Dal trionfo alla scomparsa, 700 pagine per capire la Dc.

Il libro collettaneo del Mulino descrive una storia di successo, ma indubbiamente trascinata, secondo l’autore, troppo oltre. Di seguito la parte finale della recensione pubblicata sull’ultimo numero del quadrimestrale “Nomos”.

[…] a inizio aprile (del 1990, ndr), comincia la prima raccolta di firme sulle leggi elettorali di Comuni, Camera e Senato, da parte di un composito fronte trasversale che coinvolge un pezzo di mondo dc moderato che avrebbe voluto riconvertire la Dc in un soggetto diverso di centro-centrodestra alternativo alla sinistra (Mario Segni), una parte dell’associazionismo cattolico (Fuci e Acli, con la leadership intellettuale di Pietro Scoppola) che a partire dai propri legami europei intendeva superare la Dc contribuendo a creare un soggetto politico che si collocasse a sinistra in una nuova logica bipolare che le nuove leggi elettorali avrebbero incentivato, il nuovo Pds e i radicali (p. 537).

Mentre avanza quell’iniziativa, il mese successivo, il 6 e 7 maggio, nella prima consultazione dopo la caduta del Muro di Berlino, le elezioni per i consigli regionali delle Regioni ordinarie, la Lega Lombarda balza al 18,9% nella sua Regione (p. 523).

Dall’estate 1990, mentre il movimento referendario riesce a superare le 500 mila firme, iniziano le irrituali picconate del Presidente Cossiga che, al netto di alcune caratteristiche personali e dei conflitti con alcuni capicorrente dc per la scadenza presidenziale del 1992, coglie però il punto chiave: lo strumento della Dc era connaturato come tale alla funzione di baluardo democratico contro il comunismo, “ora tale funzione veniva meno e, di conseguenza, poteva essere accettato il pluralismo politico” (p. 541). In altri termini la fuga di parte degli elettori dc verso la Lega, verso la Rete di Orlando, l’impegno di parte del suo retroterra nel movimento referendario al fine esplicito di superare l’unità politica e le esternazioni di Cossiga erano fenomeni diversi ed eterogenei, ma accomunati da questa riflessione e ritenevano che i tentativi ecclesiastici, oltre che della dirigenza della Dc, di puntellare lo strumento tradizionale fossero destinati alla sconfitta per le stesse ragioni internazionali che ne avevano favorito l’affermazione e il successo. A questo si aggiunse poi come fattore di accelerazione la vicenda di Mani Pulite, ma appunto accelerando processi che erano già in moto per cause proprie.

Del resto che il crollo del Muro di Berlino, con la scomparsa dell’avversario tradizionale, rendesse ingovernabili e divaricanti le dinamiche della Dc lo si vide con chiarezza nelle elezioni presidenziali del 1992 con la caduta dei due candidati previsti, Forlani e Andreotti.

Per quanto tradizionalmente le elezioni presidenziali fossero sempre state terreno difficile per la Dc, anche perché in esse non valeva, a differenza che per il Governo, la conventio ad excludendum verso il Pci e neanche verso il Msi, in questo caso, a differenza del solito, oltre ai franchi tiratori nel segreto dell’urna, si manifestarono anche dissociazioni esplicite e rivendicate come quella di Mario Segni e dei suoi deputati pattisti (p. 554).

Per questa ragione anche la trasformazione della Dc nel Ppi unitario era destinata ad un inevitabile fallimento, in quanto “viziata dalla mancanza di realismo” (p. 576), tanto più considerando che le energie cattoliche esterne coinvolte avevano già rivelato nel corso degli anni precedenti una profonda divaricazione già all’interno delle dinamiche ecclesiali oltre agli elementi di differenziazione politica.

In questo senso il Volume descrive una storia complessivamente di successo, soprattutto per le lungimiranti scelte di collocazione europea ed atlantica, ma che è stata trascinata oltre il logico e il dovuto dall’incapacità di comprendere che a volte gli strumenti vengono logorati non solo da fallimenti ma anche da successi. Andando oltre gli Autori, che spingono a ritenere illusorie alcune persistenti nostalgie dell’unità politica e a ritenere tuttora valida l’esigenza di trasmettere una cultura di governo, ci si possono forse chiedere le ragioni per le quali nel contesto odierno il venir meno di quello strumento sembri comportare anche un declino delle ragioni di un efficace impegno politico del cattolicesimo organizzato nei nuovi contenitori partitici che si sono venuti a creare. Al netto della netta secolarizzazione della società che rende impossibili significative aggregazioni di soli cattolici, come negli altri Paesi europei dove i cosiddetti partiti popolari sono in realtà partiti molto laici di centro-centrodestra mentre a sinistra sono più diffuse collocazioni individuali di questa cultura politica oppure in piccoli gruppi, è plausibile ritenere che si sia essiccata quella cultura di governo, di ricerca di mediazioni tra principi e realtà, di rifiuto di un'”atmosfera ossigenata” fatta tutta di principi astratti (ripudiata de De Gasperi alla Settimana Sociale del 1945, p. 43), che potrebbe essere utile in entrambi gli schieramenti.

La logica dei principi non negoziabili, dell’isolamento di alcuni temi su cui proporre posizione identitarie ove non anche fondamentaliste, sembra nuocere sia a destra sia a sinistra, sia pure con gerarchie diverse di temi, chi a destra privilegiando il contrasto frontale ai nuovi diritti civili chi a sinistra assumendo posizioni ‘no border’ sull’immigrazione o di pacifismo astratto. Non stupisce che con questa impostazione che pretenderebbe superare non solo lo strumento non riproponibile del partito unitario ma anche la logica della cultura di governo che ha innervato cinquant’anni di storia, che avrebbe invece valore permanente, il declino della fecondità storica dell’impegno dei cattolici si acceleri fatalmente.

 

[G. Formigoni, P. Pombeni, G. Vecchio, Storia della Democrazia cristiana. 1943-1993, Bologna, Il Mulino, 2023, pp. 720]

 

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