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lunedì, Aprile 28, 2025
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Cambiare

Cambiare, vocabolo ambiguo, ha diversi significati e sfumature. Si può cambiare in meglio o in peggio. Cambiare come, perché, per chi? Potrebbe essere utile mettere a confronto quello che si vorrebbe cambiare col modello che si vorrebbe realizzare.

Il messaggio del Presidente della Repubblica, magistrale, consente di proporre qualche paragone nella logica del cambiamento. Ha richiamato, sobriamente e chiaramente, principi, valori e tradizione che sono il profilo del popolo italiano.

In controluce, chiunque fosse in buona fede, ha intuito e ‘visto’ le scelte proclamate – e “fatto!”- dal ‘governo del cambiamento’. Questo governo ha preparato per gli Italiani e l’Italia un programma – la legge di bilancio indica gli obiettivi e i relativi finanziamenti del programma di governo – che li fa arretrare economicamente, culturalmente e istituzionalmente. In questo senso alcuni provvedimenti bandiera della maggioranza inducono a temere questa deriva: il reddito di cittadinanza, il decreto sicurezza.

Il reddito di cittadinanza amplia il Rei (reddito di inclusione approvato dal governo Renzi). In che modo può ottenere risultati opposti alla finalità declamata? Sono affidati ai Centri per l’impiego le procedure per attuarlo. Anche a detta del governo, per ora, tali centri non sono abbastanza attrezzati. Meglio sarebbe stato prima rafforzarli. Il finanziamento è stato messo in bilancio. Nei diciotto mesi, nei quali si ottiene il reddito di cittadinanza, bisogna cercare lavoro, ma non è detto che chi è disoccupato trovi il lavoro per il quale è adatto. Sarebbe necessario piuttosto un periodo di formazione retribuito e, se poi venisse rifiutato il lavoro, cesserebbe il sostegno economico. Invece l’applicazione del reddito di cittadinanza, almeno per 18 mesi, potrà suggerire un lavoro ‘in nero’ o nessuna occupazione …Non è educativo il meccanismo che non spinge a trovare lavoro!

Inoltre vale la pena di ricordare che non è automatica anche la sostituzione di chi va anticipatamente in pensione con giovani, se questi non sono in possesso delle caratteristiche adatte. Il Paese ha bisogno di lavoro, prima del reddito. Un’altra bandiera, che purtroppo sventola con successo e non si sa fino a quando: il decreto sicurezza, che introduce due modalità applicative che preoccupano, la legittima difesa col possesso di armi “all’americana“ e la chiusura dei centri che ospitano immigrati richiedenti asilo. Vale la pena chiarire. Anche il Papa sostiene che una verità a metà è una bugia. È vero che il problema della immigrazione è un problema! Il Diritto Umanitario, la nostra Costituzione e la tradizione culturale del Paese hanno dato certamente fondamento alla attitudine alla accoglienza, ma per troppo tempo senza una strutturata metodologia di integrazione. Il rispetto della dignità umana e le emergenze di cui sono portatori gli immigrati esigono la messa in opera di procedure che salvano le persone bisognose di aiuto e insieme la sicurezza dei cittadini. Questi non hanno motivo di ritenere che sono stati ‘invasi’ ma se il ‘sentire’, la propaganda e la vista degli immigrati per le strade, suscitano sentimenti di paura o di reazione ‘razzista’ la politica deve – perché ha gli strumenti – rassicurare i cittadini, gli immigrati e gli organismi internazionali. “Aiutarli a casa loro” certamente, dove non ci sono guerre e carestie, con la nostra Cooperazione internazionale, che è di qualità. I migranti che fuggono da guerre o da post-guerre (di cui siamo responsabili come occidentali) devono avere con tempestività (non dopo mesi o anni) i documenti per rimanere in Italia o migrare altrove. Il ‘governo del cambiamento‘ aveva da modificare o abrogare le leggi Bossi-Fini, la Turco-Napolitano e proporre modifiche ai trattati europei. Col decreto sicurezza, invece, semplicemente gli immigrati irregolari vengono mandati in strada: quale sicurezza che non delinquano, che non infastidiscano i cittadini, ecc.? Se non possono stare in Italia, si provveda ai rimpatri. Perché non si fa?

Come è noto, esiste l’obiezione di coscienza di fronte a leggi che contraddicono la morale, ma è pur vero che le leggi, quando sono in vigore, soprattutto da parte dei rappresentanti delle istituzioni devono essere osservate, mentre si lavora per farle modificare. E di fronte a conseguenze, come quelle preventivate dai Sindaci, nelle more di una discussione che modifichi le norme, i Comuni possono attivare soluzioni di protezione umanitaria. È un fatto che la protesta ha attivato una riflessione più ampia di una volgare opposizione come alcuni membri del governo, in continua campagna elettorale, hanno insinuato.

(Vorrei ricordare, tra parentesi, che l’attuale Ministro dell’Interno, ha invitato tre anni fa alla disobbedienza civile contro la legge sui diritti civili, contro il canone Rai e altro).

Purtroppo anche i sindaci, che sembrano fare una resistenza civile, hanno dalla loro parte norme vigenti contraddittorie che, quindi, il governo avrebbe potuto e dovuto modificare in sede di approvazione del decreto sicurezza.

