20.1 C
Roma
mercoledì, 14 Maggio, 2025
Home Blog Pagina 352

In Umbria un’iniziativa per le infrastrutture culturali e sportive

L’Istituto per il credito sportivo e Gepafin hanno siglato un accordo per garantire lo sviluppo e la crescita degli impianti sportivi e delle infrastrutture culturali nei diversi Comuni umbri. Una convenzione rivolta alle società che gestiscono attività sportive e culturali, per il rilascio di garanzie su mezzi propri e su fondi pubblici utili alla concessione di finanziamenti sia breve che a medio-lungo termine. Hanno sottoscritto l’accordo il presidente di Gepafin Spa, Salvatore Santucci, e il presidente dell’Istituto per il credito sportivo, Andrea Abodi.

In base all’intesa, Gepafin potrà rilasciare una garanzia, a valere sui fondi individuati dalla convenzione, che assisterà ciascun finanziamento fino all’ammontare dell’80% del credito vantato dall’Ics nei confronti del beneficiario. L’iniziativa vuole sostenere e incentivare su tutto il territorio umbro, un rilancio degli investimenti nel settore sportivo e culturale, compresa la valorizzazione di immobili storici, favorendo così progetti di sviluppo economico ed occupazionale a beneficio di tutti i cittadini.

Gepafin è la Società finanziaria per le piccole e medie imprese, costituita dalla Regione Umbria insieme alla Commissione europea, con il compito di supportare le realtà imprenditoriali, aventi sede legale e/o operativa nell’intero territorio regionale, nel reperimento di risorse finanziarie. La convenzione avrà durata biennale e prevede garanzie a valere su finanziamenti fino a 10 anni con tassi agevolati. Un progetto che riveste particolare importanza soprattutto per le iniziative del comparto culturale, dove non opera il Fondo di garanzia per l’impiantistica sportiva. Per le garanzie a valere su mezzi propri è previsto invece un plafond di 5 milioni di euro, con un minimo finanziabile di 50.000 euro fino ad un massimo di 500.000.

Oms: “Sui migranti falsi miti, non portano malattie”

Quello che “i migranti portano le malattie” è un falso mito, mentre è forte il rischio che la loro salute peggiori una volta arrivati nei Paesi di destinazione a causa delle cattive condizioni in cui vivono.

Il documento, realizzato in collaborazione con l’Istituto Nazionale salute, Migrazioni e Povertà (INMP) italiano, si basa sui dati di oltre 13mila documenti raccolti nei 54 paesi che fanno parte della regione Europa dell’Oms. Il primo falso mito, si legge, è nel numero dei migranti, che oggi in tutta la regione sono appena il 10% della popolazione, mentre in alcuni paesi europei la popolazione pensa che siano 3 o 4 volte di più. Dal punto di vista sanitario poi, la salute delle persone che arrivano è buona.

Il rischio di malattie non trasmissibili, come tumori o problemi cardiaci, è più basso che nella popolazione generale, ma aumenta all’aumentare del periodo di permanenza a causa del mancato accesso ai servizi sanitari e delle condizioni igieniche spesso insufficienti.

“Anche per le malattie infettive l’aneddotica non corrisponde alla realtà – sottolinea Santino Severoni, coordinatore del programma Oms Europa sulla migrazione e la salute -. E’ vero che lo spostamento delle popolazioni viene considerato una fonte di rischio, e per questo c’è un monitoraggio, ma riguarda tutti gli spostamenti. Si pensi ai 400mila che sono arrivati via mare in Italia nel 2016 e ai 20 milioni di passeggeri dell’aeroporto di Fiumicino. La verità è che anche quando arrivano persone con infezioni l’evento è così sporadico che non costituisce un problema per la salute pubblica, come dimostra il fatto che non abbiamo mai registrato un contagio alla popolazione residente”.

Sui migranti “ci sono governi che distolgono l’attenzione dai fatti e si registra una perdita o un cambiamento nella scala dei valori già da diversi anni”. E’ il commento di Santino Severoni, coordinatore del programma Oms Europa sulla migrazione e la salute, sulla situazione nel Mediterraneo.

