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venerdì, 9 Maggio, 2025
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Una nuova ricerca scopre una proteina trasformista

Il potere trasformista di 53BP1, ‘proteina-meccanico’ cruciale nel processo di riparazione del genoma, è stato scoperto in uno studio guidato dall’Istituto Firc di oncologia molecolare (Ifom) di Milano, pubblicato su ‘Nature Cell Biology’. Il lavoro – finanziato da Fondazione Airc per la ricerca sul cancro e Consiglio europeo della ricerca (Erc), oltre che da Fondazione Cariplo e Regione Lombardia – apre nuove strade anche nella lotta ai tumori.

L’individuazione di compartimenti ‘smart’ formati all’occasione dalla cellula in risposta a un danno al Dna, attraverso un cambio di fase, “apre una nuova prospettiva con cui affrontare processi biologici già noti – dichiara d’Adda di Fagagna dell’Ifom – nella lotta alle cellule tumorali, che notoriamente accumulano più danni nel Dna rispetto alle cellule sane, auspichiamo che in futuro si possa trovare un modo di sfruttare questa nuova conoscenza a vantaggio di una terapia contro i tumori più efficace”.

Troppe armi e troppa droga tra i giovani

La cronaca ci riferisce con crescente frequenza di episodi di violenza agìta da giovani e giovanissimi con l’uso di armi. Emblematico il caso scioccante del ragazzo romano giustiziato da due coetanei con un colpo di pistola alla nuca, mentre cercava di proteggere la sua fidanzata e difendersi da un tentativo di furto.
Ci sono troppe armi che girano con facilità tra gli adulti ma il fenomeno si va diffondendo anche tra gli adolescenti e sovente tra i minori.
Inoltre il connubio armi-droga è tanto devastante quanto pervasivo, c’è un nesso di causa effetto sull’azione violenta ma anche un rapporto di interesse economico che unisce i due fenomeni.

Quali strategie sono necessarie per arrestare questo coinvolgimento?
Dalla più grande democrazia occidentale ai Paesi delle guerre la risposta è una sola: investire nella scuola, nell’istruzione, nell’educazione. Insegnare l’amore per gli altri esseri umani, per gli animali, per il creato. Perseguire le vie della pace, della tolleranza, della legalità. Questo implica una radicale e profonda riflessione sulle spese destinate alla crescita e modernizzazione dei sistemi scolastici, agli investimenti sulla ricerca educativa, alle risorse umane e alle dotazioni organiche e strumentali di cui fornire gli istituti scolastici. Sono ben note le resistenze ad una decrescita degli investimenti bellici e militari, sia da parte delle forze politiche che nella stessa opinione pubblica, suggestionata dai pericoli derivanti dai rischi dei fondamentalismi, dell’odio razziale, della carenza di tutele in materia di sicurezza pubblica.

E le giustificazioni –motivazioni di ordine tecnico non sempre risultano esplicative e convincenti, specie in una fase di crisi recessiva globale e di depressione sociale: basti pensare alla ben nota vicenda degli aerei F35 e ai costi derivanti dal loro acquisto e manutenzione mentre una percentuale elevata di edifici scolastici non garantisce requisiti di sicurezza e standard di agibilità-abitabilità rassicuranti.

L’esponenziale crescita del numero di armi a disposizione dei giovani del nostro Paese è alimentata da interessi commerciali, da consuetudini importate da altri Paesi (si pensi che negli USA esistono aziende che fabbricano armi chiamate “il mio primo fucile”, regalate di norma ai minori al 10° compleanno) ma ci sono tuttavia altri indicatori che confermano una deriva di sovraesposizione verso il pericolo di comportamenti individuali ma orientanti anche nel gruppo, indirizzati alla violenza o da essa condizionati.
Pistole giocattolo, giochi militari, abbigliamenti bellici, oggetti di uso offensivo costituiscono materia per regali e aspirazioni prevalenti, fin dalla più tenera età.

L’influenza dei programmi televisivi improntati alla violenza come prassi abituale e trama di comportamenti ricorrenti è pressante, pervasiva, pedagogicamente negativa: l’utenza di questi programmi – dai cartoni animati ai talk-show ai film d’azione, di guerra, di narrazione di profili criminali spazia per età e genere, dai bambini e le bambine della scuola dell’infanzia agli adolescenti delle scuole secondarie di secondo grado.
L’introduzione delle fasce protette non è deterrente sufficientemente dissuasivo poiché il leit-motiv è sempre quello della violenza come prevalente modello antropologico-comportamentale: un modello idealizzato e reso vincente, nella ostentazione della forza come strumento di emergenza sociale, di successo tra i pari, di perseguimento del ‘lieto fine’.

Si fa e si ottiene giustizia solo attraverso l’uso della forza, mentre vengono ridicolizzate e valutate pregiudizialmente perdenti tutte le altre strade che passano dalle relazioni pacifiche e positive, dall’interlocuzione, dal dialogo.
Purtroppo a cominciare dalla famiglia quando non è luogo di affetti ma di conflitti.
Una cultura mass-mediologica negativa che genera solitudini siderali anche tra le giovani generazioni.

Non è difficile immaginare l’influenza degli interessi commerciali e industriali che sottende e ispira questi filoni e queste trame narrative, dove il prossimo è sempre antagonista, nemico da battere, fino alla sua eliminazione fisica, con una reiterazione ed una disinvoltura veramente raccapriccianti.
Per non parlare delle insidie del web e di tutta quella cultura virtuale, libera e disinvolta (nei temi e nei linguaggi) che vi circola o dell’esplosione delle slot-machines, che coinvolge i minori con una crescita esponenziale e drammatica generando fenomeni di ‘ludopatia’ che altro non sono che il correlato speculare e la declinazione comportamentale di massicci investimenti nel gioco d’azzardo, tra tutti il peggiore maestro di vita poiché distrugge ogni scala di valori a fronte dell’illusione del facile guadagno, del successo e della ricchezza a portata di mano. Ludopatia da non intendersi come nativa predisposizione genetica bensì come conseguenza patologica provocata da forti sollecitazioni esterne, non causa ma effetto. Occorre una forte reazione da parte delle autorità e delle istituzioni che produca normative restrittive e dissuasive di queste attrazioni da paese dei balocchi, dove i minori risultano perdenti in partenza, schiavizzati al gioco come fonte di possibile, facile arricchimento e riscatto sociale.

Non c’è più tempo da perdere: occorre un forte recupero di senso di responsabilità collettiva, bisogna che qualcuno abbia il coraggio di spezzare queste spirali perverse, ricominciando a parlare di senso del dovere, di identità, di cultura come strumenti di emancipazione sociale e di crescita e formazione individuale.
Un compito che non ci è estraneo perché anche noi, in Italia e in Europa, vediamo attecchire ed alimentarsi fenomeni di violenza dei minori e sui minori, da molteplici profili di considerazione.

Segno eloquente e pernicioso del prevalere degli interessi commerciali su quelli dell’etica dei comportamenti individuali e sociali.
Per contrastare la violenza dei bambini bisogna scoprirla e intercettarla alle origini e intervenire con tempestività: dobbiamo consapevolmente riflettere sul fatto che questo principio vale anche per l’Italia, pur in un contesto sociale caratterizzato da consuetudini e modelli di vita diversi. Come sappiamo dall’esperienza giudiziaria dei casi, gran parte dei bambini che esplicitano comportamenti aggressivi hanno genitori che sono violenti con loro oppure assistono direttamente alle violenze in famiglia ove non ricevano addirittura agli stessi genitori l’insegnamento esplicito della violenza (“se ti picchia, picchialo”… “fai valere le tue ragioni”… “dimostrati uomo”).
Questo è un compito che deve passare attraverso la scuola come principale “agenzia” di educazione alla pace, a cominciare dai rapporti ‘con’ e ‘tra’ gli alunni e dalle relazioni con le famiglie.

Una scuola che sappia risolutamente indicare modelli educativi che portano al bene comune, al rispetto del prossimo, alla tolleranza, alla legalità dovrebbe impostare – accanto al compito della trasmissione dei saperi e alla sollecitazione verso la cultura come fattore generativo di crescita intellettiva, cognitiva e comportamentale – una solida educazione sentimentale. E’ necessario far leva sul controllo e sul corretto indirizzo dell’emotività, sull’uso del pensiero critico, sull’abitudine alla riflessione come premessa di ogni azione o comportamento, specie in ambito relazionale. Occorre per questo una stretta collaborazione e una solidale condivisione d’intenti tra famiglia e scuola. I “buoni sentimenti” infatti sono le chiavi che usiamo perché i valori abbiano accesso nella nostra mente e dimorino nel nostro animo, per darci una identità rispettosa dell’identità altrui.

Istruzione e poi ancora istruzione, educazione, scuola pubblica come investimento dello Stato a favore delle giovani generazioni, garanzia del diritto allo studio, uguaglianza delle opportunità di partenza e compensazione delle difficoltà in itinere, percorsi formativi individualizzati per favorire la massimizzazione delle potenzialità di ciascuno, affinchè vengano rimosse le cause di rischio educativo e di disagio scolastico. Questo implica investimenti sempre più elevati per adeguare i sistemi scolastici agli standard di competitività spesso imposti da agenzie formative esterne, per rendere sicuri gli edifici scolastici e aggiornati e motivati gli insegnanti. Crescere in cultura per un Paese significa sviluppare la potenzialità insite in ciascun individuo, non lasciare che nessuno si perda per strada o ne imbocchi una sbagliata, mettere la persona al centro dei propri interessi, emancipare i valori del confronto, della condivisione e della solidarietà. Queste sono le armi pacifiche con cui combattere e auspicabilmente sconfiggere i mali dell’emarginazione, della solitudine, della povertà materiale e spirituale, delle violenza che affliggono i bambini e i ragazzi del nostro tempo.

La Cina in America Latina

Articolo pubblicato dalla rivista Treccani a firma di Barbara Onnis

Quello tra Repubblica Popolare Cinese (RPC) e America Latina è un rapporto relativamente recente. Per lungo tempo i governanti comunisti hanno, infatti, manifestato una certa riluttanza a entrare nel continente latinoamericano, considerato come una sorta di ‘cortile di casa’ (houyuan) degli Stati Uniti d’America e, eccezion fatta per Cuba – il primo Paese ad aver riconosciuto Pechino nel 1959, ma con cui i rapporti non sono mai stati particolarmente cordiali – la Cina è rimasta assente dalla regione durante tutti gli anni caldi della guerra fredda. Questo stato di cose iniziò a cambiare nel corso degli anni Ottanta, complice l’avvio della nuova politica di ‘riforme e apertura’ di Deng Xiaoping, e le relazioni conobbero una sorta di ‘epoca d’oro’ a partire dagli anni Duemila.

Piazza Tienanmen rappresenta uno spartiacque importante in tal senso. A differenza che in Occidente, e analogamente a quanto accadde in altri contesti (in buona parte dei Paesi asiatici e in Africa), la reazione rispetto ai fatti del 4 giugno fu assai contenuta: nessuna condanna di principio, nessuna critica, nel totale rispetto del principio della ‘non interferenza’, caro a Pechino, nessuna sanzione. E la risposta cinese non si fece attendere. Il primo viaggio di Yang Shangkun (presidente della Repubblica Popolare) dopo i fatti di Tienanmen, nel maggio del 1989, ebbe come destinazione proprio l’America Latina. Si trattava in assoluto della prima visita ufficiale di un presidente cinese in Sud America, ragion per cui venne acclamata dai media, sia cinesi sia latinoamericani, come l’‘inizio di un nuovo capitolo dell’amicizia latinoamericana’ e un’‘importante pietra miliare nella storia delle relazioni amichevoli cinesi-latinoamericane’. Sul piano economico, l’America Latina è diventata un’area di interesse per Pechino soprattutto all’indomani dell’adesione cinese all’Organizzazione mondiale del commercio, ed è diventata una componente fondamentale della strategia cinese di diversificazione dei propri fornitori di materie prime e dei propri mercati. I Paesi latinoamericani sono, infatti, ricchi di risorse naturali e si affermano ben presto come fornitori chiave di prodotti agricoli e minerali per le esigenze manifatturiere e industriali della RPC.

Il rapporto tra RPC e America Latina è contrassegnato, per certi versi, da dinamiche analoghe a quelle che caratterizzano i rapporti tra Cina e Africa – natura asimmetrica, valenza economico-commerciale e politico-diplomatico-strategica – che contribuiscono ad alimentare percezioni e sentimenti contrastanti (la Cina è percepita al contempo sia come un predatore che come portatore di opportunità). Tali sentimenti contrastanti, che per l’appunto ricordano molto da vicino l’esperienza cinese in Africa, non si riferiscono tanto alla presenza della Cina in sé, ininfluente se paragonata ad altri contesti (Paesi del Sud-Est asiatico e Occidente in generale, dove Pechino concentra la stragrande maggioranza dei suoi affari economici), quanto piuttosto al ritmo impressionante di crescita che hanno conosciuto i rapporti commerciali, economici e politici nell’arco di pochi lustri. L’interscambio commerciale è passato da 12 miliardi di dollari nel 2000 a oltre 300 miliardi di dollari nel 2018 e la RPC è diventata il terzo principale investitore nel continente. Il valore dei suoi prestiti, destinati principalmente a progetti energetici e infrastrutturali, ha superato i finanziamenti della Banca mondiale e della Banca interamericana di sviluppo. Così facendo, la Cina è diventata il principale partner economico-commerciale di molti Paesi latinoamericani (Brasile, Cile, Perù, Uruguay) e il secondo in assoluto dell’intero continente, dietro gli Stati Uniti. I sentimenti contrastanti si riferiscono anche alle modalità con cui si sono esplicitate finora le relazioni commerciali – lo schema tradizionale del commercio che lega le due parti è infatti del tipo centro-periferia, che vede l’America Latina rifornire la Cina di materie prime, a basso valore aggiunto, e la RPC esportare nella regione latinoamericana principalmente beni manufatti – che mettono al centro gli interessi specifici di Pechino.

Un cenno a parte meritano i rapporti tra RPC e Paesi centroamericani. Pechino riserva, infatti, a questi ultimi un’attenzione speciale, del tutto sproporzionata rispetto al loro peso politico-diplomatico, ancorché economico, per il fatto di essere tra i pochi Paesi che ancora riconoscono la Repubblica di Cina, ossia Taiwan. Dei quindici Paesi finora rimasti a non riconoscere diplomaticamente Pechino, nove sono Paesi latinoamericani, ossia Belize, Guatemala, Haiti, Honduras, Nicaragua, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadines, oltre al Paraguay. I restanti sei si trovano in Europa (Santa Sede), in Africa (Swaziland/elSwatini) e in Oceania (Isole Marshall, Nauru, Palau, Tuvalu).

L’importanza attribuita dal governo comunista cinese a questa parte del mondo è emersa inequivocabilmente all’indomani della pubblicazione, nel 2008, di un Libro politico specificamente dedicato ad America Latina e Paesi caraibici (Zhongguo dui Lamei he Jialabi zhengce wenjian), all’epoca il terzo del suo genere, dopo quello dedicato all’Unione Europea nel 2003 e quello destinato all’Africa nel 2006. Analogamente ai due Libri precedenti (e ai due successivi dedicati ai Paesi arabi e all’Artico rispettivamente nel 2016 e nel 2018), esso si soffermava sulla convergenza dei punti di vista tra le due parti e sull’interesse condiviso per un mondo più equo e multipolare. Al contempo, Pechino non mancava di dettare le sue condizioni per un approfondimento ulteriore del rapporto – cruciale in primis per i Paesi latinoamericani severamente colpiti dalla crisi economica – con riferimento, soprattutto, al rispetto della politica di ‘una sola Cina’ (‘yige Zhongguo’ yuanze). Come in altri casi, Pechino ha ritenuto opportuno rinnovare formalmente il proprio interesse per l’area, attraverso l’aggiornamento del Libro, uscito in una seconda versione nel 2016. Quest’ultima presenta sia elementi di continuità sia elementi di novità rispetto alla versione originaria.

Qui l’articolo completo

Rapporto Italiani nel Mondo 2019: La mobilità italiana

È stata presentata ieri a Roma la XIV edizione del “Rapporto Italiani nel Mondo” della Fondazione Migrantes. Con il contribuito di circa 70 studiosi italiani e non, la mobilità dall’Italia e nell’Italia è analizzata partendo dai dati quantitativi (socio-statistici). L’approfondimento di questa edizione è dedicato alla percezione delle comunità italiane nel mondo: “Quando brutti, sporchi e cattivi erano gli italiani: dai pregiudizi all’amore per il made in Italy”. Il Rapporto Italiani nel Mondo riflette cioè sulla percezione e sulla conseguente creazione di stereotipi e pregiudizi rispetto al migrante italiano. Il fare memoria di sé diventa quindi occasione per meglio comprendere chi siamo oggi e chi vogliamo essere.

Quasi 5,3 milioni di residenti oltre confine (dati Aire 1.1.2019). Su un totale di oltre 60 milioni di cittadini residenti in Italia a gennaio 2019, alla stessa data l’8,8% è residente all’estero. In termini assoluti, gli iscritti all’AIRE, aggiornati al 1° gennaio 2019, sono 5.288.281. Dal 2006 al 2019 la mobilità italiana è aumentata del +70,2% passando, in valore assoluto, da poco più di 3,1 milioni di iscritti all’AIRE a quasi 5,3 milioni. Quasi la metà degli italiani iscritti all’AIRE è originaria del Meridione d’Italia (48,9%, di cui il 32,0% Sud e il 16,9% Isole); il 35,5% proviene dal Nord (il 18,0% dal Nord-Ovest e il 17,5% dal Nord-Est) e il 15,6% dal Centro.
Oltre 2,8 milioni (54,3%) risiedono in Europa, oltre 2,1 milioni (40,2%) in America. Nello specifico, però, sono l’Unione Europea (41,6%) e l’America Centro-Meridionale (32,4%) le due aree continentali maggiormente interessate dalla presenza dei residenti italiani. Le comunità più consistenti si trovano, nell’ordine, in Argentina (quasi 843 mila), in Germania (poco più di 764 mila), in Svizzera (623 mila), in Brasile (447 mila), in Francia (422 mila), nel Regno Unito (327 mila) e negli Stati Uniti d’America (272 mila).

Oltre 128 mila iscritti all’AIRE per espatrio nell’ultimo anno: da 107 province e verso 195 destinazioni diverse nel mondo. Da gennaio a dicembre 2018 si sono iscritti all’AIRE 242.353 italiani di cui il 53,1% (pari a 128.583) per espatrio. L’attuale mobilità italiana continua a interessare prevalentemente i giovani (18-34 anni, 40,6%) e i giovani adulti (35-49 anni, 24,3%). Il 71,2 è in Europa e il 21,5% in America (il 14,2% in America Latina). Sono 195 le destinazioni di tutti i continenti. Il Regno Unito, con oltre 20 mila iscrizioni, risulta essere la prima meta prescelta nell’ultimo anno (+11,1% rispetto all’anno precedente). Al secondo posto, con 18.385 connazionali, vi è la Germania. A seguire la Francia (14.016), il Brasile (11.663), la Svizzera (10.265) e la Spagna (7.529).

Le partenze nell’ultimo anno hanno riguardato 107 province italiane. Con 22.803 partenze continua il solido “primato” della Lombardia, seguita dal Veneto (13.329), dalla Sicilia (12.127), dal Lazio (10.171) e dal Piemonte (9.702). Il Rapporto Italiani nel Mondo 2019, attraverso analisi sociologiche e linguistiche, aneddoti e storie fa rife-rimento al tempo in cui erano gli italiani ad essere discriminati, risvegliando “il ricordo di un passato in-giusto – spiega il testo – non per avere una rivalsa sui migranti di oggi che abitano strutturalmente i nostri territori o arrivano sulle nostre coste, ma per ravvivare la responsabilità di essere sempre dalla parte giusta come uomini e donne innanzitutto, nel rispetto di quel diritto alla vita (e, aggiungiamo, a una vita felice) che è intrinsecamente, profondamente, indubbiamente laico”. Si tratta dunque di “sce-gliere non solo da che parte stare, ma anche che tipo di persone vogliamo essere e in che tipo di società vogliamo vivere noi e far vivere i nostri figli, le nuove generazioni”. La Fondazione Migrantes auspica che questo studio possa “aiutare al rispetto della diversità e di chi, italiano o cittadino del mondo, si trova a vivere in un Paese diverso da quello in cui è nato”.

Una road map per realizzare in Italia un Green New Deal

Per avviare concretamente un Green New Deal per l’Italia c’è bisogno di un programma ampio e pluriennale con misure e obiettivi al 2030, che abbia come asse centrale il contrasto alla crisi climatica e preveda il reperimento delle risorse finanziarie per attuarlo. In Europa la nuova Commissione Europea e in Italia il nuovo Governo e la nuova maggioranza hanno avanzato, per la prima volta, la proposta di promuovere un “Green New Deal” per affrontare congiuntamente la crisi ambientale, e la bassa crescita economica.

Delle proposte per la realizzazione di un Green New Deal per l’Italia si discuterà quest’anno agli Stati Generali della Green Economy, l’appuntamento di confronto e discussione sulla green economy più atteso a livello nazionale. Promossi dal Consiglio Nazionale della Green Economy in collaborazione con il Ministero dell’Ambiente e con il patrocinio del Ministero dello Sviluppo Economico e della Commissione Europea, gli Stati Generali della Green Economy si terranno il 5 e 6 novembre 2019 alla Fiera di Rimini di Italian Exhibition Group, nell’ambito di Ecomondo, e avranno come tema proprio il “Green New Deal e sfida climatica: obiettivi e percorso al 2030”.