Il linguaggio rispettoso, il comportamento decoroso, il dialogo, invece che il disprezzo, per chi non la pensa alla stessa maniera, esprimono uno stile di vita che ci fa comunità. Il ‘cambiamento’ non deve rubarci l’anima.

“Signore, dammi la forza di cambiare le cose che si possono cambiare. Dammi il coraggio di accettare le cose che non si possono cambiare. Signore, dammi il buon senso di distinguere le une dalle altre” (forse, San Tommaso Moro, protettore dei governanti e dei politici)

Usa, lo shutdown di Trump è il più lungo della storia

Lo shutdown che paralizza parte delle attività del governo federale americano, entrando nel suo 22esimo giorno, è diventato il più lungo della storia degli Stati Uniti. Iniziato il 22 dicembre, infatti, lo shutdown ha battuto i 21 giorni raggiunti sotto la presidenza di Bill Clinton, nel 1996. Il blocco è causato dal mancato accordo tra repubblicani e democratici sul finanziamento del contestato muro con il Messico.

Il blocco sta lasciando senza stipendio circa 800mila lavoratori federali.

I sindacati federali hanno già fatto causa al governo Usa perché – a causa dello shutdown – i dipendenti ritenuti “essenziali” stanno continuando a prestare servizio senza stipendio, in violazione delle leggi sul lavoro. L’azione legale – riportano i media americani – è stata depositata dai sindacati che rappresentano i lavoratori federali, ovvero la National Federation of Federal Employees, la National Association of Government Employees SEIU e la National Weather Service Employees Organization.

settori toccati dalla paralisi sono i più disparati, dalla protezione ambientale alla sicurezza negli aeroporti. Lo scalo di Miami, per esempio, dovrà chiudere uno dei propri terminal fino a lunedì per concentrare le risorse disponibili sui controlli rimasti attivi.

Anche parchi nazionali e zoo come quello nazionale di Washington chiuderanno i battenti. Attività sospese anche per i dipendenti della Nasa e dell’ente che processa le dichiarazioni dei redditi, l‘Internal Revenue Service. A essere precettati sono invece i lavoratori di alcuni settori strategici come i dipartimenti di Stato e la sicurezza nazionale.

Athletica Vaticana: la prima squadra di running della Santa Sede

In tutto sono una sessantina: sacerdoti, suore ma anche guardie svizzere e gendarmi, vigili del fuoco e operai, giardinieri, farmacisti. In comune hanno la passione per la corsa che condividono vestendo una maglietta gialla con lo stemma papale: questa la divisa di Athletica Vaticana, la prima associazione sportiva con sede nella Santa Sede.

Melchor Sanchez de Toca, è Presidente di Athletica Vaticana .

Da tempo esistono sia la rappresentativa calcistica dipendenti vaticani sia il St. Peter Cricket club, ma Athletica Vaticana è la prima squadra nata e con sede in Vaticano riconosciuta all’estero, che può ora partecipare a tutte le manifestazioni podistiche nazionali e internazionali. Anche le Olimpiadi.
Vedere la bandierina vaticana sfilare durante la cerimonia di apertura sarebbe un sogno” dice il Presidente specificando però che non è fra gli obiettivi a breve e medio termine.

Diabete, cancro e infarto: i super cibi che proteggono

La salute del nostro corpo passa dalla tavola: cresce sempre di più la consapevolezza che per stare bene, e ridurre i rischi di malattie, si debba seguire una dieta attenta.

Fibre alimentari: le persone che hanno assunto quotidianamente 35 g di fibre hanno ridotto del 30% il rischio di morte prematura, lo rivela uno studio pubblicato sul Lancet.
Gli esperti hanno scoperto che cereali integrali, noci e fagioli proteggono dalle malattie cardiache, dal diabete di tipo 2 e dal cancro dell’intestino.

Gli scienziati dicono che migliaia di vite sarebbero salvate ogni anno se tutti mangiassero 25g a 29g di fibre ogni giorno.

Il prof. John Cummings, della Dundee University, ha dichiarato: “Raggiungere questi livelli è impegnativo, ma realizzabile. Più persone devono prendere sul serio questo consiglio e aumentare l’assunzione di fibre, passando al pane integrale e mangiando più noci e fagioli. Aiuterebbe a salvare migliaia di vite.”