 

L’impegno dei “liberi e forti” di Alessandria. Renato Balduzzi: “Entriamo nel merito dei problemi”

Si ricordano in questi giorni i 100 anni dall’appello di don Luigi Sturzo “A tutti gli Uomini Liberi e Forti”, che, facendo seguito a quelli che erano stati i primi tentativi portati avanti nei primi anni del XX secolo da personaggi come Filippo Meda e Romolo Murri, inaugurava l’esperienza storica del cattolicesimo politico.
Pur in uno scenario così diverso, quell’appello risuona ancora.

Si sente, soprattutto, l’urgenza di ricostruire una prospettiva di ispirazione cattolica e democratica, ritrovando un’unità programmatica e di intenti aperta e aconfessionale, ma al tempo stesso capace di recepire e reinterpretare in chiave attuale la parte più feconda dei valori e dei principi che la storia del cristianesimo sociale e politico può offrire per immaginare e progettare il futuro del paese e dell’Europa. Non mancano i richiami in questo senso, a partire dal presidente della Conferenza episcopale italiana, che ha voluto consegnare una riflessione che lega proprio l’appello del lontano gennaio 1919 alla chiesa e a tutta la società civile italiana di oggi “perché possa ritrovare la via della concordia e della fraternità, e ogni uomo e ogni donna di questo Paese possa sempre veder riconosciuti i propri diritti nella solidarietà e nella giustizia”.

Come interpretare, dunque, l’attualità dell’appello di Sturzo? Da dove ricavare la forza di guardare in faccia la realtà ed essere liberi di non subirla? Come non dissipare le libertà del nostro tempo e non confondere la forza con rabbia o prepotenza?
A partire da queste domande un gruppo di alessandrini si è ritrovato in città per dare inizio a un percorso, che potrà incrociarsi con quello di altri gruppi di “Liberi e Forti” in Piemonte e in tutto il Paese, consapevoli che una rete di sensibilità e di disponibilità c’è già ed è diffusa sul territorio nazionale.

“Dobbiamo andare oltre i sentito dire e le apparenze, condividere le nostre esperienze di vita quotidiana, entrare nel merito dei problemi, con analisi e proposte concrete e precise, su almeno tre temi fondamentali: povertà e immigrazione; lavoro e sviluppo, ambiente”, ha detto Renato Balduzzi nelle conclusioni dell’incontro.

Si parte da un piccolo gruppo, ma con l’intenzione di essere inclusivi e dunque già in questa settimana la proposta di un “impegno di liberi e forti” sarà aperta all’adesione di quanti manifestino interesse, in vista di una prima convocazione tematica prevista per domenica 10 febbraio 2019. Questa iniziativa, infatti, non vuole creare contenitori o circuiti chiusi, né tantomeno mettersi in concorrenza con i vari tentativi di “fare rete nel mondo cattolico”. Non ha orizzonti di pochi mesi. Piuttosto, vuole partire dalle persone che sentono il dovere di mettersi in gioco e di dare prova di un nuovo esercizio della cittadinanza, della partecipazione democratica e del concorso alla valorizzazione dei tanti mondi vitali esistenti, animando un percorso aperto a tutti coloro che ne condividano l’ispirazione e abbiano la voglia di scoprire o riscoprire l’impegno a raggiungere chi, per tante ragioni, si sia scoraggiato o non riesca a trovare atteggiamento alternativo alla sfiducia, al rancore, al mugugno.

C’è bisogno, hanno sottolineato diversi interventi, di ricucire fratture oggi palpabili tra generazioni, categorie, e altri gruppi. Mondi che fanno fatica a parlarsi, a trovare punti di sintesi e forme di cooperazione, solidarietà. Da qui si può partire per ridare senso a una storia e alimentare la speranza per tante donne e uomini che oggi, pur nell’era dei navigatori satellitari, si sentono disorientati e “senza bussola”.
Solo insieme, si può.

