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mercoledì, 5 Novembre, 2025
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Sea Watch: la morale come legge

Comunque si valutino le sue convulse fasi finali, la vicenda della Sea Watch evidenzia una frattura tra Morale e Legge.
Nell’idea di democrazia liberale ancorata al rispetto preminente dei diritti della persona (quella che nella recente intervista al Finacial Times il Presidente Putin ha definito come ormai fallita), la cultura europea aveva composto questa antinomia e ci aveva indotti a pensare che Morale e Legge potessero abitare uno spazio comune, nel rispetto delle reciproche essenziali dimensioni. Non sempre coincidenti, ma convergenti.
La (buona) Politica, con la sua missione di dialogo e di mediazione, ha guidato e amministrato questo fecondo terreno comune.
La vicenda Sea Watch di questi giorni (non l’unica, peraltro) sembra invece riportarci indietro nella storia.

Ha ragione la Capitana Carola quando afferma di agire in nome della Morale oppure ha ragione il Capitano Salvini quando afferma di agire in nome della Legge?
Nello scontro – così posto – tra Capitani, la (buona) Politica scompare, mentre la tifoseria prende il sopravvento.
Vorrei essere chiaro: se questa è l’alternativa, scelgo comunque e senza dubbio la “Capitana” e non il “Capitano”.
Tuttavia, la gestione di un fenomeno epocale e strutturale come quello delle migrazioni non può essere interamente scaricato sulle spalle di qualche “eroe” (oltre che dei tanti volontari – che Dio li benedica – pur meno noti alle cronache, ma artefici di una capillare, operosa e discreta rete di solidarietà diffusa).

E neppure – per l’altro verso – può essere posta sulle spalle degli apparati di Pubblica Sicurezza, chiamati ad applicare Leggi “manifesto” sempre più ispirate alla coltivazione della paura più che alla vera sicurezza.
La radicalizzazione che dilaga nella pubblica opinione, in primis sui social – col suo carico di violenza e con le sue ricadute di incattivimento generale dei rapporti sociali – non promette nulla di buono, come la Storia dovrebbe insegnare.
Ritengo meritoria la testimonianza di alcuni parlamentari del centro sinistra nei giorni scorsi a Lampedusa e condivido totalmente le tante prese di posizione di persone e associazioni che hanno voluto dire una parola chiara di “resistente” solidarietà, in controtendenza all’aria che tira.

Significa che una parte della società non intende cedere il cervello all’ammasso; si ribella a questa deriva di inumanità e di cinismo; non ha dimenticato le pagine più buie della storia, scritte – consapevolmente o meno – con lo stesso inchiostro velenoso tornato oggi, pare, di gran moda.
Tutto ciò, però, è la base Morale (imprescindibile), non è ancora una “Politica”.
Occorrono una “narrazione” nuova ed una proposta chiara e complessiva di “governo” (pur dall’opposizione) del fenomeno migratorio.
Ciò che ancora manca è un “Manifesto Culturale e Politico” che affronti in maniera razionale, rigorosa e con linguaggio socialmente comprensibile questa sfida epocale, in tutti i suoi aspetti.

Dalla gestione delle emergenze attraverso lo strumento pianificato e sicuro dei corridoi umanitari, alla politica sistematica di integrazione (con il necessario impegno anche educativo in tema di diritti ma anche di doveri degli immigrati e con una grande attenzione – oggi totalmente assente – al tema delle seconde e terze generazioni); dalle misure efficaci e generalizzate di impiego dei richiedenti asilo in attività di utilità sociale per le comunità che li accolgono, alla riapertura delle procedure per le quote di ingresso programmato di stranieri a fini lavorativi (bloccate da anni e richieste a gran voce da molti imprenditori, che magari votano Lega ma poi si lamentano che le loro attività non si possono svolgere senza lavoratori stranieri); dalla rivendicazione di misure “certe” di sanzione – rimpatrio compreso – per chi viola le nostre regole (chi dovrebbe garantirle? L’opposizione oppure il Ministro dell’Interno in carica ormai da più di un anno?), alla informazione capillare sulla vera dimensione reale del fenomeno migratorio in Italia (che tutti gli istituti demoscopici affermano essere distorta e oggetto di percezioni lontanissime dalla realtà).
Tocca alle culture democratiche recuperare una prospettiva credibile e convincente su questo terreno.

Diversamente, la pur nobile e moralmente obbligata testimonianza valoriale non sarà certo sufficiente a sottrarre i “penultimi” (e quanti temono di diventarlo) dalla trappola della paura (e dell’odio alimentato ad arte) verso gli “ultimi” di turno.

La crisi della società italiana e il ruolo della Chiesa – Intervista a Luciano Violante

Tratto dalla pagine dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Monda

Nella sede della Fondazione Leonardo da lui presieduta, incontriamo Luciano Violante che interviene nel dibattito cominciato dal sociologo Giuseppe De Rita il 21 maggio su queste pagine con una riflessione che rinviava all’esperienza del Medioevo e all’Italia dei Comuni e alla necessità di una doppia autorità, civile e spirituale; una che garantisca la sicurezza e l’altra che offra un senso, un orizzonte di senso.

Oggi la sicurezza è un grande tema che muove anche le scelte elettorali. Ma di quale sicurezza stiamo parlando?

La sicurezza oggi non è un obiettivo del governo; è un tema della propaganda e della polemica nella politica e nei suoi satelliti. Serve ad acquisire o a consolidare consenso, non a individuare politiche adeguate attraverso il confronto tra posizioni diverse. Il meccanismo sovranista si alimenta quotidianamente della proposizione del nemico. Se mi è permesso in questa sede, direi che ha il complesso di San Giorgio: o è a cavallo con la lancia in resta contro un drago minaccioso ai suoi piedi, oppure non lo riconosce nessuno. Si tratta di qualcosa di molto diverso dalla politica della sicurezza di cui parla De Rita. Il cittadino ha bisogno di sicurezza sul lavoro, nella sanità, nelle condizioni ambientali. Ma queste sicurezze non le riceve più da nessuno; questo silenzio per un verso alimenta il rancore, per altro verso spinge a dare consenso a chi dona sogni con promesse mirabolanti e con la contemporanea indicazione di colpevoli contro i quali scaricare il rancore. La società è attraversata dalla colpevolizzazione dell’altro. Finché c’era il bipolarismo internazionale, ciascuno dei due sistemi dava il meglio di sé, perché doveva competere con l’avversario, doveva dimostrarsi più credibile dell’altro. I sovietici mandavano Gagarin in giro per lo spazio e gli Usa facevano scendere Armstrong sulla Luna. In questo sistema i due soggetti che competevano, garantivano la sicurezza intesa in senso globale, e allo stesso tempo davano un senso alla vita. Era una singolare cooperazione a vantaggio dell’umanità. In Occidente la fede cristiana per un verso e il capitalismo per un altro verso davano un senso, una speranza alla vita. La stessa funzione avevano i partiti comunisti nell’orbita sovietica e in molti paesi occidentali. Non ignoro il Cile da una parte e l’Ungheria dall’altra. C’era del male, ma anche del bene. Poi è scattato il corto circuito. Ho l’impressione che l’Occidente non sia stato capace, nel suo complesso, di gestire la globalizzazione, che è stato il tempo del dopo-guerra fredda. Hanno fallito sia l’ala liberista, che ha ridotto il popolo a una massa di consumatori, sia quella socialista che si è illusa di poter garantire per il popolo mentre si sedeva su uno strapuntino del banchetto neoliberista.

Il fallimento di queste due ipotesi ha portato a una rottura orizzontale, non più per appartenenze a grandi schieramenti valoriali, che creavano separazioni verticali ma tenevano uniti società, corpi intermedi e politica. Oggi si manifesta una frattura orizzontale tra una società rancorosa e una società intimidita. I rancorosi si considerano danneggiati dalle élites e le élites sinora non si dimostrano idonee ad affrontare il rischio di una narrazione che spieghi la verità. I sovranismi sono l’espressione di questo; cosa dicono infatti se non “noi stiamo, chiusi, tra noi, perché gli altri sono gli avversari, i nemici”. Gli altri non hanno avuto la forza di opporre argomenti strategici, ma solo argomenti tattici. In questo modo sono venuti meno i tre grandi elementi di una democrazia: un soggetto che garantisse diritti e sicurezza, un soggetto che desse un senso alla vita, un soggetto capace di mediare tra società e decisori politici.

Il quadro è desolante e inquietante, si può recuperare?

Io sono sicuro che si può superare questa fase. Il Papa ha detto che siamo in un cambiamento d’epoca, non in una semplice epoca di cambiamenti. È un’analisi che illumina. Se c’è questo tipo di cambiamento non possiamo pensare a ricette del passato tutte incentrate attorno alla espansione illimitata dei diritti, sino a far diventare diritti i semplici desideri. Un nuovo senso della vita si può garantire solo con una politica dei doveri. Sono i doveri che danno un senso alla vita, non sono i diritti; eppure oggi pochi, forse nessuno, parlano di doveri. Doveri vuol dire comunità, vuol dire rispetto dell’altro, vuol dire limite. E oggi nessuno parla di limiti, di rispetto dell’altro… Di qui la situazione di assonnamento della ragione che c’è in giro. A mio avviso il punto di partenza è fare comunità; quello che manca soprattutto è la comunità, cioè un complesso di soggetti che si considerino provvisti di doveri verso l’altro e verso la comunità nel suo complesso.

Viene in mente le “profezia” di Aldo Moro: «Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere».

Con la lungimiranza che gli era propria, Moro aveva colto l’avvio di uno sgretolamento del sistema basato sulla corsa ai diritti, per cui si deve fare tutto ciò che si può fare. Questo consegna la società ai meri rapporti di forza, perché chi può fare fa. E chi non può fare sta a guardare, protesta o si rifugia nella satira. Non vedo soggetti in giro che stiano attivando un processo di fiducia.

Forse il Papa?

Io non sono cattolico, nel senso che non ho religione. Spero di avere fede, cerco di averla, legando ragione e fede, senza illudermi di poter capire tutto. Chi sono io per discettare su Dio? E quindi guardo con grande attenzione al Papa. Papa Francesco ha la sua storia nell’America del Sud, che è una cosa diversa dal mondo di cui stiamo parlando in questo momento. Lui giustamente spinge per i diritti degli ultimi, e fa benissimo. Però siamo su una lunghezza d’onda che alcune volte, lo dico con rispetto, dovrebbe essere coniugata con un processo più costruttivo della comunità: mi sembra che manchi la parte dei doveri. Ma potrei sbagliare. E manca un principio di gerarchia; si tratta di una parola che suona antica ma penso che una società democratica abbia bisogno di un principio di gerarchia. Per gerarchia non intendo un ordine civile piramidale, intendo una scala di valori cui corrisponde una scala di meriti, alla quale corrisponde una scala di responsabilità. Si parla oggi di morte della democrazia; i necrologi appartengono a un fase nella quale ritenevamo la democrazia in qualche modo incrollabile, piena di difetti, di buchi, ma incrollabile. E c’era una corsa a dimostrare quanti buchi avesse. Oggi molti credono lo Stato sia incrollabile e quindi lo si può benissimo spogliare di risorse e di competenze; va bene, ma poi? Democrazia e Stato possono essere considerati, come fanno in tanti, condizioni inestinguibili, come il sole, la pioggia, ma non è così. Il punto è che la democrazia e lo Stato devono essere curati, perché sono un prodotto umano e come tutti i prodotti umani vanno curati, altrimenti si essiccano. Ma come si curano democrazia e Stato? Credo che questo sia uno degli obiettivi che dobbiamo porci. A me sembra che sia necessario partire dalla ricostruzione di comunità, lo ripeto. Invece il partito piramide ha sostituito il partito comunità, con la caporalizzazione dei partiti politici, nessuno escluso. L’idea che la modernità sia semplicemente un continuo superamento del limite in ogni campo dell’agire umano, dà l’illusione della onnipotenza, che è l’anticamera della catastrofe. La stessa caduta dell’etica pubblica è determinata da questa trasformazione. L’etica è frutto dei valori di una comunità, non dell’imposizione dall’alto da parte di un capo.

Non a caso Mattarella insiste sui corpi intermedi.

A ragion veduta. Tra l’altro proprio a Sergio Mattarella si deve una delle migliori leggi elettorali che dava al candidato e al politico la consapevolezza di rappresentare un tot numero di persone e quindi doveva stare là, doveva parlare, ascoltare, eccetera… rappresentare appunto, essere il punto di riferimento di una comunità. Nella scorsa legislatura, ogni tanto venivano a trovarmi, un po’ segretamente, alcuni parlamentari del Movimento Cinque Stelle, e una volta una giovane, molto sveglia, mi disse: “ma noi che cosa non abbiamo? che cosa non sappiamo?”. Io risposi, da anziano: “Voi non conoscete il dolore delle persone. Chi fa politica conosce il dolore delle persone perché sta in mezzo alle persone che vengono a dirgli i loro problemi. Non vogliono che tu glielo risolva, vogliono che tu condivida il loro dolore. Questa è la questione. Voi parlamentari di oggi questa cosa non la conoscete. Magari state dove sta la gente, ma non vi mescolate”. Attraverso la conoscenza del dolore si può costruire la comunità, perché la comunità non è un circolo ricreativo, è un luogo nel quale si vive; si convive anche con le forze disgregatrici ma ci si impegna a sconfiggerle. Il Papa invita a non temere i conflitti, alla manutenzione dello squilibrio.

L’uomo di fede, di qualsiasi fede, può quindi giocare oggi un ruolo dentro questa crisi?

La fede dà speranza, ma dà anche responsabilità. È più facile ritrarsi che impegnarsi perché spesso sembra prevalere l’apparenza, mentre la fede è sostanza che non appare. Pensi all’uso sfacciato dei simboli religiosi… bene ha detto il cardinale Ravasi sul Corriere della Sera distinguendo tra fede e religione; quest’ultima è l’esteriorità. Oggi c’è, mi pare, una forte esibizione di questa esteriorità. Però la fede è un’altra cosa. C’è bisogno di persone di fede. Anche di una fede che non sia ultraterrena, ma di fede nel senso di persone che vogliono dare un senso alla vita, credere che la vita abbia un senso e che si impegnano su questo. C’è tanta gente che lavora spinta da una grande fede, sia di tipo secolare che di tipo religioso, ma tutto questo non emerge. Quanti ragazzi ad esempio fanno assistenza sociale e s’impegnano nel volontariato. I difetti si superano partendo dalle qualità; fermiamoci alle cose che funzionano, chiediamoci come mai funzionano e cerchiamo di estendere il modello.

Ho intervistato in questa serie Gioele Anni. Un ragazzo di 28 anni, uno impegnato nell’Azione Cattolica che non cerca alibi ma è motivato in modo contagioso a impegnarsi per il bene comune. Parlando di politica ha detto che oggi la politica è “una cosa complessa che ce la vendono facile”.

Mi fa venire in mente di nuovo Aldo Moro, di cui sono stato allievo, che una volta mi disse «bisogna distinguere tra semplificare e banalizzare. Chi semplifica toglie consapevolmente il superfluo, chi banalizza toglie inconsapevolmente l’essenziale». Questo “vendere facile” non è semplificazione, ma banalizzazione, si elimina l’essenziale e si mette in primo piano il superfluo. Noi siamo parte della complessità del mondo. Dobbiamo esserne consapevoli.

La crisi che stiamo vivendo è totalmente nuova o non c’è mai nulla sotto il sole come dice Qoelet? Forse un elemento nuovo c’è: la tecnologia, che ne pensa?

Ho ricordato il cambiamento d’epoca. Se c’è cambiamento d’epoca, c’è trasformazione. Chiamiamo crisi quello che è un processo di trasformazione. Se non saremo in grado di prendere in mano il processo e di portarlo avanti sarà deperimento, crisi appunto. Ma se saremo capaci di prendere nelle nostre mani il futuro, sarà trasformazione compiuta. Le nuove tecnologie pongono la necessità di un “umanesimo digitale”, di una rivisitazione dell’umano, per un’umanità che dev’essere più consapevole per non diventare subalterna alla macchina. Secondo me si deve ridefinire l’umano in rapporto alla tecnologia, non come separatezza ma come capacità di governo.

Nel dialogo con Habermas, l’allora cardinale Ratzinger sosteneva proprio questo, che c’è stato uno sviluppo enorme dal punto di vista tecnologico al quale non ha corrisposto uno sviluppo morale, da qui l’inquietante squilibrio.

È così, c’è uno squilibrio. C’è, ci deve essere, un’etica della tecnica. Come Fondazione Leonardo noi avremo un convegno il 21 e 22 novembre prossimo sui principi etici e giuridici dell’intelligenza artificiale e robotica perché senza etica non c’è nessun progresso nella tecnologia; non si può fare tutto ciò che si può fare, quello che si può fare dipende anche da quello che si riesce a governare. La tecnologia ci spinge ad approfondire il concetto di umano; la pura contrapposizione dell’umano alla tecnologia è già di per sé una forma di difesa fragile, destinata a soccombere.

D’altra parte dopo la seconda guerra mondiale il problema dell’umano si è riproposto, pensiamo al tema della dignità; l’Onu e la Ue si basano sul primato dell’umano.

Proprio per l’uso dissennato della tecnologia nella distruzione dell’altro emerse il discorso dell’umano, la dignità, il valore dell’uomo. Dopo la guerra si reagì. Pensiamo oggi all’uso della tecnologia nel campo della comunicazione: abbiamo fondato i meccanismi democratici sull’opinione pubblica ed ecco che vediamo come l’opinione pubblica può essere deviata da false notizie. Perciò abbiamo bisogno di un’umanità diversa che si formi sull’uso consapevole di questi strumenti. Si pone, senza esagerare in prediche, il problema del primato della verità, oggi forte più di prima.

 

Istat, scende la disoccupazione: a maggio è al 9,9%, ai minimi dal 2012

Dopo la sostanziale stabilità registrata ad aprile, a maggio 2019 la stima degli occupati risulta in crescita rispetto al mese precedente (+0,3%, pari a +67 mila); anche il tasso di occupazione sale al 59,0% (+0,1 punti percentuali).

L’aumento dell’occupazione si concentra tra gli uomini (+66 mila) mentre risultano sostanzialmente stabili le donne; per età sono stabili i 15-24enni, in calo i 35-49enni (-34 mila) e in aumento le altre classi di età, prevalentemente gli ultracinquantenni (+88 mila). Si registra una crescita sia degli indipendenti (+28 mila) sia dei dipendenti, permanenti e a termine (+39 mila nel complesso).

Le persone in cerca di occupazione sono in calo (-1,9%, pari a -51 mila). La diminuzione è determinata da entrambe le componenti di genere ed è distribuita in tutte le classi d’età tranne i 35-49enni. Il tasso di disoccupazione cala al 9,9% (-0,2 punti percentuali).

La stima complessiva degli inattivi tra i 15 e i 64 anni a maggio è sostanzialmente stabile, l’andamento è sintesi di una diminuzione tra gli uomini (-29 mila) e una crescita tra le donne (+33 mila). Il tasso di inattività è invariato al 34,3% per il quarto mese consecutivo.

Nel trimestre marzo-maggio 2019 l’occupazione registra una crescita rilevante rispetto ai tre mesi precedenti (+0,5%, pari a +125 mila), verificata per entrambi i generi. Nello stesso periodo aumentano sia gli indipendenti (+0,5%, +27 mila) sia i dipendenti permanenti (+0,6%, +96 mila) sia, in misura lieve, quelli a termine; per tutte le classi di età si registrano segnali positivi ad eccezione dei 35-49enni.

All’aumento degli occupati si associa, nel trimestre, un ampio calo delle persone in cerca di occupazione (-3,7%, pari a -100 mila) e degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-0,3%, -37 mila).
Anche su base annua l’occupazione risulta in crescita (+0,4%, pari a +92 mila unità).

L’espansione riguarda entrambe le componenti di genere, i 15-24enni (+43 mila) e soprattutto gli ultracinquantenni (+300 mila) mentre risultano in calo le fasce di età centrali. Al netto della componente demografica la variazione è positiva per tutte le classi di età. La crescita nell’anno si distribuisce tra dipendenti permanenti (+63 mila), a termine (+18 mila) e indipendenti (+12 mila).

Nei dodici mesi, la crescita degli occupati si accompagna a un notevole calo dei disoccupati (-6,9%, pari a -192 mila unità) e a una sostanziale stabilità degli inattivi tra i 15 e i 64 anni.

Papa Francesco: l’8 luglio celebrerà una messa per i migranti nella basilica di San Pietro

In occasione del VI anniversario della visita a Lampedusa, lunedì 8 luglio, il Santo Padre Francesco celebrerà una Messa per i Migranti, alle ore 11, nella Basilica di San Pietro. Parteciperanno alla celebrazione circa 250 persone tra migranti, rifugiati e quanti si sono impegnati per salvare la loro vita.

Alla Messa, presieduta dal Papa all’Altare della Cattedra, prenderanno parte solo le persone invitate dalla Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, a cui il Santo Padre ha affidato la cura dell’evento.

La Messa sarà trasmessa in diretta da Vatican Media, ma non è prevista la presenza della stampa in Basilica. Il Santo Padre desidera che il momento sia il più possibile raccolto, nel ricordo di quanti hanno perso la vita per sfuggire alla guerra e alla miseria e per incoraggiare coloro che, ogni giorno, si prodigano per sostenere, accompagnare e accogliere i migranti e i rifugiati.

America nazionalista o imperiale?

Fonte Associazione Popolari a firma di Giuseppe Ladetto

Nel dibattito politico abbiamo ascoltato frequentemente l’accusa di “nazionalismo” nei confronti dei cosiddetti “sovranisti”. Ma come detto in altro articolo (Tra nazione e nazionalismo), il nazionalismo non consiste nella difesa di una propria cultura identitaria e di un proprio modo di vita, ma è teso ad esaltare la propria nazione considerata superiore alle altre per razza, cultura, civiltà o istituzioni politiche, traducendosi in atti di forza tesi a dominare altri popoli e ad espandere territorialmente, militarmente o economicamente il proprio Paese. Quando si indicano la Russia e la Cina come paesi nazionalisti, si possono ritrovare elementi a sostegno della tesi.

Tuttavia, non vedo mai citare fra questi gli Stati Uniti che pur uniscono in sé tutti gli elementi che caratterizzano la definizione di nazionalismo: si considerano superiori agli altri Paesi, si ritengono indispensabili per il mondo e manifestamente destinati a governarlo; sono la nazione che spende di più per le forze armate e gli armamenti (più del 40% della spesa mondiale che giunge a oltre il 60% con gli “alleati” della NATO), che dispone del maggior numero di basi militari disseminate per il mondo e che negli ultimi 50 anni ha condotto il maggior numero di guerre o interventi militari in varie parti del globo.

Ma solo accennare a tale fatto scatena le indignate risposte della più parte dei politici, intellettuali, esponenti del giornalismo e della comunicazione: questi subito ricorrono all’accusa di “antiamericanismo” per mettere a tacere l’imprudente che avesse osato introdurre questo argomento.

Eppure è arduo negare l’evidenza degli elementi sopra indicati. Infatti chi ha abbastanza pudore per non nasconderli ricorre ad un’altra argomentazione: gli Stati Uniti non possono essere accusati di nazionalismo perché sono un impero, come lo era Roma nel mondo antico. Una concezione imperiale è sorretta da una visione universalistica tesa ad unificare il mondo portando a tutti i benefici che contrassegnano la vita del Paese leader e soprattutto a realizzare la pace universale.

Prendiamo al momento per buona tale definizione. Però, né Roma ieri, né gli USA oggi hanno il monopolio di tale vocazione imperiale: Cina e Russia potrebbero proporsi come candidate, soprattutto la Cina che si definisce “comunista”, ed il comunismo ha certo una impronta di taglio universale.