Giulio Andreotti: un uomo di Stato

E’ stato tra i protagonisti della vicenda italiana del Dopoguerra. Con questa intervista inedita,  che ripercorre la storia del Ministero degli Interni, il “Domani d’Italia” intende ricordarne il senso dello Stato e il rispetto per le istituzioni
Presidente, che ruolo ebbe, a suo giudizio, il Ministero degli Interni della nascente Repubblica nel conciliare le diverse anime del Dopoguerra, in modo particolare i “vincitori” con quella parte del Paese che era rimasta compromessa con il passato regime fascista ?
Se ricordo bene, durante il fascismo metà dei prefetti era nominata direttamente (di norma tra i Segretari Federali) mentre l’altra metà apparteneva alla carriera, che era molto rigorosa nelle promozioni. Epurati i prefetti politici, restò una splendida schiera di “amministrativi”, che fu determinante per la ricostruzione e la normalizzazione del Paese. Prefetti come Vicari e Vicedomini erano “di cappa e di spada”. Ma tutta l’Amministrazione funzionò benissimo.
Nel 1947 finisce il “tripartito” e con esso la possibilità della “democrazia compiuta”. Il clima dovuto alla “guerra fredda” porta a relegare la sinistra verso un ruolo di continua opposizione. De Gasperi, nel suo III governo sceglie, come ministro degli Interni, Mario Scelba e lo confermerà fino al settembre del 1952 nel suo VII Governo. E’ una figura profondamente anticomunista, ma altrettanto antifascista e vicina a Sturzo fin dalle origini del Partito Popolare. Non pensa che la scelta di Scelba sia stata determinata anche per garantire che l’Italia non cadesse nel rischio di regimi di estrema destra?
Scelba aveva fatto benissimo al Ministero delle Poste (bloccando anche interessi di un gruppo americano) e, per di più, era un duro. Quando, dopo la liberazione di Roma, la sinistra voleva Nenni alla Presidenza del Consiglio, fu lui ad opporsi con forza e ci riuscì. Certamente anche De Gasperi era contrario, ma la battaglia in prima fila la condusse Scelba. Antifascista da sempre, Scelba fu un difensore formidabile della libertà, opponendosi ai comunisti e arginando ogni velleità di restaurazione fascista. Fu anche dichiaratamente per la Repubblica, mentre la Dc come tale era possibilista (non tanto nei dirigenti, ma negli elettori, specie del Centro e del Sud). Quando socialisti e comunisti, durante il dibattito sul Patto Atlantico, tentarono di occupare Montecitorio, Scelba dette ordini drastici alla Celere e il corteo – capeggiato dai parlamentari – fu bloccato a Piazza Colonna con inflessibilità.
Sempre in quel periodo avviene la strage di Portella della Ginestra dove Salvatore Giuliano e la sua banda uccisero undici dimostranti durante la festa del 1 maggio. L’assassinio del luogotenente Pisciotta non portò mai a chiarire fino a che punto ci fosse stata una interferenza da parte di alcune frange del mondo politico. Quali sono i suoi ricordi in merito?
Qualche volta Scelba sembrava persino provocatore. All’indomani della strage di Portella della Ginestra nel 1947, ad esempio. Nel dibattito disse con fermezza – provocando l’ira della sinistra – “come mai, essendo la Festa del Lavoro di tutta la provincia di Palermo, nessuno di voi deputati comunisti era li?”. L’onorevole Li Causi reagì, concitatissimo. Lo chiesi a Scelba, dopo la seduta, se pensasse davvero che i comunisti avessero responsabilità nella strage. Mi rispose di no, ma certamente qualcuno li aveva consigliati a starsene a casa.
Nel 1954 Lei ebbe l’incarico come Ministro degli Interni. Come ricorda quell’esperienza?
Fu De Gasperi a volerlo per dimostrare visivamente che appoggiava il governo Fanfani. Eravamo però privi di maggioranza precostituita e Fanfani si illudeva di appoggi o almeno di una non belligeranza di Nenni. Come è noto non avemmo la fiducia. Io restai governativamente disoccupato per circa un anno e mezzo, quando Segni mi nominò alle Finanze. Al Ministero dell’Interno non sono più tornato.
Nel luglio del 1960, dopo che il governo Tambroni aveva dato il via libera al Congresso del Msi a Genova, ci sono violente repressioni da parte delle forze dell’ordine a seguito delle manifestazioni di protesta contro il governo. Alcuni manifestanti furono uccisi. Correvamo effettivamente il rischio di un colpo di Stato?
Per quello che ricordo Gronchi aveva ottenuto da Nenni la non belligeranza verso Tambroni; c’era una bozza del programma di governo con correzioni di pugno di Nenni. Il gruppo socialista non ne volle sapere e Nenni abilmente si ritrasse. La destra cercò di inserirsi, ma la Dc non accettava questo ricambio. Ricordo che nel 1953, abbandonato dagli Alleati, De Gasperi cercò senza successo la tolleranza dei monarchici (non dei missini, che chiamava “gambalati” perché gli ricordavano il passo dell’ oca). Rischi di colpi di Stato in Italia non ce ne sono mai stati. Questo perché le forze armate sono rigorosamente al servizio della Nazione e non l’avrebbero permesso.
Con l’ingresso dei socialisti al governo, Moro forma il primo governo di centro-sinistra. Agli Interni è designato Paolo Emilio Taviani. Come reagì l’allora Ministro nel luglio del 1964, al pericolo di un colpo di Stato da parte del generale De Lorenzo?
Ripeto che colpi di Stato non si sono mai tentati in Italia proprio per le caratteristiche delle nostre forze armate. Il generale De Lorenzo sembrò autore di un progetto autoritario, ritenendo di dover calmare le ansie del Presidente Segni, preoccupatissimo per la situazione economica e già ammalato gravemente. Fu un momento di confusione. Tra l’altro a casa di Morlino fu fatta una riunione di vertici democristiani con De Lorenzo, senza che né Taviani (Interni) né io (Difesa) ne fossimo al corrente. Grande confusione sì, ma golpe no.
Come si caratterizzò l’operato del ministero a cui era a capo Taviani e perché fu scelto da Moro?
Taviani era un uomo concreto, un partigiano vero, serissimo. Dava tutte le garanzie.
Franco Restivo fu a capo degli Interni in un periodo drammatico e oscuro in cui l’Italia assisteva impotente ad episodi che vanno dalla strage di Piazza Fontana al  tentato “golpe Borghese” alle prime apparizioni delle Brigate Rosse. Che ricordi ha di quel periodo?
Eravamo impreparati alla ferocia delle Brigate Rosse, ma un regime democratico non può mettere tutti sotto controllo. Del resto quando fa approvata la mite Legge Reale (fermo di polizia per quarantotto ore) vi fu una opposizione feroce e nel referendum sul tema la legge fu salvata, ma con stretto margine di voti nonostante la sostenessimo sia noi che i comunisti.
Che ricordi ha dei ministri dell’Interno che operarono durante i suoi governi? In particolare, ritiene che il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro possa aver bloccato definitivamente  il tentativo di portare a compimento il processo democratico?
Per Moro cercammo di fare tutto il possibile e non lasciammo nulla di intentato.
Ricordo che la vedova di uno degli agenti della scorta di Moro (che fu annientata la mattina di via Fani) disse che in caso di trattativa con i brigatisti si sarebbe data fuoco.
Anche la Santa Sede si mosse, attraverso i cappellani delle carceri e mettendo a disposizione una somma di denaro per il rilascio di Moro. Purtroppo fu inutile.
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Gli ultimi suoi governi coincidono con il crollo del muro di Berlino e la fine della “guerra fredda”. Ritiene che a partire da quel momento sia venuto meno quel clima di contrapposizione alimentato dal conflitto fra Occidente e comunismo?
Gli antidemocratici di sinistra persero la sponda di riferimento con il crollo dell’Unione Sovietica. E anche i fanatici di destra – che ci accusavano di essere illusi nel fronteggiare democraticamente i comunisti – persero uno strumento di lotta politica.
Oggi i problemi legati alla sicurezza sono cambiati. Nonostante qualche episodio grave, lo stragismo è ridotto ai margini. Si affacciano nuovi problemi come il terrorismo  internazionale, l’esigenza di governare il problema dell’immigrazione. La sicurezza assume dimensioni più internazionali, più globali. Qual è il suo giudizio in merito?
Dobbiamo evitare l’errore delle guerre di religione. Mi sembra che la linea espressa dai
Ministri degli Interni che si sono succeduti negli ultimi governi sia quella giusta.