Calenda, torna il fronte popolare

Dunque, l’alto borghese Calenda ha riproposto un progetto che periodicamente si affaccia nella politica italiana dal secondo dopoguerra. Ovvero, Il cosiddetto “fronte popolare”. Cambiano le fasi storiche, cambiano gli attori politici, cioè i partiti, cambiano – come ovvio – le classi dirigenti ma le proposte sono sempre quelle. Adesso, per tornare all’oggi, l’ex braccio destro di Montezemolo ha lanciato un appello. In sintesi, per difendere i ceti popolari, gli ultimi, i ceti disagiati, l’Occidente, l’Europa e forse anche le radici cristiane, parte la proposta di un listone per le ormai prossime elezioni europee. Proposta legittima, come ovvio, ma che richiede qualche precisazione.

Mi limito a farne tre.

Innanzitutto i fronti popolari in Italia non hanno mai avuto una grande fortuna. E questo per un motivo molto semplice. Nascono e decollano sempre “contro” qualcuno e quasi mai “per” qualche progetto specifico. Non a caso il fronte, o l’ammucchiata o il cartello elettorale, non possono essere portatori di un disegno politico proprio perché si deve assommare tutto e il contrario di tutto pur di battere i “barbari” di turno. Ci vuol poco a capire che proposte di questo genere sono perfettamente funzionali a chi si vuol distruggere. Nel caso specifico, la Lega di Salvini che cresce esponenzialmente in tutti i sondaggi e gli indici di gradimento personale.

In secondo luogo e’ francamente curioso, molto curioso, che un partito come il Pd, in preda ad una crisi di identità politica e di consensi sempre più forti, il giorno dopo la celebrazione del suo congresso sia tutto sommato – stando alle dichiarazioni dei due candidati alla segreteria più accreditati – d’accordo a dar vita ad un listone. Cioè, di fatto, a cancellare il logo e il simbolo del partito dalla scheda elettorale per le elezioni europee. Un fatto curioso e singolare perché il tutto avverrebbe a poche settimane dalla celebrazione del congresso per rilanciare il progetto e il ruolo del Pd dopo il disastro – da quasi tutti condiviso – della gestione renziana. Valli a capire…

In ultimo, e’ del tutto evidente che le ammucchiate elettorali sono destinate ad offuscare il progetto politico e la prospettiva politica di quel listone se non quello di esaltare lo scontro violento e senza esclusione di colpi contro il “nemico da abbattere”. Che, nello specifico e’ sempre e solo la Lega. Forse sarebbe opportuno, per contrastare seriamente il sovranismo e la deriva nazionalista, mettere in campo le culture politiche, i partiti, le varie sensibilità democratiche funzionali a creare un arco di forze, e quindi una coalizione, capace di essere realmente alternativa a chi si vuol democraticamente combattere.

Il progetto dell’ex braccio destro di Montezemolo forse sarebbe opportuno lasciarlo ancora un po’ nel assetto. Semprechè il Pd non pensi di chiudere anticipatamente la sua esperienza politica, elettorale e anche di governo.

Liberi o Forti: storia o attualità?

Articolo già apparso sulle pagine di Servire l’Italia

Nel 1919, quando fu fondato il Partito Popolare Italiano, erano trascorsi 28 anni dalla
promulgazione dell’Enciclica “Rerum novarum”. E si può dire che era stata già dimenticata.
Ma la “Rerum novarum” non fu mai dimenticata da don Sturzo, che – avendone capito la
grande validità – si dimostrò come il più efficace promotore della stessa. E quando riceveva
complimenti per l’ottimo lavoro che stava svolgendo nel passare dalle parole ai fatti, don Sturzo era solito rispondere:
“Non è farina del mio sacco, devo tutto al Vangelo e alla Rerum novarum”.
È probabile che se Leone XIII non avesse promulgato quell’Enciclica, don Sturzo avrebbe
seguito la sua prima vocazione: diventare un buon professore di filosofia o di teologia. Fu invece proprio la lettura della “Rerum novarum” a fargli cambiare idea. In tal modo acquisì le basi culturali necessarie per contribuire a migliorare le condizioni di vita di gran parte dellapopolazione di Caltagirone che da secoli viveva poco e di poco.