Ma ci dice Joseph Nye, studioso di relazioni internazionali, che, a tal fine, occorre il potere: questo consiste nella capacità di chi lo esercita d’indurre gli altri ad agire in base alle proprie aspettative. Per fare ciò (indurre gli altri) ci sono tre modi: con la coercizione (le armi), con il denaro (la forza economica), con la capacità di attrazione e di persuasione (la diffusione della propria way of life).

Gli Stati Uniti dispongono delle tre dimensioni del potere in rilevante misura (militare, attrattiva e, per quanto non più come un tempo, economica). Cina e Russia no: anche se la prima dovesse superare gli USA nell’economia, resterebbe a lungo indietro sul piano militare e soprattutto su quello attrattivo; la Russia ha una economia debole (il PIL e il reddito pro capite sono 1/7 e 1/3 di quelli USA), una struttura istituzionale e un sistema giuridico inefficienti, e manca di un potere attrattivo; la sua forza è esclusivamente militare. L’atteggiamento ostile degli USA nei confronti della Russia viene dal fatto che Mosca costituisce un pericoloso elemento di disturbo revisionista dello status quo, catalizzatore per altre potenze infastidite dalla preminenza americana.

Alessandro Barbero, in una trasmissione televisiva dedicata alla storia, ha rilevato che un impero non può tollerare la presenza di un altro impero (anche se difettoso dei requisiti necessari) e neppure di nazioni che non gli si sottomettano o contestino lo status quo imperiale. Perché Napoleone ha voluto imbarcarsi nella difficile impresa di invadere la Russia, tragicamente finita per l’esercito invasore? Lo storico risponde che non fu per la ragione messa in campo dall’imperatore francese (la Russia non rispetta il blocco commerciale antibritannico), ma perché Napoleone vedeva nella Russia un impero che poneva limiti all’espansione dell’impero francese, il solo ritenuto giustificato perché portatore dei valori illuministici.

È opinione diffusa che gli imperi nascano da una concezione universalistica o comunque da un disegno o una vocazione presente fin dalle origini della nazione a ciò predestinata. Tuttavia, ci dice Dario Fabbri che tale vulgata politologica non corrisponde alla realtà. È del tutto inavvertitamente che certe nazioni si tramutano in imperi: in un primo tempo, si espandono sul territorio per accrescere la propria profondità difensiva; in seguito, acquisiti nuovi territori e domini, possedendo idonee capacità demografiche e tecnologiche od organizzative, continuano ad espandersi per accaparrarsi delle risorse necessarie alle nuove esigenze di grande potenza..

Roma, nei primi secoli, era una delle tante città del Lazio in lotta con i vicini per impossessarsi delle terre migliori e delle vie di comunicazione. A tal fine, le era sufficiente un esercito di entità modesta, fatto di cittadini, in prevalenza contadini, che lasciavano i campi e prendevano le armi quando necessario. Con l’espandersi del territorio conquistato, per difenderne le acquisizioni, l’esercito è stato via via numericamente accresciuto fino a diventare permanente, con una lunga ferma, e dipoi formato di soli professionisti. Anche il governo dello Stato e l’amministrazione dei territori conquistati hanno comportato la formazione di un idoneo corpo di funzionari. Così i costi dell’organizzazione civile e militare hanno richiesto crescenti tributi da parte dei Paesi assoggettati e spinto a nuove conquiste. Inoltre, poiché l’appetito viene mangiando, le ricchezze (terre, bottino, schiavi) acquistate con le vittorie sono diventate necessarie per sostenere il tenore di vita, diventato più dispendioso, delle classi dirigenti e della popolazione romana. In tal modo, nasce la vocazione imperiale che si fa tanto più marcata quanto più si espandono le conquiste e complessa l’organizzazione e gestione statale. È quanto contrassegna la genesi e lo sviluppo di ogni impero anche ai nostri giorni. Semmai la complessità delle società e delle formazioni statali moderne accresce ancor più questo nesso tra spinta espansiva ed esigenze di sopravvivenza degli apparati militari, burocratici e economico produttivi (ad esempio l’industria degli armamenti) che caratterizzano le grandi nazioni odierne e ne sostengono l’espansione.

Scrive Dario Fabbri che gli imperi durano fino a quando non si esauriscono i presupposti strutturali che li hanno determinati, non certo per volontà dei politici che li governano. Negli Stati Uniti, periodicamente emergono (in specie in campo repubblicano) tentazioni isolazioniste per la stanchezza che genera la politica imperiale con i suoi costi e il tributo di “vite americane”. Inoltre, una tale politica comporta un crescente peso degli apparati centrali a discapito degli Stati di cui è composta la Federazione, e in sostanza comprime la vita democratica. Oggi, di questa stanchezza si è fatto interprete Donald Trump, ma i suoi tentativi di voltare pagina sembrano destinati all’insuccesso proprio per la reazione degli apparati securitari scesi in campo con tutta la loro potenza per propugnare il perseguimento di una politica estera imperiale. E con ogni probabilità saranno destinati all’insuccesso analoghi tentativi di disimpegno di cui potrebbero farsi portatori personalità di parte democratica, come Bernie Sanders (la cui candidatura nelle passate primarie è stata contrastata con ogni mezzo).

Gli Stati Uniti, come scrive Dario Fabbri, mantengono tuttora intatte le condizioni che ne hanno consentito l’ascesa imperiale (il controllo delle vie marittime, lo strapotere tecnologico, l’approccio messianico alle vicende umane, la capacità di attrarre giovani immigrati idonei ad essere impiegati nelle forze armate) e continueranno ancora per molto tempo a essere l’unica superpotenza globale.

Altri politologi la pensano diversamente a partire da Henry Kissinger. Essi ritengono che il mantenimento della leadership planetaria sia un’ impresa che si fa sempre più difficile e pesante in un mondo in cui nuovi attori sono comparsi, altri si sono rafforzati e dove l’attrattiva dell’american way of life è ancora forte, ma non più come in un passato ancora recente. Kissinger in particolare ritiene che l’assetto unipolare sia oggi avviato a un inarrestabile declino. Se non se ne prende atto in tempo e si continua a procedere sulla vecchia strada, la situazione è destinata a diventare sempre più pericolosa, poiché ne risultano incrementati terrorismo, tensioni, guerre, crisi di vario ordine, con il rischio di una guerra su scala mondiale disastrosa per tutti.

Non sta a me entrare in questo dibattito che vede coinvolti qualificati esperti di cose internazionali. Devo  tuttavia fare una considerazione. Quale che sia il giudizio sull’impero americano, è certo che la logica imperiale (a qualunque formazione statale appartenga) non assicura la pace universale, ma va nella direzione opposta: solamente da essa infatti possono venire  reali pericoli di una guerra estesa e devastante.

Ora ritornando a quanto detto in apertura dell’articolo, appaiono ingenue le preoccupazioni di coloro che nel nostro Paese denunciano i sovranisti quali pericolosi guerrafondai. A questi si possono fare molte giustificate critiche, ma appartengono alla mera propaganda affermazioni strumentali del tipo di quella fatta da Mario Monti in vista delle elezioni europee: “Se vincono i sovranisti, ci sarà la terza guerra mondiale”.

È arduo immaginare che i pericoli di guerra possano venire da Paesi europei (chiunque ne sia al governo) o dalle loro contrapposizioni per motivazioni che mai hanno rilevanza geopolitica. In un mondo globalizzato in cui sono presenti potenze di grandezza quasi continentale, la stessa ridotta dimensione dei Paesi europei, il loro modesto potenziale umano e l’età media elevata della popolazione dovrebbero essere elementi  sufficienti per far capire che da tali paesi non possono venire minacce allo status quo planetario tali scatenare una guerra mondiale.

Di fatto, la sola guerra oggi presente in Europa è quella che ha luogo in Ucraina, una guerra che trova motivazione nella volontà statunitense di ridimensionare la Russia espandendo sempre più ad est la NATO e destabilizzando a tal fine i Paesi ad essa limitrofi (Ucraina, Bielorussia, Georgia) che hanno storicamente profondi legami etnici, culturali, religiosi ed economici con Mosca.

Lo stretto di Hormuz e le sanzioni USA all’Iran

Nel 2018, alla decisione di Trump di ripristinare le sanzioni verso l’Iran, la UE non aderisce, e ciò complica il progetto di Washington di isolare l’Iran. In nome dei commerci, o anche soltanto in nome di rancide ideologie terzomondiste (rancide anche nelle pieghe antisemite), i burocrati e i governi che dettano legge a Bruxelles, cioè quello tedesco e quello francese, non accettano le richieste che arrivano dal governo Trump: perseguire ed espellere gli agenti iraniani in Europa; chiudere, se necessario, le ambasciate; sanzionare le società coinvolte in attività di terrorismo. Nemmeno un attentato maggiore in Danimarca, da alcune voci collegato a fondi iraniani e sventato all’ultimo momento nel settembre 2018, convince a un giro di vite. Il governo tedesco e quello francese pensano di poter aspettare l’uscita di scena di Trump nel 2020, che essi auspicano. Quando nel novembre 2018 Trump reintroduce le sanzioni, gli stipendiatissimi passacarte di Bruxelles annunciano un antipatico tentativo di stabilire un canale di pagamento in euro, che escluda il sistema del dollaro, per mantenere i legami economici con l’Iran. Persino con qualche accanimento, funzionari di Bruxelles studiano un sistema di baratto che consenta all’Iran di vendere petrolio o gas in Cina, e averne in cambio merci tecnologiche europee prodotte in Cina. La mentalità o l’ideologia che stanno dietro a queste azioni sono le stesse del governo Obama, il cui segretario al Tesoro, Lew, nel luglio 2015 assicurò in Congresso che all’Iran “negheremo l’accesso al mercato finanziario USA”, mentre invece faceva pressioni sulle banche americane affinché lavorassero con l’Iran. Affermando che l’accordo sul nucleare faceva dell’Iran un accettabile interlocutore per gli affari, Obama diede istruzioni a Kerry e altri ministri affinché incoraggiassero le istituzioni finanziarie a lavorare con l’Iran, e a questo scopo inviò delegati in molti paesi del mondo. Un analogo appeasement è la scelta dei potentati europei. Nel febbraio 2019, quando alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco il vice presidente americano Mike Pence chiede ai governi europei di unirsi agli USA nel denunciare l’accordo del 2015, la risposta è evasiva, mentre il governo tedesco e quello francese confermano (con il costituire società che diano attuazione al canale di pagamento in euro) i legami economici e diplomatici con l’Iran.

 

Ma intanto le sanzioni americane spingono importanti società europee a uscire dal mercato iraniano, nel timore di perdere l’accesso all’economia USA e ai suoi 22 trilioni di dollari di PIL. A inizio 2019 le sanzioni cominciano a farsi sentire, e l’economia iraniana incespica. L’export di petrolio e gas è sceso, in un paese dove quell’export fornisce l’80% delle entrate. Le maggiori società europee lasciano il paese. Sul piano delle transazioni bancarie, però, le sanzioni unilaterali USA non sono sufficienti. Per anni, prima durante i negoziati, poi dopo l’accordo del 2015, i legami commerciali con la Cina hanno portato investimenti in Iran, mentre quelli con la Russia hanno significato la costruzione di una seconda centrale nucleare e massicci acquisti di armamenti avanzati. Servendosi del fatto che l’accordo non riguardava tali acquisti, l’Iran ha sviluppato missili balistici e comprato da russi e cinesi missili terra-aria e terra-mare, oltre che imbarcazioni veloci fornite di siluri ad alto potenziale. Gli anni dell’accordo, dopo il 2014, hanno coinciso con la guerra in Siria, di cui l’Iran è stato il principale istigatore, e con lo spostamento di armi e truppe iraniane verso il Libano. Nei primi due anni di presidenza Trump le piccole aggressioni da parte di motovedette iraniane verso le unità della flotta USA nel Golfo Persico sono diminuite fino all’irrilevanza. Poi, quando l’economia iraniana è peggiorata, a inizio estate 2019 si è giunti alle provocazioni iraniane in prossimità dello Stretto di Hormuz.

 

Prima e dopo la crisi di inizio estate 2019, rinnovate sanzioni verso l’Iran, insieme a una deterrenza armata, sono la strada per indebolire il regime e arrivare a un negoziato credibile. Il governo Trump ha cancellato la nozione (obamiana) che il tema del nucleare può essere separato dalle altre iniziative del regime: un eventuale accordo deve riguardare l’arma nucleare, ma anche il programma missilistico iraniano e il sostegno a gruppi terroristi. La mancanza di consenso alle nuove sanzioni da parte dei maggiori governi europei, e l’evidenza che Cina e Russia proseguono i loro commerci con l’Iran, sono ostacoli maggiori. In ogni caso, qualunque ne sia l’esito, la decisione di Trump di revocare l’accordo concluso da Obama è moralmente apprezzabile e strategicamente coerente. Quanto al regime iraniano, la sua strategia è quella di tutti i nemici di Trump, cioè di aspettare una sua sconfitta nelle elezioni del 2020 e intanto operare perché ciò avvenga. A quest’ultimo obiettivo si adegua il tentativo di attirare gli USA in risposte militari limitate.

 

Da quando le difficoltà economiche alimentano l’opposizione interna, il regime iraniano sente il terreno franare sotto di sé. In questo contesto avvengono, nel maggio e giugno 2019, gli attacchi iraniani a petroliere, in prossimità dello stretto di Hormuz, con mine applicate sopra la linea di galleggiamento (in giugno un video registrato da un drone della Navy USA mostra un motoscafo iraniano che si affianca a una petroliera colpita per rimuovere una mina inesplosa). Nel punto più stretto, tra le due sponde di Hormuz ci sono meno di 15 km; da lì passano ancora il 20% del gas naturale e il 15% del petrolio esportati via mare; le destinazioni sono: Cina, India, Giappone, Taiwan, Indonesia, Europa; una navigazione libera e sicura viene considerata necessaria. Con gli attentati alle petroliere, il regime iraniano cerca attenzione e cerca soccorso, dai governi europei oltre che da Cina e Russia, per fermare le sanzioni USA in nome di un appeasement che eviti gli attentati alla navigazione. Con tale obiettivo, nella notte del 20 giugno quel regime, o qualche suo vertice militare, alza la posta in gioco: un missile terra-aria russo, lanciato da una base iraniana, abbatte un drone della Navy in missione di sorveglianza nei pressi di Hormuz. Non è un piccolo drone; è un grande velivolo, dal costo di 110 milioni di dollari. La previsione di tutti, in primo luogo del governo iraniano, è che gli USA rispondano con un limitato attacco su obiettivi iraniani. In America i media, i neo-con, persino i Democratici, invitano ad agire. La trappola per Trump è ben preparata: un attacco limitato condurrebbe a un’escalation senza infliggere danni sostanziali, mentre aprirebbe le porte a una valanga di accuse false a Trump e agli USA. Per il regime iraniano e per il suo zelo jihadista, essere oggetto di un attacco, soprattutto con perdite di truppe, sarebbe il risultato più gradito. Le perdite sono l’ultima cosa di cui quel regime si preoccupa, e un attacco USA, certamente travisato da comunicazioni distorsive, sarebbe per l’Iran un’occasione di rinnovato dialogo con Pechino e con Bruxelles.

 

Per gli USA, la perdita di un drone sofisticato (e vulnerabile) è molto spiacevole, ma è più un motivo per non mettere a rischio i propri velivoli, che non per accettare un conflitto limitato e gestito, presso l’opinione pubblica, da media avversi. Una guerra rimane tra le possibilità della storia: ma in quel caso dev’essere una guerra vera, con lo scopo di fare il massimo danno, e non il minimo danno, al nemico; dev’essere una guerra vera, non affidata a due o tremila uomini (truppe speciali, uomini di prima linea), come avviene da oltre 15 anni in modo esecrabile, immorale e strategicamente difettoso. Appare dunque corretta la decisione di Trump di non autorizzare l’attacco limitato che tutti attendono. Meno apprezzabile è il processo decisionale troppo trasparente: le notizie stampa sul raid annullato mezzora prima dell’inizio, l’intenzione dichiarata da Trump di voler evitare le perdite (150 truppe) previste tra gli iraniani, e altre chiacchiere mediatiche, non aiutano, non servono. Ciò che conta è la scelta di Trump di non cadere nella trappola di un’altra guerra che non è guerra. Niente può danneggiare Trump nelle elezioni del 2020 quanto un altro conflitto, condotto a metà e con mille freni, che i suoi elettori non vogliono. Gli iraniani, come i cinesi, come i governi europei, lo sanno. Per questo motivo essi vedrebbero con favore un’azione militare USA, che senza dubbio sarebbe di modesta entità, dalle parti di Hormuz.

 

Davanti alle provocazioni iraniane di inizio estate 2019, gli USA hanno opzioni diverse dalla guerra, tra cui sanzioni e incursioni cyber. Le sanzioni economiche annunciate da Trump il 24 giugno, che colpiscono le società petrolchimiche del paese e ne riducono l’export (che beneficiava di molte deroghe nelle sanzioni di fine 2018), sono più dannose per il regime della perdita di una batteria di missili russi, o di una stazione radar, o di 150 truppe. L’accordo sul nucleare del 2015 aveva liberato l’Iran dalle sanzioni e aveva garantito le sue attività aggressive. Un regime ispirato dal fondamentalismo islamico può compiere ben altro che abbattere un drone. Se il regime avesse la bomba nucleare, Israele sarebbe il primo bersaglio. Soltanto i +leader Democratici USA, o governi europei al servizio del globalismo, possono fingere di non vederlo. La strategia di Trump del giro di vite sul regime, aumentando la stretta delle sanzioni e assicurando i vicini arabi del sostegno USA in caso di aggressioni iraniane, può funzionare, in rapporto a un eventuale cambio di regime in Iran. Ovviamente, un attacco maggiore su obiettivi USA cambierebbe lo scenario.

 

Riguardo alla crisi di Hormuz dell’estate 2019, vi sono due cose da notare. La prima è che è giunto infine il momento di mettere in questione la garanzia di libera navigazione e di liberi commerci fornita esclusivamente, a Hormuz e nei mari vicini, dalle forze USA. Trump ne ha parlato in un tweet ma, come su altri temi, la politica USA non cambia per un tweet. A chi serve la sicurezza a Hormuz? A chi servono il petrolio e il gas che vi passano? Non agli USA, che non ne hanno bisogno, avendo raggiunto la piena indipendenza energetica ed anzi essendo divenuti un esportatore, tra i maggiori, di gas e petrolio. Nessuna delle petroliere attaccate a inizio estate 2019 aveva bandiera USA o relazione con gli USA. Petroliere e flussi sicuri servono alla Cina (il 60% dei flussi va in Cina), al Giappone, all’India, e così via. Poiché in politica estera il presidente ha qualche autonomia, e poiché nulla ci si può attendere da un Congresso che per metà è nella morsa di politiche distruttive per la nazione americana, si può auspicare un’iniziativa diplomatica (e comunicata al pubblico) affinché i paesi interessati ai traffici in uscita da Hormuz siano coinvolti nel garantire la sicurezza della navigazione in prossimità della costa iraniana: coinvolti almeno in termini finanziari e di sostegno politico. Che la Cina sia pronta a condannare una risposta USA alle aggressioni iraniane, mentre essa è il primo beneficiario della guardia armata condotta dalle forze USA in quei mari, è un’aberrazione. 

 

La seconda cosa da notare riguarda l’Europa. Nel momento più caldo della crisi nell’estate 2019 i vertici della UE, sulla stessa linea dei maggiori media americani, criticano la denuncia dell’accordo sul nucleare da parte di Trump (come se quella denuncia fosse la causa delle malefatte iraniane, che vanno avanti almeno dal 1983, quando vi fu l’attacco terroristico di Hezbollah alla caserma dei marines in Libano) e mettono in dubbio l’utilità delle sanzioni verso l’Iran. La posizione presa dai governi europei che impongono la linea a Bruxelles (Germania e Francia) era l’esatto scopo degli attacchi iraniani, che volevano dimostrare il pericolo derivante dalle sanzioni americane. L’esigenza che l’UE non si faccia condizionare dalle manovre o dalle truffe iraniane non ha bisogno di commenti. Qualche parola, però, vorrei dire riguardo al paese leader dell’UE, la Germania. Da qualche anno ascoltiamo critiche esplicite al governo Trump da parte di esponenti della politica e della finanza tedesche. Le ascoltiamo anche da un leader, la Merkel, un tempo prudente, poi divenuto obsoleto, legato al globalismo, e talvolta fuori dai cardini: cominciò a esserlo nel 2010, con il primo salvataggio finanziario della Grecia; si aggravò nel 2015, con l’apertura delle frontiere a un milione e mezzo di immigrati dal Medio Oriente in poco più di un anno, recando grave danno alla società e alla convivenza in Germania; divenne incontrollabile con le dichiarazioni ostili verso Trump, in un caso persino pronunciate in America, nell’università di Harvard (il che è come se Trump attaccasse la Merkel in un’assemblea del partito tedesco AFD). Ma per la Germania il problema va oltre la sua leader globalista e anti-Trump. La deriva antiamericana si confonde con una deriva pacifista e con un ambientalismo massimalista, applicato anche quando danneggia l’ambiente (come avviene in Germania per molti impianti solari, che stravolgono l’ambiente). Troppo tedeschi tendono a dimenticare che nei 40 anni seguiti al 1945 il loro paese era esposto a un’invasione da parte dell’esercito sovietico, se a difenderlo non vi fosse stato il deterrente delle forze USA di stanza in Germania: se i cieli tedeschi non fossero stati pattugliati dai Phantom americani e se le foreste tedesche non fossero state presidiate dagli Abrams americani. Troppi tedeschi tendono a dimenticarlo, tanto più quando un presidente americano, Trump, per la prima volta mette in questione la mancata osservanza, da parte della Germania, degli impegni per il finanziamento della NATO; o mette in questione le tariffe commerciali, sia pur modeste, che la Germania applica su alcuni prodotti USA e che hanno contribuito, insieme all’eccellenza di molti prodotti tedeschi, al vasto attivo commerciale della Germania; o quando quel presidente offende la sensibilità tedesca mostrando di non approvare le scelte globaliste del governo di Berlino o chiedendo (e qui sbagliando) di ridurre i legami con la Russia per l’acquisto di energia. La deriva antiamericana del governo Merkel ci infastidisce; in ogni caso, essa non può motivare il salvataggio di un Iran a cui la Germania ha venduto di tutto, dalle prese Siemens alle turbine per il nucleare. Il legame dell’alleanza occidentale con l’America, almeno nei confronti di regimi-canaglia, deve prevalere. 

Dall’Agenzia del Demanio una nuova asta per alcuni beni in Puglia e Basilicata

In Puglia e Basilicata l’Agenzia del Demanio mette in vendita fabbricati e terreni  per un valore complessivo a base d’asta di oltre 1.300.000 euro.

Ventidue i beni che si trovano nelle provincie di Bari, Foggia, Taranto, Lecce e Brindisi e tra questi: un vigneto di 4.752 metri quadri dal valore a base d’asta di 20.700 euro a Grottaglie (Ta) e un terreno di 15.969 metri quadrati in provincia di Taranto, con prezzo di partenza pari a 100.000 euro.

Gli altri dieci immobili si trovano, invece, in provincia Potenza e Matera. Tra questi vi è un edificio ad un solo piano con grande giardino a Bernalda (Mt) in riferimento al quale l’offerta parte da 188.400 euro, nonchè un ex casello di Bonifica a Scanzano Jonico (Mt) dal valore a base d’asta di 133.000 euro.

L’Agenzia del Demanio offre sul mercato beni immobili di proprietà dello Stato attraverso procedure ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di trasparenza dell’azione amministrativa previsti dalla normativa in materia.

Il termine ultimo per partecipare al bando è previsto per 22 luglio 2019. Ad aggiudicarsi i singoli lotti saranno coloro che presenteranno le migliori offerte in riferimento al prezzo fissato a base d’asta.

