Con De Gasperi per l’Europa di domani

Si è svolto ieri all’Hotel Hilton La Lama il convegno organizzato sotto l’egida del Partito Democratico Europeo, su “L’Europa di De Gasperi, l’Europa di domani”. Di seguito riportiamo il testo della relazione di Fioroni.

Cari amici, l’Europa non può essere il terreno di conquista degli anti europeisti. Non è un ideale decaduto bensì un progetto che sempre si rinnova. L’Europa siamo noi perché noi crediamo nell’Europa – e per questo abbiamo scelto il Partito Democrtico Europeo. Noi che intendiamo lavorare insieme, con culture diverse, al futuro dell’Europa; noi che rendiamo omaggio, nel solco di una tradizione ancora viva, agli artefici di un’idea di unità e solidarietà, nel segno dell’umanesimo civile; noi che ricordiamo, insomma, quanto si debba ai democratici cristiani la nascita e la crescita della nostra Europa. 

È importante che ci siamo ritrovati qui, a ridosso della Nuvola di Fuksas, in questo nuovo e grande albergo che insiste – guarda caso – proprio su “Viale Europa”. Potevamo indovinare uno scenario più adeguato? Credo di no. E c’è di più, visto che la toponomastica della Città assegna all’Eur, questo straordinario esempio di urbanistica e architettura, la denominazione di “Quartiere Europa”. La scelta – ovviamente Rutelli ne sa più di me – fu operata nel 1965, a 8 anni dal Trattato di Roma, da un’amministrazione (Sindaco Amerigo Petrucci)  a guida democristiana. È tutta una simbologia, in fondo, che ci aiuta a rafforzare il messaggio attuale dell’europeismo.

 

Cari amici,

il convegno, fuori campagna elettorale ma con il “timbro politico” del Partito Democratico Europeo, lo abbiamo dunque immaginato come un fervido tributo a chi l’Europa l’ha fatta realmente – quindi non l’ha soltanto pensata o discussa  – e l’ha fatta a dispetto degli ostacoli, anche numerosi, posti dalla storia. Dobbiamo essere grati ai nostri Padri Fondatori. Grandi leader, formati alla scuola del cristianesimo sociale e democratico, seppero imprimere una svolta ai rapporti tra le nazioni europee uscite da una guerra devastante. Schumann e Adenauer rimossero l’antica ostilità tra Francia e Germania, De Gasperi rese l’Italia co-protagonista di questo sogno di riconciliazione. Con intelligenza e tenacia, portò avanti un’operazione che aveva tante incognite, guidando il Paese fuori dal labirinto del patriottismo autarchico. Con ciò si aprì una nuova prospettiva per la quale l’essere cittadini d’Europa non fu più un’astrazione o una speranza vaga, sempre a rischio di frustrazione e sempre in qualche modo revocabile. Dunque, grazie a questa prova di coraggio e lungimiranza, siamo diventitati cittadini d’Europa. E oggi, l’Europa è una realtà che abbraccia la nostra vita quotidiana, anche quando ce ne lamentiamo. 

È stato un percorso impegnativo. Già sul finire dell’altro conflitto mondiale, la Grande guerra del ‘15-‘18, si manifestò l’aspirazione a comporre un nuovo status del Vecchio Continente. Tuttavia, solo dopo l’immane tragedia del secondo conflitto mondiale e la sconfitta del nazi-fascismo s’imboccò la strada giusta, quella della prima unità rappresentata dalla Ceca (la Comunità del Carbone e dell’Acciaio). De Gasperi, come sappiamo, in questo progetto riversò la passione di un italiano che aveva mosso i primi passi in politica nell’ambiente multinazionale e multiculturale dell’Impero Austro-Ungarico, entrando molto giovane nel Parlamento di Vienna come deputato popolare trentino.

L’esperienza di una vasta comunità di popoli, con tante lingue ufficiali, lasciò in lui un segno indelebile. Gli venne da lì, con tutta probabilità, la convinzione che federare l’Europa – vale a dire l’Europa della libertà e della democrazia – fosse il motivo più valido per salvaguardare lo spirito delle nazioni e la peculiare vocazione dei popoli, senza ricadere nel vortice dell’etno-nazionalismo. Fu tra i più accesi sostenitori della Difesa comune (la CED) e negli ultimi giorni della sua vita terrena ne pianse l’abbandono, proprio a causa di un voto inaspettato e fatale dell’Assemblea parlamentare di Parigi.  