Si sa che povertà e ingiustizia sociale produssero la teoria rivoluzionaria di Marx. Ma Leone
XIII giudicò la soluzione marxista come una “medicina” peggiore del male che voleva curare.
La vera cura doveva invece essere fornita dal Cristianesimo, portatore di valori e di principi
dotati di “ricchezza di forza meravigliosa”, come orgogliosamente veniva affermato nella
“Rerum novarum”.
Purtroppo quella “forza” non era mai stata sfruttata nel passato, tanto che persino la Chiesa si era ormai arresa da secoli al dato di fatto che chi nasceva ricco moriva ricco e chi nasceva povero moriva povero. Peccato che i ricchi erano pochi e i poveri tanti…. Di qui la soluzione rivoluzionaria di Marx e la successiva soluzione altrettanto rivoluzionaria di Leone XIII per quel tempo, perché proponeva una cura da molti ritenuta utopistica, ossia che la questione sociale si poteva risolvere con efficacia e giustizia non con il duro conflitto tra imprenditori e lavoratori, come voleva Marx, ma con la stretta alleanza tra imprenditori e lavoratori.

Don Sturzo, tuttavia, non giudicò utopistica questa soluzione e iniziò subito a darsi da fare per dimostrare che il Cristianesimo era davvero dotato di una “forza meravigliosa”, non solo per migliorare la nostra vita spirituale. Utilizzò quindi la “medicina” della “Rerum novarum” nel “darsi da fare” e realizzò iniziative innovative nella sua Caltagirone, iniziative che lo portarono dapprima all’attenzione ammirata dei suoi concittadini, poi dei siciliani e infine di tutta l’Italia, sino a farsi sentire in Europa dagli anni Venti in poi. Sin dal 1896, ad appena 25 anni, egli iniziò a promuovere cooperative di lavoro, cooperative di produzione e anche cooperative di vendita di beni di consumo per rendere più accessibili tali beni ai meno abbienti. Nel 1897 fondò la Cassa Rurale San Giacomo per combattere il “cancro”
dell’usura. E negli anni successivi si adoperò persino a risolvere dispute di lavoro tra i
proprietari terrieri e i braccianti. Il 1° novembre 1903, all’indomani di un lungo sciopero deciso dai 3.000 contadini di Caltagirone, si poteva leggere sul giornale “La Domenica dell’Operaio” il seguente resoconto: “Nessuna meraviglia ci recò la notte scorsa la notizia che sono stati concordati e stipulati i nuovi patti agrari nei locali della Cassa Rurale San Giacomo. È stata l’opera fatta dal sacerdote Luigi Sturzo, senza rumori, senza discorsi, in lunghe riunioni notturne, ora con gli agricoltori, ora con i proprietari, soli o riuniti insieme, studiando le condizioni economiche, le difficoltà tecniche e i possibili miglioramenti colturali. E in cima al verbale dei patti agrari sta il Nome Santo del Signore e il nome del Suo ministro come paciere difensore dei diritti di entrambe le classi.

Si è voluto così mostrare come non è l’odio di classe predicato dai socialisti, ma l’amore e la concordia quello che può condurre verso i desiderati frutti di bene. La democrazia cristiana si è realizzata grazie alla costanza e al trionfo di un prete”.
Nella “Rerum novarum “era appunto scritto che “la concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto fra capitale e lavoro non può che dare confusione e barbarie. Ora a pacificare il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il Cristianesimo ha ricchezza di forza meravigliosa”.

Nel constatare come quella “medicina” funzionasse bene, don Sturzo provava una certa
delusione nel vedere come altri non seguissero il suo esempio. E nel 1901, a 10 anni dalla
promulgazione dell’Enciclica di Leone XIII, denunciò il fatto che “ancora oggi, per somma
vergogna, molti cattolici non conoscono quel prezioso documento”. Questa constatazione,
purtroppo, dovremmo farla anche noi oggi, ma con una vergogna maggiore, perché molti
cattolici impegnati in politica e nel mondo dell’economia conoscono la dottrina sociale della
Chiesa, ma non sono stati ancora capaci di utilizzarla a vantaggio del bene comune.
Il 15 maggio 1902, nel commemorare l’11° anniversario della “Rerum novarum”, don Sturzo diede una profonda chiave di lettura dei mali che da sempre affliggevano (e tuttora affliggono) il mondo: “Non è meraviglia se la società oggi non si adagia in nessuno dei partiti che dispiegano la bandiera della giustizia sociale. La giustizia nella sua essenza manca. Manca, perché manca l’amore verso il prossimo; e questo amore non vi è, non vi può essere, perché manca l’amore verso Dio; e l’amore verso Dio non vi è, né vi può essere, perché della religione se n’è voluto fare un rapporto soltanto privato e di coscienza, e non sociale; la religione è stata esclusa dalla società. La religione è un principio sintetico, che abbraccia tutti gli elementi della vita terrena per vivificarli del soffio della moralità, per ordinarli a un fine superiore, per elevarli con il carattere della soprannaturalità”.