Emilia Romagna: il vaccino contro il Papilloma virus diventa gratuito anche per le giovani fino a 26 anni

La profilassi anti-papilloma virus, già di routine per gli adolescenti di entrambi i sessi a partire dagli undici anni di età, viene estesa – gratuitamente – anche alle giovani donne fino a 26 anni, mai vaccinate in precedenza.

Lo ha deciso la Giunta regionale, rafforzando il proprio impegno per la tutela della salute delle persone grazie alle vaccinazioni. In questo caso per prevenire l’infezione da Papillomavirus Umano (Hpv), causa di tumore alla cervice dell’utero e di altri tumori dell’apparato genitale maschile e femminile. Grazie al provvedimento adottato, si amplia la platea dei possibili destinatari.

Il vaccino potrà essere somministrato in concomitanza della prima chiamata per lo screening del tumore del collo dell’utero. Rientrano nell’ampliamento della copertura vaccinale gratuita anche le donne che abbiamo subito recenti trattamenti per il trattamento delle lesioni Hpv correlate, per ridurre il rischio di possibili recidive. Infine, la gratuità di questa vaccinazione è stata estesa anche alle persone che debbano svolgere terapie con immunomodulatori e immunosoppressori.

La copertura vaccinale Hpv

I dati della copertura vaccinale regionale per Hpv, aggiornati al 31/12/2018 e raccolti dall’Anagrafe vaccinale regionale, mostrano per i diversi anni di nascita che hanno goduto dell’offerta attiva e gratuita (a partire dalle ragazze nate nel 1997) una percentuale che si aggira tra il 75 e l’80%.

Per i ragazzi dodicenni nati nel 2006 (primo anno di estensione del vaccino anche ai maschi) l’adesione alla prima dose del ciclo vaccinale in Emilia-Romagna è stata alta (67,4%) e circa il 32% ha già completato il ciclo.

Anche le percentuali riferite dal ministero della Salute (aggiornamento al 31/12/2017) confermano il buon livello di copertura raggiunto in Emilia-Romagna, che si colloca tra i primi posti a livello nazionale per la vaccinazione contro l’Hpv nelle dodicenni. Prendendo in considerazione i dati riferiti alle bambine nate nel 2005 (la vaccinazione delle nate nel 2006 è ancora in corso), la percentuale di vaccinate in regione era del 71,01%, in Italia del 49,92%.

L’intelligenza di Scalfari consegna il PD alla sua dissoluzione

Articolo pubblicato, con titolo diverso, su Huffington di domenica 30 luglio 2019)

Scalfari offre sempre uno spunto di qualità per riflettere sulla vita politica odierna. Lo fa con le armi di un’analisi attenta alla storia, legando presente e futuro. Non sono mai banali, le sue analisi, né lo sono i richiami che spesso formula a sostegno di un’azione politica più coraggiosa, in nome di un’Italia bisognosa di speranza. Dunque prestare attenzione a quanto scrive, sempre con lucidità, non è un esercizio superfluo: anzi, di regola costituisce una bussola imperdibile.

È noto, del resto, il suo rapporto di simpatia e vicinanza con il Pd, dalle origini ad oggi, benché talvolta non lesini critiche alla dirigenza del partito. Nel tradizionale editoriale della domenica, ha voluto su “Repubblica” rincuorare il mondo democratico, spingendolo a guardare avanti, a combattere la buona battaglia contro l’attuale Governo, a vincere l’amnesia da cui scaturisce il disorientamento. Per questo, volendo rinsaldare l’identità della sinistra, ha riproposto la figura di Enrico Berlinguer.

In un passaggio è stato lapidario: “Il Pd odierno è la derivazione del partito comunista di Berlinguer”. Il che suona, onestamente, come la confutazione del percorso che ha condotto i cattolici del PPI a farsi promotori, dopo la parentesi della Margherita, di quel nuovo soggetto unitario dei riformisti, a cui fu dato appunto il nome di Partito democratico. Più che un partito unitario dei riformisti, con l’apporto eminente dei cattolici democratici, il Pd sarebbe o dovrebbe essere l’incarnazione della profezia di Marx sull’assorbimento della eredità liberale nel comunismo. Correva l’anno 1848. Dinanzi ai moti rivoluzionari europei Marx arrivava a questa conclusione: “Uguaglianza e libertà: questo è il comunismo e questo sarà il futuro del mondo”.

Ora, in Italia, la suggestione del “comunismo liberale” costituì nel secondo dopoguerra l’effimera scommessa del Partito d’Azione. Non ebbe fortuna. Togliatti, più di altri, ne stroncò le ambizioni archiviando in fretta, per agganciare la Dc di De Gasperi, la fragile esperienza del governo Parri. Ebbene, se l’anti-azionismo del leader storico dei comunisti italiani ha conosciuto piena espansione, con il varo negli anni ’70 della politica del compromesso storico, lo si deve in effetti a Berlinguer. Di qui viene la lezione su cui fa leva dialetticamente, dopo la caduta del Muro e la fine della prima Repubblica, lo sforzo di ricomposizione della cultura riformatrice italiana.

Forse, se oggi il Pd sconta un effetto di incompiutezza, talché la curva del consenso elettorale ha preso a piegarsi, non sta nel suo mancato aggiornamento della linea azionista. Sta piuttosto nel suo esatto contrario, vale a dire nella strisciante e contraddittoria pretesa – si pensi alla contestuale mitizzazione, non priva di ingenuità, del dialogo tra Berlinguer e Moro – con la quale s’intende recuperare ed imporre, in chiave di sostanziale emancipazione dal mondo “democratico e cristiano”, l’anima profonda dell’azionismo. Da questo punto di vista, a soffrire non è la posizione di quanti hanno trasfuso nel Pd la linfa del cattolicesimo politico, quanto il Pd nella sua interezza e complessità.

Fuori dal confronto che Moro e Berlinguer simboleggiano, senz’altro in uno processo di assiduo adeguamento alla realtà odierna, il Pd si riduce a materia inerte. Può reinventarsi nella figura di partito che non volle essere in origine, quando cioè fu riconosciuta l’esigenza, da parte degli ex comunisti, che la fondazione di una nuova politica democratica andasse oltre le alternative – socialdemocrazia o neo-laburismo – della sinistra europea. Ma se un partito diventa materia inerte, in questo caso perché si rifugia in un “altrove” già respinto all’atto della sua costituzione, allora non può pretendere di riconquistare la perduta capacità di attrazione. Questo rischio, nascosto nella sollecitazione elegante e insidiosa di Scalfari, pesa più di qualsiasi minaccia di scissione. Cosí, più semplicemente, il Pd implode.

Allarme a tavola per l’accordo coi Paesi Mercosur

E’ allarme sicurezza a tavola con l’accordo tra l’Unione Europea ed i Paesi del mercato comune dell’America meridionale di cui fanno parte Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay (Mercosur) su alcuni dei quali gravano pesanti accuse per i pesanti rischi alimentari e per lo per sfruttamento del lavoro minorile per prodotti che arrivano anche in Italia secondo il Dipartimento del lavoro Usa. E’ quanto afferma la Coldiretti in riferimento all’accordo raggiunto tra l’Unione Europea e le controparti del Mercosur.

Si tratta – sottolinea la Coldiretti – di una intesa intempestiva, in piena fase di rinnovo delle Istituzioni comunitarie, con evidenti criticità per il settore agricolo sulle quali dovranno esprimersi ora il Consiglio Ue e il nuovo Parlamento Europeo ma anche i Parlamenti nazionali. Dopo il più grande scandalo mondiale sulla carne avariata che ha coinvolto il Brasile a preoccupare è il via libera all’’ingresso nei confini europei di un contingente agevolato di carne bovina ma anche – sottolinea la Coldiretti – un quantitativo rilevante di pollame con gravi preoccupazioni per l’aspetto sanitario. Vale la pena ricordare che il manzo refrigerato e il pollame dal Brasile si sono classificati, per i casi di Escherichia Coli-Shigatoxin, nella top ten dei cibi piu’ pericolosi per il numero di allarmi alimentari che hanno fatto scattare in Italia nel 2018 secondo le elaborazioni Coldiretti su dati RASSF.

In Brasile dall’inizio dell’anno – aggiunge la Coldiretti – sono stati approvati ulteriori 211 pesticidi molti dei quali sono vietati in Europa. . Ma i Paesi del Mercosur – continua la Coldiretti – hanno chiesto concessioni nel settore dello zucchero che potrebbero aumentare le difficoltà della produzione comunitaria e lo stesso discorso vale per il riso e per gli agrumi per i quali si temono problemi fitosanitari dai prodotti provenienti dagli stati sudamericani contaminati da Black-spot o Macchia nera, una malattia non presente in Europa dove rischia così di diffondersi con effetti disastrosi.

Peraltro nel negoziato – denuncia la Coldiretti – è tutelato meno del 10% delle specialità Made in Italy con un via libera di fatto ai prodotti del Made in Italy taroccato particolarmente fiorente su quei mercati. “E’ necessario che tutti i prodotti che entrano nei confini nazionali ed europei rispettino gli stessi criteri, garantendo che dietro gli alimenti in vendita sugli scaffali ci sia un analogo percorso di qualità che riguarda l’ambiente, il lavoro e la salute” ha affermato il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare che “il settore agricolo non deve diventare merce di scambio degli accordi internazionali senza alcuna considerazione del pesante impatto sul piano economico, occupazionale e ambientale sui territori”.

La libellula della NASA volerà intorno a Titano

La NASA ha annunciato che la prossima destinazione nel sistema solare è Titano, un mondo unico e ricco di risorse organiche. Alla ricerca degli elementi costitutivi della vita, la missione Dragonfly cercherà di campionare ed esaminare i siti intorno alla gelida luna di Saturno.

Dragonfly verrà lanciato nel 2026 e arriverà nel 2034. Il velivolo rotante volerà verso dozzine di posizioni promettenti su Titano alla ricerca di processi chimici prebiotici comuni sia su Titano che sulla Terra. 

Durante la sua missione, Dragonfly esplorerà ambienti diversi da dune organiche al pavimento di un cratere da impatto in cui acqua liquida e materiali organici complessi sono fondamentali per la vita. I suoi strumenti studieranno fino a che punto la chimica prebiotica potrebbe essere progredita. Inoltre studieranno le proprietà atmosferiche e di superficie della luna e il suo oceano e i suoi serbatoi liquidi. 

Il Giappone riprendere la caccia alle balene

Il Giappone sta per riprendere la caccia alle balene a scopi commerciali.

Lo confermano i media internazionali dopo i ripetuti annunci fatti a partire dallo scorso dicembre, quando il Giappone ha abbandonato la Commissione internazionale (Iwc) che vieta la caccia ai cetacei.

Il governo di Tokyo ha dovuto dichiarare di avere interrotto la caccia alle balene per scopi commerciali nel 1982, in ottemperanza alla moratoria adottata dall’Iwc, ma dal 1987 le imbarcazioni nipponiche hanno ripreso a sopprimere piccole quote di balene per questioni che il governo definisce ‘legate alla ricerca scientifica’.

Tokyo ha fatto sapere che la caccia avverrà nelle acque della propria zona esclusiva economica (Zee), e non più nell’Oceano antartico, aggiungendo che le navi rispetteranno i limiti sulle quote di pesca.

Ospedali in difficoltà: mancano gli specialisti

Il titolare del Miur, Marco Bussetti, ha siglato i decreti che stabiliscono i posti per l’anno accademico 2019/2020. Quelli per Medicina e Chirurgia saranno 11.568 (nel 2018 erano 9.779 ) e quelli per Odontoiatria saranno 1.133 (1.096 lo scorso anno). Il decreto per Medicina e Chirurgia passa ora al Ministero della Salute, per essere controfirmato dal titolare Giulia Grillo.

“Su Medicina e Odontoiatria questo Governo sta mantenendo le promesse fatte, portando avanti un’azione strategica, sia nell’interesse dei nostri giovani che del Paese – ha detto il ministro Bussetti -. Abbiamo aumentato i posti a disposizione degli studenti universitari e continueremo a lavorare in questa direzione. L’Italia ha bisogno di medici, dobbiamo colmare questo vuoto. Chiaramente, è importante che a questo corrisponda anche un incremento delle borse di specializzazione mediche. Ed è per questo che ci siamo mossi su questo fronte. Abbiamo aumentato le borse già a partire dallo scorso anno e anche quest’anno abbiamo incrementato le risorse di cento milioni in Legge di bilancio per finanziare nuovi contratti di formazione. Non ha alcuna utilità avere più laureati se poi non si specializzano e non possono esercitare. Inoltre, siamo impegnati insieme al Ministero della Salute, agli Atenei e alle Regioni in una riforma del modello di ammissione ai corsi. E’ richiesta da anni, è stata molto dibattuta e adesso vogliamo arrivare alle risposte attese”.

De Mita riparte da Nusco

Perché De Mita invita a Nusco vecchi e nuovi amici, dopo il suo ritorno, per un altro mandato, alla guida del Comune irpino? La locandina che annuncia la riunione di domani, lunedì 1 luglio, non lo spiega. Stavolta il messaggio nasconde nelle pieghe della sobrietà il contenuto politico dell’iniziativa.
Si preannuncia un’occasione di verifica, anzitutto in ambito locale, ma con l’occhio rivolto al Paese.

Se la risposta degli irpini fosse fiacca, De Mita intende trarne le conseguenze. Cadrebbe il sipario sulla scena del possibile rilancio del cattolicesimo politico. Al contrario, se venisse un’adesione più convinta, tale da supporre l’esistenza di una volontà o almeno di un’aspettativa dal timbro sufficientemente forte, allora l’anziano leader della Dc si disporrebbe a fare propria questa rinnovata urgenza di partecipazione del “mondo popolare”.

Pertanto, la cautela della vigilia non deve confondere il giudizio degli osservatori. Cova sotto le ceneri della memoria il noto “ragionamento” demitiano sulla crisi del potere. Che non desiste, potremmo dire, dal provocare ed insistere; che cerca in ogni caso di estrapolare dalla politica imbarbarita del pentaleghismo le ragioni di un riscatto come leva dell’alternativa; che si traduce nel tentativo di portare – il ragionamento – oltre i confini della rassegnazione e dell’opportunismo.

L’Italia è scivolata nella palude di quel “sovranismo psichico” che il Censis ha registrato, mesi fa, nel suo tradizionale Rapporto di fine d’anno. Troppe inadempienze consentono a un governo rabberciato, privo di un autentico criterio direttivo, di sopravvivere a se stesso. Probabilmente De Mita non indugerà nel discorso sul “Pd che non basta”, se non altro perché ne riteneva scontata la validità anche nei giorni dell’onnipotenza renziana. Sarà dunque interessante, a Nusco, capire con quale suggestione avverrà il revamping della dialettica sul ruolo trainante del popolarismo, anche dinanzi alle fragilità della sinistra democratica.

Con De Mita, di regola, non ci si annoia.

I cattolici in politica? Insieme. Ecco come

Fonte Formiche.net a firma di Raffaele Reina

È arrivato il tempo dell’iniziativa, è scoccata l’ora di un nuovo impegno. Mercoledì 3 luglio a Roma presso l’Istituto Sturzo, via delle Coppelle 35, si avvierà una riflessione politica che sarà aperta da Stefano Zamagni. Alla fine dei lavori ci sarà l’intervento di Leonardo BecchettiPolitica insieme ritiene che si siano create le condizioni per far emergere finalmente una proposta politica di ispirazione cristiana davvero nuova, recuperando anche la migliore tradizione dei popolari e dei cristiani democratici. Non c’è certezza dell’approdo, ma c’è consapevolezza che il limbo politico durato venticinque anni non può continuare. Galleggiare può salvare qualcuno, ma non l’Italia che incontrerà difficoltà sempre più aspre, se persiste l’attuale, spaventosa ed esiziale precarietà. È utile iniziare a ragionare sulle cose da fare, per guardare a un futuro caratterizzato da vero e sano sviluppo.

È maturo il tempo per chiamare alla partecipazione le persone di buona volontà intorno ad un progetto-Paese che sappia dare nuovo slancio all’Italia, bandendo vuote declamazioni e monotoni slogan, concentrandosi con determinazione sui problemi più spinosi e più urgenti: crescita, sviluppo, lavoro, fisco, sanità, istruzione e università, istituzioni, Mezzogiorno, rapporti con l’Europa, partiti politici. Vanno sconfitti sovranismi, populismi e qualunquismi.

Il rapporto dell’Italia con l’Europa Unita va consolidato, perché il nostro Paese recuperi il posto di rispetto che storicamente ha sempre avuto quale Paese fondatore. Un partito che si impegni per il bene di tutti e che eviti di alimentarsi solo di “parole magiche”: casta, inciucio, alternanza, bipolarismo, federalismo, emergenza che tante illusioni hanno creato negli italiani e tanti guasti hanno procurato all’Italia.

Non si vuole raccogliere l’eredità di qualcuno, ma si tratta di disegnare un progetto-Paese che risponda alle reali esigenze del popolo italiano in una fase storica ed economica, la globalizzazione, caratterizzata da ingiustizie devastanti e da rapidi mutamenti. Un partito che promuova un nuovo e concreto assetto istituzionale, e una sana economia sociale di mercato. Era il pensiero sturziano del Partito popolare che si manifestava quando si discuteva del ritiro dello Stato dalla vita dei cittadini, (famose le battaglie fatte da don Sturzo contro lo statalismo), della partecipazione alla cosa pubblica, di un nuovo sistema delle autonomie locali. Sono i temi che hanno accompagnato l’impegno politico dei cattolici nell’arco di un secolo, mettendo al centro l’uomo quale persona, e che ancora oggi sono elementi utili per il buon governo dell’Italia.

È un dato di fatto che esistono i presupposti, per pensare alla creazione di un nuovo soggetto libero ed autonomo. Alla sua nascita sono chiamati a concorrere i singoli, i gruppi e i circoli intenzionati ad animare una partecipazione alla vita politico-parlamentare, nazionale e locale…

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Benzinai, sciopero generale il 17 luglio

La Federazione autonoma italiana benzinai ha annunciato uno sciopero generale di tutti i distributori mercoledì 17 luglio. La giornata di assenza dal lavoro è stata organizzata per protestare contro l’entrata in vigore della comunicazione telematica dei corrispettivi. La Faib ha spiegato che la nuova direttiva desta “forti preoccupazioni nella categoria”

“Non ci sono ancora i nuovi registratori fiscali, c’è un ulteriore costo che si abbatte su benzinai per oltre 10 milioni di euro – ha sottolineato la Federazione – mentre l’atteso provvedimento contenuto nel dl Crescita di chiarimento non risolve il problema posto dalle Federazioni di categoria di uno slittamento dell’obbligo al primo gennaio 2020″.

 

Gesuiti, nel nuovo archivio storico anche la pagella di Ciampi

Fonte da Roma sette

La pagella e la documentazione scolastica di Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica italiana, fotografie di Ettore Majorana, dei fratelli e dei cugini, tutti allievi dell’istituto Massimo di Roma, il fazzoletto di Pio X, gli Ultimi Voti e le firme autografe di gesuiti illustri come padre Angelo Secchi, padre Tacchi Venturi, padre Pietro Pirri. Sono solo alcuni dei documenti peculiari raccolti nell’Archivio storico della Provincia Euro-Mediterranea (Italia, Malta, Albania e missione di Romania), inaugurato questa mattina, martedì 25 giugno, in via degli Astalli.

Una ristrutturazione che ha interessato quasi tutta l’intera residenza dei gesuiti a Roma e ha portato alla realizzazione tra l’altro della foresteria al IV piano per gesuiti e laici e del nuovo centro di accoglienza Matteo Ricci affidato al Centro Astalli e inaugurato lo scorso 4 febbraio. «Nella casa dove ha vissuto ed è sepolto Sant’Ignazio di Loyola, dove padre Arrupe volle sorgesse il primo centro di accoglienza del Jesuit Refugee Service e dove ogni giorno si servono pasti e visitano persone in fuga da guerre e povertà, accanto al Collegio Internazionale del Gesù, alla Curia e al governo della Provincia nasce un nuovo luogo, icona della nuova realtà Euro-Mediterranea – ha sottolineato il provinciale padre Gianfranco Matarazzo -. Un altro pezzo di cuore, spazi importanti e professionalmente qualificati, che mi auguro siano luogo vitale per custodire memoria e identità, supportare affari e questioni correnti, ispirare il futuro». A benedire i locali monsignor Renzo Giuliano, parroco di San Marco Evangelista al Campidoglio.

Il patrimonio documentario, in corso di accentramento nei nuovi locali, consta di circa 850 metri lineari tra registri, carteggi, faldoni, con un grande fondo fotografico. «L’Archivio raccoglie la documentazione prodotta dalle 5 Antiche Province: Veneto-Milanese, Torinese, Romana, Napoletana, Sicula e della ex missione di Albania, oggi parte della Provincia, a partire dalla ricostituzione della Compagnia nel 1814 – ha detto Maria Macchi, assistente dell’archivio della Provincia Euro Mediterranea -. Si conservano i fondi prodotti dalle singole province, dagli istituti da esse dipendenti e di singoli gesuiti. Tra gli Istituti quello del Massimiliano Massimo di Roma, del Collegio S. Francesco Saverio di Livorno e dell’ Opera Massaruti».

I documenti permettono di svolgere ricerche non solo sulla Compagnia di Gesù o su un determinato gesuita ma anche sulle città dove la Compagnia operava, potendo osservare e analizzare eventi storici attraverso la vita delle comunità, diffuse su tutto il territorio nazionale e presenti anche in numerose missioni: Brasile, India, Cina, Albania. In forte crescita le richieste di accesso: nel primo anno di apertura 137, nel secondo 200, il terzo anno quasi 400. Nelle tre mostre predisposte per l’occasione, gli scritti di padre Pietro Alagiagian gesuita armeno, imprigionato in Russia fino al 1954, le prediche di padre Giuseppe Massaruti, gli scritti spirituali di padre San Francesco De Geronimo, tra i più antichi databile fine ‘600 primi del ‘700. Ancora i diari del noviziato di Sant’Andrea al Quirinale a Roma fino al 1870 e oggi a Genova, un registro con memorie dei novizi, tra cui quella di padre Angelo Secchi, documento che ha permesso di riscrivere la sua biografia. Ancora diverse le testimonianze sulla prima guerra mondiale raccontata dai gesuiti cappellani al fronte o da Roma stessa dove in molti curavano i feriti, nello stesso Istituto Massimo destinato ad ospedale. I materiali, studiati e archiviati, sono conservati in fascicoli e supporti di condizionamento in carta non acida e consultabili da inventario in corso di preparazione. L’archivio storico ha anche una sua rubrica on line dove, due volte al mese, vengono pubblicati articoli.

L’Oratorio ascolti i piccoli della città

Il nuovo Programma Pastorale del Centro Oratori Romani dal titolo “Se non ritornerete… Dalla parte dei bambini – L’Oratorio ascolta i piccoli della città”  recepisce le linee per il cammino 2019-2020 consegnate dal Cardinal Vicario nello scorso 24 giugno, e le codifica secondo la chiave dell’ascolto dei più piccoli (https://www.centrooratoriromani.org/news/pastorale/item/approvato-il-nuovo-programma-pastorale-2019-2020 ).

Per ascoltare il grido dei più piccoli ci vuole un di più di attenzione, perché si tratta di un grido che spesso non è in grado di esprimersi: va colto con orecchi aperti, capaci di leggere segnali in brevi parole; va intuito con occhi profondi, che decifrano gesti e atteggiamenti; e va interpretato con un cuore largo, che riesca a compensare le solitudini con tenerezza. L’Oratorio ha il potenziale per rispondere a questa chiamata, perché ancora oggi si propone “non solo di amare, ma anche di stimare i ragazzi” (A. Canepa), ovvero di restituire loro la soggettività che gli è tolta dal mondo dei grandi. Non basta: l’Oratorio deve dar voce a chi non ha voce, amplificare quell’urlo minuto che i bambini non sanno alzare.