L’abbattimento delle emissioni è un passaggio cruciale per realizzare quella svolta epocale che oggi è necessaria per assicurare un futuro al nostro Pianeta. Le emissioni mondiali di gas serra continuano, infatti, ad aumentare e i danni della crisi climatica sono sempre più evidenti e ingenti; in Italia hanno pesato con 20 mila decessi e circa 65 miliardi di euro di danni tra il 1980 e il 2017. Se si aspetta che tutti i Paesi partano contemporaneamente, non si arriverà in tempo a contenere l’aumento della temperatura ben al di sotto dei 2°C, come previsto dall’Accordo di Parigi per il clima.
Questo passaggio è ritenuto centrale dal Parlamento Europeo che recentemente, come richiesto da Olanda, Danimarca e Francia con l’appoggio della Presidente della nuova Commissione, ha votato una risoluzione che chiede di aumentare fino al 55% l’impegno di riduzione al 2030. Cosa significa per l’Italia?

“Le nostre emissioni di gas serra, dopo un periodo di calo, negli ultimi anni non stanno più diminuendo”. – spiega Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile – “Nel 2018 sono state pari a 426 milioni di tonnellate equivalenti di CO2, le stesse del 2014. Per rispettare la traiettoria dell’Accordo di Parigi, che richiede di azzerare le emissioni nette al 2050, occorrerebbe entro il 2030 almeno dimezzare quelle del 1990, facendole scendere quindi a circa 260 milioni di tonnellate. Con le misure vigenti, tuttavia, secondo ISPRA, le emissioni italiane scenderebbero solo a poco più di 380 milioni di tonnellate al 2030, mancando l’obiettivo di oltre 120 milioni di ton. Agli Stati Generali della Green Economy chiederemo al Governo un ulteriore sforzo per realizzare una politica più incisiva e di attuazione di un Green New Deal al fine di raggiungere gli obiettivi necessari alla sopravvivenza del nostro Pianeta”.

I lavori dell’ottava edizione degli Stati Generali della Green Economy prenderanno il via con la sessione plenaria la mattina del 5 novembre. Sarà aperta da Edo Ronchi, Consiglio Nazionale della Green Economy, che illustrerà le proposte per un Green New Deal e la Relazione 2019 sullo stato della Green Economy e vedrà la partecipazione di Roberto Gualtieri, Ministro dell’Economia e delle Finanze, di Sergio Costa, Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, e di Riccardo Fraccaro, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

In Italia è bello vivere ma complicato investire

Se nel 2018 le stime dell’Istat sulle famiglie in condizione di povertà assoluta (oltre 1,8 milioni di nuclei, 5 milioni di individui, l’8,4% del totale) e quelle in condizioni di povertà relativa (più di 3 milioni, l’8,4% del totale nazionale)  ci hanno fatto sobbalzare, molte, per contro, sono le realtà opposte. Alla fine dello scorso anno, infatti, la ricchezza finanziaria complessiva delle famiglie italiane ammontava a 4.218 miliardi di euro: -0,4% in termini reali rispetto al 2008.

Molti i beni ereditati dal passato, pochi quelli aggiunti in tempi più recenti. Nella composizione del portafoglio delle attività finanziarie degli italiani a prevalere risulta essere la voce contante e depositi bancari, con 1.390 miliardi di euro, pari al 33% del totale e una crescita del 13,7% rispetto a dieci anni fa. Ad aumentare sono anche le riserve assicurative, pari al 23,7% del portafoglio, con un’implementazione del 44,6% in due lustri. Crollano invece i titoli obbligazionari, che pesano per il 6,9% del portafoglio (erano pari al 21% dieci anni fa) e le azioni (-12,4% dal 2008). Su questo sfondo si calcola che siano 500.000 le famiglie italiane che detengono patrimoni finanziari superiori a mezzo milione di euro (circa il 2,5% dei nuclei). E ammonta a circa 850 miliardi di euro il portafoglio di risparmi per investimenti affidati al private banking.

Dalla ricerca condotta dal Censis per Aipb, il 76,8% degli italiani considerano il contante, i soldi tenuti fermi sui conti correnti bancari e gli investimenti finanziari, beni da non tassare in misura maggiore delle risorse che vengono invece investite nell’economia reale. Dalle rilevazioni del Censis il sentiment degli intervistati prevede una strenua difesa della libertà di scelta del risparmiatore e ancora una predilezione per il contante: strumento privilegiato contro l’insicurezza. Sono molti a sostenere che se l’economia reale vuole attirare risparmio deve rendersi allettante, e non per effetto di una tassazione aggiuntiva sulla liquidità. Tra i risparmiatori vi è poi una crescente diffidenza verso lo Stato: il 61,2% degli italiani non utilizzerebbe i propri risparmi per acquistare Bot, Btp o altri titoli del debito pubblico.

Nella percezione delle persone più ricche esiste un rischio-Paese per l’Italia. Secondo il 53,4% di esse pensare al futuro della nostra Penisola suscita preoccupazione; per il 23,4% curiosità; solo nell’8,3% dei casi una sensazione rivolta ad una nuova sfida. Prevalentemente sono stati d’animo che non incentivano ad investire, soprattutto nel lungo periodo. Il 68,2% dei ricchi, tuttavia, non ha alcuna intenzione di andarsene dall’Italia. Il 42,2% di essi afferma che nel Belpaese ha le proprie radici e il 26,0% ritiene che il nostro sia uno dei luoghi in cui si vive meglio al mondo.

Ma lo Stivale è anche uno dei territori dove è assai alto il rischio idrogeologico e dove le infrastrutture stentano a decollare. Grandi e tristemente note le catastrofi naturali, tra queste il  Ponte di Genova. D’altro canto anche Tav e trasporti locali non sempre efficienti rendono urgenti, quanto precipui i nuovi investimenti. Per l’89,3% degli italiani si tratta di opere irrinunciabili quanto strategiche. Per il 50,7% dei cittadini intervistati occorre investire nella messa in sicurezza del territorio contro frane, inondazioni e terremoti, per il 39,3% nelle energie alternative, per il 33,2% nella ristrutturazione di monumenti, chiese, opere d’arte, siti archeologici, per il 22,5% nelle ferrovie e nei treni locali, per il 22% in collegamenti stradali e ferroviari tra il Tirreno e l’Adriatico, per il 20,8% nella connessione internet veloce ovunque e per il 20% nei trasporti pubblici delle grandi città.

Se in Italia le infrastrutture vengono annunciate e poi non sono portate a termine, per il 57,9% dei cittadini ciò dipende dalla corruzione, per il 54,1% dalla lentezza burocratica, per il 33,7% da controlli insufficienti sulle imprese che realizzano i lavori, per il 31,7% dalla politica che cambia idea sulle opere da realizzare. Ed è quest’insieme di  ragioni che dissuade gli investitori dall’obiettivo di impiegare, nei tanti diversi rivoli, i propri soldi finanziando le infrastrutture. Anche tra i clienti del private banking (i cosiddetti ricchi) il 56,7% sceglie altri investimenti dai rendimenti più sicuri, temendo ritardi o blocchi delle opere. Nonostante ciò, però, il 35,3% investirebbe in infrastrutture. Insomma dal II Rapporto Aipb-Censis “emerge una percentuale importante di clienti Private interessata a investire in infrastrutture e opere pubbliche in Italia – ha sottolineato il presidente di Aipb Paolo Langé -. Per incrementare questa quota, è necessario adottare al più presto una serie di azioni per facilitare l’accesso degli investitori: il riconoscimento del livello qualitativo della consulenza evoluta, l’ampliamento della gamma di strumenti finanziari utilizzabili e la creazione, per questi strumenti, di un mercato secondario. Senza trascurare il tema della fiscalità: interventi mirati inciderebbero in maniera significativa sulle scelte di investimento di lungo periodo in infrastrutture”.

Il II Rapporto Aipb-Censis è stato realizzato dal Censis per l’Associazione italiana Private Banking, presentato dal segretario generale del Censis, Giorgio De Rita, e discusso, tra gli altri, dal presidente di Aipb, Paolo Langé, dal sottosegretario al Ministero dello Sviluppo economico, Gian Paolo Manzella, dal presidente di Assonime e Aifi, Innocenzo Cipolletta,  dal membro del Comitato per l’educazione finanziaria e rappresentante della Banca d’Italia, Magda Bianco, dall’head of research di Cassa depositi e prestiti, Gianfranco Di Vaio, dal  direttore dell’Agi, Mario Sechi.

Una lente a contatto che rilascia farmaci nell’occhio

E’ stata messa a punto nel Massachusetts Eye and Ear e del Boston Children’s Hospital ed è descritta sulla rivista Biomaterials. La lente che rilascia i farmaci potrebbe essere utile per la terapia delle malattie della retina per le quali i colliri non sono efficaci.

Secondo il lavoro, le lenti a contatto sono risultate efficaci quanto le iniezioni per prevenire danni alla retina che si sarebbero potuti verificare senza i trattamenti farmacologici. La maggior parte delle malattie della retina sono attualmente trattate con iniezioni o impianti, che portano potenziali effetti collaterali tra cui l’aumento della pressione oculare, il distacco della retina, il sanguinamento e l’infezione.

I 90 anni di padre Bartolomeo Sorge

Articolo pubblicato sulle pagine di Aggiornamenti Sociali

Compie oggi 90 anni padre Bartolomeo Sorge, direttore di Aggiornamenti Sociali dal 1997 al 2009 e attualmente nostro direttore emerito.

Nato a Rio Marina (Isola d’Elba) il 25 ottobre 1929, Sorge è entrato nella Compagnia di Gesù nel 1946. Redattore di Civiltà Cattolica dal 1966, ha diretto questa rivista dal 1973 al 1985, lavorando come membro del Consiglio di presidenza, insieme a Giuseppe Lazzati e mons. Bartoletti, all’organizzazione del primo grande Convegno nazionale della Chiesa italiana, nel 1976, sul tema «Evangelizzazione e promozione umana».

Dopo un intenso decennio come direttore dell’Istituto Arrupe di Palermo (dove è tra i protagonisti della cosiddetta «primavera», fioritura di iniziative civiche e movimenti per opporsi alla mafia), nel 1997 arriva a Milano per dirigere Aggiornamenti Sociali e, dal 1999 al 2005, il mensile Popoli. Padre Sorge ha al suo attivo anche numerose pubblicazioni sulla dottrina sociale della Chiesa e l’impegno dei cristiani in politica.

Su Aggiornamenti Sociali padre Sorge ha firmato ad oggi 162 articoli (qui l’elenco completo), 5 dei quali da collaboratore esterno, 18 come direttore emerito e i restanti come direttore responsabile. Il primo editoriale da direttore, nel gennaio 1997, era dedicato al rapporto tra Nord e Sud del Paese e alle spinte autonomistiche e localistiche che proprio in quegli anni iniziavano a manifestarsi: con l’editoriale Palermo e Milano, una sola Italia, padre Sorge annunciava tra l’altro l’inizio del coordinamento fra la redazione milanese della Rivista e l’Istituto di formazione politica del capoluogo siciliano, coordinamento che dura tuttora.

Tra i numerosi temi affrontati dal gesuita sulla rivista, uno dei più ricorrenti è stata la riflessione sull’evoluzione del cattolicesimo democratico, sul popolarismo sturziano e, più, in generale sulla presenza dei cattolici italiani in politica. Tra i vari articoli ricordiamo l’editoriale del maggio 1999 dal titolo Non è più tempo di “storici steccati”, il ricordo di Giuseppe Lazzati pubblicato nel 2009, a cento anni dalla nascita (leggi) e il contributo sulle Prospettive per una «buona politica». Papa Francesco e le intuizioni di Sturzo, uscito nel marzo 2014.

Con il pontefice argentino, padre Sorge è in grande sintonia (nella foto in apertura un incontro tra i due, con al centro l’allora Padre generale dei gesuiti, Adolfo Nicolás), e papa Francesco in un’occasione ha voluto ringraziare pubblicamente il confratello per il suo contributo al pensiero sociale della Chiesa (leggi). Tra gli articoli di Aggiornamenti Sociali dedicati al Papa c’è anche quello A proposito di alcune critiche recenti a papa Francesco, firmato da Sorge nel novembre 2016.

Lo sguardo di padre Sorge non si è limitato in questi anni alle sole vicende italiane: è nota, ad esempio, la sua ammirazione nei confronti di Oscar Romero, che il gesuita ebbe occasione di incontrare durante la Conferenza dell’episcopato latinoamericano a Puebla, nel 1979: qui l’editoriale in cui ricorda il vescovo salvadoregno ucciso sull’altare nel 1980.

In quanto direttore per 13 anni e collaboratore della rivista anche prima e dopo questo incarico, padre Sorge è indubbiamente uno dei più attenti testimoni della vita di Aggiornamenti Sociali, che nel gennaio 2020 si appresta a festeggiare i 70 anni di pubblicazioni. In questa clip un estratto di un’intervista più ampia, realizzata da Chiara Tintori, già redattrice della rivista, che sarà diffusa nei prossimi mesi.

Ritiratosi da alcuni anni a Gallarate, nella stessa comunità di gesuiti anziani in cui ha vissuto il Cardinal Martini, anche a 90 anni padre Sorge continua a girare l’Italia per conferenze, a pubblicare nuovi libri e a far sentire la sua voce nel dibattito pubblico. È di pochi giorni fa, ad esempio, il suo intervento alla trasmissione de LA7, Otto e mezzo, sul tema del populismo.

Chi accumula e chi spreca!

Ormai Mario Draghi è giunto alla fine della sua corsa, nella direzione prestigiosa della Banca centrale Europea. Infatti ha presieduto in queste ore l’ultima riunione del direttivo Bce. Nella occasione ha ribadito la conferma della scelta politica monetaria, ed ha insistito a che i tassi di interesse si mantengono ai livelli bassi a cui siamo abituati da quando lui stesso ha preso saldo il timone della Banca europea.

Lo ha fatto con la consueta sottolineatura che assegna ai temi importanti, e credo che abbia anche voluto maggiormente responsabilizzare Christine Lagarde, che assumerà  la direzione dell’Istituto dopo di lui. Vale la pena ribadire che senza la politica sui bassi tassi di interesse, noi italiani avremmo dovuto pagare molti più interessi per il nostro esorbitante debito, quando all’asta lo Stato chiede agli investitori di acquistare i nostri titoli per finanziare il deficit.

Ma se abbiamo potuto risparmiare grazie alla politica di Draghi, non vuol dire che i nostri governanti hanno usato il risparmio per alleggerire il debito. Anzi, a mio parere, hanno finanziato le loro politiche elettorali, per finanziare il loro consenso. Fanno la stessa cosa che farebbe un cattivo padre di famiglia che al posto di impiegare parte del suo salario per pagare il mutuo della sua abitazione, sperpera i soldi in bagordi con i suoi amici. Insomma le politiche virtuose volute da Draghi sono state sciupate dalla imprevidenza dei nostri governi, compreso l’attuale governo con le scelte che sta prendendo, per il prossimo documento di politica economica e finanziaria.

Il centro, Renzi, il Pd e i cattolici popolari.

Dunque, l’intervento di Renzi alla Leopolda di Firenze ha riaperto il dibattito politico e culturale attorno alla cosiddetta rappresentanza di un elettorato che non è di sinistra, che non è di destra e che non può essere banalmente essere catalogato di centro ma che, tuttavia, risponde a quell’identikit politico, culturale e programmatico. E questo anche al di là e al di fuori di chi ha pronunciato quel discorso e della sua attuale collocazione politica. Non a caso, proprio l’intervento di Renzi ha innescato un dibattito su chi, oggi, si candida a intercettare e a rappresentare un elettorato che molti analisi ritengono decisivo per la stessa vittoria elettorale finale. Un elettorato, mondi vitali, interessi sociali, pezzi di società che semplicemente stentano a riconoscersi nell’attuale offerta politica italiana e che chiedono, seppur non rumorosamente, una nuova rappresentanza politica. E’ a tutti evidente che tra i soggetti politici e culturali che più sono interessati a questa nuova offerta politica c’è l’area cattolico democratica e cattolico popolare che da ormai molti anni e’ politicamente orfana e stenta a ritrovare una casa accogliente, coerente e normale. 

Ora, dovrebbe essere chiaro a tutti che è perfettamente inutile continuare a blaterare – anche se i numerosi protagonisti sono tutti in buona fede e animati da grande passione – sulla possibilità/ necessità di dar vita ad una nuova Democrazia Cristiana. Valga per tutti, al riguardo, una bella espressione di uno dei leader più autorevoli di quel partito, Guido Bodrato, quando ancora recentemente sosteneva che la “Dc è come un vetro infrangibile. Quando è andato in frantumi si è dissolto in mille pezzi e non è più ricomponibile”. Una osservazione semplice ma sufficiente per tranquillizzare tutti coloro che maldestramente ritengono ancora possibile dar vita, oggi, ad un partito che, essendo un “fatto storico”, è ormai consegnato alla storia. Come dovrebbe essere ormai chiaro, dopo ripetuti ed insistenti tentativi, che è sterile continuare ad immaginare soggetti politici di ispirazione cristiana che puntualmente in tutte elezioni – locali, provinciali, regionali, nazionali ed europee – stentano ad arrivare alla fatidica soglia dello 0,5%. Tentativi fatti in buona fede ma politicamente sterili ed elettoralmente impotenti. Almeno sino ad ora, anche se ormai è una storia che si ripete puntualmente da circa 20 anni. Almeno dalla fine dell’esperienza del Partito popolare Italiano di Mino Martinazzoli e dall’inglorioso epilogo dell’Udc. 

Ecco perché, per restare nel campo del cosiddetto centro sinistra – anche se va rifondato dalla base, com’è ormai evidente a tutti – adesso è anche arrivato il momento per una scelta politica chiara e trasparente, almeno per chi non si accontenta della sola presenza testimoniale, tenendo conto della realtà in cui siamo concretamente inseriti. Sotto questo versante, il Pd e il partito di Renzi dovranno essere chiari e lungimiranti. Soprattutto dopo l’avvento del partito di Renzi, che punta deliberatamente ad intercettare un’area politica, sociale e culturale attigua a quella del Partito democratico. Ora delle due l’una. O il Partito democratico riconosce apertamente e non solo formalmente la presenza al suo interno di un’area politica e culturale cattolico popolare e democratica – e non solo nei comunicati e nei pronunciamenti ufficiali – oppure il destino di questo partito sarà quello di ridiventare semplicemente il vecchio e mai dimenticato partito della sinistra italiana. Una semplice riedizione del Pds o, nella migliore delle ipotesi, dei Ds. Stesso discorso riguarda anche – seppur su un piano diverso – la nuova esperienza del partito di Renzi. Un partito prevalentemente personale ma un partito che pone, comunque sia, forti e fondati interrogativi a chi pensa di riconoscersi in un soggetto politico che ha come obiettivo anche quello di saper intercettare un consenso di pezzi di società che incrociano una domanda riformista, democratica, post ideologica e socialmente avanzata. 

E quindi, dopo la riarticolazione della geografia politica italiana, questi due soggetti politici che lavorano, almeno così pare, per un rinnovato e rifondato centro sinistra, non potranno bypassare questa domanda e questa richiesta specifica. E questo non per rappresentare una semplice quota o per riempire una vecchia casella. Ma per il semplice motivo che dietro all’area cattolico popolare e cattolico democratica c’è un giacimento di valori, di interessi sociali, di riserve etiche e di elaborazioni programmatiche che richiedono una risposta altrettanto politica e non fumosi annunci propagandistici e puramente mediatici. Saranno solo le scelte politiche concrete e gli atteggiamenti conseguenti dei leader dei rispettivi partiti a dirci come sarà affrontata questa sfida e come saranno accolte queste domande per una nuova rappresentanza politica e culturale.

Rita Levi Montalcini: “Pensare può essere utile mentre parlare non sempre è necessario”

Ricorre quest’anno il 110° anniversario della nascita di Rita Levi Montalcini, che ha lasciato una traccia indelebile nella cultura del Novecento a motivo della Sua poliedrica intelligenza e affascinante personalità.

La straordinaria opportunità di un’intervista con la scienziata mi ha lasciato in dono una sua considerazione, che trovo a un tempo altissima nella sua sintesi culturale e pratica nella gamma infinita delle sue possibili declinazioni.

“Pensare può essere utile mentre parlare non sempre è necessario” : si tratta di un’affermazione che nella sua apparente e sorprendente semplicità esprime in realtà un concetto denso di implicazioni utili nelle quotidiane circostanze della vita.
In genere accade infatti il contrario: si dicono e si ascoltano molte cose senza avere l’esatta percezione del loro significato.
Pensieri e parole non sono sempre legati da un nesso logico di causa-effetto, tanto è vero che molte delle incomprensioni nelle relazioni interpersonali sono dovute alla dissociazione e all’incoerenza tra le idee e i comportamenti.

Si utilizzano, cioè, stereotipi, considerazioni e opinioni come fossero beni di consumo, con disinvolta e spesso contraddittoria facilità si attinge al gran calderone delle frasi fatte e delle cose dette: trovandone già molte in libera circolazione risulta persino superfluo sforzarsi a pensarne delle proprie.
Molto più semplice utilizzare giudizi e valutazioni desumendoli dai luoghi comuni del sentito dire o della cultura prevalente, rimescolata come polenta nel grande circo barnum dell’immaginario collettivo, invece che esprimerli come risultato di una lenta, meditata riflessione personale.

Ricordo che nella scuola di una volta veniva raccomandato agli insegnanti di educare i propri allievi all’uso del pensiero critico come finalità fondamentale della loro formazione, mentre noto – non senza perplessità – che da qualche tempo si insiste più sul concetto di spendibilità sociale degli apprendimenti: nel primo caso lo studio enfatizza soprattutto il metodo, nel secondo privilegia i contenuti.
Ho sempre pensato che la cultura vera consista in un processo di interiorizzazione e di metabolizzazione del sapere che arricchiscono il cuore e la mente della persona, valorizzandone tutte le potenzialità individuali, oltre i risultati socialmente utili o economicamente soppesabili.