Fu il primo blocco, ma poi si riprese a camminare: dal Trattato di Roma (1957) al Trattato di Maastricht (1992), dalla guerra fredda alla caduta del Muro di Berlino, dalla Comunità dei 6 membri iniziali all’Unione dei 27 attuali (per la contrazione dovuta alla Brexit): un tragitto non facile che ci ha portato alla moneta unica e di recente, sotto i colpi della pandemia, alla definizione di un piano comune d’investimenti (Pnrr) mai prima adottato. Ci possiamo sentire soddisfatti? Sicuramente avremmo preferito che ci fosse un più alto grado di solidarietà e una maggiore spinta verso l’integrazione. Tuttavia non dobbiamo trascurare i traguardi raggiunti, né dobbiamo ingessare il discorso sulle difficoltà e le inadempienze. Un conto però è la critica per quel che manca e si desidera, per obiettivi più ambiziosi, altro è il pretesto che si usa, ad opera di populisti e sovranisti, per diminuire o contrastare la dinamico virtuosa dell’europeismo.

 

Cari amici,    

noi crediamo nella forza dell’Europa. Ci crediamo anche se vediamo molto bene le ombre di una decrescita che ha tra le sue cause innanzi tutto il crollo demografico. L’Unione europea rappresenta comunque un esperimento positivo – l’unico veramente riuscito, a livello politico istituzionale, nel panorama internazionale del secondo Novecento – per il quale si è composta e definita una vera entità sovranazionale. Dentro i suoi confini è cresciuto un modello sociale e si è articolato, pur con i limiti ben noti, un mercato economico europeo. Il 50 per cento della spesa mondiale destinata al welfare si consuma in questo nostro Continente, che oggi raccoglie poco più del 5 per cento della popolazione del pianeta. Ne siamo orgogliosi, ma ne avvertiamo il peso per le responsabilità che comporta di fronte alle nuove generazioni. E non basta: l’industria, l’agricoltura, il commercio, i servizi raggiungono livelli che ne fanno un pilastro dell’economia globale, con ricadute importanti sulle singole economie nazionali. Questo è ciò che abbiamo ereditato e costruito, ma questo è anche ciò che dobbiamo promuovere e sviluppare ulteriormente, con il coraggio di grandi riforme. 

Non è il tempo della pigra contemplazione dei risultati raggiunti. I dati del problema li conosciamo, serviranno per un tratto non breve almeno 500 miliardi l’anno da destinare alla trasformazione del sistema produttivo europeo. Paradossalmente siamo diventitati noi – parliamo dell’occidente evoluto e più in particolare dell’Europa – il mondo che un tempo chiamavamo “in via di sviluppo”: molti settori, specie nel terziario, dovranno cambiare profondamente. Avremo, anzi abbiamo bisogno di reinventare un modello di sviluppo – un modello, come abitualmente si dice, più verde e sostenibile. Da ciò consegue che la transizione economica richiederà più programmazione e direzione politic, non per “mettere le braghe” alle innovazioni, ma per gestirne l’impatto sulla società, e in primo luogo sull’occupazione: anche passare per un lavoratore da un impiego a un altro implicherà un’azione di accompagnamento da parte dei pubblici poteri, con adeguati strumenti per la riqualificazione professionale. Se non avremo ingegno e visione nel “riformare” il capitalismo, cosa mai dovremo aspettarci? Ci sono troppe ombre all’orizzonte. In effetti, una razionalizzazione diretta a moltiplicare l’efficenza finirà per dare all’economia una curvatura iper-meccanicistica, specie perché imposta dagli apporti fantastici e allarmanti della Data technology, con uno scenario disumanizzante a motivo della perdita di valore e dignità del lavoro. Potremo, in questo caso, tornere a fare i conti con la minaccia di una nuova alienazione e quindi ci dovrà soccorrere un appello, di radice antica e nobile, all’umanizzazione dell’economia. 