Se non ritorneremo come bambini e dalla loro parte, andandoli a cercare come pecorelle smarrite perché neanche uno si perda (cfr. Mt 18, 1-4) e accogliendoli nei nostri Oratori in tutte le loro fragilità, avremo sprecato la bellezza della vocazione che abbiamo ricevuto.

Europa contro la plastica: la direttiva SUP

La data fatidica è il 3 luglio del 2021, quando l’Italia compresa, dovrà recepire la direttiva SUP  che rappresenta una sorta di bussola per la crociata plastic free. Intanto, le iniziative “plastic- free” si stanno diffondendo sempre di più nel nostro Paese da parte di Atenei, Regioni, Comuni, Associazioni di categoria e altri soggetti, spesso all’insegna della buona volontà e dello spirito creativo.  Purtroppo, non è semplice intervenire contro l’utilizzo indiscriminato di oggetti monouso di materie plastiche che andranno sostituiti con modelli di economia circolare.

Pur nella differenza d’impostazione che caratterizza questi provvedimenti, già emanati da oltre 100 enti locali, c’è un comune denominatore: il divieto di utilizzo e di distribuzione di stoviglie, bicchieri e posate in plastica. A seconda dei casi, si può arrivare anche al divieto di vendita di questi manufatti da parte di negozi e supermercati e interessare anche l’intero territorio comunale, oppure solo determinate aree cittadine, determinati uffici pubblici, servizi gestiti dal Comune, come le mense scolastiche o eventi e manifestazioni pubbliche. Da notare, inoltre, che una parte delle ordinanze proibisce l’utilizzo o la vendita di prodotti che rientrano tra i 10 menzionati dalla direttiva (ad esempio, cannucce o mescolatori per bevande).

Altre ordinanze, invece, si spingono oltre, includendo prodotti come bottiglie, bicchieri, bicchierini da caffè con palette e altri contenitori monouso, che non sono soggetti a restrizioni d’uso da parte della direttiva la quale chiarisce alcune aspetti importanti, ad esempio ricordando che un materiale biodegradabile, per definirsi tale, debba degradarsi per almeno il 90% entro 6 mesi in componenti elementari: Co2 e acqua. Altra cosa è la compostabilità, che può verificarsi in impianto, suolo, liquidi, mari. Gli aggettivi “biodegradabile” e “compostabile” vengono usati alternativamente, ma erroneamente, come se fossero sinonimi. In realtà la biodegradabilità va considerata come una caratteristica del materiale, mentre la compostabilità è un attributo proprio di un manufatto.

La malattia del sonno

E’ una malattia parassitaria che colpisce sia gli esseri umani che gli animali. È una malattia causata da un parassita della specie Tripanosoma brucei. Le subspecie che colpiscono gli esseri umani sono due: il Trypanosoma brucei gambiense o T.b.g. e il Trypanosoma brucei rhodesiense o T.b.r. Il T.b.g. provoca oltre il 98% dei casi riportati. Entrambi vengono di solito trasmessi dal morso di una mosca tse-tse, che si trova soprattutto nelle zone rurali.

Inizialmente durante il primo stadio della malattia si riscontrano: febbre, mal di testa, prurito e dolori articolari. Tali sintomi si presentano da una a tre settimane dopo il morso. Durante le settimane e i mesi seguenti ha inizio il secondo stadio della malattia con confusione, mancanza di coordinamento, torpore e sonnolenza sempre più profonda, che con il tempo si trasforma in vero e proprio coma. La diagnosi viene effettuata tramite il riscontro del parassita in uno striscio di sangue o nel fluido di un nodo linfatico. Di solito è necessario effettuare una puntura lombare per distinguere tra il primo e il secondo stadio della malattia.

Ogni anno vengono segnalati circa 40.000 nuovi casi, ma il numero reale di casi dovrebbe aggirarsi in realtà intorno ai 300.000 annui. Si stima che il numero dei decessi annui si aggiri intorno ai 66.000 casi

Sono stati sviluppati più recentemente nuovi farmaci, ancora troppo cari e comunque non abbastanza efficaci, per esempio l’Eflornitina.

Inoltre manca una strategia efficace per il controllo della mosca responsabile della trasmissione. In passato la malattia fu efficacemente controllata, tanto che tra il 1960 ed il 1965 fu considerata “quasi scomparsa”. Attualmente è ancora in corso un’epidemia che si considera iniziata al principio degli anni settanta

Città UNESCO

Sulla scia dell’associazionismo, Merlo si appresta a varare, con la benedizione di De Mita, l’Associazione delle Città UNESCO.

In Italia 5 milioni di poveri. De Capite (Caritas): “È una buona notizia che non siano aumentati”

Fonte Agensir a firma di Alberto Baviera

In Italia sono 1,8 milioni le famiglie in povertà assoluta (con un’incidenza pari al 7%), per un totale di 5 milioni di individui (incidenza pari all’8,4%). Questa la stima diffusa a metà giugno dall’Istat relativa al 2018. In sostanza, rispetto al 2017, “la povertà è stabile, ma non ci aspettavamo nulla di diverso”, spiega Nunzia De Capite, sociologa dell’Ufficio Politiche sociali di Caritas italiana.

“È già una buona notizia il fatto che la povertà assoluta non sia aumentata”,

commenta la sociologa, rilevando che “se c’è chi si chiede perché non sia ancora diminuita, in realtà, vista la situazione in cui ci troviamo, dobbiamo ritenere un buon risultato il fatto che da un anno all’altro la povertà assoluta non sia cresciuta”. Questo perché, in attesa che comincino ad avere effetto le misure di contrasto alla povertà entrare in vigore nel 2019, “il Rei (Reddito di inclusione), per via di importi bassi, non ha impattato e le condizioni economico-sociali non sono assolutamente migliorate per cui, purtroppo, non c’erano da attendersi variazioni all’interno del fenomeno”.
Stando ai dati, infatti, pur rimanendo ai livelli massimi dal 2005, si arresta dopo tre anni la crescita del numero e della quota di famiglie in povertà assoluta. L’incidenza si conferma notevolmente superiore nel Mezzogiorno (9,6% nel Sud e 10,8% nelle Isole) rispetto alle altre ripartizioni (6,1% nel Nord-Ovest e 5,3% nel Nord-est e del Centro).
“Sostanzialmente si conferma il modello italiano di povertà con concentrazione al Sud, famiglie numerose, titolo di studio medio-basso”, osserva De Capite.
I dati dell’Istat confermano un’incidenza di povertà assoluta più elevata tra le famiglie con un maggior numero di componenti. È pari all’8,9% tra quelle con quattro componenti e raggiunge il 19,6% tra quelle con cinque e più; si attesta invece attorno al 7% tra le famiglie di 3 componenti, in linea con il dato medio. Anche tra i monogenitore la povertà è più diffusa rispetto alla media, con un’incidenza dell’11%, in aumento rispetto all’anno precedente, quando era pari a 9,1%.

La povertà assoluta in Italia colpisce 1.260.000 minori

(il 12,6% rispetto all’8,4% degli individui a livello nazionale).
Pur invitando a considerare l’elemento temporale nel fare delle valutazioni e a ragionare su un lasso di tempo molto più ampio che non di anno in anno, la sociologa afferma che “ci meraviglia un po’, ma non troppo, il fatto che non si sia neanche modificato né l’incidenza (quota di poveri sul totale della popolazione) né l’intensità della povertà (distanza rispetto alla soglia di povertà)”.

“C’è una cristallizzazione della situazione sulle fasce di povertà assoluta, anche se – prosegue – stiamo assistendo ad un cambiamento dei profili di povertà: per esempio, i dati EU-SILC a livello europeo, ci dicono che da qualche anno la povertà in Italia si è trasversalizzata. Questo significa che rimane il modello italiano di povertà (famiglie numerose, minori, Mezzogiorno) ma se, osserviamo le variazioni in 10 anni, la povertà assoluta aumenta al Nord, fra gli occupati, tra le persone con titolo di studio medio (diploma). In sostanza, la povertà assoluta ha rotto gli argini rispetto al modello”.

Quindi

“non solo non abbiamo meno poveri, ma le persone non sono diventate meno povere”.

“Il fatto che non si sia ridotta l’intensità della povertà – commenta la sociologa – ce lo spieghiamo perché il Rei prevedeva degli importi molto bassi che non aiutavano le persone a raggiungere la soglia di povertà e a superarla per uscire dalla condizione di povertà assoluta”. “Bisogna anche tener conto – puntualizza – che la rilevazione Istat in realtà coglie solo una parte del periodo di ricezione del Rei: importi bassi e una ricezione di soli 5/6 mesi appena hanno fatto sì che sembra non ci sia effetto di misure di contrasto”.

“L’impatto delle misure di contrasto – spiega la sociologa – lo registreremo sicuramente a partire dall’anno prossimo, quando avremo Rei e un inizio di Reddito di cittadinanza oltre all’effetto del Sia (Sostegno per l’inclusione attiva). L’effetto cumulato delle misure che, avendo importi consistentemente più alti, porterà a variazione – questo dicono anche alcune simulazioni – dell’incidenza della povertà assoluta”.

In sostanza, “per via di misure più ‘robuste’ rispetto agli importi e platea di beneficiari molto più ampia,

dal 2020 e nei successivi due anni dovremmo registrare dei miglioramenti:

dovrebbe ridursi il numero di persone in povertà sul totale della popolazione e le persone in povertà dovrebbero diventare meno povere, per via di una riduzione dell’intensità della povertà”.
Non sarà comunque una riduzione consistente. “Rispetto alla quota di persone in povertà assoluta dovremo aspettare almeno un quinquennio per registrare dei risultati significativi”, anticipa De Capite, spiegando che “stando alle simulazioni della Banca d’Italia, il Reddito di cittadinanza dovrebbe raggiungere sei poveri assoluti su 10, con una capacità di presa maggiore nelle Regioni del Sud”. Ma “per com’è costruito – criteri che non tengono contro del costo della vita – una parte dei poveri assoluti del Nord sarà esclusa o non adeguatamente supportata dal Reddito di cittadinanza”.
I dati dell’Istat confermano poi le maggiori difficoltà per gli stranieri, tra i quali sono oltre un milione e 500mila quelli nella condizione di povertà assoluta, con una incidenza pari al 30,3% (tra gli italiani è il 6,4%).
“Secondo alcune previsioni, per via del requisito di dieci anni di pregressa residenza in Italia, l’8% degli stranieri sarebbe escluso dal Reddito di cittadinanza. Si tratta di circa 90.000 nuclei che beneficiavano del Rei, una quota consistente di persone”, evidenzia De Capite. “Questo è un elemento di allarme, che va sicuramente monitorato. E, se è vero che per questi rimane in piedi la rete di supporto e sostegno promossa da soggetti sociali del territorio,

l’esclusione degli stranieri da una misura nazionale oltre a trasgredire il dettato costituzionale è assolutamente preoccupante”.

“Per queste persone – conclude la sociologa – vanno fatti degli interventi specifici, di advocacy e di pressione, perché la norma venga modificata. È una richiesta che abbiamo già segnalato nella fase dell’iter parlamentare e che continueremo a ribadire”.

 

La frattura tra città e campagna nella politica americana.

Articolo tratto dalla rivista Atlante di Trccani.it a firma di Mario Del Pero

Quello tra aree metropolitane e zone rurali, con le mille sotto-partizioni che se ne possono fare, è uno dei fondamentali cleavages politici e sociali del nostro tempo. Lo vediamo bene in tutte le società più avanzate. Ma è negli Stati Uniti che questa frattura si è fatta col tempo più radicale e manifesta. Negli USA la densità abitativa – prima e più di reddito, istruzione o condizione professionale ‒ è diventato il parametro fondamentale che ci permette di prevedere e misurare le scelte di voto. Maggiore è tale densità – maggiore è la natura urbana del contesto elettorale – e migliore è il risultato dei democratici. La minor densità avvantaggia invece i repubblicani, in una spirale – e in una polarità – che si è fatta vieppiù acuta e ineludibile. Una polarità, questa, presente in tutti gli Stati, anche quelli dove più netto e indiscusso è il primato di un partito sull’altro. Nel 2016, per fare un banale esempio, Trump ha vinto il Texas con ben 9 punti percentuali di scarto rispetto a Clinton, subendo però una pesante sconfitta in tutti i principali nuclei metropolitani e ottenendo tra il 15 e il 40% in meno nelle contee di Houston, Dallas, Austin e San Antonio. Sempre in quella tornata elettorale, circa un terzo degli elettori di Clinton risiedevano in aree urbane, contro appena il 12% di chi votò Trump. Il presidente ottenne però più del doppio dei voti (63 a 21) della sua avversaria nei distretti non metropolitani, fatti di paesini di piccole dimensioni e zone esplicitamente rurali. Mille altri esempi e statistiche potrebbero essere offerti, dai 34 distretti congressuali classificati come “puramente urbani” ora interamente in mano ai democratici (nel 2018 i repubblicani hanno perso l’unico che controllavano, l’11° di New York) ai riverberi che tutto ciò ha anche sulle elezioni locali, con i democratici che controllano ormai la larga maggioranza delle città statunitensi. L’ultima tornata elettorale del novembre 2018 ha confermato in modo quasi caricaturale questa partizione. I democratici hanno costruito il loro largo successo principalmente sottraendo voti (e seggi) repubblicani nelle aree suburbane, più o meno popolate – questo è vero –, ma la correlazione tra densità abitativa e risultati elettorali è stata straordinariamente marcata: secondo una banale quadripartizione del Wall Street Journal ‒ in aree urbane, suburbane, piccoli centri e zone rurali ‒ i democratici avrebbero vinto le prime 67 a 30, i repubblicani le seconde 60 a 37 (entrambe, aree rurali e urbane corrisponderebbero a circa un quinto dell’elettorato complessivo).

Le matrici di questa frattura sono diverse ed essa sembra al contempo riflettere e acuire i crescenti livelli di polarizzazione politica, culturale ed elettorale del Paese. Vi è un evidente gap economico in una società deindustrializzata e di terziario avanzato come quella statunitense, dove la ricchezza tende sempre più a concentrarsi nelle grandi città. Di nuovo, i dati del voto 2018 ce lo rivelano in modo paradigmatico, con i distretti elettorali vinti dai democratici che contano per il 61% del PIL nazionale, contro il 37,5% di quelli vinti dai repubblicani. Tutti gli indicatori di cui disponiamo ci mostrano non solo – cosa ovviamente nota – che ricerca, sviluppo economico e progresso tecnologico tendono a essere fenomeni primariamente urbani, ma anche che il gap occupazionale tra aree metropolitane (piccole e grandi) e aree rurali (più o meno densamente abitate) si è ampliato in modo assai marcato nel decennio successivo alla grande crisi del 2007-08. Sempre scandagliando il voto del 2018, scopriamo che il PIL per lavoratore dei collegi vinti dai democratici era di circa il 22% superiore a quello dei collegi repubblicani e il reddito medio per nucleo famigliare del 15%. Una maggiore ricchezza che però è meno equamente distribuita, visto che è nelle grandi città che si concentra anche una forza lavoro impegnata in occupazioni a bassa qualifica (ristorazione, pulizie ecc.) e nella quale sovra-rappresentate sono alcune minoranze, in particolare quella afroamericana. Queste minoranze, lo sappiamo, votano primariamente democratico, contribuendo così a rendere ancora più accentuato il cleavage (secondo i dati di cui disponiamo, nel 2018 il voto afroamericano è andato 90 a 9 ai democratici e quello ispanico 69 a 29). Ed è proprio questa convergenza urbana tra popolazione con livelli d’istruzione alti e medio-alti, e condizioni professionali e di reddito conseguenti, e minoranze ed immigrati recenti, occupati in servizi a bassa qualifica (e retribuzione) che – in una società fattasi vieppiù socialmente liberal ‒ avrebbe dovuto creare una strutturale “maggioranza democratica”, come sostennero ormai quasi 20 anni fa John Judis e Rui Teixeira in un famoso (e a dispetto di tutto ancor utile) libro, le cui previsioni furono poi smentite da varie tornate elettorali.

Questa maggioranza strutturale e permanente non lo è mai diventata. E ciò – assieme alle mille contraddizioni di città fattesi sempre meno vivibili per chi non abbia redditi alti o altissimi – ci mostra alcuni evidenti cortocircuiti politici prodotti dalla crescente frattura economica e politica fra metropoli e campagna, zone metropolitane e aree rurali. Due, in particolare, meritano di essere menzionati.

Il primo è che il sistema politico statunitense inflaziona il valore dell’elettore degli Stati meno popolati, nei quali la mobilitazione viene peraltro spesso spinta dal risentimento nei confronti delle città corrotte, parassite e speculative, affidandosi a uno stereotipo dalle radici storiche profonde, ancorché discutibili (oggi le aree rurali sono spesso pesantemente sussidiate grazie alle risorse generate in quelle urbane). Ogni Stato, a prescindere dalle sue dimensioni, elegge due senatori e il piccolo Wyoming (neanche 600.000 abitanti, solidamente repubblicano) conta quanto la California (quasi 40 milioni di abitanti, vinta nel 2016 da Hillary Clinton con 30 punti percentuali di scarto). Le aree meno densamente popolate valgono quindi in proporzione molto di più al Congresso, al Senato appunto e in una certa misura anche alla Camera a causa della distribuzione meno efficiente dell’elettorato democratico, che, come abbiamo visto, tende a essere eccessivamente concentrato nelle aree metropolitane. Così come contano maggiormente alle elezioni presidenziali, dove il sistema dei grandi elettori (senatori più rappresentanti) rende alcuni Stati più “pesanti” di altri: per rimanere alla (facile) comparazione tra Wyoming e California, alle presidenziali il voto degli abitanti del primo vale quasi quattro volte più di quello degli abitanti della seconda. Gli effetti sono assai marcati in un sistema a crescente polarizzazione geografica come quello statunitense ed è indicativo che dal 1992 a oggi i repubblicani abbiano vinto il voto popolare in una sola occasione, nel 2004, quando peraltro Bush poté sfruttare l’onda lunga dell’11 settembre e di ciò che ne seguì.

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Francia: il governo prepara la riforma delle pensioni

A metà luglio l’Alto commissario per la riforma delle pensioni, Jean-Paul Delevoye, consegnerà al primo ministro Edouard Philippe le raccomandazioni finali in merito al progetto di legge. Il testo finale verrà presentato questo autunno, tra fine novembre e inizio dicembre.

Durante la campagna elettorale delle elezioni presidenziali del 2017 il presidente Macron ha promesso una riforma capace di dare più “trasparenza, leggibilità ed eguaglianza”. Il settore imprenditoriale fa pressioni affinché venga alzata l’età pensionabile, ma Macron si è impegnato a non toccare questo punto, lasciando la soglia a 62 anni. Il presidente vuole invece instaurare “un sistema di sgravi fiscali che inciti a lavorare di più”

Inflazione: Istat, a giugno stimata ancora su livelli bassi.

Secondo le stime preliminari, nel mese di giugno 2019 l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), al lordo dei tabacchi, registra un aumento dello 0,2% su base mensile e dello 0,8% su base annua (come nel mese precedente).

La stabilità su base annua è dovuta a dinamiche opposte: da un lato accelera la crescita dei prezzi dei Servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (da +1,0% a +1,3%) e si attenua la flessione di quelli dei Servizi relativi alle comunicazioni (da -7,2% a -5,9%), dall’altro i prezzi dei Beni energetici non regolamentati invertono la tendenza, passando da +2,4% a -0,6%.

L’“inflazione di fondo”, al netto degli energetici e degli alimentari freschi e quella al netto dei soli beni energetici accelerano entrambe di un decimo di punto, rispettivamente da +0,4% a +0,5% e da +0,5% a +0,6%.

L’aumento congiunturale dell’indice generale è dovuto per lo più alla crescita dei prezzi dei Servizi relativi ai trasporti (+2,1%), su cui incidono fattori di carattere stagionale, solo in parte bilanciata dal calo dei prezzi dei Beni alimentari non lavorati (-1,1%) e dei Beni energetici non regolamentati (-0,7%).

L’inflazione decelera per i beni (da +0,8% a +0,6%), mentre accelera per i servizi (da +0,8% a +1,0%); pertanto, rispetto al mese di maggio il differenziale inflazionistico è positivo e pari a +0,4 (era zero nel mese precedente).

L’inflazione acquisita per il 2019 è +0,7% per l’indice generale e +0,5% per la componente di fondo.

Per i Beni alimentari, per la cura della casa e della persona l’inflazione rimane stabile a +0,3%, mentre per i prodotti ad alta frequenza d’acquisto la crescita dei prezzi rallenta da +1,0% a +0,6%, portandosi anch’essa al di sotto di quella riferita all’intero paniere.

Secondo le stime preliminari, l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA) aumenta dello 0,1% su base mensile e dello 0,8% in termini tendenziali (in lieve rallentamento da +0,9% del mese precedente).

Palermo conferisce la cittadinanza onoraria alla Sea watch e al vescovo Heinrich Bedford-Strohm

Il Sindaco di Palermo, Leuluca Orlando ha annunciato il conferimento della cittadinanza onoraria allo staff e all’equipaggio della nave Sea-Watch. Inoltre la città di Palermo conferirà anche la cittadinanza onoraria al vescovo Heinrich Bedford-Strohm, capo delle chiese evangeliche tedesche.

A comunicarlo allo stesso vescovo è stato il sindaco Leoluca Orlando, che ha motivato la decisione con “la condivisione dell’impegno per la salvaguardia dei diritti umani e la tutela delle vite umane”.

“Dopo la presenza a Palermo del Vescovo Bedford-Strohm e la mia partecipazione al Kirchentag delle chiese evangeliche a Dortmund – ha detto Orlando – oggi si conferma un impegno di Palermo per l’accoglienza ed un percorso internazionale che coinvolge le città, le municipalità, le chiese, la società civile e le organizzazioni non governative nella costruzione di una rete europea di “Porti sicuri-Comunità sicure” per la tutela e la promozione dei diritti, tutti i diritti per tutti e per tutte.”

Ue: 100 milioni per nuovi programmi a sostegno dei rifugiati siriani

Attraverso il fondo fiduciario regionale dell’Unione europea è stato adottato un nuovo piano di assistenza da 100 milioni di euro a sostegno dei rifugiati, degli sfollati e delle comunità di accoglienza in Libano, Giordania e Iraq. Il piano prevede il potenziamento dei sistemi di erogazione dei servizi pubblici, un maggiore accesso all’insegnamento superiore e il miglioramento dei servizi di protezione dei minori.

Questi ulteriori 100 milioni di euro in risposta alla crisi siriana, potranno aiutare i rifugiati a diventare economicamente più autonomi. L’accesso ad attività che generano reddito, infatti, consentirà loro di prendere in mano la propria vita, di provvedere alle proprie esigenze e di preservare la loro dignità. Allo stesso tempo vengono sostenute le comunità di accoglienza e i Paesi confinanti con la Siria negli sforzi a sviluppare le loro economie pur con le criticità connesse al conflitto ancora in corso.

Dalla sua istituzione, nel dicembre 2014, il fondo è rivolto alle complessità derivanti dalla crisi siriana. Una misura che rafforza la politica integrata dell’Unione in materia di aiuti in situazioni di crisi, privilegiando la resilienza a lungo termine e le necessità urgenti (nel quadro del processo di ritorno alla normalità) dei rifugiati siriani, delle comunità di accoglienza e delle loro amministrazioni in Paesi vicini come l’Iraq, la Giordania, il Libano e la Turchia.

Il fondo è inoltre alla base dei patti che l’Ue ha concordato con la Giordania e con il Libano per offrire loro una migliore assistenza in virtù del numero dei dei rifugiati. I diversi programmi, nel loro insieme, sono stati dedicati al miglioramento dell’accesso all’assistenza sanitaria, al miglioramento delle infrastrutture per l’approvvigionamento idrico e le acque reflue, all’emancipazione delle donne e alla lotta contro la violenza di genere, alle opportunità economiche e alla stabilità sociale.