In occasione del mio incontro con la scienziata per la commemorazione presso l’Università di Pavia di Camillo Golgi – premio Nobel per la Medicina nel 1906 – la Prof.ssa Montalcini (che aveva poi ricevuto lo stesso riconoscimento esattamente 80 anni dopo, nel 1986) nel corso della Sua prolusione, parlando a braccio per oltre mezz’ora in perfetto inglese, aveva stupito tutti insistendo in modo coerente e articolato nel Suo discorso sul concetto di “pensiero pensante” utilizzando più volte il termine “imagination”, per sottolineare che lo sforzo della ricerca, ma anche l’intuizione, la riflessione, il dubbio come forma di ripensamento (in sintonia con le teorie di Karl Popper) , la stessa “fantasia” in quanto pensiero divergente (e qui mi piace ricordare che lo stesso Albert Einstein aveva sottolineato che a volte la fantasia è più importante della conoscenza) ha un valore tassonomico persino superiore alla stessa scienza codificata. Non vi è progresso scientifico infatti se le teorie consolidate non vengono continuamente sottoposte alla prassi della loro sistematica revisione alla luce del pensiero critico.

Ne deriva che l’educazione è umanizzazione, non addestramento, la cultura è comprensione che integra la mera conoscenza, non è il prodotto di un marketing commerciale: non si trova negli scaffali degli ipermercati né viene elargita attraverso corsi accelerati di formazione che rilasciano patentini di idoneità.
Trovo che siamo circondati da un desolante panorama di semplificazione culturale, dominato dall’uso disinibito e inconsapevole della parola e contraddistinto da una deriva di omologazione al relativo, al facile e al peggio.
Un utilizzo disinvolto delle nuove tecnologie ci illude sulla possibilità di una formazione culturale di tipo ‘fast-food’; il tempo destinato agli apprendimenti dev’essere reso rapido ed efficace, funzionale alla produttività degli apparati e alle logiche del profitto piuttosto che al radicamento dei valori della civiltà dell’umanesimo: centralità della persona, sua dignità, rispetto per gli altri.

Oltre il mandato educativo strettamente affidato alla scuola, credo nella formazione come conquista personale, esercizio della libertà di pensiero, capacità critica e motivata di digressione, dissociazione dagli standard che riducono la cultura ad un bene di consumo distribuito da affabulatori e ciarlatani per far circolare parole e immagini finalizzati a renderci uguali, docili e ubbidienti.
Scriveva Max Weber, già all’inizio del Novecento, che la ‘razionalizzazione’, cioè l’ottimizzazione delle potenzialità intellettuali dell’uomo, “non è la progressiva conoscenza generale delle condizioni di vita che ci circondano”.
La vera razionalizzazione consiste invece nel “disincantamento del mondo”, in altri termini nella consapevolezza che attraverso la ragione e il pensiero si stabiliscono e si applicano le regole che ci permettono di conoscere la realtà, partendo sempre dal nostro punto di osservazione.

E’ più utile, cioè, rafforzare le nostre personali dotazioni strumentali – l’intelligenza e il carattere – che possedere una dimensione quantitativamente estesa della conoscenza delle cose.
Ci si chiede spesso, in questa epoca di comunicazione globalizzata, se la libertà di informazione sia un valore sussistente e difendibile: la risposta non è semplice ma risiede nel rapporto che c’è tra il pensiero e la parola.
Se la seconda è il risultato di un ragionamento, la concretizzazione di un’idea, se esprime un concetto chiaro a chi la pronuncia e al suo interlocutore, allora ‘parlare’ significa favorire la comunicazione e il dialogo tra le persone.

Prevale oggi la teoria della democrazia della parola: più cose si dicono o si riescono a dire, più tavole rotonde si imbandiscono, più circolano notizie e informazioni, nel più breve tempo possibile e più – di conseguenza – dovremmo rafforzare la nostra percezione di essere uomini liberi.
Si finisce così con il parlare molto, con il parlare tutti, con il parlare sempre, senza domandarci cosa alla fine resti di questo grande fervore del dire.

Ma se il pensiero – cioè la riflessione, la consapevolezza, la comprensione- giace inerte e silente, se non precede ciò che si dice o non vaglia in modo critico ciò che si ascolta, la parola resta un’inebriante e spesso insensata anestesia collettiva che ci illude su una realtà che non esiste.
Resta quella che i latini chiamavano con somma saggezza “flatus vocis”: una inutile, eterea e a volte fastidiosa e stancante emissione di fiato.
Per chi parla e per chi in qualche modo è costretto ad ascoltare.

Google ottiene la supremazia quantistica

In un paper pubblicato sul giornale scientifico Nature, Google ha affermato di aver tagliato il tanto atteso traguardo della “supremazia quantistica”, ossia un computer quantistico è riuscito a svolgere un calcolo che su un supercomputer tradizionale impiegherebbe una quantità di tempo incredibilmente esagerata.

La pubblicazione della ricerca sembra sgombrare il campo anche dalle polemiche che nelle settimane scorse avevano seguito la pubblicazione delle prime indiscrezioni a proposito del raggiungimento di questo significativo obiettivo ad opera dei ricercatori di Google.
Ma come funziona un computer quantistico?

Un sistema quantistico funziona in modo diverso rispetto a un normale computer.

Un computer tradizionale funziona eseguendo calcoli basandosi sui “bit”, unità di informazione che possono assumere due valori: 1 o 0.

Nei computer quantistici, invece, un singolo oggetto può comportarsi come una combinazione di due oggetti separati nello stesso momento. Sfruttando questa caratteristica, i ricercatori possono costruire un “qubit” (“quantum bit”), che può contenere una combinazione di 1 e 0. Due qubit possono quindi assumere quattro valori in una volta sola, e così via, con numeri che crescono esponenzialmente man mano che aumentano i qubit. L’aumento è tale da rendere un computer quantistico enormemente più veloce e potente dei computer che utilizziamo oggi basati sui bit.

Però, si legge su Nature:  “È necessario  molto lavoro prima che i computer quantistici diventino una realtà pratica. In particolare, dovranno essere sviluppati algoritmi che possono essere commercializzati e operanti sui rumorosi processori quantici su scala intermedia (soggetti a errori) che saranno disponibili a breve termine, e i ricercatori dovranno dimostrare protocolli robusti per la correzione di errori quantistici che consentiranno un funzionamento duraturo e tollerante ai guasti a lungo termine”.

“La dimostrazione di Arute e colleghi – continua l’articolo di Nature – ricorda in molti modi i primi voli dei fratelli Wright”.

Al via Dialog, progetto su innovazione e sviluppo locale

È partito Dialog – Dialog for innovation and local growth, un progetto del Fondo Europeo per lo Sviluppo regionale (FESR) – Cooperazione Interregionale, che nasce con l’obiettivo di rafforzare l’effettività, la sostenibilità e la replicabilità delle innovazioni prodotte nei vari campi politici di intervento prioritario dai diversi paesi europei.

Ente capofila del progetto è la Provincia autonoma di Trento. Partecipano al progetto, in rete, altre significative realtà europee: Il Land della Bassa Sassonia (Germania), la Camera di commercio di Vrasta (Bulgaria), la Regione delle Fiandre (Belgio), la Regione di Castiglia la Mancia (Spagna), Il Cantone del Ticino.

Le motivazione che da’ impulso al progetto è la convinzione che un sistema di welfare effettivamente rispondente ai bisogni della cittadinanza sia possibile attraverso la partecipazione attiva di tutti i portatori di interesse, il dialogo e strumenti efficaci e condivisi di azione politica. Tutto questo poiché nuovi campi politici di azione, basati sulle nuove tecnologie e destinati a creare rilevante valore aggiunto, richiedono condivisione, accordo e accettazione.

È sulla base di questo spirito di concertazione che, nell’ambito del Kick-off meeting tenutisi lunedì 21 e martedì 22 ottobre presso la Sala ex Giunta della Provincia di Trento, gli attori coinvolti si sono incontrati e hanno dato formalmente avvio al progetto.

Le due giornate del Kick off-meeting sono organizzate per avviare una conoscenza reciproca, per presentare i rispettivi contesti economici, e illustrare i casi di studio e le best practices di ognuno. I casi di studio spaziano dall’innovazione sociale, alla crescita delle piccole e medie imprese, dalla green economy, agli strumenti di abbattimento del tasso di disoccupazione attraverso la nascita di microimprese. L’obiettivo è definire un modello di lavoro comune e condiviso tra gli attori partecipanti, sostenuto da un comitato scientifico il quale ne validerà l’effettività.

La provincia di Trento porta come temi di confronto e discussione le Smart, nello specifico campo della meccatronica, con attenzione ai risvolti occupazionali che questo settore può generare, oltre che i bandi per il finanziamento di progetti di nuova imprenditorialità.

Questa prima fase di lavori prevederà l’identificazione, modellizzazione e trasferimento di best practices cui seguirà la stesura di un documento che verrà adottato dalle varie amministrazioni.

Riabilitazione Cardio-Respiratoria: esperti a confronto oggi a Modena

Il primo convegno per gli esperti delle malattie di cuore e polmoni si terrà venerdì 25 ottobre a partire dalle 9:30 nell’auditorium Francesco Nobile dell’Ospedale Privato Accreditato Villa Pineta (Gaiato di Pavullo n/F – Modena).

In quella occasione medici specialisti e docenti universitari dell’Emilia Romagna, con la presenza ed il contributo di un gruppo di clinici ed esperti della Lombardia, si incontrano per fare luce sullo stato attuale della cardiologia e pneumologia riabilitativa e sulle sfide per il futuro.

L’evento è patrocinato dall’AICPR – Associazione Italiana di Cardiologia Clinica, Preventiva e Riabilitativa, dall’UNIMORE – Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e dall’ Associazione di volontariato “Amici del Cuore”.

In Emilia Romagna, una delle regioni più efficienti in campo sanitario per l’accesso alle cure e per la qualità dell’assistenza, si può e si deve fare ancora molto, spiega il dott. Massimo Cerulli, Responsabile dell’U.O di Cardiologia a Villa Pineta e Chairman del convegno del 25 ottobre:

Se è vero che in Italia, e la nostra Regione ne è un esempio virtuoso, esiste una rete performante ed estesa di professionisti della Cardiologia che si occupano del trattamento dei pazienti acuti (si pensi all’intervento tempestivo in caso di diagnosi da infarto) è altrettanto vero che solo una minoranza viene trattata nella fase post acuta. Certamente si può con soddisfazione affermare che vi è una diminuzione del tasso di mortalità per infarto acuto, minore del 10% dei pazienti che giungono in Ospedale (tasso impensabile fino a 15-20 anni fa). Rimane significativo invece il tasso di mortalità cardiovascolare dopo un anno, che in Emilia Romagna è superiore al 20%, un dato che pone l’accento sulla necessità di seguire e accompagnare i pazienti dopo l’intervento e le dimissioni dall’ospedale, appunto con programmi riabilitativi e preventivi. A conferma di ciò occorre sottolineare come sia consolidato il dato che la riabilitazione cardiologica, quando eseguita, riduce essa stessa del 27% la mortalità”.

A Modena i centri di riferimento per la Riabilitazione Cardiologia sono due: Villa Pineta e il NOCSAE di Baggiovara. Entrambe le strutture gestiscono, con cure di medio-lungo termine, il paziente cardiopatico sia nella fase post-acuta delle malattie cardiovascolari sia di quelle croniche. L’obiettivo è quello di stabilizzarlo e permettergli di recuperare la migliore qualità di vita possibile.

Durante il meeting che mette a confronto le esperienze di colleghi cardiologi e pneumologi con particolare esperienza nel campo della riabilitazione cardio-respiratoria, verrà sottolineata l’importanza di un percorso di diagnosi e cura che metta insieme le due figure professionali nel trattamento riabilitativo più completo ed efficace.

Dice a tal proposito il dott. Trianni, Primario di Pneumologia a Villa Pineta:

Partendo dai dati fisiopatologici ed epidemiologici presenti nella più recente letteratura scientifica di riferimento, secondo la quale la malattia cardiopolmonare è una sfida destinata a diventare sempre più rilevante per il sistema sanitario nazionale,  appare con sempre maggiore evidenza agli operatori sanitari e non, di quanto malattia cardiaca e malattia polmonare siano interconnesse. Per cui occorre progettare per il prossimo futuro a modelli riabilitativi, assistenziali e di cura condivisi tra tutti gli specialisti coinvolti nella patologia cardiorespiratoria per ottimizzare i risultati”. 

Per un cattolico come per un luterano

1967-03-26 Paolo VI celebra la Messa di Pasqua in Piazza San Pietro

Articolo pubblicato sull’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Mariano Dell’Omo

Ricorre in questi giorni il cinquantacinquesimo anniversario della proclamazione di san Benedetto abate a patrono principale dell’intera Europa, avvenuta con la lettera apostolica Pacis nuntius di Paolo VI che a Montecassino, il 24 ottobre 1964, nuovamente consacrando la restaurata basilica dell’Archicenobio benedettino dopo il bombardamento bellico del 1944, auspicava solennemente che, come Benedetto «un tempo con la luce della civiltà cristiana riuscì a fugare le tenebre e a irradiare il dono della pace, così ora presieda all’intera vita europea, e con la sua intercessione la sviluppi e l’incrementi sempre più». Fu la visione insieme riccamente storica e altamente profetica di Papa Montini che pose san Benedetto al centro del progetto europeo e lo additò come fattore di “civiltà cristiana”.

Prima di lui e con altrettanto spirito profetico lo aveva scritto Giorgio La Pira per un ambito più circoscritto, quello dei monasteri di clausura, convinto però che la preghiera sia forza motrice della storia, come affiora da questo messaggio epistolare del 1954: «Non bisogna aver paura di dirlo: la civiltà cristiana e la città cristiana sono essenzialmente civiltà monastica e città monastica; nel senso che, come nel monastero, anche in esse — in ultima analisi — tutti i valori hanno una orientazione unica e una unica finalità: Dio amato, contemplato, incessantemente lodato».

Mi ha colpito pertanto che in una lettera inedita del grande storico e medievista protestante Ferdinand Gregorovius scoperta nell’Archivio di Montecassino, e ben degna di essere citata in questa sede in coincidenza con i cinquantacinque anni del titolo di Benedetto patrono primario della civiltà europea, emerga lo stesso sintagma “civiltà monastica”, che oggi ci è consueto ma che sulla penna di un luterano che scrive nel 1872 appare ben più singolare, nonostante la sua ammirazione per Roma e l’esperienza storica del monachesimo benedettino. Non a caso il suo più giovane collega protestante Adolf von Harnack, nel libro, del 1881, Das mönchtum, seine ideale und seine geschichte (Il monachesimo, i suoi ideali e la sua storia), mostrava ben altro orientamento nei confronti del monachesimo, che egli riteneva infatti originato da correnti ereticali, estremistiche e rigoristiche come l’encratismo e il montanismo. La sua visione negativa degli albori del fenomeno monastico fu tale da fargli ritenere che nessun libro avesse esercitato sull’Egitto, sull’Asia occidentale e sull’Europa un’influenza più degradante e di imbarbarimento, quindi contraria alla civiltà, di quella prodotta dalla Vita Antonii scritta da sant’Atanasio, oggi universalmente riconosciuta come un vero e proprio archetipo dell’agiografia monastica orientale e occidentale. Ma fu lo stesso von Harnack che diversi anni dopo, nel 1903, incontrando a Roma l’abate Ambrogio Amelli, monaco di Montecassino, chiaro studioso di patristica e letteratura cristiana oltre che musicologo, gli chiese, come lo stesso Amelli rivelò in una sua conferenza del 1905: «“Che cosa si fa lassù a Monte Cassino?”. Al che, senza esitare, l’abate rispose: “Quello che si fa da quattordici secoli: si prega e si lavora”. Ora et labora. “Benissimo”, soggiunse il mio interlocutore con un fine sorriso di compiacenza — continua l’abate Amelli — “ma ciò non fanno i soli benedettini, non è vero? Tuttavia a Berlino si lavora molto, ma poco si prega”».

Evidentemente anche per l’ormai maturo storico del cristianesimo la visione del mondo tipica del monachesimo benedettino (con il suo equilibrio tra deserto e comunione, preghiera e impegno nel mondo, ascesi e carità) esercitava il suo fascino. Quello stesso che si respira più pacatamente in Gregorovius, la cui amicizia con i monaci di Montecassino era già ben nota grazie ad alcune lettere superstiti, indirizzate dallo storico della città di Roma nel medioevo a Luigi Tosti in particolare, e pubblicate da Tommaso Leccisotti nel 1967.

Quella che ho recentemente rinvenuto ha invece come destinatario il neo-abate di Montecassino, Nicola d’Orgemont, nominato solo alcuni mesi prima, il 24 dicembre 1871, e che avrebbe continuato il suo ufficio fino al 1896, anno della morte. Nel 1859 in una lettera al Tosti datata a Roma il 25 ottobre, Gregorovius scriveva: «Mi creda, chiarissimo Don Luigi, che Monte Cassino splende nella mia memoria come fulgida stella».

Tredici anni dopo, mentre raccomanda due signore di Lipsia che stavano per recarsi a Montecassino, quel luogo resta intatto, nella memoria dello storico protestante, come «l’illustre abbazia, la quale una volta il centro era della civiltà monastica e il faro luminoso delle scienze».

L’ideale benedettino può parlare con la stessa eloquenza a un cattolico come a un luterano, perché fondato su quella Regula monasteriorum che Bossuet nel suo Discorso in lode di san Benedetto definì «un compendio del cristianesimo, una saggia e misteriosa sintesi di tutta la dottrina del Vangelo».

Spudoratamente sincero

Quando si faceva buio in sala lui si piazzava al centro del palcoscenico su una semplice sedia e cominciava a parlare, rivolgendosi al pubblico, con quella voce roca, inconfondibile: ed era un piacere ascoltarlo, una magia che incantava, coinvolgeva e durava anche oltre il copione. Nella sua carriera aveva portato in scena oltre 240 rappresentazioni diverse ma…”..ogni volta che entriamo in scena è una ‘prima’, deve essere così. Anche perché il pubblico non è sempre quello e ha diverse maniere di esserci e di sentire”.

Aveva iniziato per caso, a 10 anni sostituendo una bambina che interpretava Cosette dei Miserabili, ed era andato avanti tutta la vita, fino a 85 anni: suo grande maestro il Ferravilla che aveva inventato il personaggio che lo rese celebre, il Tecoppa. “I miei genitori erano guitti”: gente di teatro itinerante, e lui aveva calcato i palcoscenici prima del Manzoni di Milano, lanciato da Biraghi fino ad arrivare a Strelher e a Fellini, al teatro dialettale , a quello nazionale, al cinema, alla Tv. Piero Mazzarella è ancora oggi considerato uno dei più grandi attori teatrali che l’Italia abbia avuto, anche se si perfezionò nel teatro dialettale: a Milano e in Lombardia fu sempre considerato un mito insuperabile.

Lo stesso Silvio Berlusconi pare lo considerasse il suo attore preferito. Ma i suoi orizzonti erano distesi, come la sua intelligenza e la sua ineguagliabile capacità di calarsi nella parte. “Io ero molto amico di Federico Fellini e quando recitai con sua moglie – Giulietta Masina – in ‘Eleonora’ con la regia di Silverio Blasi, lui le telefonava dicendole ‘stai vicina a Piero, stai vicina a Piero….’, perché l’amava molto e voleva proteggerla sempre”. Per non lasciare la compagnia che non avrebbe lavorato senza di lui, rinunciò a due parti in ‘Amarcord’ e ‘La voce della luna’, nonostante l’insistenza del grande regista e di Franco Cristaldi. Nella sua lunga carriera aveva vinto “tutti i premi che si potevano vincere”, mi parlò soprattutto del riconoscimento internazionale Luigi Illica, il più prestigioso: “Le dico gli altri quattro che l’hanno vinto oltre a me: Eduardo De Filippo, Salvo Randone, Tino Buazzelli ed Enrico Maria Salerno”.

Il salotto di casa sua era un tripudio di coppe, targhe, diplomi ma lui non fu mai capace- per sua stessa ammissione – di ricavare da quella carriera prestigiosa un vantaggio economico che gli permettesse una vita agiata. “Se fossi stato meno sincero sarei più ricco, invece credo di essere uno degli attori più poveri d’Europa perché non sono mai sceso a compromessi con i potenti”.
“Io alla politica ho sempre detto ‘no, grazie’ e morirò come Cirano, dicendo ‘no, grazie’, sotto una pianta con il naso verso la morte che arriva, come Tecoppa, del resto….”
Quando mancò, il 25 ottobre 2013, aveva ricevuto lo sfratto dalla casa di Segrate ed era in attesa di risposta per usufruire della legge Bacchelli, prevista per gli artisti in condizioni economiche disagiate. Lavorò con colleghi famosi della sua epoca: Gastone Moschin, Giulia Lazzarini, Alberto Sordi, Tino Carraro, Raf Vallone, Gianni Agus, Lino Banfi, Renato Pozzetto, per citarne alcuni. Ma quando – rivolgendomi a lui – lo chiamavo Maestro e poi artista, lui si scherniva: “Vede, più che artisti noi siamo attori. L’artista è uno che prende un pezzo di marmo e uno scalpello e fa il Mosè.

Purtroppo noi attori abbiamo la mania di farci chiamare artisti ma non è vero, non una è questione di umiltà: io sono un popolano e quindi sono orgoglioso e superbo come tutti i popolani, però artista è troppo”. Aveva una visione personale, umile e intimista del suo mestiere, come i veri grandi attori che calcano il palcoscenico. Fui conquistato dalla sua bontà, dalla disponibilità ad aprire il suo cuore ciò che mi dimostrò, ancora una volta (se necessario) che i veri “grandi” sono persone semplici. “Il teatro è un ammalato che ha bisogno continuamente di linfa e questa linfa è la saggezza popolare. Delio Tessa, uno dei più grandi poeti del 900 diceva: ‘Riconosco un solo maestro: il popolo che parla”.

E nessuno come Lui seppe interpretare gli umori popolari, se ne sentiva parte.
Il nostro rapporto di conoscenza fu breve ma intenso: mi sorprendeva spesso con le sue telefonate, informandosi sempre (prima lui di me) della mia salute.
Mi aveva chiesto negli ultimi tempi di scrivere un libro sulla sua vita: era consapevole del fatto che per un uomo di teatro la gente si ricorda di te fino a quando ti vede in scena, voleva lasciare un ricordo al suo “popolo”.