In piena coerenza con questo suo convincimento, divenuto ancora più profondo con il passare del tempo, don Sturzo scriverà in esilio un libro dal titolo “La vera vita, sociologia del soprannaturale”, un libro dominato dal “soffio della moralità”, cioè da quel “soffio” di cui si è spesso sentita la mancanza ai piani alti del mondo politico ed economico.
Tutti i popoli, chi più chi meno, tuttora soffrono per un “deficit” di giustizia sociale, perché la ragione morale continua a essere calpestata dalla ragione politica e dalla ragione economica. Don Sturzo diceva che se la politica e l’economia violano la morale non hanno alcun diritto di chiamarsi ragione politica e ragione economica, perché sono prive di ragione, ossia prive di razionalità. Per il grande sacerdote di Caltagirone la moralità si rispecchia nella razionalità dell’agire umano, ossia nell’azione che ubbidisce alla retta ragione. Ne consegue che una persona morale è razionale, mentre una persona immorale è irrazionale, perché non segue la retta ragione.

Giudice naturale di tale rettitudine è sempre la nostra coscienza, che è il nostro giudice naturale, perché risponde a una legge naturale.
La lunga storia del mondo ci dimostra chiaramente che un regime politico e un
Ma il suo progetto fallì nel tentativo di respingere la violenza “rossa” e la violenza “nera” con una proposta di politica economica che favorisse la stretta alleanza tra gli imprenditori e i lavoratori per evitare il secolare conflitto tra capitale e lavoro, conflitto che “non può che dare confusione e barbarie”, come giustamente affermò Leone XIII. La responsabilità di tale
fallimento fu dei grandi capitalisti di quell’epoca che finanziarono l’ascesa di Mussolini pur di
respingere “l’onda rossa”, che si proponeva di abolire la proprietà privata. Ma se il mondo
politico e il mondo economico avessero accolto le innovative proposte di don Sturzo, il fascismo non sarebbe mai nato in Italia. E se il nostro Paese si fosse avviato sulla strada suggerita dal popolarismo sturziano, la follia di Hitler non avrebbe trovato in Italia un esempio altrettanto folle da seguire.

Una seconda rinascita della dottrina sociale della Chiesa sarebbe potuta avvenire dopo la
seconda guerra mondiale, nel ricordo dell’Enciclica “Quadragesimo anno”, che a sua volta
ricordava – dopo ben 40 anni! – la validità e la lungimiranza della “Rerum novarum”. Ma anche l’insegnamento delle numerose Encicliche sociali successive è poi finito per essere una “vox clamans in deserto”.
In un articolo scritto nel 1946, dal titolo “Moralizziamo la vita pubblica”, don Sturzo diceva:
“Quanto più è accentrato il potere e quanto più larghi sono gli afflussi del denaro
nell’amministrazione pubblica, tanto più grandi sono le tentazioni”.
Da qui la sua avversione per lo Stato imprenditore, per lo Stato banchiere e per lo Stato
factotum. Quanto più l’economia è gestita dallo Stato, egli diceva, tanto più la politica corrompe e si corrompe. Lo Stato deve essere soprattutto arbitro e non anche giocatore. Se ricopre entrambi i ruoli, finisce per arbitrare male e per giocare male. Don Sturzo era convinto che il buon governo dovesse essere fondato sulla buona cultura ed egli la trovò innanzitutto nei valori e nei principi del Vangelo e della dottrina sociale della Chiesa. Valori e principi fondati sulla centralità della persona, sull’etica della libertà responsabile, sull’elogio dell’iniziativa privata, sulla diffusione della proprietà privata, sulla funzione sociale dell’impresa e quindi sulla stretta alleanza tra capitale e lavoro. Ne consegue che egli sosteneva un capitalismo popolare di tipo partecipativo e riteneva molto dannoso sia il capitalismo di Stato, sia il capitalismo di tipo finanziario e speculativo, che purtroppo oggi sta prevalendo.