A Bob Geldof l’Ischia Humanitarian Award

É stato assegnato a sir Bob Geldof l’Ischia Humanitarian Award, premio speciale nell’ambito del Social Cinema Forum promosso con il Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio. Il riconoscimento sarà consegnato all’artista e attivista irlandese, simbolo dell’impegno nel mondo della musica, mercoledì 17 luglio al Miramare e Castello nel corso della 17esima edizione dell’Ischia Global Film & Music Festival (14-21 luglio).

E’ Cavaliere Comandante dell’Impero Britannico. Ischia Globa lo omaggera’ con la proiezione del documentario ‘A Fanatic Heart: Geldof on Yeats’ dedicato alla vita di uno dei piu’ grandi poeti del 900, l’irlandese William Butle Yeats, premio Nobel, scritto da Geldof e con letture di Bill Nighy, Van Morrison, Richard E. Grant, Colin Farrell, Bono, Edna O’Brien, Ardal O’Hanlon, Noel Gallagher e Liam Neeson.

Con il caldo aumenta l’orticaria

Si stima che il 15-20% della popolazione generale presenterà almeno un episodio di orticaria nel corso della vita. La prevalenza dell’orticaria cronica è stimata allo 0,6-1,8%.

La causa più frequente di un’orticaria è l’allergia alimentare.

Altre cause sono i graffi di animali, le punture di insetto, stress emotivi, l’esercizio fisico, temperature rigide, infezioni virali del tratto respiratorio superiore, infezioni da echinococco (riscontrabile negli animali come il cane e trasmissibili all’uomo) e da elminti, i pollini.

I sintomi e i segni clinici presentano una diversità di espressioni quali la comparsa di pomfi rossi pruriginosi sulla cute, piccole lesioni con bordi spessi che possono anche unirsi.

Il caldo, la sudorazione accentuata e alcuni cibi favoriscono infatti l’acuirsi della sintomatologia.

 

 

Busso ai teorici.

La politica si è sempre avvalsa della geometria. La metafora spaziale è quella che più è stata sfruttata. Destra, sinistra, centro. Così è stato da quando sono stati istituiti e poi eletti i parlamenti democratici. Chi si sedeva da una parte, chi all’opposto e chi occupava il centro.

È indubbio che questa immagine sia la più semplice e la più utilizzata. Ci sono stati momenti in cui prevaleva la tendenza agli estremi e altri in cui dominava la centralità. Non c’è alcun dubbio che dall’ultimo conflitto mondiale, fino a vent’anni fa, nel nostro Paese, avesse dominato largamente la dimensione centrale. La Democrazia Cristiana, collocandosi al centro, assicurava al ceto moderato le garanzie sprigionate dal costante sviluppo economico.

La sinistra, pur forte, era recintata all’opposizione; la destra vista sempre con sospetto.
Nella seconda e ormai terza repubblica, gli spostamenti si sono ampiamente verificati. Scomparsa la DC, il centro non ha avuto mai un volto preciso. Berlusconi, ha tentato di rappresentarlo, ma interessi privati lo spostavano su versanti poco inclini al mondo che avrebbe voluto rappresentare. La sinistra, all’inizio di questo secolo, ha cercato, alla fine ottenendolo, un matrimonio con quella frazione della DC che non si era mai compromessa con il mondo berlusconiano. Però, il matrimonio è caduto ben presto in una spirale di crisi profonda. Il Pd, ad oggi, non è ne carne né pesce. Non è un partito di sinistra e nemmeno possiamo forzatamente collocarlo al centro.

Questa è la sua vera crisi: un indefinito senza né arte né parte. Afflosciandosi in modo irreversibile il contenitore di Forza Italia, ingrossando le fila della Lega in modo quasi vertiginoso, anche quel centro spostato sull’asse destro, sta inevitabilmente rinsecchendosi. Dei 5Stelle è inutile parlarne perché essi stessi si dichiarano fuori dalla geometria: né destra, né sinistra, né centro. Anche in questo caso la parabola è ormai segnata.
Di fronte a questa distribuzione spaziale, a parer mio, ricordo il fatto di essere stato un militante della Democrazia Cristiana, sarebbe del tutto auspicabile un riordino geometrico. Per me, l’Italia necessita di un quadro stabile che faccia perno su un centro da inventare.
Questa mia fantasia è dettata dalla necessità di non subire costantemente gli strattoni di chi, come i 5Stelle sono fuori dal “mondo”, o dagli oltranzisti che ammiccano con ideologie distanti dalla mia matrice cattolica. Sarò stravagante, però, per salvare il Pd da un’agonia sempre più dominante, per dare speranze a quegli arcipelaghi riconducibili alle visioni cattolico-centriche, per aprire speranze a quelli che hanno visto in Berlusconi un uomo di centro, insomma a tutti quelli che sono un po’ frastornati da questo tempo politico e da quelli che ormai da tempo hanno del tutto abdicato al gesto politico (quelli che non vanno a votare), offro l’idea di mettere da parte i distinguo che li caratterizza e trovare la forza per recuperare quel centro geometrico che per molti decenni è stata un’ancora di sicurezza per la famiglia, per il lavoro, le imprese, il sociale e così via dicendo.

È chiaro che un’operazione simile possa essere condotta in porto solo se i diversi nocchieri riusciranno a produrre qualche idea politica che non finisca nel momento in cui la si genera. In sostanza per riorchestrare lo spazio del centro ci vuole una buona dose di teoria politica.
Non spetta a me un compito simile, io propugno, io avanzo attese, do qualche suggerimento, esplicito qualche mio desiderio, ma converrebbe a qualche classe dirigente pensarci seriamente sopra, al fine di non continuare a boccheggiare dentro questo orizzonte ormai troppo asfittico di ideali e di vere proposte politiche.

Intervista a Tania Groppi: Per uno Stato costituzionale diffuso

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Monda 

Con Tania Groppi, professoressa ordinaria di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Siena ed esperta del Consiglio d’Europa in materia costituzionale, proviamo a proseguire nell’indagine partita il 21 maggio su queste pagine con l’intervista a Giuseppe De Rita sulla crisi dell’Italia e dell’Europa e il ruolo che la Chiesa e i cattolici possono giocare.

Da dove ha origine la crisi che stiamo vivendo?

La crisi che attraversa l’Europa ha in sé qualcosa di paradossale. Abbiamo raggiunto pace, ricchezza, benessere, come mai prima, ma nello stesso tempo vediamo crescere la paura, la scontentezza, la dispersione di vita, l’apatia. Pochi giorni fa ho partecipato a un convegno a Siena sul 1989, questo anno decisivo, e ho parlato della regressione costituzionale di molti paesi europei, in primo luogo l’Ungheria e la Polonia, che seguo da vicino come esperta del Consiglio d’Europa. Potrei quindi riflettere sugli aspetti giuridici di questa crisi, ma penso sia necessario concentrarsi sul cuore del problema, che io vedo in questo: l’uomo ha perso quella consapevolezza, che ha avuto per tanta parte della storia, di non essere il padrone del mondo in cui vive. A rischio di una eccessiva semplificazione, senza affrontare i vari passaggi intermedi, vorrei evidenziare quella che a mio avviso è la “madre di tutte le cause” dell’attuale trasformazione, ovvero una serie di innovazioni senza precedenti nella storia dell’umanità, che in un breve lasso di tempo, con una accelerazione incredibile, hanno portato l’uomo ad acquisire una capacità finora sconosciuta di incidenza sull’ambiente che lo circonda e sulla stessa specie umana. Richiamo qui una lettura della nostra era (a volte definita “Antropocene”) ormai consolidata in molteplici documenti internazionali e in innumerevoli contributi di giuristi, economisti, ecologi, antropologi, etologi, psicologi, politologi ecc. (per fare solo qualche nome, Rifkin, Stiglitz, Sachs, Sen, Latouche, de Waal, Rogers, Hochman, Beck, Bauman), fino ad arrivare all’enciclica Laudato si’. Tutti i vari approcci convergono verso una medesima considerazione, ben espressa da Benedetto XVI nella enciclica Caritas in veritate, 34: «Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di sé stesso, della sua vita e della società». Ha perso il senso della creaturalità, ha dimenticato di essere stato creato, di essere creatura. E questo — quello che io vedo nella mia esperienza — lo acceca. Ancora la Caritas in veritate, 70, illumina efficacemente questo aspetto quando dice che: «Lo sviluppo tecnologico può indurre l’idea dell’autosufficienza della tecnica stessa quando l’uomo, interrogandosi solo sul come, non considera i tanti perché dai quali è spinto ad agire. […]. La tecnica attrae fortemente l’uomo, perché lo sottrae alle limitazioni fisiche e ne allarga l’orizzonte. Ma la libertà umana è propriamente se stessa solo quando risponde al fascino della tecnica con decisioni che siano frutto di responsabilità morale».

L’autore della «Caritas in veritate» nel suo celebre saggio «Introduzione al cristianesimo», citava il “verum ipsum factum” di Vico osservando che per l’uomo moderno la verità è il fatto, ciò che si fa, il prodotto e l’uomo, essendo “homo faber”, diventa il creatore, lui stesso misura della verità.

Sì, se diventa il creatore non ha più bisogno degli altri. Quando dico che l’uomo è accecato mi riferisco a un concetto che tante discipline stanno sviluppando in modo convergente, la mind blindness, una forma di “incapacità di vedere con il cuore” (per usare le parole del Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry) che si trasforma in incapacità di valutare le conseguenze sugli altri delle proprie azioni e che a sua volta deriva dalla incapacità di vederli e di riconoscerli come persone. Un uomo siffatto è incapace di accettare che è una creatura bisognosa e limitata: scambia la sua volontà per libertà, gli umani limiti per insopportabili oltraggi alla sua presunta onnipotenza.

«L’uomo nell’opulenza non comprende» recita il Salmo, questa cecità è un’incapacità di lettura degli avvenimenti per cui non ci si rende conto delle conseguenze delle proprie azioni. Il mondo dei social e della comunicazione rischia di far sentire tutti come liberi sfrenati, senza limiti, in ultimo irresponsabili.

In effetti, con la rivoluzione digitale, questa chiusura egoistica è enfatizzata, paradossalmente, dalla possibilità offerta al singolo di interagire direttamente in maniera illimitata con i suoi simili. Paradossalmente perché in tal modo si generano ancora più solitudine, isolamento, ripiegamento, paura. Pur trattandosi di un fenomeno recente, molti studiosi hanno già attentamente analizzato la capacità dei social media di creare “echochambers” incomunicanti e di conseguenza “gated communities”, ovvero gruppi chiusi che consentono a coloro che hanno certe preferenze di “incontrare” virtualmente soltanto i propri simili, incentivando in tal modo la polarizzazione e la frammentazione. E sono state anche ben messe in luce le conseguenze di tali processi sulla democrazia pluralista, che si nutre, al contrario, di “incontri non pianificati” (ovvero della possibilità per le persone di essere esposte a situazioni e opinioni che non hanno preventivamente scelto) e di “esperienze condivise” (che costituiscono una sorta di collante sociale, senza il quale le persone potrebbero persino, a un certo punto, trovare difficile capirsi).

A livello costituzionale la fine della seconda guerra mondiale prometteva bene: l’Europa, le istituzioni internazionali, l’idea di ricostruire un tessuto per evitare gli errori che avevano portato alle due guerre mondiali. Fino agli anni ’60 un grande progresso, poi la crisi che però esplode solo alla fine della guerra fredda nel 1989.

La missione della politica e del diritto, oggi come in passato, è di produrre unità, convivenza pacifica, evitando il più possibile il ricorso alla violenza e alla sopraffazione. Un tentativo ammirevole, del quale siamo i fortunati eredi, è stato posto in essere nella seconda metà del XX secolo, dopo le tremende catastrofi delle due guerre mondiali e dei totalitarismi, quando si è cercato di rifondare la convivenza su nuove basi, mettendo al centro la dignità della persona umana e la pace. Insomma, di costruire “un mondo nuovo”, per dirlo con le parole del titolo di un bellissimo libro di Mary Ann Glendon, che descrive il processo attraverso il quale si è giunti a scrivere la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948. La Costituzione italiana, che in quel clima miracoloso, pieno di speranza e di novità, affonda le sue radici, è proprio uno specchio perfetto di questa visione: essa cerca di costruire una unità “mite”, in cui ci sia posto per tutti, ognuno con le sue caratteristiche e la sua identità, uniti da principi condivisi come la dignità umana, l’uguaglianza, la libertà, la solidarietà, chiamati a coesistere bilanciandosi e limitandosi a vicenda. Ma questa sfida, di per sé già complessa, è diventata sempre più difficile. Negli ultimi anni, mutata la scena mondiale e scatenatasi la rivoluzione tecnologica a una velocità impressionante, si è creato come un salto: in una “società liquida”, costituita da tante monadi incomunicanti ognuna delle quali si crede onnipotente, è assai difficile accettare quella dose di condivisione e limitazione che è alla base della convivenza in una società pluralista. Se non ci si sente “accomunati” all’altro, in nome di una qualche comune appartenenza, anzi, se non lo si riconosce nemmeno come un proprio simile, non è possibile accettare i limiti al sé e ai propri desideri. Questo fenomeno si accentua con quelli che ci sembrano più diversi da noi, in particolare con i più vulnerabili.

È la logica degli scarti di cui parla Papa Francesco.

Come ha scritto in uno dei suoi ultimi interventi Zygmunt Bauman, il Papa è «forse l’unica figura pubblica dotata di autorità planetaria ad aver avuto il coraggio e la determinazione di scavare le radici profonde del male, della confusione e dell’impotenza attuali e di metterle in mostra». Non è un argomento da costituzionalista, ma direi che qui si tratta dell’azione dello Spirito Santo. È lo Spirito Santo che soffia e che gli dà questa capacità di vedere. E di parlare con parresia. La sua è una voce fuori dal coro che critica il paradigma tecnocratico, che sembrerebbe il vero vincitore in questo XXI secolo. Secondo questo paradigma l’economia è diventata un dio a cui tutti gli uomini devono sacrificare. Il Papa invece sta lì come Mosè, come gli antichi profeti, a gridare contro il vitello d’oro, contro l’idolatria che è sempre violenta e disumana, che produce scarti, disuguaglianze, ingiustizie.

Il Papa con la sua voce che interpella la coscienza è da una parte molto ascoltato ma anche molto solo e anche osteggiato. Sei anni fa, quando Bergoglio è diventato Papa, il mondo era diverso: c’era Obama e non Trump, non c’era la Brexit, non c’erano i sovranismi, non c’erano gli attuali assetti dell’Ungheria, della Polonia, dell’Italia, non c’era Bolsonaro. L’esempio del Papa ci dice che la crisi prima di essere finanziaria è spirituale, perché il mondo si è accartocciato in una crisi dell’io, che ha preso il posto di Dio, e dunque, se la crisi è spirituale, i cristiani allora possono e devono dire qualcosa. 

Possono dire tantissimo, devono dire tantissimo perché hanno un tesoro. Penso che la nostra, come ha scritto Julián Carrón nel suo libro La bellezza disarmata, sia un’epoca straordinaria, un’epoca di grandi opportunità per i cristiani. La prima lettera ai Corinzi, che la liturgia ci ha proposto qualche giorno fa, lo dice, quando parla del kairòs, del tempo propizio, il tempo della salvezza. Qual è il tempo propizio? Quello in cui trovi tutta una serie di cose brutte, tremende: fatiche, angosce, tribolazioni di tutti i tipi. I cristiani in questo tempo sono chiamati ad attingere al loro enorme tesoro. Io mi sono avvicinata a questa religione molto avanti nella vita, non vengo dalla tradizione cattolica, ho fatto un altro cammino, però, quando a un certo punto mi è capitato di incontrare il cristianesimo ho detto: qui c’è un tesoro enorme, ma non se ne accorgono? In mezzo alle difficoltà, alle fragilità e anche a tutto quello che di brutto ha compiuto nei secoli, la Chiesa ci ha tramandato un tesoro, Cristo e il suo amore, che è arrivato, anche in forma infinitesimale, a noi, a lei e a me. C’è un fiume di santità che attraversa tutta la storia della Chiesa. Attraverso cammini che ci sembrano oggi, a volte, non comprensibili e non condivisibili, la Chiesa ha preservato e coltivato questo tesoro, l’ha custodito e l’ha tramandato. Per fare cosa? Mi viene in mente la famosa frase di sant’Ignazio, citata anche dal Papa all’inizio del suo pontificato: «Non coerceri maximo, contineri minimo, divinum est». Noi siamo umani ma aspiriamo al divino, siamo fragili ma possiamo diventare divini, siamo chiamati alla santità, non dobbiamo quindi farci schiacciare dal grande e dobbiamo sapere stare nel piccolo. C’è bisogno del grande e del piccolo in questa epoca. Di una visione “mistica”, che ci consenta «di vedere in tutto l’azione dello Spirito che opera incessantemente» come ha scritto il cardinale Martini, che ci aiuti a uscire da noi stessi, dalla nostra pretesa di onnipotenza e di avvertire che siamo parte di qualcosa di più grande e infinito. E di una vicinanza, di una prossimità, di una presenza, che faccia sentire ciascuno amato e importante, perché in fondo ogni cuore umano è vulnerabile e ferito, assetato di amore e di cura. 

Vediamo davanti ai nostri occhi una società sempre più aggressiva, rancorosa; quale può essere la responsabilità di un cattolico? Inoltre, da decenni c’è una fuga rispetto all’impegno politico, da parte di tutti ma anche dei cattolici.

Sì, è una fuga generale, negli ultimi decenni tutti hanno delegato tantissimo, perché in fondo sembrava un’epoca di normalità e quindi ognuno si è occupato del suo privato, della sua monade, appunto, lasciando ai politici la cosa pubblica, salvo poi accorgersi che in questo modo i politici sono diventati a loro volta autoreferenziali, hanno perso contatto con la vita e i bisogni delle persone. È urgente quindi una chiamata per tutti gli uomini di buona volontà, a “uscire da sé stessi”, a occuparsi del bene comune, anche attraverso la politica. Compresi i cristiani, anzi, specialmente i cristiani, che portano con sé questo tesoro, perché, anche se “non sono del mondo”, essi pure “abitano nel mondo”. E la Chiesa? Penso che ci sia bisogno che la Chiesa continui a fare il suo lavoro di cura delle anime, a promuovere luoghi dove chiunque sia assetato di senso e di assoluto possa abbeverarsi e ristorarsi, perché anche in quest’epoca, che ci sembra a volte così materiale, l’uomo aspira all’infinito. Pensiamo ai giovani soprattutto, c’è bisogno di dare loro una visione grande, un senso. Nello stesso tempo, la Chiesa deve far sentire la vicinanza, la prossimità, in modo fattuale, concreto. Si tratta di una risposta fatta di gesti di accoglienza, di gentilezza, di calore verso l’altro, l’altro più “altro” da te, quello che ti sembra distante anni luce da te. Bisogna trovare il modo di nutrire vicinanza, prossimità, cura. Questo implica per i cristiani un lavoro su di sé, una vigilanza sul proprio cuore e, per la Chiesa, organizzazione e competenza, ma anche misericordia e la scelta di stare sempre accanto agli ultimi. 

Sono cent’anni dell’appello di Sturzo ai liberi e forti. Anche all’epoca i cristiani scappavano dall’impegno politico, Sturzo li chiama “cristianelli annacquati” che considerano la politica la sentina di tutti i mali. A distanza di un secolo, qual è la forza della sua lezione? 

Forse Sturzo riuscì a fare quello che ha fatto perché c’era stata la Rerum novarum di Leone XIII. Mi viene in mente l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco che ci ricorda che tutto è connesso, che tutti siamo connessi. Il processo opposto a quello della frammentazione, dell’isolamento di cui abbiamo parlato. Oggi forse la Laudato si’ potrebbe giocare lo stesso ruolo dell’enciclica leonina, anche se in un contesto totalmente diverso, perché Sturzo ha operato quando nascevano i partiti politici, oggi invece è proprio la struttura “partito politico” che è in crisi ed è difficile immaginare che i partiti risorgeranno nella stessa forma di un tempo. La Laudato si’ potrebbe rivelarsi, se tradotta politicamente, un punto aggregante, anche di presenze politiche variegate, di tutti gli uomini di buona volontà. Dovrebbe però essere portata in modo capillare, alle persone, credenti e non, che si aggirano fuori nel mondo, smarrite e sofferenti. Perché, vorrei ribadirlo, nel nostro mondo occidentale, nonostante il benessere e i settant’anni di pace, la gente continua a soffrire, la creazione geme intorno a noi. Tutte queste reazioni, la paura, le chiusure, i muri, le fragilità che si nascondono dietro questa apparente onnipotenza, in fondo sono manifestazioni di sofferenza. A questo si risponde con la cultura dell’incontro. Di fronte alla mia domanda impellente, “che fare?”, Jean Vanier, un grande santo e testimone del nostro tempo, che ho avuto la gioia di conoscere, ha sempre detto, fino all’ultimo, di uscire a incontrare l’altro, di parlare con i diversi, con i lontani, di ascoltarli. Occorre trovare modi per incontrarci davvero, andando oltre quel che ci offre la comunicazione al tempo dei social. Molti sono turbati dalla presenza dei social, così invasivi, ma io non mi preoccuperei più di tanto. Leggevo in questi giorni che don Milani riceveva pacchi e pacchi di lettere anonime, proprio come funziona oggi con i social, anche all’epoca c’erano le fake news, le interviste finte… niente di nuovo. Io insegno diritto costituzionale e dico che oggi bisogna essere “costituzionalisti in uscita”, che ci vuole uno Stato costituzionale diffuso, cioè che occorre far avvertire alle persone tutto il valore di quello che, bene o male, abbiamo costruito in questi settant’anni in Italia e in Europa, grazie in gran parte all’impegno dei cattolici. L’Europa ha prodotto pace, libertà, democrazia, diritti, laddove per secoli ci sono state guerre, sopraffazione e paura. Oggi siamo chiamati a un grande sforzo di creatività se vogliamo che quel che è stato conquistato accompagni le generazioni future. Disponiamo di tesori inauditi per orientarci nel mare in tempesta: una Costituzione che richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Un Vangelo che ci invita alla beatitudine della povertà, all’equilibrio, alla condivisione, a farsi prossimi a ogni uomo, scendendo da Gerusalemme sulla strada di Gerico. Come credenti, dobbiamo però rimboccarci le maniche, invocare il soffio dello Spirito, e ridiventare protagonisti di questa epoca, testimoniando, prima di tutto con la coerenza di vita, cammini profetici, di unità, pacificazione, convivenza e dialogo, senza rinnegare quel “seme di follia” che la fede nasconde in sé e che può capire solo chi la sperimenta.

Il successo delle «graphic novel»

Tratto dall’edizione del 27 giugno dell’Osservatore Romano a firma di Dario Fertilio

Non si può commettere l’errore di chiamarle con sufficienza giornalini a fumetti, né trascurare le sezioni che ormai tutte le maggiori librerie e gli inserti culturali dedicano alle graphic novel

La qualità di ciò che propongono soggettisti e disegnatori sollecita una corda sensibile di molti adulti, già divoratori d’avventure iperboliche e infantili, ora disponibili a un approccio maturo, eclettico e aperto a disparate forme di intrattenimento. Sia che si voglia classificare la graphic novel tra gli esempi di letteratura per immagini — e il graphic journalism come variante ispirata ai reportage d’inchiesta — sia che la si consideri parente della cultura visuale e tridimensionale di ultima generazione, la sua posizione di rilievo oggi è indiscutibile. 