Gli avevo proposto un titolo, che gli era piaciuto perché lo trovava specchio del suo carattere: “Spudoratamente sincero”. Lo iniziai ma mi restano solo poche pagine, non feci in tempo a scriverlo: se ne andò in punta di piedi senza poterci salutare. Ma voglio che resti un ricordo speciale di Lui, ciò che mi rispose quando gli chiesi di lasciare tre insegnamenti ai giovani: “Se dovessi parlare ai giovani direi loro: prima di tutto viene l’onore, poi la rettitudine che vuol dire saper raccontare a se stesso prima di addormentarsi, alla sera, quello che si è combinato durante il giorno potendo dire’ dormi tranquillo perché non hai fatto nulla di cui ti devi vergognare’: pregare vuol dire questo, saper fare l’esame di coscienza. E insieme a tutto questo l’onestà”.

‘Borgo dei borghi d’Italia’, vince Bobbio

“Le carte vincenti sono la nostra storia e la nostra cultura – prosegue – ma anche l’essere inseriti in un contesto, la Valtrebbia, che Hemingway ha definito la vallata più bella del mondo. Abbiamo un meraviglioso fiume balneabile, una natura selvaggia sui nostri monti e richiami storico artistici unici in paese”,spiega il sindaco di Bobbio (PC) Roberto Pasquali

La bellissima località emiliana sorge sul fiume Trebbia a 272 metri di altezza. Risente delle influenze delle regioni con cui confina e di cui in passato ha fatto parte (Liguria, Lombardia e Piemonte). Sulle colline circostanti si coltivano il nebbiolo e il dolcetto, i piatti tipici sono di “fusione” con quelli della vicina Liguria. Il paese conta poco più di 3500 abitanti, che si triplicano nella stagione estiva quando la vallata si popola di turisti.

La storia di Bobbio si identifica soprattutto con quella del monaco missionario irlandese Colombano che vi è morto nel 615 e con il Monastero di San Colombano, da lui fondato nel 614, monumentale aggregazione di edifici tra i quali svetta la facciata della basilica affiancata dall’elegante porticato dell’abbazia, dove hanno sede il museo e il celebre scriptorium.

L’altro simbolo del borgo è il famoso ponte Vecchio, detto anche Gobbo o del Diavolo (per il particolare profilo ondulato e contorto). Un ponte di età romanica con rifacimenti successivi e sovrastrutture barocche, lungo 280 metri con undici arcate diseguali tra loro.

Bobbio è anche il paese natale del regista Marco Bellocchio, che qui da anni in estate organizza il suo Festival del Cinema. “Bellocchio è un altro fiore all’occhiello del nostro paese – conferma Pasquali – e il suo festival a contribuito in modo determinante a fare da traino per il turismo. Ma grandi meriti vanno anche ai nostri commercianti, che mantengono alta la bandiera della tradizione e della tipicità con i loro negozi”

Bologna: al via la mostra “Berlin, Brandenburger Tor 1989”

Giovedì 31 ottobre 2019 alle 18.00 inaugura presso gli spazi dello Studio Cenacchi nel cuore di Bologna, la mostra “Berlin, Brandenburger Tor 1989” con 40 fotografie inedite di Massimo Golfieri. L’esposizione, a cura di Jacopo Cenacchi, proseguirà fino al 28 novembre 2019.

A trent’anni esatti dalla caduta del muro di Berlino, le immagini di Massimo Golfieri, fotografo imolese, vengono mostrate per la prima volta al pubblico: un vero e proprio viaggio nel tempo che vuole ripercorrere uno dei momenti storici più importanti del XX secolo. La caduta del muro di Berlino ha decretato la fine di un’epoca, aprendo la strada alla speranza di un futuro di pace e di solidarietà. Il muro, Antifaschistischer Schutzwall (Barriera di protezione antifascista), sancì la divisione, non solo della città tedesca e dell’intera Germania, ma anche di tutto un continente e del mondo tra opposte ideologie. Fu il simbolo della cortina di ferro, linea di confine europea tra le zone controllate da Francia, Regno Unito e U.S.A. e quella sovietica, durante la guerra fredda. Il muro ha diviso in due Berlino e l’Europa per ben 28 anni, dal 13 agosto del 1961 fino al 9 novembre 1989, giorno in cui il governo tedesco-orientale si vide costretto a decretare la riapertura delle frontiere con la repubblica federale. Da Est e da Ovest i berlinesi accorsero in massa verso il muro, euforici, eccitati e increduli, piangendo, urlando di gioia, abbracciandosi e baciandosi. La caduta del muro è uno degli eventi simbolo del XX secolo, che ha segnato per sempre la storia dell’umanità.

Massimo Golfieri ha immortalato l’atmosfera fatta di speranza e fermento che si viveva a Berlino Est e Ovest in quei giorni di novembre e dicembre. Il risultato è un documento importante e suggestivo dal punto di vista storico e artistico. Come afferma il Prof. Franco Minganti, nelle immagini di Golfieri viene ritratta la realtà di quei momenti in prossimità del muro come, ad esempio, la gente nel Mercatino dei Polacchi a Potsdamer Platz o le persone colte di sfuggita dal treno sui marciapiedi delle stazioni dell’Est. Nei volti dei berlinesi, immortalati nel reportage di Golfieri, si leggono emozioni contrastanti e poco rappresentate dall’immaginario collettivo: i sentimenti di gioia e speranza sono accompagnati da timore e paura verso un futuro incerto. Dopo la caduta del muro quale sarebbe stato il destino del popolo tedesco? Come sarà il domani? Quali sarebbero state le conseguenze economiche e sociali portate dall’implosione del regime comunista? Tutti questi interrogativi vissuti in quelle giornate del 1989 vengono sapientemente documentati da Golfieri che racconta, in un percorso narrativo complesso e completo, la felicità e l’inquietudine di un mondo diviso che si ricongiunge.

 

Campus Biomedico, nuovo strumento per combattere i tumori col calore

Il macchinario è stato testato con effetti benefici su numerosi tumori che colpiscono ampie fasce della popolazione come sarcomi, prostata, pancreas, ma anche tumori della testa e del collo, della mammella e della pelvi.

Il Polo di radioterapia oncologica di via Emilio Longoni è una struttura completamente convenzionata con il Servizio sanitario nazionale e garantisce oltre 90mila prestazioni annue con servizi destinati a un bacino di utenza delle regioni del Centro-sud Italia, oltre a Roma e al Lazio.

Il sistema di ipertermia profonda, primo macchinario di questo tipo attivo in Italia, rappresenta il fiore all’occhiello del Polo. L’ipertermia profonda si utilizza a qualunque stadio della malattia e su pazienti di tutte le età.

Ogni seduta dura circa un’ora e si esegue in convenzione con il Servizio sanitario nazionale.

Il default di mafia capitale spinge alla prova una nuova élite democratica

la Cassazione ha messo una pietra tombale sul “teorema Pignatone”, negando l’esistenza di un metodo mafioso nel tipo di presenza e organizzazione della criminalità romana facente capo a Buzzi e Carminati. Da ciò si evince che il danno d’immagine recato alla capitale in questi anni è davvero incalcolabile. Fiumi d’inchiostro e inchieste televisive e letteratura civile, in un profluvio di odio e amore verso la Città Eterna, sebbene in questo caso, a dire il vero, abbia agito molto più l’odio che l’amore, hanno decretato arbitrariamente l’ennesima certificazione storica della immoralità di Roma. Molti giudici pretenziosi, con i loro manuali di retorica sul degrado della città, si sono impancati a nuovi Lutero contro la sempre “nuova Babilonia”. Non solo le istituzioni e la politica hanno subito un attacco micidiale, ma anche la struttura civica romana è stata ricoperta dal sospetto, se non dall’insulto rivestito di arroganza.

È colpa di Pignatone, dunque, lo scatenamento della canea antiromana? Assolutamente no. Al Capo della Procura, oggi in servizio presso il Vaticano, va il merito di un’indagine coraggiosa e scrupolosa. I reati contestati, al di là del 416 bis, hanno trovato riscontro nelle sentenze emesse in primo grado e poi, con forti riduzioni di pene, in appello. C’era il marcio nei gangli della vita amministrativa e l’azione della magistratura ha permesso di svelarne tutta la pericolosa consistenza. Chi ha sbagliato, uscendo con le ossa rotte da una vicenda tanto clamorosa, è stato piuttosto il “partito della moralità”; sfruttando l’occasione, con grande spregiudicatezza, gli esponenti di tale anomalo partito, per sua natura trasversale, hanno cercato di redigere a tavolino la mappa dei buoni e dei cattivi. Sulla moralità si è edificata la proposta di un ceto politico avventizio, con i risultati che oggi risplendono sotto gli occhi della pubblica opinione.

Giuseppe De Rita, il fondatore del Censis, ha rilevato che il discorso sulla rinascita di Roma, oggi evidentemente circonfuso di luce ancor più forte, esige una risposta all’interrogativo principale: chi può assolvere a questa funzione di riscatto? Chi è il soggetto collettivo di un’impresa così ardua, quasi prossima alla fatica improduttiva del vaniloquio, eppure al tempo stesso così corposamente necessaria? Il sociologo ci ricorda, in sostanza, quanto vacua e sfuggente sia la nozione di classe dirigente nello specifico contesto romano. Del resto la fragilità della borghesia romana – l’antico generone degli arricchiti in competizione con l’aristocrazia quirita – è metafora di un’Italia invertebrata, senza dubbio immeserita dal tracollo dei grandi partiti di massa e preda di sconci intrighi di poteri sovranazionali. Uscire da un declassamento che soverchia qualsiasi downgrading alla  Moody’s, dal momento che attiene al discorso sulla tenuta spirituale e politica del Paese, non sarà facile. 

Mafia capitale è stata la riprova di quanto possa incidere il fremito incontrollato del moralismo, parente stretto e finanche gemello di ogni populismo. Da oggi Roma torna a soffrire delle stesse pene e degli stessi problemi che l’accusa di mafiosità aveva accartocciato in una indistinta e gravosa espressione di condanna. S’affaccia tuttavia la speranza che la lezione sottostante al caso giudiziario abbia come effetto di rinculo un soprassalto di consapevolezza critica, anche in rapporto alla rumorosa evanescenza di partiti senza identità e senza progetto, dando alla città la forza di riprendere a pensare il suo futuro. Per questo, mettendo da parte gli indugi, bisogna fare in modo che l’energia di una nuova élite democratica funga da motore di una politica ricostruttiva, tanto per la capitale quanto per la nazione, con lo slancio generoso di cui si avvale l’autentica passione per il bene della propria comunità.  

 

Le diverse diaspore

Sembrava che in Friuli Venezia Giulia solo Ettore Rosato avesse aderito a Italia Viva, il nome del nuovo soggetto politico varato da Matteo Renzi, invece così non è.

A testimoniarlo c’è la Leopolda del fine settimana precedente. Rosato si è presentato nella sua veste di coordinatore nazionale. In prima fila gli è stato riservato il posto principesco. Sul palco ha registrato, di fronte al suo pubblico, la mansione che gli è stata affidata.

Nell’oscurità della platea c’era sicuramente l’ex Segretaria regionale del Pd Antonella Grim. Poi un pienissimo vuoto di rappresentanti regionali.

Da fonti ufficiali sembrerebbe che dal Pd spicchi il volo verso Italia Viva qualche Consigliere regionale piddino. Bocche cucite. Nessuno dice nulla, qualche smentita di una settimana fa. Ma insistenti sono le voci e gli scritti, che potrei sempre, a chi volesse, far giungere, che dichiarano un passaggio da una casacca all’altra dalle fila del Pd alla nuova formazione.

Danno per scontato che questo avverrà. Corro con gli occhi su ognuno dei Consiglieri regionali e cerco di farmi vincere dall’intuizione per capire chi mai sia o chi mai siano.

L’articolo, fonte renziana, non precisa se si tratti di una singola unità o se invece si giunga persino alla pluralità. A certificare la falsità di una simile trovata, potrebbe essere una dichiarazione sottoscritta da tutti i Consiglieri che smentirebbe queste oscure intenzioni.

Alla Leopolda, va riconosciuto non c’è stato alcun Consigliere regionale del Pd del Fvg. Basta questo segnale? Eh no, non basta proprio. Le strategie di Renzi le conosciamo: erodere lentamente con scientifica determinazione la cassaforte in mano a Nicola Zingaretti.

Infine, una nota di colore. Un corregionale si è alla fine rivelato un discepolo del pensiero renziano. Lo ha dichiarato, lo abbiamo visto e almeno questo, non ha palesato tentennamenti di sorta.

Si tratta del compagno Alessandro Maran. Pare che le cooperative del Fvg, cooperative rosse, ovviamente, lo abbiano promosso tra i quadri dirigenti del pensiero Marxista.

Ditemi voi chi mai sia ubriaco, perché non riesco più a capire il senso che giustifica comportamenti tra loro in così netta distonia. Sono i compagni delle cooperative che non sanno la marca di centro che caratterizza l’orientamento di Maran o è quest’ultimo che non sa mettere pace a se stesso: nel Fvg con la casacca rossa, a Firenze con lo sfrontato liberismo in capo all’uomo di Rignano?

Ditemi voi se questa confusione può essere utile al nostro Paese. Va bene qualche contraddizione ma qui siamo proprio a degli spropositi letterari, a qualcosa di fumoso, di indigesto anche per chi, nel tempo, ne ha viste tante.

La goliardia e la Dc.

Ormai è un fatto quasi scientifico. Quando si evoca oggi la Dc, dopo anni e lustri di criminalizzazione politica, giornalistica, culturale, editoriale e televisiva, di norma c’è una lettura caricaturale, goliardica se non addirittura carnevalesca di quella storica esperienza politica. Tutti si sentono simpaticamente democristiani, quasi tutti apprezzano lo stile e la prassi dei vecchi democristiani, molti ne esaltano la qualità e addirittura le virtù di quella classe dirigente. Fatto questo tributo, però, se appena qualcuno ne accenna maldestramente ad una riproposizione nell’attuale contesto politico italiano, seppur in forma aggiornata e rivista, arrivano con una prontezza immediata i siluri contro una simile esperienza e un progetto politico neo o post democristiano. 

Insomma, la Dc va benissimo, anzi addirittura e’ oggetto di celebrazioni e di ricercata convegnistica ai massimi livelli. Più si celebra e si commemora e meglio è. Come ha dimostrato l’ultima piroetta politica del nostro Presidente del Consiglio ad Avellino. Ad una condizione, pero’: che il tutto rimanga nell’alveo della caricatura, dello scherzo, della nostalgia comica e del divertimento nei salotti televisivi e dei commenti giornalistici. Cosi c’è la possibilità di invitare il Cirino Pomicino di turno accompagnato dall’indimenticabile inno del Biancofiore e fare allegramente quattro battute e due risate su quel partito che tutti carnevalescamente rimpiangono ma che quasi tutti politicamente respingono e ripudiano. 

Ora, e’ abbastanza semplice arrivare ad una persin banale conclusione. E cioè, i cultori e i critici più spietati della esperienza della Democrazia Cristiana e della presenza politica organizzata dei cattolici democratici e popolari non sono affatto spartiti ne’, tantomeno, hanno cambiato opinione. Semplicemente hanno trasformato la loro critica politica spietata e senza appello in una sorta di simpatica e gioviale rilegittimazione caricaturale e nostalgica. Atteggiamenti, entrambi, che sono comunque accomunati da un filo rosso: e cioè, quell’esperienza politica, culturale, di governo non potrà essere portata ad esempio e come modello per guidare un grande paese come il nostro. E’ il vecchio vizio illuministico e giacobino della cultura dominante della politica italiana che storicamente individua nei cattolici una riserva importante per la società ma non abilitata a governare un paese come il nostro. 

Se Singapore si compra il porto di Genova

Come riportato recentemente dal Corriere della Sera il Governo di Singapore fa le cose sul serio in quanto a politica espansiva nella gestione dei sistemi portuali italiani. Nella fattispecie e sottolinea il Corriere senza che il Governo italiano, in primis Palazzo Chigi,  abbia sollevato una questione di “golden share” (cioè di controllo degli investimenti stranieri su asset strategici per il nostro Paese) –  la fusione di PSA Genova Pra’ (con sede e direzione generale a Singapore) e SECH con sede a Genova ha creato in quel di Genova un colosso in grado di contendere il mercato del trasporto via mare e delle strategie portuali a MSC e alla cinese COSCO. Mentre PSA è già un colosso mondiale  al suo confronto SECH è realtà piccola e locale: l’operazione consiste quindi nell’inglobare SECH in PSA. 

Tradotto in soldoni ciò significa che il gigante PSA avrà la quota azionaria di maggioranza per la governance dei due terminal containers del Porto di Genova, il SECH (terminal contenitori di Genova spa che gestisce la Calata Sanità) e il PSA di Pra’, ormai diventato il più importante terminal import-export italiano.

Si aggiunga l’alleanza cinese con la Maersk (il primo gruppo armatoriale  per il trasporto dei container al mondo) nel porto di Savona mentre nel mirino finisce anche La Spezia dove c’è il terminal di Contship con MSC.

Se due più due fa sempre quattro, sia da noi che al Sol Levante, l’obiettivo di espansione riguarda tutto l’indotto portuale del Tirreno settentrionale.

Sarebbe interessante conoscere la posizione del Governo,  nella fattispecie del Ministero delle Infrastrutture e di quello dello Sviluppo Economico e delle Attività Produttive su questi passaggi di mano di azionariato che creano nuove concentrazioni, danno la stura a nuove strategie e disegnano scenari inconsapevoli per i cittadini italiani che – abitando da quelle parti –  si interrogano a ragione sul destino della futura configurazione urbanistica fronte-mare , anzi fronte porto.

Come se quella attuale, sul piano della sostenibilità ecologica e della qualità della vita non fosse già abbastanza compromessa. Qualcuno rivendica: «padroni a casa nostra». 

Ma questi scenari futuri incommensurabili sono forse dettagli che non ci riguardano? 

Eppure chi vive in quei contesti territoriali avverte un senso di declino inarrestabile: basta osservare lo sfascio ecologico che ha cambiato i connotati all’estremo ponente cittadino di Genova, di fronte al quale è andato edificandosi e ampliandosi una sorta di ecomostro che mette a dura prova la vita e la resistenza psicofisica di chi vive di fronte al porto di Genova Pra’.

Chi è nato in riva a quel mare ha visto a poco a poco deteriorarsi l’ambiente in cui ha vissuto fino ai primi anni 90. Nel 1992 l’iniziale terminal si è progressivamente ampliato ed è stato inglobato nel PSA nel 1998: il porto di Genova Pra’ è diventato una struttura portuale che ha cambiando i connotati ambientali, degradato il contesto, condizionato la sostenibilità e l’armonia dell’insieme. Se uno fosse stato lontano da quel posto negli ultimi 30 anni e ora tornasse dovrebbe chiedere: “Dove siamo qui?”. “Questo” porto è diventato l’icona mondiale dello stravolgimento ambientale: ora davanti alle case il mare non si vede più, solo uno sterminato ammasso di container, con relativi rumori assordanti, polveri, inquinamento della terra e del mare. Dato che il precedente Governo per iniziativa del Ministro dello Sviluppo Economico aveva sottoscritto  un “memorandum” d’intesa” con la Cina che – al punto 29 – prevedeva che “China communications construction company” avrebbe dovuto stipulare un accordo con le Autorità Portuali di Sistema del Mar Ligure Occidentale (Genova, Pra’, Savona e Vado Ligure) e del Mare Adriatico Orientale (Trieste e Monfalcone) per rendere questi porti “i terminali in Europa della via della seta”, sarebbe interessante fare il punto della situazione. Di carne al fuoco ce n’è molta e andrebbe spiegato alla gente quale futuro si ipotizza, tra fusioni, espansioni, destinazioni territoriali irreversibili.

Un fermo immagine sul PSA di GenovaPra’  può solo far supporre cosa ancora potrà accadere per quella fascia di litorale ridotta ormai a una enorme piattaforma di carico-scarico di container provenienti da tutte le parti del mondo.

Questo porto, non voluto certo dagli abitanti del ponente cittadino fu deciso altrove.

Ma le strategie espansive di Singapore e gli accordi stipulati sotto l’egida della “via della seta” potrebbero creare una situazione in cui vantaggi sarebbero tangibili a Oriente mentre in loco rimarrebbero solo le conseguenze negative di uno stravolgimento ambientale dai connotati imprevedibili.

Il buco dell’ozono è ai minimi storici dal 1982

Sull’Antartide il buco dell’ozono ha raggiunto l’estensione minima dall’epoca della sua scoperta, nel 1982. E’ quanto emerge dai dati di Nasa e Noaa, l’ente americano per le ricerche su atmosfera e oceani: l’area è ora 10 milioni di chilometri quadrati, rispetto ai 16 milioni misurati l’8 settembre.

Le temperature più alte, degli ultimi anni, hanno ridotto  le reazioni fra ozono e i composti che lo distruggono, cioè cloro e bromo. Secondo gli scienziati, è la terza volta in 40 anni che i sistemi meteorologici causano temperature così calde a limitare l’esaurimento dell’ozono.

Nella fascia dove si trova l’ozono, a 19 chilometri sopra la superficie terrestre, a settembre le temperature erano 29 gradi più alte della media.

Il buco dell’ozono si forma sull’Antartide alla fine dell’inverno australe quando si innescano le reazioni che distruggono la molecola e che coinvolgono sostanze come cloro e bromo. Nel 1988, il protocollo di Montreal ha ridotto consumo e produzione di questi composti, ma secondo gli esperti solo nel 2070 l’ozono sull’Antartide potrebbe ritornare al livello del 1980.

Elezioni Bolivia: Il Consiglio episcopale, “cogliamo indizi di frode”.

Un comunicato emesso  dal Consiglio permanente della Conferenza episcopale boliviana (Ceb),  osserva che: “Una volta che il popolo boliviano ha espresso la sua volontà nelle elezioni generali di domenica 20 ottobre, il Consiglio episcopale permanente della Conferenza episcopale boliviana esorta le autorità del Tribunale supremo elettorale plurinazionale a compiere il proprio dovere di arbitro imparziale del processo elettorale”.

I vescovi affermano di cogliere “ indizi di frode nei dati trasmessi”.