Allora si capisce perché don Sturzo sia stato sempre contrario allo Stato “tuttofare”. Ma fu
anche critico del comportamento dei grandi capitalisti, sempre contrari a un accordo
costruttivo con il mondo del lavoro. Negli anni Cinquanta un simile accordo avrebbe potuto
portare l’Italia verso l’economia sociale di mercato, come poi avvenne nella Germania di
Adenauer, un grande statista che ebbe il merito di non far cadere il suo Paese nella “confusione e barbarie” profetizzata da Leone XIII nella “Rerum novarum”. “Confusione e barbarie” di cui ha purtroppo sofferto l’Italia sia con il fascismo, sia con la Dc, che non indossò la “corazza” dell’insegnamento sociale della Chiesa per evitare il duro conflitto tra imprenditori e lavoratori, e i danni economici e morali previsti da don Sturzo, se fosse arrivato il centro-sinistra.

È significativa la seguente preoccupazione di don Sturzo nel commemorare il 60° anniversario della “Rerum novarum” in un articolo pubblicato su “Il Mattino” del 12 maggio 1951 “È strano che non sia stato compreso, né messo in luce, il diverso processo ideologico e pratico delle due posizioni della teoria di Marx e della Enciclica di Leone XIII, nelle varie fasi per le quali sono passate le rivendicazioni operaie sotto i regimi politici in questo ultimo sessantennio di interventismo statale. Purtroppo da parte dell’impresa libera non si è avuta una chiara concezione dell’apporto etico della scuola cattolico-sociale e dell’importanza dell’insegnamento papale, che spinge il capitalista a cercare la collaborazione di classe insieme all’integrazione delle esigenze dell’altra parte. Oggi si punta troppo sul gioco di forze antagoniste e sopra un intervento statale che tende a dare in mano alla burocrazia l’economia del Paese. Tutto ciò è contrario sia allo spirito cristiano che agli interessi nazionali, e rende più costosa e meno efficiente l’elevazione del lavoratore”.

L’errore della Dc è stato credere che le “convergenze parallele” di due culture opposte e quindi non coniugabili, la “socialcristiana” e la “socialcomunista”, potessero davvero convergere nell’interesse del bene comune. Errore poi non riparato nella seconda Repubblica, dove hanno continuato a governare – a fasi alterne – entrambi gli eredi della prima Repubblica che hanno continuato a non capire la validità della cultura sturziana dei “liberi e forti”.

Concludo rispondendo alla domanda posta dal titolo di questo Convegno: i “LIBERI E FORTI” sono STORIA O ATTUALITÀ? Certamente sono STORIA, una storia molto importante e purtroppo ancora poco conosciuta. Ma certamente non sono ATTUALITÀ, perché oggi
viviamo in pieno POPULISMO per non avere avuto la Dc il coraggio e l’intelligenza di attuare
il POPOLARISMO. Dovremmo allora domandarci se sia possibile parlare di ATTUABILITÀ
del prezioso patrimonio culturale dei “liberi e forti”. Ci stiamo lavorando da tempo con molti
amici autenticamente sturziani, ma con risultati sino ad oggi deludenti, che attribuiamo al forte “vento contrario” subìto dalle nostre idee sin dai lontani anni Sessanta.

