No alla cravatta, anche Elly Schlein con i descamisados della Camera.

Il dibattito a Montecitorio non è stato edificante. Infine s’è votato un ordine del giorno che rinvia di fatto ad altra sede - ma quale? - il compito di definire il cosiddetto "dress code".

Il dibattito alla Camera sull’abbigliamento dei deputati e dei loro collaboratori ha messo in evidenza il perdurante “limite culturale” che appanna la politica della sinistra, Pd e M5S in testa. Che vi sia un motivo serio per chiedere agli eletti di adattarsi a una regola minima di decoro è fuor di dubbio: che poi sia opportuno per l’opposizione, qualora una proposta ad hoc venga dalla maggioranza, interloquire positivamente e senza pregiudizi di comodo, è altrettanto fuor di dubbio. Invece anche la Schlein, nota per la cura degli abiti che impone la sua armocromista, ha dato copertura a una specie di rivolta dei descamisados (nel mentre bacchettava Piero Fassino per aver tentato di difendere l’onore suo e dei suoi colleghi contro le polemiche qualunquistiche sugli stipendi o i vitalizi dei parlamentari).

Ha fatto bene allora Simonetta Matone, ex magistrato e deputata della Lega, a replicare duramente alle critiche irragionevoli : “Il rispetto per chi ci ha eletto passa anche attraverso l’abbigliamento che è come un codice di comportamento. Ritengo non rispettoso che si venga qui in abbigliamento da spiaggia o vestiti sportivi con le scarpe da ginnastica. Non stiamo facendo footing”. È un’osservazione ineccepibile, tanto da essere acquisita da sempre dall’altro ramo del Parlamento, il Senato della Repubblica. A Palazzo Madama non si entra senza cravatta, sebbene l’ineffabile ministro Calderoli (ancora a proposito di Lega)   sia ancora celebrato per lo sfoggio in Aula di abiti e scarpe all’altezza di un improbabile stile padano.

In ogni caso, a riprova di quanto sia scesa di livello la Camera dei Deputati, eminentemente a seguito delle scorribande grilline anti casta, sta il fatto che nella sede più alta della rappresentanza istituzionale della Repubblica, ovvero il Quirinale, l’idea di consentire l’accesso fuori da parametri ordinari di decoro non è stata mai considerata, neppure lontanamente, un tema da mettere all’ordine del giorno. Un cittadino e quindi pure un deputato, se ricevuti dal Capo dello Stato, non possono varcare la soglia del  magnifico Palazzo presidenziale se non in abiti conformi alla dignità del luogo e della sede. Anche in questo caso, modesto ma significativo, la moral suasion di Mattarella potrebbe aiutare a rendere meno sciatto il discorso sul “come” ci si debba condurre nel lavoro di rappresentanza del popolo italiano, innanzitutto nelle sedi istituzionali. 

Il dibattito a Montecitorio non è stato edificante. Alla fine s’è votato un ordine del giorno (181 voti a favore, 100 contro) che rinvia di fatto ad altra sede – ma quale? – il compito di definire il cosiddetto “dress code”. Il testo approvato impegna la Camera “a valutare l’opportunità di introdurre specifiche disposizioni volte a prevedere che l’abbigliamento dei deputati, dei dipendenti e di tutti gli altri frequentatori delle sedi della Camera sia consono alle esigenze di rispetto della dignità e del decoro dell’istituzione”. 

Ora, in conclusione, c’è da rimanere attoniti di fronte allo spettacolo offerto ieri dall’opposizione demo-grillina. È davvero un’impresa difficile comprendere i motivi che hanno portato al voto contrario, a meno che non s’intenda il ruolo di opposizione come un esercizio a se stante, fuori da uno schema di ragionevolezza, solo con la premura di essere “altrove”.