglio la salute altrui trasgredendo alle direttive della scienza moderna, la quale esercita il diritto-dovere di tutelare (innanzitutto) i soggetti più deboli della comunità. Scienza che da alcuni giorni non gode più della credibilità incondizionata del governo.

In tal senso, non si spiegherebbe il proposito – tanto scellerato quanto azzardato – di abolire l’obbligo di vaccinazione entro la prossima sessione scolastica. Non è da oggi che i Salvini e i Di Maio strizzano l’occhiolino ai movimenti contro i vaccini : chi segue le vicende politiche subodorò già un paio d’anni fa i loro intenti di intermediazione tra medicina e sostenitori del “fai da te”. In questo caso, la medicina non può (e non deve) mediare, pena la sua plausibilità. Il guaio è che quando il correntismo politico di una certa parte ideologica è disposto ad agire mettendo in dubbio i valori degli studi medico-scientifici internazionali per accaparrarsi qualche voto in più, significa che il sistema – o meglio una parte di sistema – funziona sempre meno e sempre peggio. Anche sotto l’aspetto etico.

Sette italiani su dieci guardano con simpatia alle auto robot

Dall’ultima ricerca “Global Automotive Consumer study” svolta da Deloitte, mette vediamo come gli italiani siano gli utenti della strada meno spaventati rispetto alla guida autonoma, con una percentuale del 30% che si attesta al 37% per i francesi, al 45% per i consumatori tedeschi, al 49% per quelli britannici e al 54% per i belgi. E questi dati tendono a decrescere rispetto allo stesso sondaggio svolto in anni precedenti: si assiste quindi ad un aumento della fiducia da parte dei consumatori nei confronti delle auto robot, ma solo quando a metterle su strada sono i costruttori.

Se guardiamo invece agli Stati Uniti, dove le auto a guida autonoma sono già realtà, gli automobilisti intervistati si dicono assai più perplessi degli europei.

Per ora Torino è l’unica città italiana che ha avviato la sperimentazione. Nel capoluogo piemontese è stato infatti sottoscritto un protocollo d’intesa tra il Comune e 16 diversi partner nell’ambito del progetto ministeriale Smart Road.

“Abbiamo definito un circuito di massima – ha detto l’assessore all’Innovazione Paola Pisano – con l’obiettivo di avere una città laboratorio in cui far testare ai cittadini le innovazioni. L’area è stata validata dagli Uffici comunali e dalla Polizia municipale, ma può ancora subire qualche modifica perché ora sarà allegata a una delibera di accordo con il ministero delle Infrastrutture”.

“Il percorso – ha concluso Pisano – dovrà essere convalidato anche dalle case costruttrici che verificheranno se rispondono alle caratteristiche necessarie per i test. L’area individuata comprende ogni tipo di possibile situazione e, soprattutto, risponde alla richiesta della città di collegare la zona ospedali alle stazioni”.

Taradash a sorpresa sulle orme di Sturzo

Altre volte, anche in un passato non lontano, ambienti moderati della destra hanno iscritto d’ufficio Luigi Sturzo nel registro dei liberal-liberisti. Oggi, con Marco Taradash, fondatore di “centromotore”, si ripete la stessa operazione. Con qualche differenza di accento e indirizzo.

In effetti, il pensiero economico del sacerdote calatino è sempre stato orientato in senso anti statalista e anti-monopolista. Nel rivendicare il tratto permanente del suo percorso politico, egli espresse in età matura l’appartenenza alla medesima scuola – quella del radical-democratico Giretti – che segnò il percorso di formazione nella sua giovinezza, fin oltre la nascita del Partito popolare.

Nel periodo dell’esilio, prima a Londra e poi soprattutto negli USA, questo impianto ideale e programmatico s’irrobustì, specie a contatto con le correnti della tradizione liberale anglo-americana. È un capitolo di straordinaria importanza, ancora non approfondito con la lucidità necessaria dalla storiografia contemporanea.