Non basta l’evocazione di Sturzo

Articolo già pubblicato sulle pagine dell’www.huffingtonpost.it

Cresce, in questi giorni, l’attenzione sul centenario dell’Appello ai liberi e forti, un testo che appare ancor oggi fresco di suggestioni importanti. Bisogna far tesoro di questa novità che increspa gli umori della pubblica opinione. Qualche cosa si muove.

Non c’è solo il mondo cattolico, democratico e popolare, dietro l’attesa per la data simbolo (18-19 gennaio); in realtà, con qualche sorpresa, l’attenzione coinvolge altri mondi, più che mai desiderosi di ritrovare un’anima della politica.

Zingaretti scrive che “emoziona e fa impressione” la rilettura di questo Appello. Segno, possiamo dire, di un Novecento diverso dal secolo delle magniloquenti e spietate profezie a sfondo totalitario. Il popolarismo è la dottrina politica – forse l’unica – a non essere stata travolta dal moto anti-ideologico susseguente alla caduta del Muro di Berlino.

Ora occorre chiedersi, però, se dopo l’emozione non s’imponga l’urgenza di una meditazione adeguata alla ricorrenza del centenario; se insieme a un sussulto, derivante dalla sorpresa, non si debba coltivare la consapevolezza di nuove sfide; se infine la “formula popolare”, inventata da Sturzo, non richieda scelte coraggiose e in controtendenza.

Lo dico con franchezza, ma in spirito costruttivo: non intendo sfuggire al dilemma che nasce dall’esaurimento del Pd, partito unico del riformismo, così come lo abbiamo concepito e vissuto finora. Il popolarismo è l’antitesi del populismo, il suo più diretto e attrezzato antemurale, la sua “decostruzione” morale e politica. Ma può il popolarismo sopravvivere nei limiti angusti di una esortazione o di una memoria?

Zingaretti rassicura sulla direzione di marcia. “Nell’Appello di un secolo fa si possono cogliere grandi temi profetici e fecondi, che devono continuare a liberare energie e che, soprattutto, ci impegnano a non restare alla finestra quando tutto sembra difficile, fragile o incomprensibile”. Sono parole impegnative, anche autocritiche per molti aspetti. Ma siamo sicuri che bastino? Si potrebbe dire, meglio tardi che mai. Ma la conversione di San Paolo è un difficile modello da perseguire.

Bisogna sempre evitare di aggrapparsi astutamente alle circonlocuzioni di comodo perché non rappresentano una risposta alla crisi del Pd, né tanto meno un viatico di ritrovata energia per i Popolari impegnati in questo partito. Ci vuole una svolta vera, per ricostruire le ragioni di una cooperazione allargata tra i riformisti di varia matrice. In mancanza di tale svolta, ideale e politica, il rischio è la caduta irrimediabile di un progetto pur nelle sue origini tanto ambizioso.

Il richiamo a Sturzo esige una schietta verifica, senza infingimenti e retorica, delle condizioni di sussistenza del “fattore popolare” nella vita reale del nuovo Pd. Facciamo in modo che nell’imminente congresso ci sia un vero cambiamento.