“Non vi è alcuna coincidenza con il conteggio rapido realizzato dall’impresa Vía Ciencia, insieme alla sospettosa interruzione del conteggio dei voti nella notte post elettorale e alle denunce e immagini relative a fatti che si collocano al margine del rispetto della legalità”.

I vescovi affermano di “condividere la forte preoccupazione e sorpresa” dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa) e invitano gli osservatori internazionali a “compiere la loro missione di vigilare sulla trasparenza del processo elettorale”.

Prosegue la nota: “Pretendiamo, in nome del popolo boliviano, di conoscere in modo totalmente veritiero e trasparente il risultato delle elezioni”. In caso contrario la crisi di credibilità è destinata ad aggravarsi e il rischio è quello che si generino “mali peggiori”, come focolai di violenza “che già hanno iniziato a diffondersi”. La nota cita il caso dell’aggressione al rettore dell’Umsa, Waldo Albarracín.

E tutto questo nonostante le elezioni abbiano “confermato, una volta di più, la chiara vocazione democratica e il comportamento esemplare del nostro popolo”. Il Consiglio permanente della Ceb conclude rivolgendo “un appello alla pace e alla serenità, la stessa che sarà il frutto dell’adeguatezza con la quale le nostre autorità opereranno in questo momento”.

L’influenza arriva in anticipo

L’influenza di questa stagione autunnale 2019 sarà più aggressiva rispetto a quella degli anni passati. Il virus arriva dai Paesi dell’emisfero meridionale dove l’inverno è agli sgoccioli e minaccia complicanze anche per le persone sane.

Tra i sintomi dell’influenza i più diffusi sono: l’insorgenza brusca della febbre oltre i 38 gradi; la presenza di almeno un sintomo sistemico, ossia dolori muscolari e articolari; la presenza di un sintomo respiratorio, cioè tosse, naso che cola, congestione/secrezione nasale, mal di gola.

 

La responsabilità politica del cristiano. Dal male minore al bene possibile

Articolo pubblicato sulle pagine di http://www.libertaeguale.it

1-Le tre coordinate conciliari

Le coordinate con cui affrontare questo tema ci sono date da tre testi del Concilio Vaticano II che per un verso hanno recepito il portato positivo di esperienze storiche precedenti, principalmente le democrazie cristiane italiana, francese e tedesca, nonché la Presidenza Kennedy, e, per altro verso, hanno sollecitato sviluppi ulteriori, in larga parte sin qui non avvenuti, ma solo accennati.

La Dei Verbum, al paragrafo 8 B, un passo tanto caro all’abate camaldolese Benedetto Calati, ci ricorda che la comprensione della Rivelazione cresce e progredisce nella storia. Se così avviene per la Rivelazione tanto più dovrebbe valere per il cosiddetto diritto naturale, quella sorta di bozzolo di dottrine collegato alla Rivelazione sulla visione dell’uomo su cui poggiano spesso gli interventi legislativi proposti dalla Chiesa a tutti, a prescindere dalla condivisione della fede. Né la Rivelazione né il diritto naturale comunque inteso possono quindi essere descritti come un possesso statico e indiscusso di cui il singolo cristiano con responsabilità politica sarebbe mero esecutore con una sorta di mandato imperativo. Papa Francesco con Evangelli Gaudium si è inserito in quella apertura col richiamo al discernimento (n. 181), ma l’intuizione appare da sviluppare.

La Dignitatis Humanae, la dichiarazione sulla libertà religiosa, si riconcilia con tale diritto, dopo una lunga polemica non perché si arrenda a una forma di relativismo, ma perché relativizza il ruolo dello Stato: di fronte ad esso vale in questa materia così importante il principio liberale dell’ “immunità dalla coercizione” (paragrafi 1 e 2). Lo Stato si ritrae e accetta la propria funzione limitata: esso non ha il monopolio del bene comune. Si rifiutano quindi tutte le visioni statolatriche, sia quelle ateistiche sia quelle confessionalistiche.

La Gaudium et Spes al paragrafo 31 esprime una chiara opzione preferenziale per la democrazia il luogo della precedente indifferenza tra le varie forme di Stato: “ È poi da lodarsi il modo di agire di quelle nazioni nelle quali la maggioranza dei cittadini è fatta partecipe degli affari pubblici, in un’ autentica libertà. Si deve tuttavia tener conto delle condizioni concrete di ciascun popolo e della necessaria solidità dei pubblici poteri.” Questa opzione è del tutto coerente coi due aspetti precedenti. La democrazia verso cui ci si volge non è segnata da uno strapotere delle maggioranze, ma da un ruolo limitato dello Stato, è una democrazia liberale segnata da limiti interni (come il controllo di costituzionalità) ed esterni (le cooperazioni sovranazionali) ed è l’ambiente migliore per far crescere e progredire la comprensione della Rivelazione nel rispetto della dignità della persona.

Nel paradigma precedente, invece, ritenendo la comprensione della Rivelazione un dato statico e puntando quindi a uno Stato confessionale forte, in realtà l’indifferenza era più apparente che reale e si traduceva di fatto in una preferenza per Stati confessionali autoritari.

 

2-La premessa e il futuro delle coordinate conciliari: il ruolo bidirezionale dei cattolici in politica

Il cambiamento di paradigma che abbiamo descritto è stato appunto possibile perché la Chiesa non ha solo trasmesso ma ha anche appreso (come ammette esplicitamente Gaudium et Spes 41 quale condizione ontologica e non contingente del rapporto Chiesa-mondo) in particolare dalla negatività degli Stati autoritari confessionali e dalla positività delle democrazie liberali postbelliche.

L’apprendimento è in particolare avvenuto perché molti dei cattolici impegnati in politica non hanno solo portato in politica il loro vissuto personale e comunitario, ma hanno anche portato nella Chiesa la positività dell’apprendimento nelle assemblee elettive e nelle loro caratteristiche plurali. Valgano per tutte le puntuali ricostruzioni di padre Giuseppe Sale sul ruolo di De Gasperi nella sofferta accettazione dei principi di libertà religiosa e pluralismo da parte della Chiesa del tempo con forti livelli di tensione. E’ anche quello che ci ricorda lo storico Augusto D’Angelo sulle azioni di Moro nel far accettare il centrosinistra dei primi anni ’60 all’episcopato dell’epoca.

Questo ruolo non sembra essere stato esercitato in modo ugualmente coraggioso e fecondo in anni recenti, dove anzi si è corso costantemente un rischio di regressione, interrotto solo in alcuni momenti: in modo più forte e smitizzante sull’idea di possesso di una visione statica del diritto naturale con l’intervento dell’allora cardinale Ratzinger nel dialogo con Habermas e poi da papa nei due interventi al Bundestag e a Westminster.

Solo con l’attuale pontificato è stato fatto un passo in più, è stata di fatto abbandonata quella particolare declinazione dei cosiddetti “principi non negoziabili” che stabiliva tra di essi con la nota dottrinale del 2002 un’astorica graduatoria. E’ ovvio che ogni principio ha un’elasticità limitata di applicazione e che oltre una certa soglia l’elastico si spezza. Il punto è, però, che in ogni decisione vengono a incidere principi diversi e che la ricerca di soluzioni che li bilancino senza sacrificarli unilateralmente mal tollera rigide e astoriche gerarchie tra di essi.

Il superamento di fatto, al di là della nuova enfasi sul discernimento, non è ancora però chiara enunciazione di un modello diverso, più rispettoso delle coordinate conciliari e complessivamente coerente con esse.

 

3-Piste di futuro: depenalizzazioni, clausole di non punibilità e prevenzione, passaggio dal male minore al bene possibile

In particolare, in contrasto con la Dignitatis Humanae, sembra ancora prevalere l’idea di uno Stato forte in cui vari comportamenti ritenuti non conformi alla propria interpretazione del diritto naturale dovrebbero essere repressi con sanzioni, specie penali, quando invece il principio dell’immunità della coercizione dovrebbe consentire una maggiore autolimitazione che non significa chiamare bene il male, ma con la quale lo Stato, ammettendo la sua parzialità, rinuncia a punire, almeno in parte, fenomeni che possono essere prevenuti in altra forma.

Depenalizzazioni, clausole di non punibilità (che a differenza della precedente mantengono il reato ma chiariscono le condizioni in cui esso non è imputabile alla persona nel caso concreto), azioni preventive ed educative appaiono strumenti più efficaci e comunque per altra via comunque rispettosi di principi che non l’estensione massima del diritto penale. Come peraltro, prima del Concilio, segnalava in termini più filosofici Jacques Maritain ne “L’uomo e Lo Stato” e su cui, comunque la Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II proponeva qualche significativa apertura, specie al n. 71, affermando: “la pubblica autorità può talvolta rinunciare a reprimere quanto provocherebbe, se proibito, un danno più grave, essa non può mai accettare però di legittimare, come diritto dei singoli — anche se questi fossero la maggioranza dei componenti la società —, l’offesa inferta ad altre persone attraverso il misconoscimento di un loro diritto così fondamentale come quello alla vita.”

Anche le modalità concrete di come in una società pluralista e in uno Stato democratico in cui alle Corti costituzionali è demandata sulla base di principi scritti nelle Carte l’eventuale smentita delle maggioranze (e non alle prese di posizioni, per quanto autorevoli, del diritto naturale da parte di Chiese o altre realtà) si determina il cosiddetto male minore dovrebbero essere viste in un modo meno semplicistico di quello comunemente ammesso. In genere si ritiene, per poter ricorrere a tale criterio, come ancora continua a fare Evangelum Vitae al n. 73, che prima si debba concretamente determinare un male maggiore a cui solo in seguito sarebbe legittimo sottrarre una parte, come nello schema del referendum abrogativo.

Si fa invece ancora fatica a valorizzare lo scambio di idee, di punti di vista, il fatto che anche il raggiungimento di sintesi condivise, fatalmente distanti dai punti di partenza di ciascuno, costituisca anch’esso un principio e un valore. Bisognerebbe passare quindi dal concetto troppo restrittivo di male minore a quello più dinamico di bene possibile che valorizza invece maggiormente gli elementi di condivisione. Del resto Gaudium et Spes 43 ricorda che “ la Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dall’opposizione di quanti la avversano o la perseguitano”.

E’ forse questo il lavoro più urgente da fare.

Un gruppo di padri sinodali rinnova il “Patto delle catacombe”

Articolo pubblicato sulle pagine di https://www.vaticannews.va a firma di Amedeo Lomonaco e Silvonei Protz

La Chiesa rinnova, nello stesso luogo e con il medesimo spirito, il forte impegno sottoscritto il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II. È quello il giorno in cui quarantadue padri conciliari celebrano l’Eucaristia nelle Catacombe di Domitilla per chiedere a Dio la grazia di “essere fedeli allo spirito di Gesù” al servizio dei poveri. Viene firmato il documento “Patto per una Chiesa serva e povera”: l’impegno assunto è quello di mettere i poveri al centro del ministero pastorale. Al testo, denominato anche “Patto delle Catacombe”, hanno aderito oltre 500 padri conciliari.

Passi conciliari e nuovi cammini

Dopo 54 anni, l’eredità dei padri conciliari è stata raccolta da un gruppo di partecipanti al Sinodo dei Vescovi per la regione Panamazzonica incentrato sul tema: “Nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale”. È stato rinnovato lo spirito di quella giornata vissuta nel 1965 nelle Catacombe di Domitilla. Questa mattina il cardinale Claudio Hummes, relatore generale al Sinodo per l’Amazzonia, ha presieduto la Santa Messa nello stesso luogo, il più grande ed il più antico cimitero sotterraneo di Roma. E proprio nelle Catacombe di Domitilla, stabilendo un forte legame con il documento firmato nel 1965, è stato sottoscritto dal gruppo di padri sinodali e da diversi laici che hanno partecipato alla celebrazione un documento intitolato: “Patto delle catacombe per la casa comune. Per una Chiesa dal volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana”.

Cardinale Hummes : il Sinodo è un frutto conciliare

Nell’omelia, il cardinale Hummes ha ricordato che le Catacombe erano antichi cimiteri dove i cristiani seppellivano i loro martiri: “Questa – ha detto – è veramente terra santa”. Questo luogo, ha aggiunto, ci ricorda i primi tempi della Chiesa: tempi difficili, segnati da persecuzioni ma anche da molta fede. La Chiesa, ha sottolineato il cardinale Hummes, “deve sempre ritornare alle proprie radici che sono qui e a Gerusalemme”. Il Sinodo, ha poi affermato il porporato, è un frutto del Concilio Vaticano II. Si cercano nuove vie per svolgere la missione di proclamare la Parola. I grandi mali del mondo, ha poi sottolineato, sono dovuti al denaro che alimenta corruzione, conflitti, menzogne. La Chiesa, ha concluso il cardinale Hummes, deve essere sempre “orante”.

Il Patto delle catacombe per la casa comune

Nel documento firmato oggi, i partecipanti al Sinodo sull’Amazzonia ricordano che condividono la gioia di vivere in mezzo a numerose popolazioni indigene, ad abitanti delle rive dei fiumi, a migranti e a comunità delle periferie. Con loro, hanno sperimentato “la forza del Vangelo che opera nei più piccoli”. “L’incontro con questi popoli – si legge nel documento – ci interpella e ci invita ad una vita più semplice di condivisione e gratuità”. I firmatari del documento si impegnano a “rinnovare l’opzione preferenziale per i poveri”, ad abbandonare “ogni tipo di mentalità e di atteggiamento coloniale”, ad annunciare “la novità liberatrice del Vangelo di Gesù Cristo”.

Altri impegni indicati nel “Patto delle catacombe per la casa comune” sono quelli di “camminare ecumenicamente con altre comunità cristiane” e di “assumere davanti all’ondata del consumismo uno stile di vita gioiosamente sobrio”. I padri firmatari si impegnano anche a riconoscere “i ministeri ecclesiali già esistenti nelle comunità” e a cercare “nuovi percorsi di azione pastorale”. “Consapevoli delle nostre fragilità, della nostra povertà e piccolezza di fronte a sfide così grandi e gravi – si legge infine nel documento – ci affidiamo alla preghiera della Chiesa”.

Il Patto per una Chiesa serva e povera

La giornata odierna è dunque legata a quella del 16 novembre del 1965 e al “Patto delle catacombe”, che contiene un’esortazione rivolta ai “fratelli nell’episcopato” per condurre una “vita di povertà”, per essere una Chiesa “serva e povera”, conforme allo spirito proposto da Papa Giovanni XXIII. I firmatari si impegnano inoltre a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. L’impegno è anche quello di condividere, “nella carità pastorale”, la vita con i fratelli in Cristo perché il “ministero costituisca un vero servizio”. Due mesi prima della frima del “Patto per una Chiesa serva e povera”, Papa Paolo VI si era recato nelle Catacombe di Domitilla e aveva affermato: “Qui il cristianesimo affondò le sue radici nella povertà, nell’ostracismo dei poteri costituiti, nella sofferenza d’ingiuste e sanguinose persecuzioni; qui la Chiesa fu spoglia d’ogni umano potere, fu povera, fu umile, fu pia, fu oppressa, fu eroica. Qui il primato dello spirito, di cui ci parla il Vangelo, ebbe la sua oscura, quasi misteriosa, ma invitta affermazione, la sua testimonianza incomparabile, il suo martirio”.

Una Chiesa povera per i poveri

L’impegno assunto dai padri conciliari nel 1965 è stato anche uno dei primi auspici espressi da Papa Francesco subito dopo l’elezione al soglio di Pietro. È il 16 marzo del 2013: ricevendo i rappresentanti dei media, nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre afferma: “Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”. In una lettera inviata nel 2016 a don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, il Pontefice invoca un ritorno alle radici: “In un mondo lacerato dalla logica del profitto che produce nuove povertà e genera la cultura dello scarto, non desisto dall’invocare la grazia di una Chiesa povera e per i poveri. Non è un programma liberale, ma un programma radicale perché significa un ritorno alle radici. Il riandare alle origini non è ripiegamento sul passato ma è forza per un inizio coraggioso rivolto al domani. È la rivoluzione della tenerezza e dell’amore”.

Appunti su riforme, maggioranza e durata della legislatura

Articolo pubblicato sulle pagine di Mente Politica a firma di Luca Tentoni 

Il nuovo sistema elettorale dovrebbe essere sottoposto all’esame delle Camere dopo la legge di riforma costituzionale che potrebbe abolire la “base regionale” di elezione dei senatori e parificare l’elettorato attivo a quello per Montecitorio. Diversamente, l’unico modo per cercare di uniformare i meccanismi dei due rami del Parlamento consisterebbe nel disegnare collegi – per Camera e Senato – corrispondenti alle regioni, attribuendo (col d’Hondt, per esempio) tutti i seggi in loco, senza recupero proporzionale.

Ma, come sa chiunque abbia una minima conoscenza dei sistemi elettorali, se i deputati sono il doppio dei senatori (saranno 400 contro 200, dando per scontato il sì popolare al referendum) la dimensione della circoscrizione per Montecitorio è doppia: dunque si possono avere 10 deputati e 5 senatori in una regione, con soglie implicite d’accesso molto diverse; per avere un seggio alla Camera può essere sufficiente il 6-7%, ma il doppio per il Senato. Quindi non avremmo risultati omogenei. Palazzo Madama avrebbe quasi solo rappresentanti di grandi partiti, mentre Montecitorio ne avrebbe anche qualcuno dei piccoli. La revisione della “base regionale” e dell’età per eleggere il Senato è però una riforma che richiede tempo.

Intanto, possono nascere tentazioni, quale per esempio quella di attendere il referendum “taglia-seggi” e poi andare subito a nuove elezioni che falcidierebbero tutti i partiti tranne i tre maggiori (M5S, Pd, Lega) salvando forse (con penalizzazioni) FdI, FI, Italia viva. Si dirà che questo governo è nato proprio per evitare le elezioni, dunque il problema di attendere per fare le riforme costituzionali, regolamentari ed elettorali non si pone. Ma questa maggioranza può durare fino al 2021 o addirittura – come alcuni pensano – fino al 2022 (quando si eleggerà il successore di Mattarella)? Davvero pensiamo che due o tre anni, in politica – soprattutto ai nostri tempi – non siano un’eternità? Tre anni fa Renzi non aveva ancora perso il referendum; era a Palazzo Chigi sicuro di vincerlo. Quel che è accaduto subito dopo, senza contare il voto politico del 2018 e quello europeo del 2019, è storia nota. Inoltre c’è un problema: nell’era della politica senza progetti “lunghi” – rivolta soprattutto a mantenere o ad accrescere il consenso in vista delle successive elezioni sempre imminenti, regionali o politiche che siano – l’elettorato non sembra voler comprendere che lo Stato ha ormai a disposizione scarse o nulle risorse da distribuire (semmai ha il problema di riallocare quelle che già ci sono, creando però una platea di “vincitori” poco soddisfatti e di “vinti” furibondi).

Una legge di bilancio come quella che si sta discutendo, per esempio, non è “vendibile” mediaticamente perché è praticamente tutta fondata sulla sterilizzazione dell’aumento IVA, ma non regala sogni o illusioni. Forse, però, è questa l’assicurazione sulla vita della legislatura: si andrà a votare quando si potrà offrire agli elettori qualche consistente trasferimento di risorse (come fu per il reddito di cittadinanza e la promessa “flat tax”), altrimenti i “giallorosa” andranno incontro ad una sonora sconfitta (ammesso che superino le prove delle nove elezioni regionali da qui a fine primavera).

Qui l’articolo completo 

San Francesco sostituisce la bellezza riservata ai potenti con la bellezza degli ultimi

Articolo pubblicato sulle pagine di http://www.orbisphera.org

Per San Francesco il Signore “non è più un Dio guerriero, ma il Dio sofferente, il Dio che patisce e compatisce il dolore dell’essere umano, ferito dalla mortalità”.
Lo ha detto lunedì 21 ottobre monsignor Héctor Miguel Cabrejos Vidarte, arcivescovo di Trujillo, nel corso dell’omelia in apertura della 14.ma Congregazione generale del Sinodo speciale dei Vescovi per la Regione Panamazzonica.
L’Arcivescovo peruviano ha parlato del cammino spirituale di San Francesco, a cui il Papa ha affidato il Sinodo.
Il Santo di Assisi compone il suo Cantico delle Creature “dopo una notte trascorsa tra gli spasmi, provocati da un lato da un cancro alle ossa, che in pochi mesi lo porterà alla morte, dall’altro dalla sofferenza che gli hanno causato alcuni dei fratelli che Dio gli ha dato”.
È lì che nacque dal suo cuore la preghiera di lode: “Tu sei tenerezza, Tu sei bontà, Tu sei tutta la nostra gioia, Ammirevole, Altissimo Buon Signore…”.
Ha affermato il Prelato che in questo modo San Francesco “sostituisce la bellezza medievale, riservata solo ai potenti, con la bellezza degli ultimi, nel toccare e baciare il lebbroso”.
“Inebriato dall’incontro con il Dio della tenerezza – ha continuato mons. Cabrejos Vidarte – Francesco è pronto a lodare il Signore in ogni tempo”. Così “non ci sono nubi che possano oscurare la dignità della persona, prodigio di Dio; non ci sono nubi che offuschino il valore della vita, meraviglia di Dio; o nubi che minaccino il dono dei fratelli, che il perdono può far risplendere”.
“Sì, perché per Francesco – ha sottolineato l’Arcivescovo – la bellezza non è una questione di estetica, ma di amore, di fraternità a ogni costo, di grazia a ogni costo”.
Secondo mons. Cabrejos Vidarte, l’esperienza della totalità di Dio, della sua bontà in tutto, in tutte le cose, rappresenta per il Poverello “l’ampiezza e l’estensione della sua visione della realtà, che non può che includere tutto in Dio, e Dio in tutte le creature: in ogni opera loda il Creatore”.
“Tutto ciò che trova nelle creature – ha aggiunto – lo riferisce al Creatore. Esulta di gioia in tutte le opere uscite dalle mani del Signore e, attraverso questa visione gioiosa, intuisce la causa e la ragione che le vivifica”.
Ed ha concluso: “Nelle cose belle riconosce la Bellezza Somma, e da tutto ciò che per Francesco è buono sale il grido: Chi ci ha creati è infinitamente buono!”.