Se l’informazione è sempre più orizzontale, eterogenea, attratta dal collage e non dalle impostazioni gerarchiche e selettive, anche perché sollecitata da strumenti virtuali, la graphic novel rappresenta un approdo in fondo tradizionale e rassicurante; il libro si può maneggiare, le tavole disegnate offrono sorprese e consentono pause di riflessione; e il fumetto in sé, col suo sapore d’infanzia, invita a riscoprire sensazioni sedimentate nel profondo. Ci si immerge con Teresa Radice e Stefano Turconi in una Siria diversa da quella raccontata dai media, dove l’accettazione del diverso è possibile, e padre Dall’Oglio, rapito sei anni fa a Raqqa, diventa un personaggio di riferimento in Non stancarti di andare (Bao Publishing). Si seguono le tracce di giornalisti noti come Toni Capuozzo nell’Iraq tormentato dal terrorismo (La culla del terrore), o Fausto Biloslavo nel dopo Gheddafi (Libia Kaputt, pubblicato come il precedente da Signs Books). Si ricostruisce con Roberto Battistini la cronaca criminale degli anni ’70, cui si intreccia una storia vera di redenzione individuale (A caro sangue, 001 Edizioni). In Salvezza (Feltrinelli) Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso stabiliscono un contatto diretto con i disperati dei barconi aggrappati alle navi di salvataggio nel Mediterraneo, mescolando il grigio dello sconforto e l’arancione dei salvagente e della speranza. Ma forse la graphic novel ottiene il maggiore effetto là dove riesce a liberarsi del tutto dagli schemi narrativi tradizionali per abbandonarsi a un ritmo sincopato, fatto più di sensazioni che di fatti descritti con pretese di oggettività. Così nella vicenda tragica di Norma Cossetto, vittima degli infoibamenti nell’Istria del 1943 (Foiba rossa di Emanuele Merlino e Beniamino Delvecchio), e ancor più in quella del martire cecoslovacco Jan Palach ricostruita da Petr Vyoral (pubblicata come la precedente da Ferrogallico) risaltano al massimo le potenzialità del mezzo. L’obiettivo ambizioso di storie come queste è coinvolgere tutti i sensi del lettore: la vista conquistata dal tratto, dai salti temporali, dalle linee che indicano movimento, dalla tessitura dei quadri e dai differenti caratteri; l’udito, attraverso lo sforzo di far vedere i suoni, ma anche i rumori interiori che il lettore ricostruisce nella mente; l’olfatto e il gusto, suggeriti attraverso le linee tratteggiate nell’aria; il tatto sollecitato dall’identificazione, mentre si girano le pagine, con gli ambienti in cui si svolgono le storie. Il che forse significa tornare al passato, quando si desiderava un libro con spirito romantico, sperando di vedervi prender forma sogni e desideri.

Il Centro senz’anima e i Popolari

Fonte Associazioni Popolari

Nel serrato dibattito su una possibile nuova stagione dei “liberi e forti”, sono decine gli articoli che hanno per tema il Centro, l’araba fenice del quadro politico italiano. Sul “Corriere” persino un cantore del bipolarismo come Angelo Panebianco ha invocato, suo malgrado, la costruzione di un Centro politico, dopo esserne stato il teorico della necessaria scomparsa, ritenendolo l’unico antidoto alla deriva populista. La conversione dell’illustre politologo, più che un esempio tra i tanti di incoerenza, pare – dal suo punto di vista – un segno si disperazione.

Per quelli come noi invece, sostenitori della democrazia rappresentativa, in un Parlamento eletto con metodo proporzionale, e diffidenti verso ogni autoritarismo – anche abilmente celato di volta in volta sotto ragioni di efficienza, governabilità, rimozione delle caste e altri nuovismi assortiti – l’evocazione di un Centro riedificato sulle macerie del bipolarismo muscolare non può che essere una bella prospettiva.

In uno dei suoi articoli, Giorgio Merlo ha poi ben definito le caratteristiche politiche del Centro: “una rinnovata cultura della mediazione; un vero riconoscimento del pluralismo sociale e culturale; un forte senso dello Stato e un rigoroso rispetto delle istituzioni democratiche; una vera ricetta riformista e una spiccata cultura di governo; una autorevole e qualificata classe dirigente e, soprattutto, una politica che sappia battere la radicalizzazione della lotta politica e introdurre la logica democratica del confronto e del dialogo attraverso il rispetto dell’avversario e non l’annientamento del nemico”. Se pensiamo alla cialtroneria dei tempi nostri e del recente passato targato Seconda Repubblica, il recupero di tali aspetti nella prassi politica sarebbe già “tanta roba”, per usare un’espressione di moda. E se un Centro politico nascesse e si caratterizzasse per questo modo di essere, certamente segnerebbe una positiva discontinuità con l’esistente.

Credo però che questo identikit del Centro sia incompleto, perché si ferma al metodo.

Se nelle istituzioni la forma diventa anche sostanza (pensiamo al nostro Presidente della Repubblica, che di sostanza propria ne ha comunque tantissima), nella politica la forma non è sufficiente. Così come non è sufficiente che esista uno spazio teorico nel panorama politico per decretare il conseguente successo di un partito che si autoproclama rappresentante di quel vuoto. Non basta quindi invocare il Centro, dichiararsi di Centro per attirare e rappresentare una porzione di elettorato. Anche il Centro deve avere un’anima e non essere soltanto un luogo geometrico occupabile da sedicenti “centristi” o “moderati”, altro termine abusato e di poca consistenza, come abbiamo già visto.

Se i democratici popolari di ispirazione cristiana vogliono ritornare nell’agone politico hanno una sola strada seria da percorrere, e per nulla agevole: quella – e uso le parole di Carlo Baviera – “di ripartire dai contenuti, da un programma, più che dal contenitore”. Perché sono le proposte concrete di governo che devono caratterizzare la nostra presenza sulla scena politica, la ricerca del consenso, la politica delle alleanze. È sempre Baviera a ritenere “che questo tempo richieda lo sforzo di restare anche organizzativamente collegati fra quanti hanno obiettivi comuni sulle grandi questioni da affrontare: il clima, il lavoro e le regole da imporre a livello generale, il welfare da ripensare ma non da ridurre, la rivoluzione digitale, le migrazioni cui dare sbocchi di integrazione e risposte civili, l’Europa da rilanciare e da democratizzare togliendola ai Capi di Stato e di Governo, le politiche di natalità e di supporto alle realtà famigliari, ricostruire i corpi intermedi e dare spazio alla partecipazione, la politica di pace”.

Tradurre tutto ciò in un realistico programma di governo – ovviamente ispirato dai valori etici e politici di riferimento che ai Popolari non mancano – è dare una identità allo strumento (partito o movimento autonomo, oppure contenitore plurale) che verrà individuato dal confronto comune per affrontare i marosi della lotta politica.

Già, l’identità. Mi ha stupito l’ultima netta presa di posizione di Merlo: “Basta con i partiti identitari”. Conosco Giorgio da troppo tempo per pensare che si sia convertito alla vacua superficialità della politica dell’“oggi qui, domani là”, del posizionamento di convenienza. Se intende come “identitario” il partito “dei cattolici” o “di cattolici”, usiamo la corretta dizione di “partito confessionale” e sfondiamo insieme una porta aperta nel richiamare l’assoluta laicità dell’impegno politico, di cui ci sono stati maestri per primi don Sturzo e De Gasperi.

Ma “identitario” può – e deve – essere un partito con una solida base etica che si esprime e si sostanzia in un coerente e dinamico programma di governo. L’alternativa al “partito identitario” sono i contenitori senz’anima, con alcuni tra i soliti noti che cercano un posizionamento per collezionare l’ennesima rielezione. Anche operazioni di questo tipo sono state ultimamente bocciate dagli elettori. Pare improbabile che un rassemblement promosso da Casini, Tabacci, Calenda e forse Renzi – con l’adesione di “cattolici” in ordine sparso – riesca a scaldare i cuori di chi si è rifugiato nell’astensione o ad attirare consensi dai due terzi di votanti che si sono affidati ai populisti. Occorrono politiche anche coraggiose, e una classe dirigente credibile, che quindi non può essere la stessa coinvolta nei rovinosi fallimenti della Seconda Repubblica.

Hanno ragione tutti coloro che sostengono la necessità di ricostruire una presenza sul piano culturale e prepolitico, ma il tempo rischia di essere insufficiente e occorre lavorare in parallelo con una diretta azione politica.

Lorenzo Dellai ha delineato nell’incontro da noi organizzato a Torino e poi nel suo ultimo articolo un percorso condivisibile, che passa attraverso una ricomposizione dei democratici popolari di ispirazione cristiana, oggi più attivi e speranzosi (anche merito del centenario del PPI sturziano) ma sempre dispersi in mille rivoli. È vero ciò che ha sottolineato Merlo: tutti i recenti tentativi di cimento elettorale sono finiti con percentuali insignificanti. Ma non hanno fallito perché identitari: piuttosto perché egocentrici e autoreferenziali.

Se ciascuno pensa di poter far da solo, è inesorabilmente condannato allo zero virgola. Occorre avere l’umiltà di far retrocedere l’io per far compiere insieme un grosso passo avanti al noi.

Va insomma recuperato il senso della comunità politica, come ha scritto Dellai. Questa è la prima sfida da vincere: dipende solo da noi, ma non è scontata.

Nel nostro piccolo abbiamo proposto una adunata nazionale delle nostre realtà convocata dalle tre testate on-line che rappresentano il popolarismo e promuovono il dibattito politico tra i cattolici democratici. Era un modo per uscire dai personalismi (chi convoca chi) che stanno frenando una iniziativa unitaria che tutti auspichiamo. Purtroppo remore e distinguo non hanno al momento permesso di procedere.

Dovremmo tutti riflettere sul fatto che se diventa complicato sederci in 5 o 6 intorno ad un tavolo per concordare un’assemblea aperta, rischiamo di non andare da nessuna parte su un progetto ben più ambizioso. Oltre ad anteporre il noi all’io dovremmo anche attuare quel consiglio che Merlo attribuisce a Rosy Bindi, “trafficare i propri talenti”. Non però nel senso di farli pesare in una trattativa di coalizione per ottenere spazi e poltrone, Invece nel senso di considerare ciascuno per i talenti che ha, e non solo per i difetti. Se Tizio parla male di Caio, che critica Sempronio, e questi vuole emarginare Tizio, i tre certamente non concluderanno nulla di buono.

Prima di gettare la spugna e dichiararci sconfitti dall’esasperato individualismo, male che non ha risparmiato la classe politica democratico cristiana, insistiamo sulla strada della ricomposizione insieme a quanti condividono l’obiettivo con lo stesso spirito aperto e inclusivo. Per l’11 luglio stiamo organizzando con tutte le realtà del Nord Italia con cui siamo in contatto (che non elenco per non dimenticare qualcuno) un pomeriggio di confronto sul percorso da intraprendere per creare un movimento nazionale autonomo, fortemente caratterizzato da contenuti programmatici, che possa riunire i democratici popolari di ispirazione cristiana e proporsi a tutti coloro che vogliono mettersi in gioco per superare i mali endemici del nostro Paese e restituire alle giovani generazioni una prospettiva di futuro.

Una tappa intermedia, in attesa che maturino – speriamo presto – i tempi per il coinvolgimento nazionale di tutti i “liberi e forti”.

La Finlandia dal 1° luglio sarà alla guida del Consiglio dei ministri europeo

È la terza volta che la Finlandia prende la guida semestrale del Consiglio dei ministri Ue. La Romania passerà a Helsinki, il 1° luglio, la presidenza del Consiglio.

Politicamente il Paese è all’inizio di una nuova legislatura: dopo le elezioni di aprile, il socialdemocratico Antti Rinne è stato nominato primo ministro il 6 giugno scorso. Il programma del semestre è stato votato il 26 giugno, dal parlamento finlandese ed è da oggi disponibile su eu2019.fi, sito ufficiale del semestre.

Quattro le priorità: “il rafforzamento dei valori comuni e dello stato di diritto, rendere l’Ue più competitiva e socialmente inclusiva, rafforzare la posizione dell’Ue come leader globale nell’azione per il clima, proteggere la sicurezza dei cittadini”.

In particolare, il programma insiste sullo stato di diritto, la lotta alla corruzione e misure per promuovere l’uguaglianza e l’inclusività in tutti i settori.

Bruxelles apre a una nuova legislazione su divorzio

Bruxelles apre a una nuova legislazione su divorzio, affidamento dei minori e diritto di visita. Le norme riguardano la rapida risoluzione delle controversie genitoriali che emergono in seguito alla separazione. Quando i genitori decidono di separarsi, i bambini si trovano assai spesso al centro di annose diatribe e la situazione si complica quando i genitori vengono da Paesi diversi dell’Ue. In queste situazioni difficili, l’attenzione dovrebbe focalizzarsi su che cosa sia meglio per i minori, ma non sempre è così. Ed è muovendo da questo tema che sono state promulgate nuove norme, attraverso le quali da oggi in poi, la cooperazione giudiziaria sarà più rapida ed efficiente al fine di garantire che il benessere dei minori venga messo al primo posto.

Ogni anno nell’Ue ci sono circa 140.000 divorzi internazionali e circa 1.800 casi di sottrazione di minore da parte di un genitore. Grazie alla revisione del regolamento Bruxelles II bis, un minore sottratto da un genitore rientrerà in tempi molto più rapidi nel Paese dove era solito vivere e i bambini abbastanza grandi da avere opinioni proprie avranno la possibilità di esprimersi in tutti i procedimenti che li riguardano. Con l’abolizione dell’exequatur per tutte le decisioni del tribunale, una procedura intermedia richiesta per ottenerne l’applicazione transfrontaliera, i procedimenti diventeranno più rapidi e meno costosi per le famiglie. Le nuove norme entreranno in vigore 20 giorni dopo l’avvenuta pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale.

Libia: il generale Haftar perde Gharian

La conquista della strategica città di Gharian, a sud di Tripoli, da parte delle forze del Governo di accordo nazionale (Gna), potrebbe cambiare le sorti del conflitto e segnare l’inizio della fine dell’offensiva del generale Khalifa Haftar.

Gharian era fino a qualche giorno fa l’avamposto principale per l’Lna, dove truppe, armi e munizioni arrivavano dall’est: è anche sede di ospedali da campo e di una base di elicotteri presente fuori dalla città. Haftar ha iniziato la sua campagna su Tripoli proprio da lì. Le Forze alleate del governo di Tripoli, sostenute da attacchi aerei, hanno preso d’assalto la città – circa 90 chilometri a sud di Tripoli – con un attacco a sorpresa.

Il Consiglio presidenziale, con sede a Tripoli, ha annunciato in una nota che Gharian è stata completamente “liberata”.

Al momento l’Lna detiene ancora la città di Tarhuna, anche se con la sconfitta di Gharian le truppe sono ora isolate,  la sua seconda posizione principale nella campagna in corso sulla capitale.

Istat, cala fiducia dei consumatori: a giugno è ai minimi dal 2017

A giugno 2019 si stima una flessione dell’indice del clima di fiducia dei consumatori da 111,6 a 109,6; anche per l’indice composito del clima di fiducia delle imprese si registra una dinamica negativa (da 100,2 a 99,3).

Tutte le componenti dell’indice di fiducia dei consumatori sono in calo, seppur con intensità diverse: il clima economico e quello futuro registrano una diminuzione più marcata mentre la flessione è più contenuta per il clima personale e per quello corrente. Più in dettaglio, il clima economico passa da 125,5 a 120,9, il clima futuro diminuisce da 115,6 a 112,3, il clima personale flette da 107,4 a 105,6 e il clima corrente cala da 109,6 a 107,6.

Con riferimento alle imprese, l’indice di fiducia registra una flessione nel comparto manifatturiero e, soprattutto, nelle costruzioni (l’indice cala, rispettivamente, da 101,9 a 100,8 e da 144,3 a 140,9); nei servizi l’indice registra una diminuzione più contenuta (da 99,3 a 98,9) mentre nel commercio al dettaglio sale da 102,7 a 104,7.

Per quanto riguarda le componenti dei climi di fiducia delle imprese, nell’industria manifatturiera si rileva un peggioramento sia dei giudizi sugli ordini sia delle attese sulla produzione; il saldo relativo alle scorte di magazzino è in aumento. Nelle costruzioni la dinamica negativa dell’indice è trainata dal deciso ridimensionamento delle aspettative sull’occupazione presso l’azienda a cui si unisce un peggioramento dei giudizi sugli ordini.

Con riferimento al settore dei servizi, si segnala il peggioramento dei giudizi sugli ordini e sull’andamento degli affari; le attese sugli ordini sono in aumento. Nel commercio al dettaglio, l’incremento dell’indice è dovuto al miglioramento dei giudizi e, soprattutto, a quello delle attese sulle vendite, diffuso sia alla grande distribuzione sia a quella tradizionale. Il saldo dei giudizi sul livello delle giacenze diminuisce.

Il ritorno del ‘900 a Brera

Da Boccioni a Carrà, da de Pisis a Morandi, da Modigliani a Sironi fino a Picasso, 100
delle opere più amate della Pinacoteca, appartenenti alle collezioni Jesi e Vitali, sono
state riallestite nel cuore del museo, nelle sale IX-XV-XXIII, in attesa di essere trasferite nel vicino Palazzo Citterio.

Si tratta di un intervento di valorizzazione che si fonda sul principio del “museo visibile”, cuore della missione della Pinacoteca di Brera, che renderà possibile al pubblico una fruizione originale di alcuni tra i massimi capolavori del 900. Radunate in gran parte per iniziativa del leggendario direttore di Brera, Franco Russoli, le opere, allora contemporanee, rappresentano infatti una sezione amatissima dal pubblico del museo.

Ricordiamo inoltre che la collezione di opere d’arte della Pinacoteca di Brera contiene alcuni tra i massimi capolavori della storia dell’arte mondiale.

Zecche: sempre più morsi in Italia

Le zecche sono artropodi, appartenenti all’ordine degli Ixodidi compreso nella classe degli Arachnidi, la stessa di ragni, acari e scorpioni, e si tratta di parassiti esterni, delle dimensioni che variano da qualche millimetro a circa 1 centimetro secondo la specie e lo stadio di sviluppo. Il corpo, tondeggiante e il capo, non distinguibile dal corpo, è munito di un apparato boccale (rostro) in grado di penetrare la cute e succhiare il sangue.

 

Distribuzione in Europa in Italia

Le zecche sono diffuse in tutto il mondo e se ne conoscono circa 900 specie raggruppate in tre famiglie, di cui le principali sono le Ixodidae (zecche dure) e le Argasidae (zecche molli). Le zecche dure hanno un caratteristico scudo dorsale chitinoso e comprendono 5 generi: IxodesHyalommaRhipicephalusDermacentorHaemaphysalis. Le zecche molli, così dette perché sprovviste di scudo dorsale, sono presenti con due generi: Argas eOrnithodorus. Queste ultime generalmente si nutrono sugli uccelli; la più comune in Italia risulta essere Argas reflexus detta anche “zecca del piccione”. Le specie più diffuse e rilevanti da un punto di vista sanitario sia in Italia che in Europa sono Ixodes ricinus (la zecca dei boschi), Rhipicephalus sanguineus (la zecca del cane), Hyalomma marginatum e Dermacentor reticulatus.

In Italia sono presenti Dermacentor reticulatusHyalomma marginatumIxodes persulcatus, and Ixodes ricinus.

 

Ciclo biologico

Il ciclo biologico delle zecche, che può compiersi su uno stesso ospite oppure su due o tre ospiti diversi, si sviluppa in 4 stadi distinti: uovo, larva, ninfa e adulto. Dopo la schiusa delle uova, il passaggio da uno stadio a quello successivo richiede un pasto di sangue. Le femmine adulte, inoltre, necessitano del pasto di sangue per la maturazione delle uova.

 

Le zecche non sono molto selettive nella scelta dell’organismo da parassitare, ma possono scegliere diverse specie animali dai cani ai cervi, agli scoiattoli fino all’uomo. Il pasto di sangue, durante il quale la zecca rimane costantemente attaccata all’ospite, si compie nell’arco di ore per le zecche molli, di giorni o settimane per le dure.

 

L’attività delle zecche è strettamente legata ai valori di temperatura e umidità e, sebbene ci siano alcune eccezioni, in generale la loro attività si concentra nei mesi caldi. Infatti, durante la stagione invernale tendono a proteggersi dal freddo rifugiandosi negli anfratti dei muri, sotto la vegetazione, le pietre o interrandosi in profondità. Con l’aumento delle temperature riemergono e rimangono attive sino all’autunno successivo (tuttavia i cambiamenti climatici caratterizzati da aumento della temperatura possono prolungarne il periodo di attività).

 

L’habitat preferito è rappresentato da luoghi ricchi di vegetazione erbosa e arbustiva, con microclima preferibilmente fresco e umido, tuttavia le zecche possono trovarsi anche in zone a clima caldo e asciutto o dove la vegetazione è più rada. La loro presenza dipende, infatti, essenzialmente dalla presenza sul territorio di ospiti da parassitare, per questo luoghi come stalle, cucce di animali e pascoli sono tra i loro habitat preferiti.

 

Le zecche non saltano e non volano sulle loro vittime, ma si appostano all’estremità delle piante aspettando il passaggio di un animale o di un uomo. Grazie all’anidride carbonica emessa e al calore dell’organismo, questi acari avvertono la presenza di un eventuale ospite e vi si insediano conficcando il loro rostro (apparato boccale) nella cute e cominciando a succhiarne il sangue. Il morso è generalmente indolore perché emettono una sostanza contenente principi anestetici. Generalmente rimangono attaccate all’ospite per un periodo che varia tra i 2 e i 7 giorni e poi si lasciano cadere spontaneamente.

 

Malattie trasmesse dalle zecche

Gli Ixodidi sono in grado di trasmettere all’uomo numerose e differenti patologie: la borreliosi di Lyme, l’ehrlichiosi, le febbri bottonose da rickettsiae, la tularemia, la febbre Q, la babesiosi e l’encefalite virale. Gli Argasidi sono vettori di patologie meno rilevanti dal punto di vista epidemiologico: febbri ricorrenti da zecche e febbre Q. Con l’inizio della bella stagione le zecche abbandonano lo stato di letargo invernale e si avviano alla ricerca di un ospite da parassitare. Nei mesi primaverili ed estivi, che vanno da aprile a ottobre, è quindi più frequente cadere vittima del cosiddetto “morso da zecca”. Il morso della zecca non è di per sé pericoloso per l’uomo, i rischi sanitari dipendono invece dalla possibilità di contrarre infezioni trasmesse da questi animali in qualità di vettori.

 

L’eziologia di queste malattie da vettore comprende diversi microrganismi: protozoi, batteri e virus.

 

Le patologie infettive veicolate da zecche che presentano rilevanza epidemiologica nel nostro Paese sono principalmente:

  • l’encefalite da zecca o Tbe (causata da un virus)
  • la malattia di Lyme, causata dal batterio borrelia
  • la rickettsiosi (trasmessa principalmente dalla zecca dei cani)
  • la febbre ricorrente da zecche
  • la tularemia
  • la meningoencefalite da zecche
  • l’ehrlichiosi.

La maggior parte di queste malattie può essere diagnosticata esclusivamente sul piano clinico, ma una pronta terapia antibiotica, nelle fasi iniziali, è generalmente risolutiva in particolar modo per le forme a eziologia batterica. Solo raramente (fino al 5% dei casi) e in soggetti anziani o bambini queste infezioni possono essere pericolose per la vita.

 

Prevenzione

Esistono alcune precauzioni per ridurre significativamente la possibilità di venire a contatto con le zecche, o perlomeno per individuarle rapidamente, prima che possano trasmettere una malattia.