Certo, con tutti i rischi immaginabili, bisogna comunque mettere in moto l’Europa per non perdere le sfide della globalizzazione. Vedremo meglio il modo in cui sarà necessario farlo non appena arriveranno sul tavolo, ufficialmente, i rapporti che Mario Draghi ed Enrico Letta hanno avuto incarico di redigere. Le linee fondamentali sono state anticipate, dall’uno e dall’altro, con fredde e allarmate ricognizioni sul rischio di declino nel caso di blocco o ritardo grave nell’azione di riforma.

 

Cari amici,

è importante che si disegnino nuovi scenari, facendo però attenzione a non assecondare formule velleitarie o smaccatamente propagandistiche, come quando si evoca il superamento dell’unanimità negli atti deliberativi dell’Unione Europea o l’elezione diretta del presidente della Commissione, chissà se con la formula – mi si consentirà di dirlo a mo’ di battuta – del “sindaco d’Europa”. Ci sono riforme che incidono molto e non entrano invece nel dibattito politico corrente. È strano che si rinunci, per dirne una, a correggere il funzionamento della BCE, laddove nessuna norma impedisce di attribuire o meglio riattribuire alla competenza delle singole Banche centrali – Paese per Paese – le funzioni di vigilanza sui rispettivi sistemi bancari, lasciando a Francoforte il controllo su pochi e grandi istituti finanziari. 

Mentre continuiamo a impostare programmi specifici, per i quali è necessario in ogni caso l’incremento di risorse su basi condivise, trascuriamo deliberatamente l’argomento più spinoso, vale a dire l’argomento del debito comune. È un tabù che impedisce di cogliere la dinamica soggiacente a una progressiva “federalizzazione” del debito, essendo questa, come insegna la storia degli Stati Uiti d’America, la combinazione più potente di solidarietà e responsabilità per spingere verso una convergenza politica necessaria.   

Nelle sue memorie, Jacques Delors racconta che al suo esordio alla guida della Commissione aveva preso in considerazione l’idea di fare della difesa comune l’obiettivo prioritario, sfidando le resistenze soprattutto di Francia e Gran Bretagna. Vi dovette rinunciare, per realismo, scegliendo in alternativa la battaglia per la moneta unica. Con l’euro si è realizzato un enorme passo in avanti, ma non siamo ancora giunti al traguardo di una vera integrazione politica. Sta di fatto però che dopo un lungo ciclo di pace, in Europa e ai suoi confini, il “ritorno della guerra” ci obbliga a confrontarci sull’urgenza di un esercito europeo.

In questa cornice è alquanto illogico che la Gran Bretagna non riveda almeno alcuni tratti della sua auto esclusione dal concerto europeo. Dovremmo assecondare un cambio di sensibilità. Ricordo che Aldo Moro si dimostrò uno strenuo sostenitore dell’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità europea. Auspicabilmente, si tratta di riavvolgere il filo di una storia, per trovare le possibili sintesi future.   D’altronde, quale difesa comune può esserci in Europa senza il concorso a pieno titolo di Londra? Non basta la Nato, se essa non trova, dirimpetto a sé, la sagoma istituzionale di un’Europa coesa e determinata, capace di organizzare con più razionalità ed efficenza il suo potenziale difensivo.

Il discorso non riguarda un protocollo di riarmo a fini di aggressione. Il ripudio della guerra appartiene all’eredità del nostro Novecento e certamente ci qualifica nei rapporti internazionali, assegnando a noi europei un incontestabile ruolo di pace. Ciò nondimeno, di fronte allo scatto imperialistico della Russia, non potevamo rifugiarci nell’indifferenza, ammantando di pacifismo, come amano fare i populisti, la rinuncia a far valere il rispetto del diritto internazionale come fondamento e garanzia di pacifiche relazioni tra tutte le nazioni. 

Abbiamo dato prova di grande vicinanza attiva, senza fornire alibi al bellicismo di Mosca. Per questo l’appoggio al popolo ucraino, dato fin dall’inizio della guerra, non può venire meno oggi, né d’altra parte verrà meno domani, quando a giugno eleggeremo il nuovo Parlamento di Strasburgo. Non intendiamo ammainare la bandiera della fedeltà ai valori della nostra Europa.