Non a caso, tornato nel 1946 in Italia, Sturzo dispiegò il suo talento critico nel denunciare i pericoli di una ricaduta nella statolatria, sebbene depurata dagli eccessi autoritari del fascismo. Con La Pira e Mattei si scontrò a viso aperto, assumendo perciò un tratto di fustigatore dell’interventismo statale portato avanti dalla sinistra democristiana. Fu la bestia nera dei “catto-keynesiani”, per i quali assunse il profilo dell’avversario implacabile.

Fu Moro, nel settembre 1959, a poche settimane dalla morte, a ricostruire mirabilmente la figura intellettuale e politica del fondatore del Partito popolare. Da quella commemorazione bisognerebbe sempre partire, perché il liberismo di Sturzo, secondo l’acuta riflessione dell’allora segretario Dc, non può essere separato dalla visione anti-giolittiana, appartenente a un fronte vasto e variegato, da Salvemini agli scrittori de “La Voce”; visione da intendersi, negli anni del pre-fascismo, come rifiuto del pragmatismo deteriore e della corruzione, fenomeni di cui il sistema giolittiano era causa e fondamento.

Occorre scansare un pericolo, sebbene non sia affatto agevole da individuare. Oggi riproporre la figura di uno Sturzo puramente liberista e virtualmente ostile al solidarismo; non fare i conti perciò con lo sforzo compiuto a suo tempo da Moro nel rendere meno scontata e banale la descrizione della vita e dell’opera di questo grande interprete del cattolicesimo politico; ecco, alla fine, restringere e dunque manipolare l’immagine di Sturzo significa per le ragioni appena indicate, sia pure sommariamente, sconfinare nel campo di una fatale strumentalizzazione.

È un monito che Taradash dovrebbe avvertire, se il suo obiettivo in questa battaglia in nome di Sturzo, per offrire un’alternativa di saggezza e realismo all’Italia anti-populista e anti-sovranista, consiste nel creare le condizioni di unità o convergenza di quelle forze che oggi appaiono disperse e poco reattive. Se si sbagliano le premesse, è inevitabile che si estenda l’errore fino a un esito consequenziale. Per questo bisogna muovere i passi con cura e nella giusta direzione.

Una domanda si pone, comunque, alla fine di queste sintetiche considerazioni. È forse il tempo di un nuovo appello ai “liberi e forti”, dopo che l’originale del 19 gennaio 1919 fa bella comparsa, a sorpresa, sul profilo social di Taradash? In verità se ne parla con insistenza, per ora in ambiti ristretti ma non poco influenti, tanto da attribuire un valore diverso – merito indubbio del Card. Bassetti – a una discussione destinata tempo addietro a tracimare nel maremagnum delle chiacchiere a vuoto.

Senza dubbio, molti cattolici di genuina fede democratica hanno motivo di cogliere l’aspetto positivo di questa rilettura di Sturzo. Taradash, per altro, non si limita a togliere la polvere depositata sul programma sturziano di libertà e giustizia. Quando sottolinea, nelle righe finali del paragrafo 7 dell’Appello, il richiamo alla necessità di comporre le energie della nazione, veri e propri “nuclei vitali”, che attingendo nel medesimo tempo a “elementi di conservazione e di progresso” avranno potere di controbattere all’anarchia e alla disgregazione, egli non pensa evidentemente all’Italia del 1919, ma a quella dei nostri giorni, persa in un sentimento collettivo di rabbia e paura.

Anche se lunga, la citazione qui appresso riportata indica chiaramente quale sia il messaggio politico del nostro interlocutore: “Il soggetto antifascista sturziano ora si traduce così: un polo progressista e moderato, che unisca tutti coloro che, da qualunque latitudine o longitudine politica e civile provengano, hanno a cuore innanzitutto la democrazia liberale e lo Stato di diritto, le sue istituzioni, le sue connessioni internazionali, i suoi principi di libertà personale e solidarietà sociale. C’è questo accordo? E allora cominciamo subito a prepararci per le elezioni europee, a studiare un programma che unisca la necessità del federalismo europeo e di quello italiano, che propugni come condizione del benessere e della crescita un rinnovato rapporto fra Stato e cittadini in cui prevalga la libertà di scelta del cittadino e siano ben chiari i perimetri dei diritti e dei doveri in capo ad ogni individuo”(dal profilo Fb dell’autore).