Nasce l’assemblea parlamentare franco-tedesca

Il 22 gennaio prossimo, il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Angela Merkel firmeranno ad Aquisgrana un nuovo trattato di cooperazione e integrazione tra Francia e Germania. La nuova intesa tra Parigi e Berlino, spiega il quotidiano francese “Les Echos”, sarà complementare al trattato dell’Eliseo, firmato il 22 gennaio 1963 dal presidente francese, Charles de Gaulle, e dal cancelliere tedesco, Konrad Adenauer. Con il trattato di Aquisgrana, si legge su “Les Echos”, Francia e Germania intendono dare “una nuova dimensione alla loro cooperazione”.

L’obiettivo è quello di rendere la Germania e la Francia il “laboratorio di una grande convergenza europea” nei settori dell’economia, della fiscalità e delle politiche sociali.

Macron e Merkel rafforzeranno anche la collaborazione tra i rispettivi paesi in politica internazionale, “per arrivare a parlare con una sola voce al di fuori delle frontiere” di Francia e Germania. Il trattato di Aquisgrana prevede, inoltre, l’istituzione a febbraio prossimo di un’Assemblea parlamentare franco-tedesca composta da 100 rappresentanti, 50 francesi e 50 tedeschi.

 

Viaggio tra gli italiani all’estero

Articolo estratto dalla rivista “il Mulino” n. 6/18 a firma di Bruno Simili

Secondo le stime ufficiali, gli italiani residenti all’estero al primo gennaio 2018 erano più di 5 milioni (5.114.469). Emigrati o figli di emigrati che hanno raggiunto i quattro angoli del pianeta nel corso dei decenni, sulla scia della grande epopea migratoria che, dalla fine dell’Ottocento agli anni Sessanta del secolo scorso, ha visto un gran numero di persone, spesso famiglie intere, lasciare l’Italia alla ricerca di condizioni di vita migliori di quelle che il loro Paese di origine poteva offrire. La crescita economica e le nuove opportunità che si presentarono agli italiani del miracolo economico aveva poco alla volta ridotto quella che un tempo era stata un’ondata di piena. Si pensi che in soli quarant’anni, tra il 1876 e il 1915, lasciarono l’Italia quasi 10 milioni di persone, un dato che allargato a un intero secolo (1876-1975) arriva a superare i 25 milioni tra Europa e Americhe (di cui 11 milioni e mezzo solo per l’emigrazione diretta verso il continente americano).

Si tratta dunque di un fenomeno di lunga durata, accompagnato dalla nascita di vere e proprie comunità di italiani espatriati, che per il loro numero hanno via via attirato anche l’attenzione della politica di casa nostra, spesso in modo non propriamente edificante e con molte polemiche, in particolare in prossimità di un voto politico o di un referendum. In tempi recenti, l’emigrazione italiana all’estero è stata per lo più assente dal dibattito nazionale; almeno fino a quando ha ripreso a salire, a partire dal 2010, quindi un paio d’anni dopo l’esplosione della crisi finanziaria ed economica che ha segnato, e ancora segna, il tessuto socioeconomico del nostro Paese. Da quel momento l’emigrazione è ripartita. Purtroppo, e non solo in Italia, i dati disponibili sui fenomeni migratori sono assai poco uniformi e non sempre del tutto affidabili. Si può considerare il numero complessivo degli italiani residenti in un determinato Paese. Oppure osservare i flussi di coloro che rinunciano a una residenza in Italia in favore di una residenza all’estero. Ma anche in questo caso risulta difficile procedere in maniera ordinata e compiere confronti.

Anche limitandosi ai dati degli iscritti Aire (l’Associazione degli italiani residenti all’estero), l’aumento delle uscite negli ultimi dieci anni è comunque evidente. Nel 2007 si registrano circa 36 mila persone verso l’estero. Un dato che nel 2011 già sale a 50 mila, per superare nel 2017 le 128 mila unità.

A partire da qualche anno, dunque, la dimensione del fenomeno ha fatto sì che di emigrazione italiana si tornasse a parlare, nonostante il dibattito nel frattempo si sia concentrato prevalentemente sugli arrivi, dunque sugli immigrati, anziché sulle partenze. Ma se di emigrazione si è ricominciato a parlare lo si è fatto soprattutto in termini di «fuga dei cervelli». E soprattutto in relazione alla fasce più giovani della popolazione. Non a caso: da un lato infatti la disoccupazione giovanile è cresciuta enormemente (passando dal 20,3% nel 2007 al 37,3% nel 2013, per poi ridiscendere un poco verso valori che oggi si attestano intorno al 33%), e al suo interno è cresciuta la cosiddetta disoccupazione intellettuale. Dall’altro lato, tra chi lascia il Paese cresce la quota dei più istruiti: se nel 2005 gli emigrati laureati erano il 15%, tra il 2013 e il 2016 essi hanno raggiunto il 24%, un dato che tocca il 30% se si guarda alla fascia di età 25-44 (e oltre il 35% considerando solo le donne). Dunque cresce il numero di italiani che lasciano il Paese – un fenomeno il cui allarme, tuttavia, secondo alcuni andrebbe ridimensionato osservando tendenze analoghe in altri Paesi europei – e cresce in proporzione il numero di chi ha alle spalle un percorso formativo più lungo e qualificato. Tuttavia, questa visione dell’emigrazione italiana contemporanea rischia di lasciare in ombra tutti gli altri, coloro che hanno lasciato il Paese con in tasca un diploma o, in non pochi casi ancora oggi, la sola licenza media.