 

In generale, è consigliato:

  • indossare abiti chiari (rendono più facile l’individuazione delle zecche), coprire le estremità, soprattutto inferiori, con calze chiare (meglio stivali), utilizzare pantaloni lunghi e preferibilmente un cappello
  • evitare di toccare l’erba lungo il margine dei sentieri, non addentrarsi nelle zone in cui l’erba è alta
  • al termine dell’escursione, effettuare un attento esame visivo e tattile della propria pelle, dei propri indumenti e rimuovere le zecche eventualmente presenti. Le zecche tendono a localizzarsi preferibilmente sulla testa, sul collo, dietro le ginocchia, sui fianchi
  • trattare gli animali domestici (cani) con sostanze acaro repellenti prima dell’escursione
  • spazzolare gli indumenti prima di portarli all’interno delle abitazioni.

Inoltre, in commercio esistono repellenti per insetti (DEET, N-dietiltoluamide, icaridina, permetrina) e prodotti piretroidi da spruzzare sugli abiti.

Se individuate sulla pelle, le zecche vanno prontamente rimosse perché la probabilità di contrarre un’infezione è direttamente proporzionale alla durata della permanenza del parassita sull’ospite. Infatti, solo dopo un certo periodo (alcune ore) in cui è saldamente ancorata per alimentarsi, la zecca rigurgita parte del pasto, inoculando nel sangue dell’ospite eventuali patogeni. Bisogna comunque tenere presente che solo una percentuale di individui è portatore di infezione.

Rimozione della zecca

Cosa non fare:

  • Non utilizzare mai per rimuovere la zecca: alcol, benzina, acetone, trielina, ammoniaca, olio o grassi, né oggetti arroventati, fiammiferi o sigarette per evitare che la sofferenza indotta possa provocare il rigurgito di materiale infetto.

Cosa fare:

  • la zecca deve essere afferrata con una pinzetta a punte sottili, il più possibile vicino alla superficie della pelle, e rimossa tirando dolcemente cercando di imprimere un leggero movimento di rotazione. Attualmente si possono trovare in commercio degli specifici estrattori che permettono di rimuovere la zecca con un movimento rotatorio
  • durante la rimozione bisogna prestare la massima attenzione a non schiacciare il corpo della zecca, per evitare il rigurgito che aumenterebbe la possibilità di trasmissione di agenti patogeni
  • disinfettare la cute prima e dopo la rimozione della zecca con un disinfettante non colorato. Dopo l’estrazione della zecca sono indicate la disinfezione della zona (evitando i disinfettanti che colorano la cute, come la tintura di iodio)
  • evitare di toccare a mani nude la zecca nel tentativo di rimuoverla, le mani devono essere protette (con guanti) e poi lavate
  • spesso il rostro rimane all’interno della cute: in questo caso deve essere estratto con un ago sterile
  • distruggere la zecca, possibilmente bruciandola
  • dopo la rimozione effettuare la profilassi antitetanica
  • annotare la data di rimozione e osservare la comparsa di eventuali segni di infezione nei successivi 30-40 giorni per individuare la comparsa di eventuali segni e sintomi di infezione
  • rivolgersi al proprio medico curante nel caso si noti un alone rossastro che tende ad allargarsi oppure febbre, mal di testa, debolezza, dolori alle articolazioni, ingrossamento dei linfonodi.

Uso di antibiotici

La somministrazione di antibiotici per uso sistemico nel periodo di osservazione è sconsigliata, perché può mascherare eventuali segni di malattia e rendere più complicata la diagnosi. Nel caso in cui, per altre ragioni, fosse necessario iniziare un trattamento antibiotico, è opportuno impiegare farmaci di cui sia stata dimostrata l’efficacia sia nel trattamento delle rickettsiosi che delle borreliosi.

Attualità del pensiero di Keynes

Pomeriggio letterario, martedì 25 luglio nella sede dell’Abi, con un pubblico numeroso (docenti, parlamentari, servitori dello Stato, amministratori, studiosi compreso il presidente della Consob Paolo Savona) che ha sfidato il caldo torrido dell’estate romana.

La presentazione del recente libro di Giorgio La Malfa e Giovanni Farese è stata l’occasione per un confronto pubblico, profondo e ricco di aneddoti, sulla attualità del pensiero di Keynes. Ne hanno parlato gli autori insieme al Professore Sabino Cassese e all’economista Pierluigi Ciocca, giá Banca d’Italia.

Giorgio La Malfa ha confessato che con questa opera ha voluto “pagare un debito alla formazione che ebbe  Cambridge negli anni sessanta” , quando frequentando quella università inglese frequentò gli allievi di Keynes.

Si è certamente parlato della rivoluzione Keynesiana, dell’attacco di  Keynes alla cittadella della  ortodossia, con un assalto alla cittadella del pensiero classico,  con la lunga  genesi della Teoria generale nel convincimento che il mercato da solo non ce la fa e richiede azioni consapevoli ponendo alternative al capitalismo che non ė capace di creare piena occupazione.

Nel  1935 scriveva “la difficoltà non risiede  nelle nuove idee ma nelle vecchie che risiedono in ogni angolo della mente”. Prima del 1936, dunque  prima di Keynes prevaleva il convincimento che il sistema si autoregolasse e che i governi dovevano astenersi dall’intervenire.

Anche Von Hayek sosteneva l’astensione e  che ci  sarebbe il lento riadeguamento della produzione  Il problema, nel secolo scorso fu purtroppo superato solo con il ricorso alle guerre. Toccò alle guerre ridare lavoro.  Certo la spesa pubblica ė un oggetto pericoloso e va maneggiata con prudenza, soprattutto dai responsabili politici.

Guardare all’oggi significa prendere coscienza che la rivoluzione tecnologica porta a produzioni con pochissimo lavoro,  con il rischio di cattiva distribuzione della ricchezza  e solo la mano pubblica può correggere i livelli della occupazione e della distribuzione del reddito. Purtroppo anche nelle università si è tornati a diffondere ed insegnare teorie ottocentesche.

Quindi oggi le teorie di Keynes andrebbero maneggiate con prudenza pensando ai nuovi protezionismi, alla sovranità limitata, ai minibot o a mini monete  o a quota cento e a quanti insidiano perfino il capitale della Banca d’Italia.  Keynes non era per lo Stato spendaccione; l’intero bilancio deve essere in equilibrio se non in pareggio; agire sulla composizione del bilancio e sulle infrastrutture produttive, che nulla hanno a che vedere con il bilancio in deficit.

La forza del moltiplicatore degli investimenti è diversa da quello per le spese correnti.
Keynes propone di abbandonare lo stato ottocentesco per entrare in un socialismo liberale, proteggendo l’individuo, la sua iniziativa, la sua proprietá.
Lo Stato deve assumersi la responsabilità di intervenire. Solo lo Stato può rimediare e può entrare in gioco come fattore equilibratore, assumendo una responsabilità crescente negli investimenti.

Stato e mercato sono padre e madre dell’individuo.
Il libro di Giorgio La Malfa e Giovanni Farese per la collana dei Meridiani dell’editore Mondadori  con  la ricchezza di un saggio introduttivo di 100 pagine di Giorgio La Malfa e  di 500 note (bibliografiche, storiche, di relazione, biologiche o letterarie) restituisce forma e sostanza al pensiero di Keynes per il quale l’economia deve avere una importanza secondaria rispetto “all’arte della vita”.

Assume, oggi,  un grande significato politico oltre e che letterario soprattutto nel tempo della crisi dell’Unione Europea sopraffatta dalla ventata di ordoliberismo che porta ai rischi della deflazione, scoraggia la domanda privata, genera insicurezze, disuguaglianze,  risentimenti nei ceti medi e piccoli li borghesi. I pericoli sono elevati è ancora non sufficientemente percepiti.

Panebianco disegna un nuovo centro prigioniero del vecchio blocco della società dei due terzi.

Sempre divertente sentire lezioni sul centro da chi ha magnificato il bipolarismo per decenni. Il blocco sociale del terzo garantito, istruito, benestante, ha già una sua rappresentanza politica: il Pd, piaccia o non piaccia. La nuova offerta politica di cui parla Angelo Panebianco (sul Corriere della Sera di ieri, ndr) è tutta all’interno di quest’area.

Il problema del centro è di esser popolare, di ambire a intercettare gli interessi degli altri due terzi, per non consegnarli del tutto alla destra e al populismo a 5 stelle. Tanto per stare coi piedi per terra, l’aria che tira nel Paese, fuori dal circuito politico-mediatico non è la preoccupazione per il pericolo populista al governo, ma che i gialloverdi non lo siano abbastanza, o niente affatto, e che non stanno facendo l’unica cosa per cui sono stati votati: le politiche espansive per il rilancio del Paese, meglio con il consenso dell’Ue, ma anche in presenza di divieti e sanzioni. 

Un centro che si facesse portavoce dei fondamentali irrinunciabili per ridare respiro e slancio al Paese avrebbe uno spazio politico enorme e potrebbe evitare avventure politiche molto più gravi, che inevitabilmente si produrranno in caso di fallimento del governo gialloverde. È solo questione di volontà politica.

Mi sembra un punto molto importante, quello che molti enunciano in termini di ripresa o superamento, alternativamente, delle “identità” di partito. Certo, il PD si dichiara liberal- socialista e Zingaretti ne accentua il lato socialista. Eppure riesce benissimo a prendere i voti del centro, di quel che rimane della classe media, delle oasi sociali al riparo, per ora, dalla crisi. Il PD è il principale riferimento di questo blocco sociale. Se poi guardiamo alle politiche economiche di questo partito, soprattutto quelle realizzate, al di là dei proclami, dal 2011 al 2018, queste sono radicalmente di destra, in quanto hanno concorso ad affermare il primato della moneta sulla persona, sul lavoro e sulla democrazia in una misura che neanche i settori più a destra dei repubblicani americani mai si sognerebbero. 

Dunque, o si declina la politica del centro in senso popolare, costituzionale, sociale, di economia mista, di stimolo fiscale e di contestuali adeguati – sottolineo adeguati – investimenti per lavoro e sviluppo, con o senza il consenso euro-tedesco, oppure anche la proposta della Rete Bianca rischia di andare incontro al limite dell’impostazione di Panebianco: delineare un centro per una società dei due terzi garantiti che non c’è più, incapace di parlare ai due terzi in via di impoverimento che invece ci sono e che costituiscono la nuova questione sociale da cui deve ripartire il centro, specie se innervato di cultura politica cattolico-democratica, e da cui passano la tenuta della democrazia, della pace sociale nel Paese, e della stessa Unione Europea.

Il salvinismo

Con gli “ismi”  non si finisce più. Ma non ci possiamo fare niente: siamo ormai abituati. Dopo il craxismo consanguineo del berlusconismo, sono arrivati il grillismo e  il renzismo. Mentre spunta con prepotenza ai nostri giorni il salvinismo. Parente stretto del sovranismo. Leggo che dopo la manifestazione sindacale di Reggio Calabria e nel ricordo del suo incontro con i pastori sardi, Salvini ha convocato al Viminale  i segretari della Cgil, Cisl e Uil. Non male per un Ministro degli Interni. Il  salvinismo non ha niente da fare però con il calvinismo. Anche se hanno quasi la stessa pronuncia. Quasi. Poiché il calvinismo è cosa molto ma molto più seria. Che il Salvini dei Crocefissi e del Vangelo, del Rosario e di Santa Maria, dei comizi milanesi con Bergoglio fischiato,  sia però persuaso di essere “Unto del Signore” e di possedere la Grazia salvifica riservata ai “Primi” e ai carismatici , lo possiamo tuttavia mettere nel conto. E dovremmo anche accettare che l’etica protestante calvinista – che secondo Max Weber è alle origini del capitalismo – è quella stessa a cui si ispira Salvini con la Flat Tax: solo i più ricchi, in quanto eletti, devono godere dei vantaggi più sostanziosi. Ma cosa chiamo Salvinismo? Forse bisogna intenderlo come  una non tanto nascosta e subdola vocazione a straripare pericolosamente dai ruoli propri. A occupare il posto degli altri. Ad anticipare questioni che non riguardano i propri compiti. A invadere recinti altrui uscendo impropriamente dal proprio. Capiamoci bene. Non si tratta di una sorta di altruismo contrapposto all’egocentrismo. Ma semmai di un egocentrismo contrapposto all’altruismo dagli effetti antidemocratici e destabilizzanti impensabili.                                                                                                                   

Ma arrivati a questo punto devo fare un passo indietro.                                                Al momento della nascita del Governo 5 Leghe ( meglio definirlo così !) dopo  uno storico  “Contratto  notarile” ,  ho infatti divagato anche sulla nascita della Terza repubblica italiana. “Finalmente ci siamo…mi sono detto… abbiamo rottamato la Seconda ! ”. Mi riferivo alla Riforma costituzionale “de facto”  attraverso la nomina di “Due Primi Ministri” e di un solo “Vice Primo Ministro”. Ma come   due Primi Ministri ? Si due Primi Ministri e un solo Vice. Riconosco però di essermi sbagliato. Ma  solo di poco. Perché sul Duumvirato dei “Due Primi Ministri”, non avevo infatti considerato che uno dei due era finto. E  che l’unico vero “ Primo Ministro” dei due, in servizio permanente effettivo e facente le funzioni anche di Premier, era proprio l’egotista Salvini.  E il finto Premier nominato ? Bé, si è accontentato di non interrompere il suo “sogno di una notte di mezza… primavera”, a cui ancora non crede. Tanto era fantastico.                                                                

Devo però ammettere che dopo la nascita della Terza Repubblica su carta bollata, , non avevo per niente considerato che dietro l’angolo si nascondesse anche la  Quarta. L’occasione è ora arrivata . E me la offre l’esondazione non solo mediatica del salvinismo: sappiamo ormai, e abbiamo capito, che tutta la politica nazionale è nelle sue quotidiane esternazioni televisive. Ma dal momento che i numeri gli danno ragione ,  è una esondazione politica ragionata e intesa come volontà di concentrare e centralizzare diversi Ministeri presso il suo. Là in alto, sul Collis Viminalis, uno dei sette di Roma, che sembra debba il suo nome alle piante di vimini e alle ceste che si producevano. E dentro le quali oggi Salvini vuole raccogliere e mettere insieme ruoli, funzioni e competenze ministeriali diversi. Come quelli delle Politiche Agricole, dei Trasporti, delle Finanze , degli Affari Esteri, della Difesa, e altri che mi sfuggono.  Ma è ora chiaro che dopo la manifestazione di Reggio Calabria, vuole avocare a sé anche quello del Lavoro e delle Politiche Sociali, attraverso la convocazione al Viminale dei sindacati.

E il Collis Viminalis degli Interni?  Beh, quello riguarda il mitra, il Rosario, gli emigrati abbandonati al loro destino sulle barche, le magliette, le tute mimetiche e le divise della Croce Rossa, che fanno parte della coreografia di questo colle, in attesa del camice bianco per sostituire i medici che mancano in Italia. E soprattutto senza  dimenticare il permesso di sparare per difendersi, esercitando “Sicurezza”. Anelito e bisogno insopprimibile dell’italica gente, supportata  dal primo Ministro trasbordante, in attesa di usurpare  anche la delega a Giorgetti per lo sport, in modo di fare esercitare obbligatoriamente a tutti gli italiani, il tiro al bersaglio con la pistola familiare di ordinanza tenuta sotto il cuscino. E la Costituzione?  Quando non è per l’autonomia padano-lombardo-veneta, il “me ne frego” sembra suggerire che si debba rivoltare come un pedalino. Trasformando il Parlamento, se non proprio in un “bivacco sordo di manipoli”, in qualche baita alpina che gli somigli. Purché rimanga lontana, isolata e silenziosa.

Siccome non credo molto al fascismo eterno e ai rigurgiti mussoliniani di massa, quello che invece mi preoccupa molto in Salvini e nel salvinismo, sono il tifo per Boris Johnson, previsto  futuro premier britannico decisissimo più della May a lasciare l’Europa; l’innamoramento per Orban, Putin e Trump; e la strizzatina d’occhi a Steve Bannon, in convento sui colli Albani con le sue scuole antibergogliane. Mi allarma il silenzio assordante e totale degli studiosi su queste esondazioni; il cinema muto di quegli ormai pochi intellettuali di stampo liberale, socialdemocratico e  cattolico rimasti in vita; il  soprassedere della stampa quotidiana da cui devo estrarre la sorprendente eccezione del quotidiano Avvenire (sulla televisione pubblica, ormai ridotta a cronaca nera per sviluppare e far crescere quella paura funzionale alla sicurezza salviniana, su quella privata asservita, e sui social che ci riducono in isolati e microscopici cittadini appesi ai pareri nervosi degli altri, lascio a ognuno di noi le considerazioni più opportune).

Rispetto a questa invasione di campo, mi impensierisce infine la calma piatta dei corpi intermedi, dell’associazionismo, della cittadinanza attiva, e degli stessi partiti di opposizione. Non si ode una sola parola, orientata a riportare fra le sue piante di vimini il garrulo “satanasso  pigliatutto”. Quel promettente Salvini ( n.b. che promette!) – che stordisce le coscienze impaurite degli italiani, ormai  disinteressati della democrazia e del bene comune, ma ahimè non più realtà virtuali o sondaggiate, ma, stando ai risultati delle Europee, realtà concrete  – ha forse in serbo la centralizzazione dei poteri e delle competenze ? Se non è così ha però sicuramente in serbo un attacco silenzioso e sorridente alla democrazia e al rispetto  dei ruoli  previsti  dalla nostra Costituzione troppo “sovietica”, (“… I ministri sono responsabili … individualmente degli atti dei loro dicasteri”, art. 95). Tutto questo col beneplacito incomprensibile di coloro che si dichiarano difensori della democrazia e del  bene comune.  Se Salvini pensa che sulla Sea-Watch ci sono solo 42 orologi ad acqua, scarichi dopo due settimane e pronti ad esaurirsi definitivamente,  bisogna allora che qualcuno lo avverta che sulla nave ci sono 42 persone. Se non ci sarà questa consapevolezza prima che sia troppo tardi, bisogna allora dare ragione a Carlo Maria Cipolla : “… sempre ed inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione “, i quali, aggiungeva Robert Musil, pur esprimendo qualche forma di intelligenza e di passione per le novità, sono una “pericolosa malattia per la vita stessa “. 

Siamo avvertiti.

Liliana Ocmin: Una nuova Convenzione internazionale per liberare il mondo del lavoro da molestie e violenza

Articolo a firma di Liliana Ocmin (edizione odierna di Conquiste del lavoro) 

La data del 21 giugno rappresenta un momento storico importantissimo nel cammino verso l’eliminazione delle molestie e della violenza nei luoghi di lavoro che vede vittime, purtroppo, soprattutto le donne. Nella cornice della chiusura dei lavori della 108° Conferenza Internazionale dell’OIL, che ha visto la partecipazione di oltre 5.700 delegati tra rappresentanti di governo, dei lavoratori e datori di lavoro dei 187 Stati membri dell’OIL, è stata approvata a larga maggioranza una nuova Convenzione, accompagnata da una Raccomandazione, per porre un freno al dilagare della violenza e delle molestie nei diversi contesti produttivi.  La nuova Convenzione ha registrato 439 voti a favore, 7 contrari e 30 astenuti, mentre la Raccomandazione ha totalizzato 397 voti a favore, 12 contrari e 44 astenuti. I rappresentanti hanno adottato, inoltre, in occasione del Centenario dell’Organizzazione, una Dichiarazione per incentrare in futuro il lavoro sulla persona, in linea con il messaggio di Papa Francesco ai partecipanti, in cui viene sottolineata l’importanza del lavoro non solo come fonte di reddito ma anche come mezzo per elevare la dignità della persona, elogiando in questo l’operato, l’impegno e l’esistenza stessa dell’OIL. 

Da tempo il Coordinamento nazionale donne e la Cisl erano impegnati a supporto della Campagna promossa dal Comitato donne del sindacato internazionale Ituc proprio per sostenere e far adottare una Convenzione e Raccomandazione OIL che vincolasse tutti i paesi aderenti ad intraprendere iniziative concrete contro questo subdolo fenomeno. L’importanza del risultato, infatti, sta anche  nella peculiarità dello strumento Convenzione, in quanto giuridicamente vincolante a livello internazionale, e della relativa Raccomandazione quale guida e orientamento nell’applicazione corretta delle norme e dei principi contenuti nella Convenzione stessa. Si è trattato di un percorso lungo e faticoso ma alla fine l’obiettivo che in tanti si erano prefisso è stato finalmente raggiunto.

La nuova norma, che si propone di proteggere tutti i lavoratori e le lavoratrici a livello globale, a prescindere dal loro status contrattuale, include anche il personale in formazione, in tirocinio e apprendistato, volontari, persone in cerca di lavoro, candidati al lavoro e parti terze. Riconosce, inoltre,  come potenziali vittime anche coloro che esercitano autorità, doveri o responsabilità propri di un datore di lavoro. 

La violenza e le molestie vengono ricondotte ad un insieme di comportamenti che mirano o possono provocare danni fisici, psicologici, sessuali o economici. Ora spetta agli  Stati membri mettere in campo tutte le iniziative necessarie per assicurare in ogni luogo di lavoro tolleranza zero contro questi fenomeni.

Come Coordinamento  nazionale donne salutiamo la firma di questo Trattato, primo del genere a livello mondiale,  come una grande vittoria di civiltà. Aver trovato il giusto punto di condivisione tra tutti i delegati, per fare convergere i voti su un documento che rappresenta un altro passo in avanti per l’affermazione dei diritti di lavoratori e lavoratrici, soprattutto laddove ancora oggi il lavoro è sfruttamento e schiavitù, è un grande risultato e certamente non scontato. Le molestie e la violenza sul lavoro, purtroppo esistono, seppur a stadi differenti, in tutto il pianeta. Il nostro impegno futuro, oltre a portare avanti quanto stiamo facendo nei nostri territori in attuazione dell’Accordo Quadro europeo in materia,  attraverso la conclusione di nuovi accordi e la nascita di nuovi sportelli di ascolto e servizi per le vittime, si dovrà concentrare sulla fase della ratifica per far sì che la Convenzione n. 190/2019 si traduca al più presto in provvedimenti concreti. Il Trattato, di fatti, entrerà in vigore solo 12 mesi dopo la ratifica di almeno due Stati membri. 

Oggi, comunque, possiamo tranquillamente affermare che il mondo del lavoro si avvia ad essere un luogo più rispettoso della dignità di tutte e di tutti coloro che vi operano.

Leopardi o tartarughe?

Tratto dall’edizione del 26 giugno dell’Osservatore Romano a firma di Giulio Albanese

La conoscenza che gli europei hanno delle culture africane è stata fortemente condizionata dalla visione di un continente sine historia, di matrice coloniale. Un’interpretazione che trova la sua sintesi nel pensiero del filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il quale, nella sua «Filosofia della Storia» del 1831, scrisse che l’Africa «non è una parte del mondo storico, essa non presenta alcun movimento o sviluppo, e quello che è avvenuto in essa nella sua parte settentrionale appartiene al mondo asiatico ed europeo». Pertanto, il marchio di subalternità impresso sul continente è risultato per molto tempo funzionale al distanziamento e all’alterizzazione in cui si confinava un’Africa disprezzata perché considerata senza scrittura e senza Storia. Eppure, mai come oggi, sarebbe auspicabile che si tenesse maggiormente conto dello straordinario deposito di saperi Afro, non foss’altro perché la moderna ricerca storiografica dovrebbe e potrebbe consentire il superamento del pregiudizio.

Purtroppo, dobbiamo constatare che le indagini rimangono spesso recluse nel campo di ricerca degli specialisti all’interno delle accademie (etnologi, antropologi e, più ancora, linguisti) senza intercettare sufficientemente il grande pubblico. Basterebbe solo pensare al valore immenso della tradizione orale africana che, anche nella contemporaneità, continua a nutrire e plasmare le culture autoctone, manifestandosi in ogni genere di comunicazione.