Sono affermazioni, come si vede, che non lasciano spazio ad equivoci. Dunque, vale la pena prendere sul serio un confronto che è per adesso allo stato nascente. Guai a sciuparlo maldestramente, vuoi con facili entusiasmi, vuoi con antipatiche riluttanze. Si deve ragionare insieme, ciascuno con la propria sensibilità e vocazione, nel rispetto dei diversi punti di vista. È un compito, questo, che se vogliamo limitarci all’essenziale rimanda perlomeno a un obbligo di buona educazione, morale e intellettuale. E non è poco.

Cesa Buttiglione e Rotondi uniti: Dov’è la novità?

La notizia non è esplosa come una bomba, ma nelle intenzioni dei protagonisti doveva o, chissà se nei prossimi giorni, dovrebbe fare molto rumore. Cesa e Rotondi, grazie alla mediazione di Buttiglione, si sono dichiarati pronti a  unirsi sotto il simbolo dello Scudo crociato. Non è una grande notizia?

Per adesso sinceramente non lo è, ricalcando il sentiero, a ben vedere, di analoghe operazioni del passato. È vero, in giro per l’Italia c’è voglia di Democrazia cristiana. Da questo a dire però che l’annuncio di una sparuta nomenklatura di cattolici moderati sia la risposta a una diffusa aspettativa, alle prese comunque con la sfida di un governo populista e sovranista, c’è ne corre.

Pesano errori e debolezze degli anni trascorsi. Il tentativo di nobilitare, infatti, una linea di fiancheggiamento alla politica di Berlusconi si è spenta nel silenzio e senza il minimo di reazione da parte di quel mondo cattolico – introvabile come tale fin dal post-Concilio – chiamato a sostenerne il carico di motivazione e perciò di organizzazione.

Quale sia oggi la novità del ritorno allo scudo crociato non è pertanto desumibile dagli esili cenni di cronaca pre-feriale. Siamo sempre fermi all’idea di un protagonismo cattolico di segno neo-gentiloniano che, al netto di sforzi e buone intenzioni, si pone al di fuori della tradizione sturziana e degasperiana. Che utilizzi il simbolo della Dc, quando esso andrebbe seriamente conferito all’Istituto Sturzo, poco conta; né convince, in questo impiego di furbeschi accomodamenti, che possa riuscire nell’opera di seduzione di potenziali elettori.

Quando una proposta, fiera di solo accanimento ai protocolli e alle simbologie, manca infine di slancio e generosità, al massimo può ambire a rivitalizzare il “piccolo mondo antico” della decadenza. In questo caso, appunto, della decadenza o peggio della corruzione del cattolicesimo politico di matrice democratica e popolare. Il futuro, insomma, porta in grembo una volontà di riscossa capace di far tesoro di una grande lezione riformista. Prima di pensare al guscio, come può essere l’antico simbolo della Dc, bisogna concentrarsi sulla intonazione di un nuovo progetto politico. A sinistra socialmente e al centro politicamente: mai a destra, se vale il vessillo della solidarietà e della libertà, e dunque non a rimorchio del moderatismo, ovvero dell’opportunismo di potere. La carta della rinascita democristiana non va sprecata, come ancora per la miopia dei cosiddetti moderati si rischia di fare.