Sulla scorta del Viaggio in Italia pubblicato lo scorso anno, questo Viaggio tra gli italiani all’estero cerca di dare uno sguardo il più possibile d’assieme di un fenomeno che, come si è detto, è assai variegato, difficile da cogliere e molto spesso presentato per stereotipi. Entrambi i Viaggi sono uniti dal proposito di descrivere l’Italia e gli italiani cercando di rendere il senso di una realtà piena di sfaccettature, che non si lascia ridurre a semplici contrapposizioni. La nuova emigrazione tocca tutti da vicino. Sia perché, come ci ricorda Maddalena Tirabassi, «più o meno direttamente tutta la popolazione italiana ha avuto un’esperienza migratoria e più o meno chiunque di noi oggi conosce – perché parente, amico, collega, compagno – qualcuno che ha deciso di lasciare l’Italia per trasferirsi all’estero». Sia perché non si può trascurare la decisione di vivere altrove presa da un numero crescente di persone che, in ragione della loro età, dovrebbero costituire l’architrave del Paese in cui sono nati. Non è soltanto la tanto citata «fuga dei cervelli» che viene analizzata in questo volume. Ma più in generale una nuova emigrazione – o, se si preferisce, una diversa e più vivace mobilità, quella di cui ci parla qui Piero Bassetti, con uno sguardo meno pessimistico – spesso non caratterizzata da lavori altamente qualificati che coinvolgono però anche persone con un livello di istruzione medio-alto.

Quella del «Mulino» è una tradizione di analisi, che anche in questo volume – un monografico che segna il numero 500 della rivista, uscita senza interruzioni a partire dal 1951 – viene confermata grazie al lavoro di alcuni dei principali esperti di emigrazione italiana. Dopo l’introduzione affidata a Enrico Pugliese, una prima parte di contributi, aperta dalla lettura storica di Maddalena Tirabassi, analizza nelle sue diverse sfaccettature l’emigrazione italiana contemporanea. Una terza parte presenta le diverse forme di autonarrazione (nel secolo del grande esodo, quando si scrivevano lettere e memorie, spesso senza alcuna consapevolezza che un giorno qualcuno le avrebbe lette; in questi anni Duemila, ricorrendo ai social network e ai blog, consapevoli viceversa che un pubblico ci sarà comunque) e ripercorre alcune forme di racconto cinematografico dell’emigrazione italiana.

Del tutto nuova nell’impostazione è invece la seconda parte. Suddivisi per area geografica – e preceduti da un breve capitolo di inquadramento delle caratteristiche migratorie nei diversi Paesi – quaranta italiani che hanno scelto di vivere all’estero si raccontano in altrettante storie autobiografiche. Le motivazioni all’origine del trasferimento, l’arrivo, la ricerca di una casa e di un lavoro, le difficoltà con la lingua, i primi contatti con la comunità ospitante, il processo di inserimento e l’evoluzione del percorso migratorio, i rapporti con l’Italia e la famiglia di origine sono solo alcuni dei temi che ciascuno di loro tratta nel riportare la propria esperienza migratoria. Sono storie anche molto diverse, ognuna speciale a suo modo, dove abbiamo cercato di comprendere il maggior numero possibile di casi, raggruppandoli per Paese di destinazione in base alle mete preferite in Europa, ma anche considerando alcuni Paesi europei di nuova emigrazione e, naturalmente, l’emigrazione extraeuropea.

Nel raccogliere le varie testimonianze si è scelto di includere più livelli di formazione e professionalizzazione. Ogni contatto è stato preceduto da diversi scambi di mail e messaggi e da vari colloqui. Anche per noi, come è per loro nei rapporti con i parenti rimasti in Italia, l’aiuto di Skype e WhatsApp è stato fondamentale. Non sempre è stato facile darsi un appuntamento: chi lavora in un ufficio più spesso riusciva a trovare una mezzora di tempo lungo la giornata. Chi lavora in un cantiere o nella ristorazione, viceversa, il più delle volte preferiva un colloquio di prima mattina o a tarda sera. In qualche caso abbiamo disturbato le persone nella loro intimità familiare – e di questo ancora una volta ci scusiamo – in altri durante una pausa nel turno di lavoro.

A ogni modo, da tutti abbiamo ricevuto una grande disponibilità. All’inizio non lo davamo per scontato: mettere in pubblico la propria vita, seppure per sommi capi, soprattutto accettando di raccontare non solo i successi e le soddisfazioni ma anche le difficoltà e i fallimenti, non è facile. Ci sono infatti storie di crescita, altre di arretramento. Storie nate in base a nuovi, forti legami affettivi, altre decise in base a un promettente percorso professionale. Qualcuno, dopo un’esperienza più o meno lunga all’estero, è rientrato in Italia. Ma per quasi tutti la vita ha preso una strada che poco alla volta li ha allontanati dal Paese in cui sono nati e cresciuti. La loro scelta, il più delle volte definitiva e il più delle volte motivata da difficoltà riscontrate in Italia a trovare un’occupazione degna, a costruire un proprio percorso famigliare, è un segno da prendere molto sul serio – ci pare – di un declino italiano che, per essere arrestato, richiederebbe una visione che possa ridare fiducia nel futuro. Quel futuro che in tanti oggi scelgono di cercare altrove.