Ma non ci siamo arresi, a differenza di altri, portatori di idee contrarie alle nostre e che si sono illusi che potessero funzionare. Altre illusioni si stanno creando con l’arrivo dei populisti e dei sovranisti. È molto probabile che finiranno come Icaro. È quindi urgente che il patrimonio culturale dei “liberi e forti” inizi a fare scuola per consentire all’Italia e all’Europa di esprimere l’enorme potenziale di sviluppo ottenibile da governi guidati con la giusta “bussola” in mano a politici seri e competenti. Molti parlano di riportare la persona al centro. Ma se al suo fianco non riportiamo anche la libera impresa, libera dai politici incompetenti, dalla burocrazia nemica anziché alleata, dal cancro della corruzione e della criminalità, la “persona” sarà sempre lontana dal “centro” e finirà per essere soffocata.
Non credo che l’Italia sia un Paese votato al suicidio, tutt’altro. Dobbiamo quindi avere fiducia che il popolarismo sturziano sia ATTUABILE. Non dobbiamo farci sfuggire l’opportunità del suo Centenario. 100 anni di errori e di orrori compiuti dai suoi avversari ci devono far capire che la salvezza dell’economia può venire solo dall’economia della salvezza, cioè dalle parole del Vangelo e dell’insegnamento sociale cristiano. A noi spettano i fatti, diceva don Sturzo.

Se fallisce il Pd…

Articolo gi apparso sulle pagine dell’ huffingtonpost

Aggirare l’ostacolo è sempre la soluzione più attraente, ma anche quella meno efficace. Se si pensa di risollevare il Pd dalla sua condizione di fragilità con trucchi elettoralistici, non si fa nessun passo avanti. Capisco Calenda e apprezzo il suo sforzo: dietro c’è il desiderio di inventare qualcosa di nuovo. Una lista unitaria, aggregante le forze antipopuliste e antisovraniste, di per sé non è infondata. Tuttavia, se l’approccio consiste nel nascondere i problemi e nel giocare tutto sulla formula da adottare alle europeee, annegando la dialettica interna al Pd in un mare magnum indistinto, il risultato non potrà che essere di gran lunga inferiore alle attese.

Noi dobbiamo chiarire cosa sia o cosa debba essere, dopo oltre dieci anni dalla fondazione,il “partito unico” dei riformisti. È ancora valido? Abbiamo sbagliato a strutturarlo nel modo che sappiamo, con troppi leaderismi e poca cultura condivisa? Oppure, più semplicemente e gravemente, ci siamo illusi che fosse plausibile un’operazione incentrata sulla convergenza delle tradizioni di pensiero democratico e riformatore, per recuperare il retaggio migliore del Novecento e andare oltre? Non parlare di noi impedisce il chiarimento sulla strategia da seguire: procediamo ad occhi bendati.

Noto per altro che anche nel Pd avanza la pretesa di assorbire il connotato specifico degli ex popolari in un progetto di rinascita della sinistra (senza se e senza ma). Non credo di far torto all’interessato se attribuisco a Zingaretti tale volontà. Per questo la sua candidatura mal si concilia con l’esigenza di valorizzare il retaggio del popolarismo. Con Zingaretti il Pd muterebbe il suo codice genetico, assumendo le fattezze del PDS e dei DS. Basterebbe confrontare gli argomenti e le motivazioni che erano alla base di quegli esperimenti politici con gli auspici presenti nel disegno di Zingaretti. Le assonanze superano le disarmonie e i contrasti.

Dov’è l’alternativa? Rendiamoci conto che se fallisce il rilancio del Pd si restringe la speranza di un’autentica ripresa democratica dell’Italia, fuori dall’inganno rappresentato oggi dal populismo di governo. In effetti l’alternativa spetta a Martina, dal quale attendiamo l’espansione di un discorso sul Pd da rifondare. Non può passare sotto silenzio la mobilitazione di questi giorni attorno al centenario dei liberi e forti. C’è in atto, da tempo, l’accumulazione di nuove energie che danno l’idea di un risveglio del cattolicesimo sociale e democratico. Occorre dunque costruire una formula ideale, prima che organizzativa, in grado di convincere gli italiani. Lo dobbiamo fare nella chiarezza, recuperando il valore di una politica seria e responsabile, capace di occupare il “centro” della vita democratica nazionale.