 

Cari amici,

è proprio sui valori che occorre accendere i riflettori della politica e della cultura. Vogliamo lasciarci alle spalle il lungo dibattito sulle radici giudeo-cristiane dell’Europa, preferendo a questo punto concentrarci sulla questione della laicità – ma quale laicità? – che s’intreccia con i grandi temi della bioetica e della biopolitica. Come europeisti di autentica matrice cristiana, condividiamo la preoccupazione circa il pericolo rappresentato dalla crescita dei fondamentalismi. Volteggiano sulle nostre teste le profezie a buon mercato sulla caduta dell’Europa in mano agli islamisti. I profeti di sventura non mancano mai. Erigere la barriera dei diritti è una risposta, in qualche modo preventiva, alla minaccia fondamentalista. 

Fin qui va bene, non ci sono obiezioni. Tuttavia scorgiamo segni di fondamentalismo anche nella politica che muove da premesse di laicità, quando in nome della neutralità delle istituzioni, posta a specchio dell’autonomia e libertà degli individui, si scivola verso una “laicità normativa” che desertifica il terreno dei valori. Scatta un tipo di radicalismo etico che fagocita e riproduce, in senso opposto, un motivo di estremizzazione: un altro tipo, se vogliamo, di fondamentalismo per il quale s’appiattisce ogni dubbio e si mortifica ogni dialettica, sicché l’aborto o il fine vita, la transizione di genere o la gravidanza per procura, l’equiparazione dei matrimoni o la condizione “liquida” delle convivenze, tutto rientra nella unilateralità di un pensiero distaccato dalla misura dell’umanesimo    

È il problema attuale dell’Occidente, ovvero il problema del cosiddetto transumanesimo. Alla libertà assoluta dell’individuo si associa l’astrazione di un diritto che non ha più l’umano come regola, ma il desiderio e la felicità, a qualunque costo. Adesso più che mai, l’Europa dei Lumi sperimenta l’effetto del presagio di Horkheimer e Adorno, quando scrissero lucidamente: “L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”. 

È questo il futuro dell’Europa? Noi abbiamo una riserva di ottimismo, pertanto guardiamo avanti con fiducia. Certo, il progresso non può deragliare in direzione del vuoto di principi e di valori. Abbiamo necessità di condividere un’orizzonte di morale, sia pure di una morale che operi lungo l’asse della tolleranza. Per questo, in parallelo, la politica deve ritrovare in sé o fuori di sé qualcosa che ne elevi la dignità e la funzione. Non possiamo fermarci al momento di spiritualità che aleggia sulle note dell’Inno alla gioia, per poi negarci, da quello stesso momento, a ogni suggestione che evochi una politica più ambiziosa, più fedele al servizio della comunità, e quindi semplicemente più umana.

 

Cari amici,

permettermi di concludere così: l’Europa che vogliamo deve farci appassionare. Fu un’emozione per chi ne gettò le basi, deve esserlo per noi che ci disponiamo a renderla più forte. De Gasperi diceva che l’Europa era il crogiolo di culture fondative, alcune di matrice cristiana, altre di matrice socialista e liberale: ognuna con la propria identità, ma tutte unite da una visione politica umanista. Questa unità deve essere preservata, altrimenti l’Europa avrà difficoltà a compiere l’impresa che ha davanti, per il bene delle nuove generazioni. Sarà importante scegliere le persone giuste, sarà decisivo avere persone preparate nel futuro Parlamento. Le elezioni di giugno rappresentano uno spartiacque. Nel 1948, in Italia, vinsero i democratici e un uomo intelligente, Attilio Piccioni, disse che non era stata una vittoria della paura ma sulla paura. Adesso tocca a noi: dovremo vincere, contro populismi e sovranismi, non agitando la paura ma offrendo una limpida alternativa alla paura. Così porteremo più in alto la speranza nell’Europa di domani.

 

Il testo qui riportato è la base dell’intervento che Fioroni ha tenuto a conclusione dell’evento.

 

I link per accedere alla registrazione su YouTube 

https://www.youtube.com/live/a4uM_KTqB9s?si=M1GqmGNBYD4EECjm

 

https://www.youtube.com/live/DebOPNcDIeM?si=Xdcwg8IA1hGJ8VlN