A questo proposito è degna di menzione l’osservazione del professor Alessandro Triulzi, docente di Storia dell’Africa all’Università degli Studi di Napoli: «[Noi africanisti italiani] abbiamo studiato più gli Stati e i loro sviluppi storici esterni che non le società e i loro percorsi interni di crescita. Abbiamo privilegiato le ricerche di archivio più di quelle sul terreno. Più la storia degli apparati e delle legislazioni coloniali che non l’incontro tra colonizzati e colonizzatori che ha caratterizzato l’azione di dominio e di forzata coabitazione di ogni “situazione coloniale”. È di conseguenza mancato quel fertile incontro di fonti scritte e di storia orale, di storia coloniale e di storia africana, di continui negoziati e rimandi fra ricercatori, fonti ed esperienze storiche e culturali diverse che hanno dato i frutti più consistenti e innovativi nella ricerca africanistica internazionale».

Detto questo, non sono comunque trascurabili le difficoltà che gli scrittori africani incontrano nel trovare degli editori disposti a pubblicare nei loro rispettivi Paesi. Date le caratteristiche del mercato librario, l’editoria africana versa in condizioni di estrema difficoltà, soprattutto per la concorrenza che proviene dalle multinazionali e per il fatto che i libri sono sempre troppo costosi per la maggioranza dei lettori africani. Motivo per cui la maggior parte degli autori mirano, più o meno intenzionalmente, al mercato internazionale, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Questo dell’editoria africana è un ambito in cui la cooperazione allo sviluppo dovrebbe decisamente intervenire, affermando il mutuo vantaggio nella conoscenza d’ogni genere di alterità. Per dirla con le parole di Francis Scott Fitzgerald, «questa è fra le cose più belle della letteratura: scopri che i tuoi desideri sono universali, che non sei solo, che non sei isolato da nessuno. Sei parte di».

Ma andando al di là delle possibili generalizzazioni, è evidente che oggi non sia possibile parlare di una letteratura Afro al singolare, essendo comunque le produzioni nazionali, pur nei limiti sopra esposti, ricche e variegate. Naturalmente, la lista degli autori africani è comunque lunga e multiforme. Basti pensare al compianto statista senegalese Léopold Sédar Senghor, accademico di Francia, letterato, poeta di fama internazionale o al keniano Ngugi wa Thiong’o, scrittore, poeta e drammaturgo, considerato uno dei principali autori del continente. Da segnalare, in particolare la tradizione narrativa nigeriana, approdata in Italia con autori del calibro del Nobel per la letteratura Wole Soyinka, del poeta e romanziere Ben Okri o del grande Chinua Achebe, scomparso nel 2013. In riferimento a quest’ultimo, è doveroso segnalare nel 1990 la pubblicazione, in Italia, di «Viandanti della storia», con un’introduzione critica redatta da Itala Vivan, in cui viene illustrata con grande efficacia la lettura politica della contemporaneità compiuta dal grande narratore epico nigeriano. Sovviene, in conclusione, una bellissima fiaba tratta proprio dal romanzo di Achebe, in cui viene riportato il colloquio tra un leopardo e una tartaruga in articulo mortis. Quest’ultima, chiese un favore prima di morire: un minuto per preparare il suo animo; il leopardo, che da tempo cercava di catturare la preda, non trovò alcunché di male nel soddisfare la richiesta della sua vittima. «Ma invece di restare immobile come il leopardo si aspettava, la tartaruga cominciò a fare strani movimenti frenetici sulla strada, grattando con le mani e con i piedi e gettando sabbia in tutte le direzioni. “‘Perché fai così?” chiese il leopardo perplesso. La tartaruga rispose: “‘Perché vorrei che dopo la mia morte tutti quelli che passano di qui dicessero “Sì, qui qualcuno ha lottato contro un suo pari”. Ecco gente questo è quanto stiamo facendo noi. Stiamo lottando. Forse per nessun altro fine se non che quanti verranno dopo di noi possano dire: È vero, i nostri padri furono sconfitti, ma almeno ci provarono».

I protagonisti di «Viandanti della Storia», Chris e Ikem, muoiono opponendosi a un regime militare che determina confusione, pessimismo e sopraffazione. Il romanzo, finemente politico, di Achebe fa una dura analisi della Nigeria in un periodo della storia successivo al grande slancio nazionalistico che l’aveva portata all’indipendenza. Chris e Ikem sono degli eroi destinati a morire, ma che cercano lo stesso di lasciare un segno della propria lotta nel nome della libertà e della giustizia. In un mondo globalizzato, dove l’idealità sembra essere scavalcata da un pragmatismo esacerbante, sradicato dai valori, il tentativo di Achebe è quello di riflettere sugli interrogativi più tormentosi che assillano la società. Anche la letteratura africana può aiutare, in questa prospettiva, a comprendere il vissuto di popoli lontani dall’Occidente ma paradossalmente vicini nel villaggio globale.

Forse la differenza tra noi e loro risiede nella consapevolezza: loro di morire da tartarughe, mentre noi ignoriamo un simile destino costretti però a vivere come se niente fosse. Ma in questo mondo che ci appartiene, tutti abbiamo la grande responsabilità di consegnare ai posteri l’impegno condiviso per un mondo migliore.

Carlo Donat-Cattin, un Popolare nella DC

Fonte Associazioni Popolari

Esattamente cento anni fa nasceva a Finale Ligure Carlo Donat-Cattin. La Fondazione torinese a lui intitolata ha già proposto per ricordarlo autorevoli testimonianze e biografie ricche di spunti che ne hanno messa in luce la poliedrica e luminosa carriera. Vogliamo qui tratteggiarne la figura attingendo dai suoi discorsi parlamentari, raccolti in due ponderosi volumi editi dalla Camera dei Deputati, che lo avrebbe visto protagonista per cinque legislature dal 1958 al 1979, per poi passare al Senato nelle tre legislature successive. Il giornalista, partigiano, sindacalista Donat-Cattin sarebbe forse anche stato eletto prima del ‘58, se non si fosse guadagnato la nomea di “democristiano scomodo”: nel 1953 il potentissimo presidente dell’azione cattolica Luigi Gedda si oppone al suo inserimento nelle liste per le elezioni politiche: È un militante scomodo, che difficilmente si adatta, con disciplina, alla linea politica decisa dal vertice del partito.

Se è diventato famoso come Ministro del Lavoro o, come lui preferiva dire, Ministro dei lavoratori, non stupisce che sia stato assertore della necessità di un trasferimento di parti del reddito nazionale e anche del potere politico a favore dei lavoratori dipendenti. Attento alle loro necessità di vita (Il primo problema è quello degli affitti), chiede il blocco degli sfratti e la costruzione di edilizia popolare:È estremamente difficile invitare i lavoratori alla calma nelle loro richieste quando i padroni di casa non si comportano ugualmente con i canoni d’affitto, lamentando aumenti dell’80- 90 % negli ultimi quattro anni(25 luglio 1963).

L’attenzione alle spinte sociali comporta a volte proposte audaci come quella di fissare un tetto massimo alle pensioni, mettendo in pericolo consolidati privilegi e causando furibonde reazioni:Toccati sul vivo i gruppi privilegiati reagiscono. Io ho visto alcuni giornalisti (e Donat-Cattin era anche lui giornalista) giungere al livello della diffamazione… si è passati alle minacce, agli ostracismi, alle telefonate notturne e diurne a veri e propri atti di mafia, ricattatori e minacciosi verso le persone che hanno presentato questo emendamento (29 marzo 1969). Non era raro che con i suoi interventi si attirasse gli applausi dal settore di sinistra del Parlamento.

Chi se non Donat-Cattin avrebbe potuto portare a compimento la legge 300, che passerà alla storia come lo Statuto dei lavoratori? Lo strumento per un’affermazione dura e precisa dei diritti dei lavoratori che, come cittadini partecipano alla costruzione di una Repubblica fondata sul lavoro e vogliono che sia riconosciuta la possibilità di organizzazione e di manifestazione dei loro interessi, che essi sanno autonomamente inquadrare nel contesto degli interessi nazionali (14 maggio 1970).

In parallelo con le lotte operaie, sono gli anni in cui si manifesta la protesta degli studenti, che pochi democristiani compresero nelle ragioni, nelle prospettive e nelle possibili derive che si sarebbero manifestate negli Anni Settanta. Donat-Cattin è tra i pochi a considerare le motivazioni di fondo del movimento studentesco che avverte la necessità di rapporti di collegamento con il movimento operaio. Il Sessantotto deve essere interpretato e indirizzato dalla politica: Tocca alle forze politiche mettere il movimento operaio, il movimento studentesco e ogni altra forza viva di fronte a scelte organiche. In tal modo si differenzieranno le spinte estremiste e velleitarie da quelle con reale capacità di trasformazione, le linee settoriali da quelle politiche senza definizioni aprioristiche, senza preclusioni dottrinarie e ideologiche che nascondono molte volte intenzioni di difesa del proprio esclusivo potere (10 luglio 1968).

Se il suo ruolo di Ministro del Lavoro è certo il più conosciuto, nei suoi discorsi parlamentari troviamo anche profonde analisi e intuizioni su temi allora secondari, ma divenuti di sorprendente attualità, come la riforma del sistema radio televisivo dibattuta nel 1973 di fronte alle pionieristiche TV via cavo. Donat-Cattin prefigura e combatte un processo di concentrazione massiccio e limitatore del diritto all’informazione, che è proprio di tutti i cittadini, nella misura in cui queste trasmittenti finissero nelle mani di pochi e potenti. Una equilibrata ripartizione dei proventi pubblicitari e un democratico regolamento del diritto di accesso a tutti i mezzi con i quali si possono comunicare la propria idea e il proprio indirizzo agli altri sono scelte capaci di ovviare alla concezione di un vecchio liberismo, del diritto alla libertà di stampa e del diritto di comunicare le proprie idee riservato a che ha grandi mezzi finanziari, entrando invece in una logica che corrisponde alla nostra concezione di democratici cristiani: quella della saldatura delle libertà attraverso la valorizzazione della realtà della società, delle sue forze collettive, delle forze intermedie, delle autonomie locali.

Questo delle Autonomie è un tema cardine del popolarismo. Non risulta che il trentenne torinese abbia avuto modo di incontrare Luigi Sturzo, e rimane solo la coincidenza che la sua nascita coincida con la fondazione del Partito popolare italiano. Ma in alcuni ambiti è evidente il filo che lega Carlo Donat-Cattin al popolarismo sturziano. Un altro dei temi forti in comune è l’attenzione al problema più antico dello stato italiano: la questione meridionale. Come scrisse il napoletano Francesco Compagna: Lui, ligure-piemontese, è stato il miglior ministro dei meridionali. Per Donat-Cattin l’industrializzazione del Mezzogiorno non si può ottenere con lo strumento prevalente o esclusivo delle partecipazioni statali, neppure con la somma di poche decisioni sensazionali relative a iniziative mastodontiche, forse elettoralmente produttive nel breve termine ma in fondo sterili. Al Sud occorre un’industrializzazione competitiva, diversificata e auto-propulsiva. Ma l’industrializzazione non può essere sufficiente da sola: occorrono anche il riassetto delle strutture e delle funzioni dell’amministrazione pubblica e un forte intervento in agricoltura, una leva che può attivare la maggiore riserva esistente e il prevalente potenziale di imprenditorialità interni al Mezzogiorno (dicembre 1973).

Non solo sul Mezzogiorno è forte e diretto il legame con il pensiero di Luigi Sturzo, ripreso a piene mani nel discorso tenuto durante la seduta del 12 agosto 1979: Noi non siamo marxisti né liberali. Siamo cresciuti nel solco tracciato per faticosi decenni nella gleba dell’Italia contadina, tra le minoranze cattoliche dei quartieri operai e degli opifici di vallata, nel popolo minuto dedito all’artigianato e al commercio, nella schiera di educatori, intellettuali, imprenditori, scienziati chiamati alla vita sociale dall’ispirazione cristiana. Siamo popolo nell’accezione sociologica, chiamato alla politica secondo una spinta partita dalla base del mondo cattolico, alla conquista di una dimensione laica. Siamo i continuatori della tradizione politica del popolarismo. (…) La validità della nostra concezione è piena, proiettata al futuro, ed è di per sé garante del nostro essere assai diversi da un polo conservatore.

Se forte è stato il legame con il popolarismo, altrettanto saldo, nel corso della sua intera vita politica, si è mantenuto quello con l’ispirazione cristiana, sempre però declinata nell’intimo e con discrezione sabauda, inscindibilmente unita ad un altro dei fondamenti della concezione politica di Sturzo, la laicità. Da Ministro della Sanità dovette affrontare delicate questioni su biogenetica, e aborto. Seppe rispettare la Legge 194, sottolineando in particolare la bontà della prima parte che tratta del sostegno alla vita e del rifiuto dell’aborto come mezzo per il controllo delle nascite. Una legge ad adiuvandum, dunque, perché invece che all’aborto la donna possa giungere alla maternità, in partenza negata per esistenti difficoltà (5 luglio 1988). E per questo destinò ai consultori cifre in bilancio ben più corpose dei predecessori.

L’attenzione alla qualità della vita delle persone non poteva dimenticare la condizione degli anziani disponendo che il servizio sanitario organizzasse anche l’assistenza a domicilio, cercando il coinvolgimento, non solo economico, delle famiglie: Mi pareva strano che, sostenendo il valore della famiglia come dato primario di assistenza e di benessere dell’anziano (questa è la nostra convinzione, tanto che affidiamo una priorità all’assistenza a domicilio), poi si pretendesse che nell’assistenza a domicilio tutte le spese fossero a carico dello stato senza alcun contributo della famiglia. Mi sembra un concetto di famiglia fatto solo di buoni sentimenti, ma privo di atti concreti: la solidarietà famigliare dovrebbe esprimersi pure in relazione alla capacità di reddito di ciascuno. È chiaro che in mancanza di tale capacità, interviene sussidiariamente lo Stato con una propria partecipazione.

Chiudo questo ricordo del “Senatore”, come lo chiamavamo noi giovani di Forze Nuove affacciati alla politica negli anni Ottanta, con le parole che il presidente del Senato Spadolini gli dedicò durante la commemorazione ufficiale il 27 marzo 1991, pochi giorni dopo la scomparsa: Un uomo che ebbe molti avversari, che non si tirò indietro nei momenti drammatici che segnarono profondamente la sua esperienza anche personale, ma un uomo di cui tutti, anche gli oppositori più decisi, hanno dovuto sottolineare la forte personalità, il senso profondo e tormentato della libertà e della democrazia che sempre lo ispirò, la lealtà e l’intelligenza critica che fecero di lui una figura inedita nella vita politica italiana, con il coraggio di difendere sempre le opinioni ed i valori che aveva posto a fondamento della propria vita, anche a costo dell’impopolarità.

Gli insorti dello Yemen e la crisi iraniano americana

Lo scontro tra Iran e Stati Uniti è alimentato anche la questione yemenita.

Infatti gli insorti huthi, considerati vicini a Teheran, hanno rivendicato i raid aerei che nelle ultime ore hanno colpito obiettivi militari e civili sauditi (l’Arabia Saudita fa parte di una coalizione, sostenuta dagli Stati Uniti, che appoggia il governo locale contro i ribelli).

Gli insorti hanno anche rivendicato un bombardamento, sempre con droni, contro l’aeroporto militare di Jizan, non lontano dal confine con lo Yemen, e hanno minacciato esplicitamente l’Arabia Saudita di nuovi attacchi.

Teheran, inoltre, ha sempre espresso solidarietà e affinità ideologica con l’insurrezione huthi ma ha sempre negato ogni legame organico con i miliziani.

Anche se poi nei fatti sembra che succeda il contrario

Istat: pressione fiscale nei primi tre mesi al 38%, top dal 2015

Nel primo trimestre 2019 l’indebitamento netto delle AP in rapporto al Pil è stato pari al 4,1% (4,2% nello stesso trimestre del 2018).

Il saldo primario delle AP (indebitamento al netto degli interessi passivi) è risultato negativo, con un’incidenza sul Pil dell’1,3% (-0,9% nel primo trimestre del 2018).

Il saldo corrente delle AP è stato anch’esso negativo, con un’incidenza sul Pil dell’1,6% (-1,5% nel primo trimestre del 2018).

La pressione fiscale è risultatat del 38,0%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Il reddito disponibile delle famiglie consumatrici è aumentato dello 0,9% rispetto al trimestre precedente, mentre i consumi sono cresciuti in termini nominali dello 0,2%. Di conseguenza, la propensione al risparmio delle famiglie consumatrici è stata pari all’8,4%, in aumento di 0,7 punti percentuali rispetto al trimestre precedente.

A fronte di una variazione nulla del deflatore implicito dei consumi, il potere d’acquisto delle famiglie è anch’esso cresciuto rispetto al trimestre precedente dello 0,9%.

La quota di profitto delle società non finanziarie è scesa al 40,7%, 0,6 punti percentuali più bassa rispetto al trimestre precedente. Il tasso di investimento del settore, pari al 21,1%, è diminuito di 0,4 punti percentuali rispetto al trimestre precedente.

La Rete Mondiale di Preghiera del Papa compie 175 anni

La Rete Mondiale di Preghiera del Papa. L’istituzione, conosciuta anche come ‘Apostolato della Preghiera’ e fondata in Francia il 3 dicembre 1844 dal padre gesuita Francesco Saverio Gautrelet, compie 175 anni dalla sua nascita e 10 dalla rifondazione approvata nel 2014 da Papa Francesco.

All’incontro prenderanno parte più di 6.000 persone – di 52 delegazio­ni – provenienti dal mondo intero.

L’iniziativa partirà il 28 giugno, solennità del Cuore di Gesù, con una grande celebrazione nell’Aula Paolo VI in Vaticano alla quale prenderà parte il Santo Padre.

I lavori continueranno anche il giorno seguente con l’incontro dei direttori e dei coordinatori nazionali, a quali si uniranno i responsabili del ramo giovanile dell’organizzazione, il Meg.

Un bollino blu per le discoteche sicure

“Il divertimento gestito e controllato è più sicuro”, ha detto il titolare del Viminale, Matteo Salvini, durante l’incontro con i rappresentanti delle maggiori associazioni del settore dei locali di divertimento. Con loro è stato aperto un confronto in relazione a una bozza di protocollo per migliorare la sicurezza nei locali d’intrattenimento, che sarà firmata a breve. Nell’intesa, ha sottolineato il ministro, “chiediamo un maggiore sforzo in termini di prevenzione e controllo ai gestori dei locali, e garantiamo maggiori interventi per prevenire l’abusivismo e minor burocrazia”. In questa iniziativa saranno coinvolti anche i Comuni e la Siae. Il protocollo renderà più sicure le discoteche in regola e smaschererà i locali che non rispondono agli standard richiesti. Accertare la sicurezza in senso tecnico portando alla luce con più facilità chi non rispetta le regole sarà un passo importante in termini di legalità e salute.

Alla conferenza stampa erano presenti, tra gli altri, il capo della Polizia, Franco Gabrielli, e i rappresentanti delle associazioni di categoria Maurizio Pasca (Silb Fipe), Luciano Zanch (Asso Intrattenimento) e Mauro Maggi (Fiepet Confesercenti). Per quanto riguarda le discoteche un altro aspetto importante è quello che troppo spesso segue alle notti da sballo: tanti, troppi gli incidenti, le risse e le aggressioni fuori dei locali. Intemperanze o efferatezze quasi sempre legate al consumo di alcol e droghe senza troppi controlli.

Secondo il Report al Parlamento relativo all’utilizzo di sostanze stupefacenti tra i giovani (2018), la cannabis rimane la sostanza illegale più utilizzata tra i 15 e i 19 anni, seguita, nell’ordine, dalle nuove sostanze psicoattive: spice, cocaina, stimolanti, allucinogeni ed eroina. Nel 2017 il 34,2% degli intervistati ha riferito di aver utilizzato almeno una sostanza psicoattiva illegale nel corso della propria vita, mentre il 26% ha detto di averlo fatto nel corso dell’ultimo anno (circa 670.000 ragazzi). Tra questi ultimi, l’89,5% ha assunto una sola sostanza illegale e il restante 10,5% è definibile “poliutilizzatore”, avendo assunto due o più sostanze. Il 16,7% degli under 20 ha utilizzato sostanze psicoattive illegali nel mese in cui è stato condotto lo studio e il 3,9% ne ha fatto un uso frequente, ha cioè utilizzato 20 o più volte cannabis e/o 10 o più volte le altre sostanze illegali (cocaina, stimolanti, allucinogeni, eroina) negli ultimi 30 giorni. Il confronto con i risultati delle precedenti rilevazioni evidenzia come negli ultimi cinque anni il consumo nel corso della vita sia leggermente aumentato, mentre per le altre forme di consumo si è assistito a una sostanziale stabilizzazione. I dati rivelano che il 33,6% dei giovani (circa 870.000) ha utilizzato cannabis almeno una volta nella vita, il 25,8% (circa 670.000) ne ha fatto uso nel corso del 2017, il 16,4%, (circa 420.000) ha riferito di averla consumata nel corso del mese di svolgimento dello studio e il 3,4% ha dichiarato di averla consumata frequentemente (20 o più volte nell’ultimo mese).

Sono circa 360.000 (13,9%) i ragazzi che hanno utilizzato almeno una volta nella vita una o più delle cosiddette nuove sostanze psicoattive (cannabinoidi sintetici, oppiodi sintetici). Coloro che riferiscono di avere sperimentato la cocaina almeno una volta nella vita sono poco più di 88.000 (3,4%), 49.000 quelli che ne hanno fatto uso nel corso del 2017 (1,9%) e quasi 33.000 quelli che l’hanno usata nel mese antecedente la compilazione del questionario (1,3%). L’1,1% degli studenti (circa 28.000) riferisce di aver fatto uso di eroina almeno una volta nella vita; lo 0,8% (oltre 20.000) l’ha assunta almeno una volta nel 2017 e lo 0,6% (15.500).

In Brasile è emergenza dengue

In Brasile continua l’emergenza legata alla febbre dengue, la malattia infettiva tropicale causata dalla zanzara Aedes. Secondo il ministero della Salute locale le morti negli ultimi sei mesi sono aumentate del 163% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. In tutto le persone decedute a causa della malattia dal 30 dicembre all’8 giugno sono state 366.

Gli esperti del dicastero brasiliano hanno registrato inoltre un totale di 1,1 milioni di probabili casi di dengue, con un aumento del 561% rispetto ai primi sei mesi del 2018.

La dengue è causata da quattro virus molto simili (Den-1, Den-2, Den-3 e Den-4) ed è trasmessa agli esseri umani dalle punture di zanzare che hanno, a loro volta, punto una persona infetta. Non si ha quindi contagio diretto tra esseri umani, anche se l’uomo è il principale ospite del virus. Il virus circola nel sangue della persona infetta per 2-7 giorni, e in questo periodo la zanzara può prelevarlo e trasmetterlo ad altri.

Normalmente la malattia dà luogo a febbre nell’arco di 5-6 giorni dalla puntura di zanzara, con temperature anche molto elevate. La febbre è accompagnata da mal di testa acuti, dolori attorno e dietro agli occhi, forti dolori muscolari e alle articolazioni, nausea e vomito, irritazioni della pelle che possono apparire sulla maggior parte del corpo dopo 3-4 giorni dall’insorgenza della febbre. I sintomi tipici sono spesso assenti nei bambini.

La diagnosi è normalmente effettuata in base ai sintomi, ma può essere più accurata con la ricerca del virus o di anticorpi specifici in campioni di sangue.

Non esiste un trattamento specifico per la dengue, e nella maggior parte dei casi le persone guariscono completamente in due settimane. Le cure di supporto alla guarigione consistono in riposo assoluto, uso di farmaci per abbassare la febbre e somministrazione di liquidi al malato per combattere la disidratazione. In qualche caso, stanchezza e depressione possono permanere anche per alcune settimane.

Anche se la malattia può svilupparsi sotto forma di febbre emorragica con emorragie gravi da diverse parti del corpo che possono causare veri e propri collassi e, in casi rari, risultare fatali.