Il 25 ottobre la presentazione del Rapporto Italiani nel Mondo

Sarà presentato a Roma il prossimo 25 ottobre (ore 9,30, Auditorium “V. Bachelet” – The Church Palace, via Aurelia, 481) la XIV edizione del “Rapporto Italiani nel Mondo” della Fondazione Migrantes.
Il volume presenta anche quest’anno la realtà della mobilità italiana nel mondo con il contributo di circa 70 studiosi dall’Italia e dal mondo.

Si tratta dell’unico Rapporto interamente dedicato all’Italia e alla sua mobilità: dati quantitativi (socio-statistici) con focus regionali e provinciali si completano con informazioni qualitative che derivano da ricerche e indagini. Il tutto perfezionato da approfondimenti di particolare interesse.
Il Rapporto Italiani nel Mondo è uno strumento culturale, un ulteriore segno dell’impegno della Chiesa italiana per l’emigrazione.

Sono circa 400 i sacerdoti italiani al fianco dei nostri connazionali che vivono all’estero insieme alle religiose, ai religiosi e ai laici impegnati, perché evangelizzazione e promozione umana continuino a essere binomio inscindibile anche nell’operare per la mobilità italiana.

Un servizio che si fa concreto e di vicinanza in un particolare momento di crisi – nazionale ed europea – che coinvolge anche i nostri connazionali storicamente residenti all’estero o di recente trasferimento.

Una realtà che continua a crescere e che, annualmente, presenta caratteristiche diverse.

Economia: Istat, a fine 2018 rapporto debito/Pil al 134,8% (+0,7% sul 2017)

L’Istat pubblica i principali dati della Notifica sull’indebitamento netto e sul debito delle Amministrazioni Pubbliche (AP), riferiti al periodo 2015-2018, trasmessi alla Commissione Europea in applicazione del Protocollo sulla Procedura per i Disavanzi Eccessivi (PDE) annesso al Trattato di Maastricht. In base al Protocollo, i Paesi europei devono comunicare due volte all’anno (entro il 31 Marzo e il 30 Settembre) i livelli dell’indebitamento netto, del debito pubblico e di altre grandezze di finanza pubblica relative ai quattro anni precedenti, nonché le previsioni ufficiali degli stessi per l’anno in corso. Sulla Notifica trasmessa dall’Italia non sono state espresse riserve.

I dati relativi a indebitamento netto e debito delle AP costituiscono le principali grandezze di riferimento per le politiche di convergenza per l’Unione economica e monetaria (UEM) e sono stimati rispettivamente dall’Istat e dalla Banca d’Italia. Vengono inoltre forniti gli elementi di riconciliazione tra la variazione del debito delle AP e l’indebitamento netto e tra quest’ultimo e il fabbisogno del settore pubblico, calcolato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Tutti i dati, riferiti ai consuntivi per gli anni 2015-2018, sono sottoposti al processo di verifica condotto da Eurostat e coordinato, sul piano nazionale, dall’Istat. Non sono, invece, qui riportate le previsioni ufficiali per il 2019, elaborate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, le quali non sono inserite in tale processo.

I dati dell’indebitamento netto delle Amministrazioni Pubbliche per gli anni 2015-2018 sono elaborati in conformità alle regole fissate dal regolamento Ue n.549/2013 (Sistema Europeo dei Conti – Sec 2010) entrato in vigore il 1° settembre 2014 e dal Manuale sul disavanzo e sul debito pubblico edizione 2019; essi coincidono con quelli diffusi lo scorso 4 ottobre ( https://www.istat.it/it/archivio/233950 “Conto trimestrale delle Amministrazioni pubbliche, reddito e risparmio delle famiglie e profitti delle società”).

Nel 2018 l’indebitamento netto delle Amministrazioni Pubbliche (-38.551 milioni di euro) è stato pari al 2,2% del Pil, in diminuzione di circa 3,5 miliardi rispetto al 2017 (-42.047 milioni di euro, corrispondente al 2,4% del Pil). Il saldo primario (indebitamento netto al netto della spesa per interessi) è risultato positivo e pari all’1,5% del Pil, con una crescita di 0,2 punti percentuali rispetto al 2017. La spesa per interessi, che secondo le attuali regole di contabilizzazione non comprende l’impatto delle operazioni di swap, è stata pari al 3,7% del Pil, con una diminuzione di 0,1 punti percentuali rispetto al 2017.

I dati del debito delle Amministrazioni Pubbliche per gli anni 2015-2018 sono quelli pubblicati dalla Banca d’Italia e sono anch’essi coerenti con il nuovo Sistema Europeo dei Conti (Sec 2010). A fine 2018 il debito pubblico, misurato al lordo delle passività connesse con gli interventi di sostegno finanziario in favore di Stati Membri della UEM, era pari a 2.380.306 milioni di euro (134,8% del Pil). Rispetto al 2017 il rapporto tra il debito delle AP e il Pil è aumentato di 0,7 punti percentuali.

CNDDU: “E’ opportuno ricordare che la costituzione dell’Onu non era un fatto scontato”

Il Coordinamento Nazionale dei Docenti della Disciplina dei Diritti Umani in occasione della Giornata Internazionale delle Nazioni Unite che si celebra il 24 ottobre, intende ripercorrere i momenti più significativi della storia dell’Onu per fare una riflessione sull’organizzazione che oggi più assomiglia a un governo mondiale.

La Giornata delle Nazioni Unite è una ricorrenza internazionale che il 24 ottobre di ogni anno ricorda l’entrata in vigore dello Statuto delle Nazioni Unite (24 ottobre 1945). Quest’ultimo fu il documento fondante che seguì la nascita ufficiale dell’organizzazione. E’ opportuno ricordare che la costituzione dell’Onu non era un fatto scontato alla fine della Seconda guerra mondiale, perché dopo il naufragio della Società delle Nazioni, dovuto alle ambizioni e alle rivalità dei singoli Stati, bisognava davvero essere dotati di una massiccia dose di idealismo per credere che ripetere l’esperimento, fallito appena venticinque anni prima, avrebbe sortito risultati diversi. Ma tali risultati si raggiunsero certamente grazie al grande contributo di intellettuali, attivisti e politici animati da ideali autentici e dalla volontà di sanare le macerie umane dei sopravvissuti, usciti dalla Guerra con l’orrore ancora negli occhi per tutte le violenze subite o perpetrate negli anni della cancerosa parabola del Nazi-fascismo. Si trattava di un obiettivo nobilissimo, ma assai complesso.

Con la costituzione di un governo sovranazionale garante di Democrazia, Pace e Libertà, i paesi membri attraverso uno statuto che avrebbe trovato da lì a poco la sua urgente applicazione, condannavano con la virtù del Diritto tutto quello che la guerra, come un virus letale, aveva portato, a partire dal clima malato di razzismo nel periodo antecedente ad essa. E così, condannavano l’ingiustificabile violenza di massa, le esecuzioni sommarie, le rappresaglie, gli stupri. Perché se la guerra fu la morte in atto, la liberazione dal Nazi-fascismo fu anch’essa accompagnata da una inarrestabile sete di vendetta che non fece altro che aggiungere violenza, alla violenza appena consumata.
Bisognava rinascere. Bisognava risorgere. Le Nazioni Unite questo lo sapevano. E così Stati Uniti, Regno Unito, Russia e Cina, più altri 26 paesi, unirono le loro forze per impedire il ripetersi di una nuova guerra mondiale. Con il tempo, inoltre, i Paesi membri iniziarono ad allargare il campo delle loro competenze e concentrarono i loro sforzi per ostacolare le discriminazioni, per cancellare la povertà, per debellare malattie mortali come vaiolo e poliomielite. Secondo quanto disposto dallo Statuto, l’Onu avrebbe svolto quattro fondamentali funzioni: mantenere la Pace e la Sicurezza internazionale, sviluppare relazioni amichevoli fra le nazioni, cooperare nella risoluzione dei problemi e promuovere il rispetto per i Diritti Umani.

Sono passati ormai settantaquattro anni dalla creazione dell’Onu. E’ inevitabile guardarsi indietro, ripensare a ciò che è stato e fare bilanci. Possiamo quindi affermare con certezza che l’Onu nel campo dello sviluppo ha ottenuto grandi successi, perché è riuscito a bloccare ad esempio la diffusione di malattie importanti e a controllare la malnutrizione. I maggiori successi poi sono stati raggiunti nel campo della protezione perché il movimento dei Diritti Umani, di cui il CNDDU si fa portavoce nel nostro Paese, ha influenzato non solo i Governi, ma anche i popoli e gli individui. Le Nazioni Unite non sono riuscite, invece, anche attraverso le forze di pace, a impedire il radicalizzarsi di violentissimi scontri armati che molto spesso hanno portato alla morte di milioni di persone. Questo spinge quindi a cercare di capire come possa essere riformata l’organizzazione per renderla più efficiente e preparata a gestire i pericoli che può correre il mondo oggi. È innegabile, però, che senza l’Onu, la storia degli ultimi settant’anni avrebbe avuto sviluppi differenti.

Il CNDDU, alla vigilia di una giornata così importante perché rievoca la storia nazionale e internazionale dei paesi che fanno parte delle Nazioni Unite, intende riconoscere tutti gli sforzi fatti dall’Onu dal 1945 a oggi, per trasformare i pericoli, sempre imminenti per il mondo, in civile dibattito. E anche se non sempre le Nazioni Unite sono riuscite a garantire la Pace promessa ai popoli e agli uomini, nessuno può mettere in discussione il valore di questa straordinaria Torre di controllo senza la quale sarebbe stato difficile, per tutti, rialzarsi dopo gli Anni del Disastro.

Ma siamo davvero fuori dagli Anni del Disastro? Purtroppo la cronaca ci racconta lo strazio di popoli che ancora non trovano tregua alla loro sofferenza. Sono settimane ormai che il popolo curdo della Siria, il popolo senza Stato, viene bombardato incessantemente dalle forze dell’esercito turco, il quale non si ferma nemmeno davanti a edifici pubblici e strutture mediche. I raid aerei si scagliono con violenza su obiettivi civili, e stando alle informazioni dell’Osservatorio siriano per i Diritti Umani, non hanno rispettato la Tregua. Le prime vittime di questa folle guerra sono ovviamente bambini innocenti che hanno come unica colpa quella di essere nati dalla parte sbagliata del mondo! Il bilancio è pesantissimo: si parla di 60 mila sfollati. L’Onu nella persona del suo portavoce, Rupert Colville, parla di gravi violazioni internazionali che costituiscono crimini di guerra, per tali ragioni le Nazioni Unite stanno verificando le responsabilità della Turchia che potrebbe essere ritenuta responsabile del genocidio del popolo curdo. E mentre il leader turco minaccia l’ Unione europea di inondarla di profughi, le speranze del mondo civile, affinché il massacro del popolo curdo abbia fine, si raccolgono ancora una volta attorno all’Onu, che come sempre rappresenta l’ultimo baluardo di Pace.

Come sempre, alla vigilia di giornate così importanti, chiediamo ai docenti della scuola del nostro Paese di coinvolgere gli studenti in attività o lezioni che possano destare interesse e partecipazione e fornire nuovi stimoli per il recupero di una memoria collettiva che è fondamentale per la costruzione del presente. Umberto Eco, nella Lectio magistralis tenuta in inglese al palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, a New York nel 2013, invitava le nuove generazioni, da entrambi i lati dell’Oceano Atlantico, a non perdere la memoria storica. E noi siamo fermamente convinti che ripercorrere la storia delle Nazioni Unite è proteggere la memoria storica. Il 24 ottobre, non facciamoci trovare impreparati e non lasciamo impreparati i nostri studenti, anche se il cielo di Siria per ora non conosce ancora l’azzurro, raccontiamo loro che in tanti altri posti del mondo nel cielo è tornato l’azzurro, mostriamo loro lo splendido colore azzurro della bandiera dell’Onu e indichiamogli la mappa del mondo protetto da due rami d’ulivo. Poi raccontiamo ai nostri ragazzi una storia bella, la storia di popoli a lungo in contrasto, che si sono inferti le più profonde ferite, e che alla fine hanno scelto di camminare insieme, per costruire con impegno e fatica un mondo migliore.

Pianificare il rischio vulcanico

Si è conclusa l’esercitazione nazionale sul rischio vulcanico “Exe Flegrei 2019”, organizzata dal Dipartimento della Protezione civile e dalla struttura di Protezione civile della Regione Campania, in collaborazione con i Comuni della zona rossa intorno agli stessi Campi Flegrei. Un’iniziativa che ha visto la partecipazione della Prefettura di Napoli, delle Forze dell’Ordine, dei Vigili del fuoco, dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e del Consiglio nazionale delle ricerche. La simulazione dei passaggi di allerta da quella gialla alla rossa insieme alle rispettive fasi operative di preallarme ed emergenza, fino all’allontanamento assistito e all’evacuazione della popolazione hanno interessato la città di Napoli, Pozzuoli, Quarto, Bacoli, Monte di Procida, Marano di Napoli e Giugliano in Campania.

Oltre a sensibilizzare le comunità locali sul rischio vulcanico (sappiamo bene che l’Italia ospita la massima concentrazione di crateri attivi in Europa ed è uno dei primi Paesi al mondo per numero di abitanti esposti) la finalità dell’iniziativa si è concentrata essenzialmente sul test di pianificazione d’emergenza per l’area a rischio vulcanico, nonché al processo di valutazione d elle varie fasi operative dei livelli di allerta. Tra i diversi aspetti da verificare: l’attivazione del Centro coordinamento soccorsi e dei Centri operativi comunali, l’allestimento, come pure l’attivazione e l’organizzazione della Direzione comando e controllo nel comune di San Marco Evangelista nel casertano. Tra le attività dell’esercitazione anche momenti di formazione per i volontari di Protezione civile.

Lo stato di attività di un’area vulcanica è monitorato attraverso l’osservazione di parametri geofisici e geochimici. Il rilevamento di detti parametri e la loro misura sono effettuati attraverso tecniche di monitoraggio che si servono di reti di strumenti opportunamente progettati. Ai Campi Flegrei sono installati strumenti per il monitoraggio continuo della sismicità delle deformazioni del suolo, delle emissioni di gas e dalle fumarole. In riferimento a ciò vengono effettuate periodici briefing per la misura di parametri geofisici e geochimici tra diversi ricercatori e specialisti del settore.

Molto importante è però verificare lo stato dell’arte dei piani d’intervento. La zona rossa e la zona gialla sono state individuate dal Dipartimento della Protezione civile, in raccordo con la Regione Campania, sulla base delle indicazioni fornite dalla comunità scientifica. Il punto di partenza per l’aggiornamento di queste aree è stato il rapporto finale elaborato dal “Gruppo di lavoro incaricato della definizione dello scenario di riferimento per il piano di emergenza dei Campi Flegrei per il rischio vulcanico”, istituito nel 2009. Questo documento viene sottoposto alla valutazione della Commissione Grandi Rischi del settore specifico, che ne discute nelle diverse sedute per fornire proprie indicazioni al Dipartimento della Protezione civile.

L’insufficienza venosa

L’insufficienza venosa cronica è una condizione caratterizzata da insufficiente ritorno venoso al cuore.

Può essere organica, se alla sua base vi sono alterazioni anatomiche delle vene, e funzionale se le vene, pur essendo integre, sono sottoposte ad un lavoro eccessivo e pertanto non sono in grado di garantire un ritorno venoso sufficiente.

Sintomatologia
Sugli arti inferiori si può rilevare la presenza di vene varicose o di teleangectasie e di distrofie cutanee che nei casi più gravi arrivano fino alle ulcere. Il paziente può avvertire pesantezza agli arti inferiori, gonfiore, parestesie, prurito, dolore di tipo crampiforme. Questi sintomi ovviamente peggiorano nella stagione calda.

Esami
L’anamnesi ed esame obiettivo permettono di formulare la diagnosi; l’ecocolor Doppler permette di valutare la morfologia e la funzione delle vene degli arti inferiori.

Terapia
Si devono correggere in generale in primo luogo le abitudini alimentari e lo stile di vita dell’individuo.

Poi può essere sempre utile l’utilizzo di calze elastiche e comunque la compressione della gamba.

Tra le terapie farmacologiche e fitoterapiche vengono comunemente usati preparati che contengono una serie di principi attivi di documentata efficacia; tra questi i più noti ed usati sono, spesso sotto forma di fitocomplessi.

Uber sceglie Roma per il bike sharing elettrico, 2.800 bici in città

Fonte Ansa

Arrivano 2.800 biciclette elettriche in condivisione a Roma. Il servizio di bike-sharing ‘Jump’ è stato lanciato da Uber, che ha scelto la capitale come prima città in Italia, insieme alla sindaca Virginia Raggi.

Per contrastare possibili atti di vandalismo sono previste multe per chi parcheggia dove non si può, ad esempio il Lungotevere, un sistema Gps per il monitoraggio dei mezzi, un particolare sistema di blocco e un peso specifico superiore alla media.

“Queste caratteristiche assicurano una guida più responsabile da parte degli utenti e una maggiore sicurezza di parcheggio, unita alla pedalata assistita che aumenta progressivamente la velocità (spinta fino a 25 km/h)”, spiegano i promotori dell’iniziativa. Al momento sono disponibili 700 biciclette con l’obiettivo di arrivare a 2.800 unità in poche settimane per coprire una superficie pari a 57 km quadrati, che copre oltre alle zone del centro storico anche zone più esterne come Eur, Quartiere Coppede, Monteverde Nuovo e Fleming.

“Roma è stata scelta come prima città in Italia per l’avvio del servizio di uno dei maggiori operatori di sharing al mondo – ha detto Raggi – Da oggi 700 bici a pedalata assistita, che diventeranno 2.800 in poche settimane, sono a disposizione di tutti, con uno sguardo attento alla mobilità sostenibile e al turismo. Un servizio di bike sharing moderno che va di pari passo con il rispetto del decoro urbano e la sicurezza dei mezzi. La geolocalizzazione, infatti, permetterà di monitorare le bici in tempo reale”.

“Con il lancio di Jump a Roma ci proponiamo di fornire un servizio ai cittadini che cercano un’alternativa al proprio mezzo di trasporto o che non ne possiedono uno. Il nostro obiettivo è quello di essere un partner di lungo periodo per Roma e l’Italia, sia a livello nazionale che locale – ha spiegato Michele Biggi, general manager di Jump Southwestern Europe – Il lancio di oggi è l’inizio di un percorso che ci porterà a costruire città più smart, lavorando insieme a tutti coloro che contribuiscono a definire la mobilità”.

Un centro che sia centro.

Il meeting della ‘Leopolda’ organizzato dall’ex premier Renzi, è stato tutto rivolto al messaggio da dare agli elettori moderati che non si riconoscono nel populismo, che non amano lo statalismo, che agognano una Italia più liberale e responsabile nella economia e nella spesa pubblica, impauriti dal nuovo governo che risulta il più spostato a sinistra dagli albori della Repubblica. In effetti ha ben calibrato la impostazione della comunicazione, soprattutto rivolta agli elettori di Forza Italia, in evidente confusione per la subita opa di Salvini.

Ma la pressione è stata forte anche sull’elettorato del PD, almeno verso quella parte che non gradisce il progressivo spostamento a sinistra del partito e l’alleanza con i 5 stelle, che da patto di governo si sta progressivamente trasformando in vera e propria alleanza politica. Comunque vada c’è da ritenere che Italia Viva, potrà almeno durante la vigenza della legislatura, svolgere un importante ruolo di riequilibrio sulle decisioni che di volta in volta dovrà prendere il Parlamento e l’Esecutivo: sulla economia, sulle delicate vicende della giustizia, sul welfare e legislazione del lavoro, sulla politica internazionale, grazie al suo fondamentale gruppo parlamentare indispensabile per la tenuta della maggioranza.

Tuttavia, se il nuovo partito di Matteo Renzi si colloca oggettivamente al centro delle grandi aree del populismo nostrano e del PD tornato a sinistra, non vuol dire che potrà convincere quella enorme area costituita da elettori moderati, prevalentemente fatto di ceto medio danneggiato da tasse quasi tutte a suo carico, asserragliata da tempo nella posizione di astensionismo dal voto. La medesima difficoltà si potrà riscontrare con gli elettori che non hanno apprezzato la sua spregiudicatezza passata da presidente del consiglio: ad esempio la diffidenza dei cattolici sulle sue politiche radicali sui temi di principio e morali. Certamente Matteo Renzi, vorrà imprimere una impronta diversa alla sua azione futura, ed è normale che vorrà fare tesoro degli errori passati per innovare.

Ma l’annuncio della nascita di Italia Viva, non è stato quello di un leader che ha voluto confrontarsi con le varie aree di centro per eventualmente arrivare ad un grande centro. Evidentemente ha voluto dare vita all’ennesimo partito personale in uno scenario oramai pieno di formazioni con queste caratteristiche non molto amate da liberali, popolari e democratici in genere. Può darsi che nei prossimi mesi cercherà di recuperare queste inidonee premesse: se lo dovesse fare, allora sì che potrebbe nascere un grande ed unico centro politico. Diversamente è possibile che Liberali e Popolari, potrebbero anch’essi costruire un nuovo contenitore, in un Italia politica che pur in continuo cambiamento non trova mai un suo baricentro per dare stabilità alla Repubblica, proprio perché sinora manca un centro che sia centro: Popolare, Liberale, moderato.

Ogni bel ballo stufa

È ben vero che sapersi vedere è un esercizio piuttosto complicato. Più facile è cogliere un altro. Renzi, con la Leopolda targata dieci, non è riuscito a capire, né pare l’abbiano capito i suoi, che quella cifra squilla intensamente.

Dieci, in politica, è un valore altissimo. Per un rottamatore sembra quasi un’era geologica. Dovrebbe giungere alla seguente conclusione: dovrei farmi da parte, rottamarmi e mettere la parola fine alla mia presenza.

Del resto, a ben guardare, le forme e i modi sono stra datati: stesso luogo, stessa impostazione, tavoli distribuiti come capitava dieci anni fa, uguali luci, identico palco, stesso soggetto che recita la parte.