Vittorio Veneto: un progetto della Caritas per trovare lavoro e recuperare dignità

Trovare lavoro e recuperare dignità: questi gli obiettivi con cui è nato il Progetto inserimento lavorativo promosso dalla Caritas di Vittorio Veneto. Grazie a questo progetto, nel triennio 2016-2018 dodici persone disoccupate tra i 25 e i 60 anni (undici uomini e una donna) hanno trovato un lavoro e ora hanno una sicurezza economica e la ritrovata soddisfazione di mettere a frutto le loro capacità. Non solo. Altre 22 persone (14 uomini e 8 donne) hanno avuto la possibilità di ripartire grazie al tirocinio pagato di 400 ore.

In tre anni il Progetto inserimento lavorativo (Pil) ha investito 67.227 euro, serviti pagare i tirocinanti con delle “borse lavoro”. In gran parte sono risorse di Caritas Vittorio Veneto, il resto arriva dai Comuni che hanno scelto di aderire al programma a beneficio di loro residenti. Spicca, in particolare, il contributo del Comune di Ceggia, unica realtà coinvolta al di fuori della provincia di Treviso, ma sempre nel territorio della diocesi di Vittorio Veneto.

“Sappiamo – dicono da Caritas Vittorio Veneto – che i numeri del Progetto inserimento lavorativo sono piccoli, e che non sono la sola soluzione alla sofferenza di chi è povero nel territorio diocesano, e non sono pochi. Sono però piccoli risultati concreti, in un periodo economicamente non roseo, che aiutano alcune persone e le loro famiglie a ripartire con più speranza”.

Intelligenza artificiale: una piattaforma a richiesta con 20 milioni di euro di fondi europei

A Barcellona, con l’incontro dei partner del progetto, prende il via “AI4Eu”, che riunisce 79 istituti di ricerca di alto livello, Pmi e grandi imprese di 21 diversi Paesi per creare un polo di attrazione delle risorse riferite all’intelligenza artificiale, compresi i settori di dati, la potenza di calcolo, gli strumenti e gli algoritmi. L’iniziativa offrirà servizi e sostegno ai potenziali utilizzatori della tecnologia aiutandoli a testare e a integrare soluzioni di IA nei loro processi, prodotti e servizi. “AI4Eu”, una piattaforma aperta e collaborativa, offrirà anche corsi per il miglioramento delle competenze e la riqualificazione. Il gruppo del progetto lavorerà in stretta collaborazione con i poli d’innovazione digitale per la robotica e con la futura rete dei centri di eccellenza per l’intelligenza artificiale al fine di agevolare ulteriormente l’accesso tecnologico.

“L’Europa può sfruttare appieno i vantaggi offerti dalle innovazioni dell’IA solo se questa tecnologia è facilmente utilizzabile da tutti – hanno dichiarato il vicepresidente della Commissione responsabile per il Mercato unico digitale, Andrus Ansip, e il commissario responsabile per l’Economia e la società digitali, Mariya Gabriel –  Il progetto ‘AI4Eu’contribuirà ad avvicinare l’intelligenza artificiale alle piccole imprese, alle imprese non tecnologiche e alle amministrazioni pubbliche di tutta Europa”.

Il progetto, che vede capofila l’impresa francese Thales, riceverà un finanziamento complessivo di 20 milioni di euro nei prossimi tre anni. La piattaforma sarà istituita nel corso del 2019. Il 25 aprile 2018 la Commissione aveva presentato la sua strategia in materia d’intelligenza artificiale annunciando lo sviluppo della piattaforma di IA a richiesta. Complessivamente la Commissione ha aumentato gli investimenti in ricerca e innovazione nell’IA portandoli a 1,5 miliardi di euro per il periodo 2018-2020 nell’ambito del programma Horizon 2020. Sulla base della sua strategia, a dicembre la Commissione ha presentato un piano coordinato per promuovere la cooperazione con gli Stati membri dell’Ue, la Norvegia e la Svizzera in quattro ambiti chiave: aumento degli investimenti; accessibilità a un maggior numero di dati; promozione del talento; salvaguardia della fiducia. Entro la fine del prossimo anno gli investimenti pubblici e privati totali nell’Ue raggiungeranno oltre 20 miliardi di euro.

I 500 di Leonardo Da Vinci e Cosimo I de’ Medici

Nel 2019 ricorrono due cinquecentenari importanti, entrambi ragguardevoli per la storia di Firenze: la morte di Leonardo da Vinci e la nascita di Cosimo I de’ Medici. I due accadimenti datano alla primavera inoltrata del 1519. Il 2 maggio moriva ad Amboise Leonardo e il 12 giugno a Firenze nasceva Cosimo.

S’è ritenuto che i due anniversari meritassero d’essere rammentati nel consueto ciclo d’incontri all’Antica Canonica di San Giovanni.

Per questo l’Opera di Santa Maria del Fiore promuove un ciclo di incontri, a cura di Antonio Natali e Sergio Givone, dal titolo UMANESIMO E ‘MANIERA MODERNA’.

Dieci le conferenzela prima delle quali il prossimo 15 gennaio (ore 17) a cura di Luca Bagnoli che parlerà di La fabbriceria di Santa Maria del Fiore tra storia, diritto e azienda.

Per Leonardo saranno i pensieri (vale a dire le trame e i contenuti illustrati) a prevalere sulla lingua figurativa; della quale, d’altra parte, comunque si ragionerà.