Popolari e Pd, una storia del passato

Forse è giunto il momento per dirlo con chiarezza e senza tanti equivoci. Il voto del 4 marzo, e il dibattito che l’ha seguito, ha rappresentato un vero e proprio spartiacque nella politica italiana. Almeno su un altro punto, al di là dell’ormai noto rovesciamento politico alla guida del paese, non ci dovrebbero essere più dubbi. E cioè, l’esaurimento dei cosiddetti “partiti plurali”. E, nello specifico, il tramonto definitivo del Pd come “partito plurale”. Del resto, il Partito democratico da almeno 4 anni – cioè dall’irrompere di Renzi al comando di quel partito – e’ diventato a tutti gli effetti un “partito personale”, al punto che molti politologi e autorevoli commentatori, a cominciare dal bravo Ilvo Diamanti, lo avevano unanimemente definito come il “Pdr”, ovvero come il partito di Renzi. E il decollo del “partito del capo”, a prescindere dalla bontà o meno di quel nuovo modello politico ed organizzativo, aveva già di fatto archiviato e messo in soffitta l’intuizione dei fondatori di quel partito. Cioè di un soggetto politico che riunificava al suo interno culture e filoni ideali diversi che sino a qualche tempo prima erano alternativi e seriamente competitivi per la guida del paese. Quell’intuizione originaria e’ stata archiviata per un motivo molto semplice. Nei partiti personali, come tutta l’esperienza italiana e non solo italiana insegna, il pluralismo culturale e’ tollerato ad una sola condizione: e cioè, questa pluralità deve coincidere con le posizioni delineate dal “capo”. Altrimenti, come abbiamo sentito mille volte nel dibattito interno al Pd, ma non solo del Pd, il tutto viene liquidato come “gufi”, “rosiconi”, “perditempo” e via discorrendo.

Ora, la fine prematura del renzismo e la caduta politica di Renzi potrebbe far pensare a qualche simpaticone che l’orologio della storia torna indietro e, come se nulla fosse, si riparte da zero. Ma, come tutti sappiamo molto bene, la storia non si ripete mai come prima. E se adesso il partito personale – ammesso che Renzi non comandi più in quel partito, cosa alquanto incerta e dibattuta visti i concreti risultati politici che emergono – potrebbe essere giunto al capolinea, nel Pd emerge un’altra valutazione politica, del tutto comprensibile e forse anche fondata. Ovvero, dopo la debacle storica della sinistra italiana, in tutte le elezioni amministrative dal 2015 in poi culminata con il tracollo del 4 marzo scorso, l’imperativo di larga parte di quel partito e’ uno solo: ricostruire il pensiero e la cultura della sinistra. Ovvero trasformare il Pd in un nuovo, rinnovato e moderno partito della sinistra italiana. Per capirci, un Pds rinnovato e moderno. E chi, ingenuamente, continua a blaterare che dopo il 4 marzo il Pd resta un partito plurale come se nulla fosse capitato o è un ingenuo, appunto o, nella migliore delle ipotesi, e’ semplicemente un iipocrita. Perché nega cio’ che è, ormai, sotto gli occhi di tutti.

Ora, in un contesto del genere – e cioè, il ritorno legittimo e fondato delle identità politico e culturali, e quindi la trasformazione del Pd in un novello Pds – l’apporto del pensiero popolare o di ispirazione cristiana, della cultura cattolico democratico e del cattolicesimo sociale sarebbe destinato ad essere più un esercizio accademico o retorico che non un fatto politico. Credo che sia, questa, una osservazione altrettanto nota e scontata che non merita neanche di essere particolarmente approfondita se non per motivi protocollari e burocratici. Perché il ritorno delle identità nello scenario politico italiano vale per la destra come la Lega correttamente persegue, vale per il populismo dei 5 stelle, vale per la sinistra con il Pd ma deve valere, a maggior ragione, anche per la tradizione e la storia del cattolicesimo politico italiano. Del resto, non si capirebbe il perche’ questa operazione politica e culturale e’ consentita e giustificata per tutti tranne che per un filone ideale, culturale e politico che è stato decisivo in tutti i tornanti cruciali della storia democratica del nostro paese.

Ecco perché, al di là della buona fede e della bontà delle intenzioni dei singoli, quel che rimane di questa cultura politica nel futuro del Pd non potrà che avere un ruolo del tutto ornamentale e periferico ai fini del progetto e del profilo politico di quel partito. Perché la ricostruzione della sinistra italiana non potrà che avvenire con coloro che rappresentano coerentemente e correttamente la sinistra italiana. E’ una inflessione talmente semplice e banale che non merita ulteriori commenti.