Più vecchio di così non c’è più alcuno.

Tanto Salvini, quanto la Meloni e ancor più Berlusconi si sono saputi rinnovare in forme via via diverse, rispetto a quanto ci rovescia addosso il famoso rottamatore di Rignano.

S’inventa un simbolo, che ha già l’imprimatur negli scaffali dei supermercati nei reparti dell’intimo per donna. Risciacqua la pallida figura di Macron, per imitarla.

Elemosina consensi a destra e a manca; cerca di togliere le spoglie al partito del suo amico Berlusconi e di farsi largo tra le fila degli scontenti delle forze centriste. Non dico a caso elemosina perché ad oggi, sembra che il suo minuscolo consenso resti piantato a cifre modestissime. Sono per giunta convinto che quel recinto resterà sempre confinato in un angolo ristretto.

Nemmeno Zingaretti sembra preoccuparsi di questo vecchio rottame che non sa vedersi per quel che è. Il Pd ha già perso quel che doveva perdere, resterà ancorato anche lui a cifre modeste. Non sembra destinato, con questa classe politica a schiodarsi da quel 19/20%, ma può essere tranquillo perché non sciamerà più verso il vecchio Renzi.

Le trovato del toscano non mancheranno. Farà l’occhiolino a Di Maio, lo sta già facendo, non si esclude qualche altra furbata, alzerà il tono per far vedere che esiste contro il suo Governo, sbraiterà a più non posso, ma quel che ha dato ha dato e non ci sono più margini di miglioramento.

Non penso che ci siano connazionali votati a dar credito a chi ha nel corso degli anni conquistato le vette e in malo modo, poi del tutto scialacquale.

Ieri si è chiusa la Leopolda, non stento a pensare che vi sarà anche una undicesima edizione, ma come dicono dalle mie parti, “ogni bel ballo stufa”, tradotto significa che la bellezza per mantenersi tale, deve sapersi rinnovarsi.

Piazza San Giovanni a Roma e Leopolda a Firenze: i nodi, per tutti, vengono al pettine.

È accaduto ciò che era nelle cose, da tempo.

Primo. La Lega Federalista di Bossi ed il centro destra di Berlusconi sono morti e al loro posto esiste la destra italiana. Una destra forte, radicata, radicale, nazionalista, anti europea, populista. Guidata da Matteo Salvini e senza ormai più nessun confine verso le formazioni (e sopratutto verso gli umori) neofascisti.

Secondo. Nel campo alternativo alla destra è nata una nuova area politica, frutto diretto della crisi strutturale del Partito Democratico e della sua “vocazione maggioritaria”. Un’area guidata da Matteo Renzi che punta a dare voce agli elettori “democratici, riformisti, liberali, europeisti”. (Non mi pare di aver notato il riferimento al Popolarismo).

I due eventi (che nessuno sano di mente può seriamente equiparare) hanno però due elementi in comune: il superamento degli attuali “contenitori politici” (non solo nel senso del loro perimetro, ma anche della loro natura) e il riferimento a “forme nuove di rappresentanza politica” fondate sulla leadership personale e sulla cosiddetta disintermediazione.

Questi due fatti politici (con i quali occorre comunque fare i conti) non possono certo sorprendere la nostra piccola comunità che dialoga attraverso “Il Domani d’Italia” e altri analoghi strumenti di riferimento per la rete dei “Popolari impenitenti”.

Essi confermano le analisi che da tempo andiamo facendo.

Abbiamo sempre sostenuto che l’ambizione di chi puntava a fare i “moderati” del centro destra italiano era una pura illusione. E che il Partito Democratico non era strutturalmente in condizione di portare a compimento il suo progetto fondativo, quello di essere il contenitore esclusivo e universale delle culture democratiche e popolari del centro e della sinistra. Anzi, molti di noi – io tra questi – pur essendo ontologicamente di centro sinistra, non vi avevano mai aderito perché ritenevano che tale progetto non avesse fondamento nella società italiana, neppure nella stagione del bipolarismo.

Poteva forse averlo se, invece di un partito di stampo tradizionale, si fosse dato vita ad una esperienza innovativa di tipo confederativo, capace di valorizzare le diverse culture politiche e non di annullarle in una indistinta vocazione progressista. Ma così non è stato.

I nodi, alla fine, vengono al pettine. E – per restare alla nostra metà campo di gioco – è inutile addebitarne le colpe a chi coglie i vuoti e li riempie, come ha fatto Matteo Renzi, con la sua consueta spregiudicata abilità e la sua genialità tattica. Su questo piano ha una marcia in più ed è inutile negarlo.

Tutto ciò era già scritto ed inevitabile? Non credo.

Occorreva però che almeno in quattro “ambiti” ci fosse un minino di capacità nel capire i segni dei tempi e nel tirarne coraggiosamente e lucidamente le conseguenze.

I primi due ambiti stanno dentro il Partito Democratico. Sinistra del partito e componenti di matrice popolare e liberal-democratica dovevano avvertire per tempo che il gioco si era rotto. E decidere consensualmente strade diverse, nel reciproco interesse (e dunque in quello del centro sinistra). Scegliere di blindare il fortino assediato non è stata azione lungimirante.

Ci ha provato Lucio D’Ubaldo, da queste colonne, con la arguta provocazione, rivolta a Pierluigi Castagnetti, di riorganizzare l’assetto politico con la riesumazione del “congelato” Partito Popolare Italiano. Non vi è stata risposta, purtroppo.

Il terzo ambito – dobbiamo dirlo con sincera autocritica – riguarda la variegata e dispersa rete dei popolari “senza casa”. Da mesi e mesi si discute senza conclusione alcuna attorno all’ipotesi di costituire una “Comunità Politica Popolare”.

Nonostante l’impegno di molti, non se ne è cavato fino ad ora un ragno dal buco. Era difficile, in controtendenza e senza un leader mediatico riconosciuto: vero! Ma almeno ciò che si poteva fare andava fatto e non lo abbiamo fatto. Di questo portiamo – tutti e ciascuno – grande responsabilità.

Il quarto ambito riguarda il mondo della società civile di ispirazione popolare e cattolico democratica, tanto fecondo e vivo nelle analisi e nelle testimonianze ideali e sociali, quanto restio – se non schizzinosamente ostile – ad incarnare tutto ciò in una dimensione di impegno politico. Sovente più propenso a svolgere il ruolo di “consigliere del Principe di turno” che a “sporcarsi le mani” come protagonista di un proposta politica autonoma, originale, riconoscibile.

I nodi, appunto, vengono sempre al pettine.

Padre Sorge stronca la scissione di Renzi

Fonte AdnKronos a firma di Elena Davolio

Renzi, al pari di Berlusconi e Salvini, ha la sindrome del salvatore della patria“. Lapidario il giudizio di padre Bartolomeo Sorge, il gesuita politologo, a proposito dell’ex segretario del Pd e della nascita del nuovo partito ‘Italia Viva’ dopo l’addio al Pd. “Ogni tanto – afferma padre Sorge in un’intervista all’Adnkronos – sorge un politico che si esalta e crede di essere il salvatore della patria. Il comportamento di Berlusconi, Salvini e Renzi è lo stesso: sono uomini di partito personale che si credono necessari e vogliono pieni poteri anche se non lo dicono in partenza”.

Per l’ex direttore di ‘Civiltà Cattolica’ siamo davanti ad una vera e propria “patologia politica, con tutto il rispetto perché devo dire che quando Matteo Renzi si è presentato la prima volta l’ho pure appoggiato pubblicamente. Anche in una conferenza in Parlamento davanti ai deputati. Poi ha iniziato ad essere l’unico uomo al potere con questo personalismo politico ma non è questa la democrazia”.

Padre Sorge spiega le ragioni del suo giudizio tranchant sulla scissione dell’ex segretario del Pd. “Da un punto di vista di scienza politica la sua è una vera immaturità: mentre sta decollando un governo unito per una battaglia importante, si va a dividere una settimana dopo la partenza. Questo è politicamente immaturo e irresponsabile. Quel che più mi fa impressione è che questo non è un fenomeno unico. Ogni tanto – ribadisce – sorge un politico che si esalta e crede di essere il salvatore della patria”. Il gesuita è scettico anche sulle parole di Renzi che ha comunque detto che non farà mancare il suo appoggio al governo: “Io sono un uomo libero, non bisognava rompere l’unità nel momento in cui nasceva un esperimento difficile di unità. Anche se Renzi dice ‘io appoggerò il governo’ alla prima occasione si vedrà subito, sono convinto che non sarà così”.

I cattolici non dovrebbero sostenere il nuovo partito di Renzi? “Credo che dalla fede – osserva padre Sorge – non si possa dedurre un modello politico. C’è un pluralismo legittimo perché i valori siano preservati. I primi dodici articoli della Costituzione sono il fondamento della convivenza civile di un popolo e sono anche i pilastri della dottrina sociale della Chiesa. Una volta messi al sicuro, sulla forma esterna ciascuno può scegliere quello che sembra meglio. Il messaggio cristiano è uno solo: siate coerenti dovunque vi troviate. Certo – annota ancora il gesuita pensando all’altro Matteo (Salvini) – non si può essere coerenti se si approva la politica dei porti chiusi e si sente invocare la Madonna che benedica i porti chiusi, e la legittima difesa con il permesso di sparare: queste sono bestemmie!“.

Jack Kerouac: Il dramma e l’amore dell’uomo solo

Articolo pubblicato nell’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Eraldo Affinati

Cinquant’anni fa, il 21 ottobre, moriva Jack Kerouac, distrutto dall’alcol e da una vita di sprechi. Avvenne a St. Petesburg, in Florida, dove si era da tempo trasferito. Aveva quarantasette anni. Quando non viaggiava, restava a casa, a Lowell, in Massachusetts, sotto gli occhi e la protezione della madre Gabrielle, da lui chiamata mémêre, mammina, in omaggio alle radici famigliari francesi. È stata Ann Chartes, nella sua pur contestata biografia (Vita di Kerouac, Mondadori, 2003), a rivelare la dimensione solitaria e introversa del grande scrittore americano: dissoluto quanto basta per lasciar supporre chissà quali profanazioni e tuttavia cattolico fin nel midollo, al punto da scoprire lui stesso la matrice religiosa di “beat”, inteso, nella radice latina, come “beato”.

Dunque la “beat generation”, nel filtro finale della Vanità di Duluoz, questa sorta di “autobiografia delle autobiografie”, altro non sarebbe stata che una schiera di santi maledetti, angeli caduti, vagabondi del Karma, per l’appunto, tutta gente ossessionata dal mito del sentiero, dalle ombre contorte dei sotterranei, sì, ma con l’idea del ritorno stampata sempre bene in testa, soprattutto nei momenti più bui, quando ciò pare impossibile. Proprio allora risplende fisso sul ribelle il sogno del Big Sur, l’eremo estremo in bilico sull’oceano, dove intonare il concerto mesto del pellegrino penitente nell’aria salmastra e nebbiosa che annichilisce persino il desiderio più sfrenato. Ecco uno dei grandi fraintendimenti della letteratura novecentesca: aver creduto che On the road, il romanzo che più di ogni altro ha messo in scena gli ideali trasgressivi dei giovani, fosse l’inno al superamento degli steccati, alla libertà quale delirio e smarrimento, e non invece, come tutte le vere Odissee, una sostanziale celebrazione, certo dissimulata, infinitamente differita, del focolare domestico.

Per rendersene conto basta leggere il finale, nel momento in cui il protagonista, reduce dalle traversate coast to coast da New York a San Francisco, da cento avventure e bevute colossali, torna finalmente a Manhattan e, in una sera estiva e languente di falene notturne, appena vede una finestra illuminata non trova di meglio che gridare a perdifiato senza speranza di venire ascoltato. «Ma una graziosa ragazza sporse la testa dalla finestra e disse: “Sì, chi è?” “Sal Paradiso” risposi, e sentii il mio nome risuonare nella via triste e solitaria. “Venga su” m’invitò lei. “Sto facendo la cioccolata calda”». Termina così l’epica nomade del cavaliere disarcionato. Avete forse dimenticato i giorni di primavera che precedono una grande partenza, quel profumo di menta, o la sua idea, prima di giugno, una carta Michelin completamente aperta sul pavimento e il ragazzo che c’è dentro ognuno di noi in ginocchio a disegnare con la matita un possibile itinerario? Allora è giunto il momento di rileggere On the road, capolavoro di giovinezza, di vuoto, di vita. Siamo pronti, per l’ennesima volta, eppure sembra ancora la prima. Vagoni ferroviari pieni di barboni che si riscaldano le mani, torte di mele e mocassini indiani, tante belle fanciulle a Des Moines, uscendo da scuola.

Un gruppo di amici scalmanati pronti a seguirci persino in capo al mondo e comunque di sicuro nel selvaggio West, nel regno dei distributori di benzina scintillanti come diademi nel buio desertico. Le strade percorse da Dean Moriarty, redivivo Peter Pan braccato dalla sua stessa vitalistica inconcludenza, restano incise nelle adolescenze di molti fra noi: lo vediamo entrare dal cancelletto del giardino di fronte con gli occhi arrossati, la camicia fuori dai pantaloni, una barba lunga di tre giorni. Bussa, si presenta e dice di venire da New York, senza essersi mai fermato solo perché voleva vedere di quale colore fosse in aprile l’Oceano Pacifico. «Amico, vuoi venire a fare un giro sulla mia Cadillac? Ti porto giù fino a San Diego e poi ce ne andiamo in Messico».

Dean sembra completamente folle, ma in realtà vibra in lui la passione mortificata di chi non si accontenta e intende forzare la propria finitudine. Soprattutto ci affascina il suo rapporto con Sal Paradiso, l’alter-ego di Jack Kerouac. Si tratta di due persone dal carattere opposto e complementare: un vitalista e uno scrittore. Immaginate una versione modernista dell’amicizia fra Tonio e Hans, nel Tonio Kröger di Thomas Mann. L’individuo sprofondato ciecamente nell’azione e l’artista contemplativo che pure si lascia trascinare dal compagno. Il comandante e lo stregone. Entrambi si cercano e nutrono uno verso l’altro una speciale soggezione, un reciproco timore, di cui è tessuto il romanzo. Fra le poetiche apparentemente inconciliabili dell’estancia e della pampa, come avrebbe detto Jorge Louis Borges, pare impossibile scegliere: da una parte il conforto e la protezione assicurata dai fuochi caldi della fattoria; dall’altra il fascino irresistibile delle pianure sconfinate dove si perde il gaucho. Ricordo quando un giorno di Natale arrivai nella stazione degli autobus di Città del Messico: era un terminal strepitoso che mi sembrava di aver già visto da qualche parte anche se non capivo quando e dove, dal momento che per la prima volta ci capitavo.

Le insegne “Autobus americanos” con le scritte Chicago, Los Angeles, New York mi elettrizzarono. Una grande Madonna di Guadalupe troneggiava nell’atrio affollato, in mezzo al presepe. Libri, gelati, valigie, una lirica animazione. Stavo cercando l’autobus diretto alle Piramidi quando d’improvviso compresi il mio dejà vu: era la memoria della pagina di On the road, nel momento in cui Sal Paradiso sta per tornare a New York. C’era anche qualcosa di Malcolm Lowry, ugualmente attratto da quel capolinea d’umanità in transito. Questo per dire fino a che punto la letteratura intensifica la vita. La orienta, talvolta la determina. Come se il nostro spirito ci spingesse oltre, là dove i sensi si bloccano. Ma in quali anfratti trovava Jack Kerouac la forza che gli consentiva di giungere a tale potenza rappresentativa? Certo dal suo talento, peraltro pagato a caro prezzo, come tutto nella vita, perché ciò che abbiamo bisogna conquistarlo, ma se dovessi trovare un precedente letterario, intendo la voce assoluta di riferimento tonale, direi Stendhal. Lo stile tutto in prima battuta, da codice civile, come è stato detto, del grande scrittore francese, riecheggia in Kerouac alla maniera di una musica lontana: da lì nasce la magia del rotolo in cui venne composto On the road. E così il disorientamento di Fabrizio del Dongo nel campo di battaglia di Waterloo, descritto nelle prime pagine della Certosa di Parma, rivive nei giri oziosi del trump americano, fin quando in Satori a Parigi, alla ricerca degli avi, arriva in Bretagna. E ci racconta, ancora una volta, il dramma e l’amore dell’uomo solo.

Papa: “Globalizzazione dovrebbe essere solidale ma alimenta guerre”

La globalizzazione che caratterizza il nostro tempo dovrebbe essere “solidale” e “rispettosa” delle differenze tra i popoli, invece alimenta “guerre”.

A denunciarlo è Papa Francesco all’Angelus in Piazza San Pietro che spiega; “La Giornata Missionaria Mondiale, che si celebra oggi, è un’occasione propizia affinché ogni battezzato prenda più viva coscienza della necessità di cooperare all’annuncio della Parola, all’annuncio del Regno di Dio mediante un impegno rinnovato. Il Papa Benedetto XV, cento anni orsono, per dare nuovo slancio alla responsabilità missionaria di tutta la Chiesa promulgò la Lettera apostolica Maximum illud. Egli avvertì la necessità di riqualificare evangelicamente la missione nel mondo, perché fosse purificata da qualsiasi incrostazione coloniale e libera dai condizionamenti delle politiche espansionistiche delle Nazioni europee.

Nel mutato contesto odierno, il messaggio di Benedetto XV è ancora attuale e stimola a superare la tentazione di ogni chiusura autoreferenziale e ogni forma di pessimismo pastorale, per aprirci alla novità gioiosa del Vangelo. In questo nostro tempo, segnato da una globalizzazione che dovrebbe essere solidale e rispettosa della particolarità dei popoli, e invece soffre ancora della omologazione e dei vecchi conflitti di potere che alimentano guerre e rovinano il pianeta, i credenti sono chiamati a portare ovunque, con nuovo slancio, la buona notizia che in Gesù la misericordia vince il peccato, la speranza vince la paura, la fraternità vince l’ostilità. Cristo è la nostra pace e in Lui ogni divisione è superata, in Lui solo c’è la salvezza di ogni uomo e di ogni popolo.

Per vivere in pienezza la missione c’è una condizione indispensabile: la preghiera, una preghiera fervorosa e incessante, secondo l’insegnamento di Gesù proclamato anche nel Vangelo di oggi, in cui Egli racconta una parabola «sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1). La preghiera è il primo sostegno del popolo di Dio per i missionari, ricca di affetto e di gratitudine per il loro difficile compito di annunciare e donare la luce e la grazia del Vangelo a coloro che ancora non l’hanno ricevuta. È anche una bella occasione oggi per domandarci: io prego per i missionari? Prego per coloro che vanno lontano per portare la Parola di Dio con la testimonianza? Pensiamoci”.

Clima: la Sardegna a rischio desertificazione

Il professore Pier Paolo Roggero – docente ordinario di Agronomia e coltivazioni erbacee all’Università di Sassari – lancia l’allarme: “la temperatura media sta aumentando, l’anno scorso di 3 gradi in più rispetto ala media degli ultimi 40 anni”.

“Aumenta la presenza di alcuni gas, in particolare dell’anidride carbonica che cresce in modo inedito: oggi abbiamo un dato mai visto prima”. “Il nuovo clima”, ha spiegato il professore, “cambia l’agricoltura: la quantità, le perdite, le spese. In generale, ci sono maggiori costi o minori ricavi”.

E lancia un avvertimento all’industria: “Ogni settore e ogni territorio avrà effetti diversi. Oggi sono pochissime le aziende che ancora non hanno fatto nulla per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici. Ma occorre farlo in maniera strategico e sinergico, mettendo insieme le competenze scientifiche con le esperienze delle aziende e programmare insieme alla politica”.

Ad alzare l’asticella rossa è Massimo Gargano, direttore nazionale dell’Anbi, l’Associazione nazionale dei concorsi di bonifica: “La Sardegna è tra le regioni a rischio desertificazione, per questo è necessaria una sfida infrastrutturale. Per esempio, di tutta l’acqua che cade raccogliamo solo l’11%. Così come bisogna pensare ad un consumo del suolo intelligente: in questa regione assistiamo ad uno spopolamento e abbandono delle zone interne, con conseguente spostamento e pressione nelle coste”.

Il Ring della vergogna

Un ring in piena regola. Il ring della vergogna. Con tanto di combattimenti, gente che assiste allo “spettacolo” e chissà che non ci sia scappata pure qualche scommessa clandestina. Nulla di nuovo se non fosse che lo scenario è da incubo: una struttura per anziani – nella Carolina del Nord – si sarebbe trasformata nell’arena di combattimenti organizzati dalle dipendenti, tre infermiere afro-americane licenziate e poi arrestate con accuse pesantissime.

Protagonisti gli anziani ospiti – alcuni affetti anche da demenza – costretti dalle tre presunte aguzzine a sfidarsi in contese di inaudita violenza. La struttura ha preso le distanze dall’accaduto precisando al New York Post che le tre sospettate erano state licenziate già da prima che il fatto fosse reso noto dai media nazionali. Non sappiamo se il quadro accusatorio sarà confermato alla fine del processo. Se lo fosse ci auguriamo l’adozione di pene esemplari. Troppe e dense nebbie avvolgono il mondo delle case per anziani, da un capo all’altro del Pianeta. Finendo per oscurare la dignità e il lavoro di quegli operatori onesti e perbene che – come sempre – sono maggioranza silenziosa.

Fonte My Pegaso

Osteoporosi

Con la parola osteoporosi si intende una condizione in cui lo scheletro è soggetto a perdita di massa ossea e resistenza causata da fattori nutrizionali, metabolici o patologici. Lo scheletro è quindi soggetto a un maggiore rischio di fratture patologiche, in seguito alla diminuzione di densità ossea e alle modificazioni della microarchitettura delle ossa.