Di Cosimo I sarà invece commentato lo spessore intellettuale che informò il suo collezionismo archeologico.

Dal 16 gennaio scattano i dazi europei sul riso asiatico

La prossima settimana scattano i dazi nei confronti delle importazioni di riso proveniente dalla Cambogia e dalla Birmania. Lo rende noto la Coldiretti nell’esprimere soddisfazione per l’avvio da parte della Commissione Ue della procedura di approvazione che, salvo colpi di scena si concluderà mercoledì 16 gennaio 2019 a seguito dell’adozione del regolamento con procedura scritta per l’entrata in vigore il giorno successivo la pubblicazione.

Viene in particolare previsto un periodo di reintroduzione dei dazi solo sul riso indica lavorato per un periodo non superiore a tre anni, con un valore scalare dell’importo stesso da 175 euro a tonnellata nel 2019, 150 euro a tonnellata nel 2020 e 125 euro a tonnellata nel 2021; una proroga è possibile ove sia giustificata da particolari circostanze.

Si conclude cosi’ una vicenda durata troppo tempo ed avviata formalmente il 16 febbraio 2018, quando l’Italia aveva presentato su sollecitazione della Coldiretti a Bruxelles richiesta a Bruxelles per il ripristino dei dazi invocando la clausola di salvaguardia prevista dalle norme europee nel caso i regimi commerciali preferenziali Ue per i paesi poveri creino difficolta’ ai produttori europei.

Piccoli lettori, grandi visioni

Con “Nati per leggere” fino al 25 gennaio un viaggio in 6 tappe per promuovere la lettura ad alta voce rivolta a bambini da 0 a 6 anni.

Il progetto “Piccoli lettori, grandi visioni. La promozione della lettura attraverso le biblioteche del Lazio: Nati per Leggere … e oltre”, è curato dalla Sezione Lazio dell’AIB – Associazione italiana biblioteche e finanziato dalla Regione Lazio e si svolgerà in 6 biblioteche selezionate su tutto il territorio.

Incontri e corsi di formazione. In particolare, nell’ambito dell’iniziativa si terranno due corsi di formazione per volontari del programma Nati per Leggere, condotti dal Coordinamento regionale NpL, e quattro incontri con scrittori per l’infanzia ed esperti del Programma NpL. La mattina saranno coinvolti i bambini delle scuole dell’infanzia e nel pomeriggio un pubblico più ampio, per sensibilizzare gli adulti sull’importanza della lettura sin dalla primissima età.

Sarà inoltre presentato il BiblioHub, la biblioteca itinerante dell’Associazione italiana biblioteche: un veicolo mobile di diffusione di cultura, informazione e socialità, presentato alla 15° Biennale di Architettura Venezia e poi in Sicilia e a Roma nell’ambito delle iniziative del Bibliopride – Giornata nazionale delle biblioteche 2018. Nel suo itinerario attraverso le province laziali che partirà da San Lorenzo Nuovo (VT), passerà per Contigliano (RI), Ladispoli e Genzano (RM), Latina e S. Andrea del Garigliano (FR): insieme al messaggio di promozione della lettura, il BiblioHub porterà anche libri e materiali in dono per le biblioteche partecipanti al progetto.

BiblioHUB è una struttura mobile polifunzionale e multimediale di informazioni e servizi al cittadino, punto di prestito di libri, vetrina di bookcrossing, laboratorio ludico-didattico per bambini e luogo d’incontro e di socializzazione. Il truck, una biblioteca mobile su ruote, è progettato come uno “scrigno” che si apre e si espande negli spazi urbani per portare la biblioteca dentro il territorio. BiblioHUB vuole avvicinare i cittadini alla ricca offerta culturale e di servizi che la biblioteca è oggi in grado di proporre. La forte vocazione pubblica del mezzo è richiamata dall’illustrazione dell’artista Guido Scarabottolo, realizzata mediante microforature sulla facciata principale dove sono rappresentati una molteplicità di “auto-ritratti” di utenti delle biblioteche pubbliche.

Una spugna nel sangue per ripulirlo dai farmaci chemioterapici

Una minuscola spugna che assorbe dal sangue i residui della chemioterapia: è la soluzione sperimentata dai ricercatori dell’università della California di Berkeley per rendere meno tossico per il corpo la terapia contro i tumori, come spiega lo studio pubblicato sulla rivista Acs Central Science. La spugna viene posta dentro una vena, dove rimuove dal flusso sanguigno l’eccesso di farmaci chemioterapici, una volta che hanno attaccato il tumore. Viene stampata in 3D e quindi può essere adattata al paziente, ed è ricoperta da uno strato speciale che assorbe il farmaco ma lascia fluire il sangue senza problemi. La speranza è che possa evitare alcuni effetti collaterali della chemio, come la nausea e la perdita di capelli.

Finora è stata testata sui maiali, in cui è riuscita a rimuovere dal sangue il 64% di un farmaco, e non dovrebbe avere perdite una volta che viene tolta dal corpo. Andrebbe inserita durante la chemioterapia e rimossa alla fine di ogni sessione. I ricercatori guidati da Nitash Balsara vogliono sperimentarla presto sull’uomo, perché i primi risultati sono promettenti. Il che, se tutto va bene, potrebbe accadere in un paio d’anni.

Congo, Touadi: “Voto storico, nuovo presidente senza violenza”