Generalmente l’osteoporosi viene considerata una patologia a carico delle ossa, ma secondo alcuni si tratterebbe di un processo parafisiologico nel soggetto anziano, la cui presenza predispone comunque a un maggior sviluppo di fratture patologiche, una conseguente diminuzione della qualità e della speranza di vita e di complicanze dovute alle fratture, se non adeguatamente trattata. Poiché viene considerata troppo facilmente malattia (e non causa della vera malattia o espressione manifesta di osteoporosi, ovvero la frattura da fragilità), il British Medical Journal l’ha inclusa in un elenco di “non-malattie” (International Classification of Non-Diseases).

L’osteoporosi si manifesta inizialmente con una diminuzione del tono calcico nella massa ossea (osteopenia). Le ossa più facilmente interessate dalla diminuzione del tono calcico sono le vertebre dorso-lombari, il femore e il polso.

Inizialmente asintomatico, rimane tale per 2/3 delle persone.[13] Le prime manifestazioni compaiono con le fratture; il dolore alle ossa e alla muscolatura ad esempio è tipico della presenza di fratture, ma esse possono anche non essere avvertite dall’individuo e facilmente possono avvenire anche al minimo evento traumatico. Solitamente il dolore è localizzato alla schiena o al bacino, ma è possibile che si manifesti ovunque sia la sede della frattura ed è di tipo acuto e si aggrava in presenza di sforzi e carico. Con il progredire dell’osteopenia si può manifestare un crollo vertebrale, una frattura dell’avambraccio (polso) o una frattura femorale.

La fratture possono portare ipercifosi dorsale e iperlordosi cervicale.

Grillo Sproloquia, Fino a quando? La democrazia ne è danneggiata.

In nessuna democrazia del mondo il capo di un partito al governo, dichiarerebbe che sarebbe giusto non far votare nelle competizioni elettorali per il rinnovo di ogni assemblea elettiva gli anziani.

Beppe Grillo, fondatore è vero capo dei Cinque Stelle, ha affermato con grande decisione che il diritto di voto degli anziani, sarebbe nocivo al cambiamento, in quanto la loro espressione di voto annichilirebbe la possibilità per i giovani di essere padroni del loro tempo. Insomma l’ex comico sottolineando che l’aspettativa di vita delle persone crescerà, mentre con la forte decrescita delle nascite i giovani saranno sempre pochi, il voto degli anziani porterebbe a soluzioni di governo sfavorevoli agli interessi dei giovani. Anzi aggiunge che il dato della astensione di molti giovani dal voto, sarebbe determinata dalla loro frustrazione provocata dalla predominanza degli anziani.

Grillo non è la prima volta che lancia provocazioni per la convivenza comunitaria, ma quest’ultima è davvero preoccupante. Non si cruccia dello squilibrio oramai evidente tra i poteri globali della finanza che depotenziano la forza della democrazia, e che in prospettiva potranno originare ad una nuova servitù della gleba del terzo millennio; non si pone il problema di riequilibrare nello Stato democratico, i poteri dei ricchi che potrebbero soffocare quelli dei più poveri: si preoccupa di togliere il voto agli anziani per aiutare i giovani.

Ascoltando sempre più frequentemente proposte e provocazioni davvero lesive del buon senso e della coesione comunitaria, che sono oramai diventate quasi normali, mi chiedo quanto tempo dovrà passare a che le persone consapevoli dei tempi bui che viviamo, possano finalmente reagire aprendo una discussione vera e determinata per riportare la nostra comunità nel solco della propria tradizione e della civiltà democratica? Le Democrazie raramente cadono sotto i colpi dei propri nemici; cadono quasi sempre per le insufficienze, le vigliaccherie, gli errori dei democratici stessi.

Patria, un democristiano che ha dato molto alle istituzioni e al partito.

E’ difficile ricordare in pochi minuti una amicizia lunga quaranta anni, fin da quando, Renzo entrò a Montecitorio nel lontano 1979.

C’è il rischio che le emozioni, i ricordi personali, i sentimenti prevalgano sulla ragione e su una lettura meditata dei passaggi della vita, soprattutto se lo facciamo in questa Sala per noi così carica di ricordi.

La vita parlamentare di Renzo Patria si intreccia con la mia, che seguivo per il Gruppo parlamentare l’area economica. Renzo Patria fu sempre componente della Commissione Finanze e Tesoro, fino a diventarne Presidente nella XIV legislatura.
Per quindici anni abbiamo condiviso scelte politiche, avvenimenti di vita parlamentare e quelli personali. Era una vita parlamentare intensa, fatta di tanti momenti di vita comune che terminavano ben oltre gli orari delle sedute.

Aveva competenze specifiche che gli venivano riconosciute e che venivano valorizzate nell’esame dei provvedimenti in particolare sulla finanza locale, sul fisco, sulla Amministrazione finanziaria, sui quali spesso veniva chiamato a svolgere il ruolo di relatore, così come sul bilancio dello Stato dove non mancava di intervenire. Era in fondo il riconoscimento della sua specializzazione, delle sue competenze, delle sue relazioni e della sua sensibilità in una Commissione dove era forte la professionalità dei suoi componenti. Era la commissione per citare dei nomi, degli Usellini, dei Citterio, dei Fiori, degli Azzaro, di De Cosmo, dei Rubbi, ma anche di Felice Borgoglio, Spaventa, D’Alema padre, Sarti Armando, Vincenzo Visco e tanti altri, dove il confronto delle posizioni era di alto livello e dove la sensibilità politica doveva essere coniugata con la competenza. Le sue iniziative legislative guardavano ai settori prima ricordati, ma non mancava di porre attenzione al territorio dove il suo legame era forte, sia con la previsione di sezioni distaccate delle Corti di Appello, e per l’Università Sud Orientale, così come per i compendi pubblici da destinare all’ente locale come l’ex ospedale militare e l’ex caserma San Martino, valorizzando il decentramento e la vicinanza su aspetti fondamentali come la giustizia e la Istruzione, come esigenza dei giovani e dei cittadini rispetto alla “lontana Torino”.

Nell’ambito fiscale sottolineò con anticipo, anche per la sua esperienza di amministratore locale la “spinta al riordino della imposizione del settore immobiliare e norme severe in materia di responsabilità per il dissesto”. Ribadiva come “la mancanza di autonomia impositiva e l’insoddisfacente impianto normativo porta a difficoltà di gestione”. Era una risposta alla esigenza e alle spinte che stavano maturando, anche con fratture politiche, per l’autonomia sostanziale degli enti locali. Tutto questo con largo anticipo rispetto alle concrete innovazioni nell’ordinamento. Il suo impegno parlamentare sui problemi ambientali è contrassegnato dalla lunga azione sull’Acna di Cengio e sulla Val Bormida che lo coinvolgerà con numerosi atti di sindacato ispettivo nella decima legislatura.
Soltanto alcuni anni dopo, nel 1994, si arriverà alla istituzione della commissione monocamerale di inchiesta.

Interpellanze, mozioni parlamentari erano seguite passo dopo passo, non azioni estemporanee, ma con la piena consapevolezza dell’obiettivo da raggiungere anche attraverso un confronto duro con il suo partito la DC, con la stessa maggioranza e con il Ministro dell’Ambiente Giorgio Ruffolo. Gerardo Bianco in quel tempo Vicepresidente della Camera dovrebbe ricordare una di queste sedute movimentate. Muovevano i primi passi le politiche di compatibilità ambientali per l’assenza di controllo nei decenni nelle produzioni inquinanti. Sottolineò la necessità di prevedere processi di risanamento per rendere compatibili le produzioni con l’ambiente e di istituire autorità ambientali, perché i rischi ambientali superano i confini amministrativi delle provincie e delle Regioni e degli Stati. E’ stato così per Chernobil come per le fabbriche della Germania Est che inquinavano le foreste della Baviera. Era così per la Val Bormida. In una occasione la sua penetrante attenzione ai testi in discussione gli fece scoprire che un punto del dispositivo della mozione Matulli, quindi del responsabile Ambiente del suo partito, era scomparso nel testo in votazione. Non era cosa di poco conto perché prevedeva di “assicurare che nessuna attività produttiva sia avviata prima che venga attivato integralmente il monitoraggio” ( di cui al punto 2). Un vero e proprio giallo. La sua Mozione non fu approvata. Rimase fermo sulla sua posizione, ma fu un alto momento tra i partiti e all’interno della stessa DC dove il confronto democratico era un valore assoluto.

Lo studio di quei problemi ambientali lo portò a presentare trenta anni or sono una iniziativa di riforma della Costituzione per la tutela dell’ambiente, del paesaggio, e il patrimonio storico della nazione per promuovere la collaborazione internazionale per la salvaguardia dell’ecosistema. Sono questioni recentemente richiamate dal Presidente del Consiglio Conte nelle recenti dichiarazioni programmatiche di agosto. Metteva la persona umana al centro degli interessi per la salubrità degli ambienti di vita e di lavoro.
La sua iniziativa costituzionale per la detrazione fiscale delle spese per l’istruzione eliminando la sperequazione tra istituti pubblici e privati si muoveva all’interno della cornice costituzionale degli articoli 33 e 34 della Costituzione.

Ma è sul bilancio interno che emergeva la sua sensibilità istituzionale. In un suo intervento del 1983 non v’era solo il riconoscimento formale della Presidenza Iotti, per le grandi trasformazioni della Camera dei Deputati in atto come la creazione dell’Ufficio di Bilancio, una innovazione specifica, come strumento di valutazione della spesa e la creazione della struttura per la redazione dei testi legislativi o come il trasferimento della biblioteca e la sua trasformazione in Biblioteca di ricerca. Non mancava di sottolineare la “urgenza di recuperare la centralità del Parlamento”. Quel Parlamento che oggi si vuole limitare nelle sue funzioni di rappresentanza e con idee strampalate sulla democrazia diretta.
Poi nell’ultima sua legislatura quella dal 2001 al 2006 voglio ricordare la sua azione in difesa del ruolo e della funzione delle Banche popolari e di credito cooperativo, come fu attivo protagonista, quando il Paese fu attraversato da scandali finanziari, nella indagine conoscitiva sui rapporti tra le imprese, i mercati finanziari e la tutela del risparmio che portò alla definizione di una buona legge, la 262 del 2005, che ancora oggi riscontra notevoli apprezzamenti, per le profonde innovazioni nelle infrastrutture normative introdotte a tutela dei risparmiatori.

Auspicò come “adempimento al dovere del legislatore di accendere un faro che indichi la strada per la ricostruzione di una etica finanziaria” come sollecitato da Ciampi, ma al tempo stesso “la politica doveva recuperare un ruolo primario se non vogliamo – disse – che la finanza e i poteri forti siano essi a dettare l’agenda anche alle Istituzioni elettive”. Come sono attuali queste parole!

Aveva la grande preoccupazione di evitare il rischio di far ricadere sulle Istituzioni la crisi che colpiva i partiti politici nei primi anni novanta “pena l’irreparabile decadenza della nostra democrazia”. La tutela delle condizioni di vita e di lavoro dei deputati non poteva, secondo Renzo Patria, essere intesa “quale tutela di privilegi individuali e corporativi, ma va ricondotta nell’ambito suo proprio e cioè di garanzia della funzione di rappresentanza popolare che i membri del Parlamento esercitano”. “Delegittimare il Parlamento significa sconfiggere la sovranità popolare facendo prevalere con la piazza minoranze velleitarie e violente ma non per questo meno pericolose per le sorti della democrazia del nostro Paese.
Sapeva ascoltare i fermenti della società civile. “Sarebbe semplicistico e colpevole – disse in Aula – se ignorassimo le domande, e non ci accorgessimo della profondità della crisi che è di identità e di credibilità dei nostri comportamenti”.
Riteneva preminente l’obiettivo di restituire le Assemblee legislative alle loro finalità più vera, la sede nella quale si operano scelte nell’interesse dei cittadini.

Nei suoi interventi sul bilancio interno della Camera, per la sua sensibilità, poneva particolare attenzione alla “condizione del parlamentare” per renderlo sempre più libero dai condizionamenti dei partiti e dei Gruppi. Difese l’autonomia amministrativa della Camera, esprimendo preoccupazione per le insidie che si manifestavano verso il personale della Camera.
Rifiutava il concetto di Camera come “azienda”.
Per Renzo “l’amministrazione della Camera non è altro che uno degli strumenti attraverso i quali l’ordinamento ha inteso garantire all’Istituzione-Camera le condizioni necessarie di autonomia per il pieno esercizio delle proprie funzioni costituzionali. Efficienza ed economicità di gestione non possono costituire per la Camera dei valori assoluti, ma vanno perseguiti entro i limiti dell’interesse generale al complessivo funzionamento delle Istituzioni rappresentative”. L’Ufficio di Presidenza e il Collegio dei Questori sono chiamati a svolgere nella loro qualità di organi collegiali di direzione politica funzioni che nulla hanno in comune con i consigli di amministrazione operanti nelle realtà aziendali.

Nel suo agire quotidiano portava avanti l’idea e i valori degasperiani della Democrazia Cristiana. Forte era la sua Fede democratica. Sentiva profondamente il contatto con il mondo cattolico da cui era stato formato. Ripeteva “dobbiamo ripartire dagli oratori e dalla società civile”. Nella diaspora non cancellò le amicizie, ma mantenne rapporti cordiali senza rancori.
L’associazionismo nelle sue varie forme e articolazioni era il momento per portare avanti insieme le idee. Fino all’ultimo istante è stato protagonista nella Associazione Democratici Cristiani dove mi volle fortemente.

Dopo le esperienze parlamentari non abbandonò la politica ma si dedicò con impegno nella vita degli ex parlamentari per tredici anni di cui otto anni con responsabilità comuni con Gerardo Bianco e poi con Antonello Falomi. Abbiamo avuto altri intensi momenti di vita vissuta. Nella Associazione ha potuto traslare tutta la sua esperienza nella gestione quotidiana dei problemi grandi e piccoli, anche rispetto all’ondata di populismo e antipolitica, soprattutto nella valorizzazione di un corpo intermedio con le sue regole ancorate ai valori costituzionali, che non erano un retaggio del passato, ma la stella polare dell’agire quotidiano.

Ha partecipato con entusiasmo alla promozione di iniziative su tutto il territorio nazionale, da Napoli sui temi del Mezzogiorno e Milano per l’Expo, fino a Torino per l’anniversario dei 150 anni della unità di Italia. Portava la sua esperienza istituzionale, quindi con una conoscenza profonda dell’Istituto parlamentare proprio mentre più forti si diffondevano i germi dell’antipolitica e avanzava l’odio sociale contro il Parlamento con una campagna antisistema volta a ridurne ruolo e funzione, Queste erano preoccupazioni in lui ben presenti e non mancava di sottolinearle quotidianamente.
Renzo Patria apparteneva alla categoria dei parlamentari seri, fortemente impegnati nel duro lavoro parlamentare sia d’ Aula che di Commissione, profondamente legato al suo territorio, alla Sua Frugarolo, alla Sua Alessandria, al Suo Piemonte; era una presenza quotidiana e costante perché legata ai principi del “proporzionale” che non ammetteva fughe dagli elettori, ma contatti quotidiani, permanenti.
In venti anni di presenza in Parlamento, i numeri di Renzo Patria offrono un quadro rappresentativo di 900 progetti presentati, di 692 atti di indirizzo e di 162 interventi in Aula e nelle Commissioni. La difesa del Parlamento era a tutto tondo. Per Renzo Patria anche “il parlamentare che ha cessato la funzione in considerazione dell’attività resa debba avere sempre il rispetto del rango che gli compete nelle pubbliche manifestazioni, così come peraltro accade quando responsabile della organizzazione è il cerimoniale del Quirinale”.
Volle dotare la nostra Associazione del proprio vessillo come simbolo di unità e di rappresentanza perché nelle manifestazioni ufficiali fossimo presenti con il coraggio e l’orgoglio della nostra storia senza distinzioni partitiche.
Non si rassegnava alle spinte verso la cancellazione della memoria e fino all’ultimo ha difeso le proprie idee i valori per i quali ha lottato nella sua vita.

Siria: Unicef, la centrale idrica di Alouk non funziona più

Fran Equiza, rappresentante Unicef in Siria, in una nota sulle conseguenze del conflitto nel nord-est del Paese dichiara che: Le due principali linee elettriche che alimentano la centrale idrica di Alouk sono state danneggiate durante i combattimenti, causando l’interruzione del funzionamento della centrale idrica”,

E anche se “le squadre tecniche sono state in grado di raggiungere la stazione idrica all’inizio di questa settimana”. “Tuttavia, non sono state in grado di riparare completamente i danni causati dai combattimenti nella zona”. Evidenziando che “il collegamento a un approvvigionamento idrico alternativo da Al-Himme, una vicina stazione di pompaggio, copre meno di un terzo del fabbisogno della popolazione”, Equiza sottolinea che “le persone sono ora costrette a fare affidamento sull’acqua non sicura proveniente da pozzi poco profondi, il che aumenta il rischio di malattie trasmesse dall’acqua ai bambini”.

In coordinamento con i partner e le autorità locali, l’Unicef annuncia che sta rispondendo alla grave carenza d’acqua tra le comunità colpite, attraverso la fornitura giornaliera di 95.000 litri d’acqua e 12 serbatoi per allievarne la carenza nei rifugi della città di Al-Hasakeh, oltre ai 50 metri cubici ai rifugi di Tel Tamer negli ultimi sei giorni; l’autotrasporto d’acqua verso i campi di Al-Hol e A’reesha con una media di 600 metri cubici al giorno, raggiungendo 77.000 sfollati interni e rifugiati; piccole riparazioni alla stazione idrica di Alouk.

“Una tregua nella violenza permetterà all’Unicef di fornire 16.000 litri di carburante per garantire il funzionamento dell’impianto idrico di Alouk fino alla riparazione degli impianti elettrici e per contribuire ad aumentare la capacità della fonte di acqua alternativa di Al-Himme”.

Infine, un monito alle parti in conflitto che “dovrebbero facilitare l’accesso sicuro agli tecnici specializzati, in modo da poter riparare i danni alla stazione idrica il più presto possibile”

Oggi i ‘Parchi letterari’ europei in festa

La quinta giornata europea dei parchi letterari si celebra in tutta Europa domenica 20 ottobre. Visite guidate e manifestazioni gratuite per rivivere l’atmosfera e le suggestioni che hanno ispirato i grandi poemi e i romanzi che hanno fatto la storia della letteratura.

Le iniziative in programma sono molto interessanti e includono passeggiate, mostre, degustazioni, letture e rappresentazioni teatrali. Sarà il Galtellì Literary Prize, ispirato al premio Nobel Grazia Deledda, a inaugurare la festa dei Parchi letterari, che proseguirà in tutta Italia .In occasione del bicentenario dell’Infinito di Leopardi, nella Villa Colloredo Mels del parco marchigiano di Recanati si potranno visitare due mostre che ruotano attorno all’espressione dell’infinito nell’arte, dall’epoca romantica a oggi: “La fuggevole bellezza. Da Giuseppe De Nittis a Pellizza da Volpedo” e “Interminati spazi e sovrumani silenzi. Giovanni Anselmo e Michelangelo Pistoletto” con la presenza di grandi artisti italiani. Sempre il 20 si potrà salire sul monte Tabor per ammirare i monti Sibillini oltre la celebre siepe citata dal poeta.

Saranno aperti al pubblico per passeggiate, spettacoli e letture anche altri parchi letterari italiani, mentre all’estero, sono previste interessanti iniziative: attraverso i diari del navigatore Pietro Querini, si sbarcherà a Røst nell’arcipelago delle Lofoten dove “per tre mesi all’anno, cioè da giugno a settembre, non vi tramonta il sole, e nei mesi opposti è quasi sempre notte … gli isolani, un centinaio di pescatori, si dimostrano molto benevoli”; mentre con lo scrittore norvegese Johan Peter Falkberget si potrà conoscere le storie dei minatori e dei contadini di Røros, cittadina oggi patrimonio dell’Umanità.

Per maggiori informazioni su tutte le iniziative in programma: www.parchiletterari.com

Nasce VRUMS il primo centro in Italia per la promozione, la fruizione e lo studio della Realtà Virtuale

Il 29 novembre 2019 apre VRUMS (Virtual Reality Rooms Italia), uno spazio di 280 metri quadrati, in Via Zaccherini Alvisi 8 a Bologna, il primo centro in Italia per la promozione, la fruizione, lo studio e la divulgazione della Realtà Virtuale in ogni suo aspetto.

VRUMS nasce dall’esperienza interdisciplinare di professionisti della comunicazione e delle nuove tecnologie, ricercatori in campo socio-sanitario e Vitruvio Virtual Museum – marchio che dal 2015 realizza esperienze di Realtà Virtuale per l’arte e la cultura, già esposte in numerosi musei italiani – con l’intento di accorciare le distanze fra i diversi settori che potenzialmente possono interagire con lo strumento della Realtà Virtuale.

VRUMS sarà il punto di riferimento a livello nazionale per lo sviluppo di nuove sinergie e ricerche che vedranno l’applicazione della Realtà Virtuale a diversi comparti dell’economia: dal gaming alla sanità, fino ad arrivare alla cultura e al cinema, le tecnologie altamente all’avanguardia sviluppate da VRUMS saranno al servizio di tutti i settori. Il know how di VRUMS porterà a un’ulteriore crescita la sperimentazione e le azioni già messe in atto nell’utilizzo e nella fruizione quotidiana della Realtà Virtuale.

Secondo l’opinione ormai consolidata di filosofi, informatici, storici, antropologi, medici, economisti e giuristi di fama, la Realtà Virtuale rappresenta un linguaggio nuovo e diretto, che accorcerà le distanze fra cultura umanistica e cultura scientifico-tecnologica, grazie alle molteplici speculazioni cognitivo-intellettive che promette di potenziare.

Le applicazioni di Realtà Virtuale toccano tutti gli ambiti del sapere e promettono di rivoluzionare ogni aspetto dell’esistenza umana, dall’apprendimento all’intrattenimento, dalla medicina al business. Se il Nord America e l’Asia stanno da tempo facendo i conti con questa nuova disciplina e strumento di conoscenza, l’Europa – e l’Italia in particolare – si presentano ancora in ritardo rispetto ai paesi più industrializzati: i centri per la realtà virtuale finora sorti appaiono settoriali e chiusi alla fruizione pubblica, decisamente poco integrati con la società civile.