Proactiva Open Arms: “Con o senza la presenza delle Ong nel Mediterraneo i dati dimostrano che le persone continuano a partire”

Veronica Alfonsi, coordinatrice della sede italiana di Proactiva Open Arms, commenta all’Adnkronos l’intenzione del ministro dell’Interno Matteo Salvini di non cambiare linea sulla gestione dei flussi migratori, nonostante la nuova strage nel Mediterraneo dichiarando che: “Con o senza la presenza delle Ong nel Mediterraneo i dati dimostrano che le persone continuano a partire”.

“Non ci mettiamo nella condizione di doverci difendere dalle accuse, continuiamo semplicemente ad operare nel rispetto del diritto e delle convenzioni internazionali: Sar, Solas, Ginevra. I governi europei, compreso quello italiano, invece non lo stanno facendo e se ne dovranno assumere la responsabilità. Sarà la storia a giudicare”.

Dl Semplificazione, arriva l’etichetta d’origine Made in Italy

Arriva l’obbligo di indicare in etichetta l’origine di tutti gli alimenti per valorizzare la produzione nazionale e consentire scelte di acquisto consapevoli ai consumatori contro gli inganni dei prodotti stranieri spacciati per Made in Italy. “E’ una nostra grande vittoria“ afferma il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel ringraziare per il sostegno  e l’impegno il Ministro delle Politiche Agricole Gian Marco Centinaio, il Ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio ed  i relatori al decreto legge semplificazioni Daisy Pirovano e Mauro Coltorti. Un risultato che siamo certi – sostiene Prandini – troverà nell’iter parlamentare un sostegno bipartisan per una norma a costo zero a difesa dell’interesse nazionale e a tutela della salute dei cittadini, del territorio, dell’economia e dell’occupazione

La norma – sottolinea la Coldiretti – consente di adeguare ed estendere a tutti i prodotti alimentari l’etichettatura obbligatoria del luogo di provenienza geografica degli alimenti ponendo fine ad un lungo e faticoso contenzioso aperto con l’Unione europea oltre 15 anni fa. In particolare – precisa la Coldiretti – si individuano disposizioni nazionali autorizzate nell’ambito di una consultazione con la Commissione sulla base del Regolamento quadro sull’etichettatura n. 1169 del 2011, in ragione della protezione della salute pubblica e dei consumatori, della prevenzione delle frodi e della protezione dei diritti di proprietà industriale e di repressione della concorrenza sleale. Sono previste sanzioni in caso di mancato rispetto delle norme che vaanno da 2mila a 16mila euro, salvo che il fatto non costituisca reato di frode penalmente rilevante.

L’obiettivo – spiega la Coldiretti – è dare la possibilità di conoscere finalmente la provenienza della frutta impiegata in succhi, conserve o marmellate, dei legumi in scatola o della carne utilizzata per salami e prosciutti fin ad ora nascosta ai consumatori, ma anche difendere l’efficacia in sede europea dei decreti nazionali già adottati in via sperimentale in materia di etichettatura di origine di pasta, latte, riso e pomodoro

Una misura importante anche di fronte al ripetersi di scandali alimentari nell’Unione Europea dove si sono verificati nel 2018 quasi dieci allarmi sul cibo al giorno che mettono in pericolo la salute dei cittadini e alimentano psicosi nei consumi per le difficoltà di confinare rapidamente l’emergenza. Le maggiori preoccupazioni – precisa Coldiretti – sono proprio determinate dalla difficoltà di rintracciare rapidamente i prodotti a rischio per toglierli dal commercio con un calo di fiducia che provoca il taglio generalizzato dei consumi che spesso ha messo in difficoltà ingiustamente interi comparti economici, con la perdita di posti di lavoro. L’esperienza di questi anni dimostra l’importanza di una informazione corretta con l’obbligo di indicare in etichetta l’origine nazionale dei prodotti che va esteso a tutti gli alimenti. Secondo una ricerca di Beuc (l’organizzazione europea dei consumatori) il 70% dei cittadini europei (82% in Italia) vuole conoscere da dove viene il cibo sulle loro tavole, che diventa 90% nei casi di derivati del latte e della carne.

In un momento difficile per l’economia dobbiamo portare sul mercato il valore aggiunto della trasparenza con l’obbligo di indicare in etichetta l’origine di tutti gli alimenti in una situazione in cui ad oggi grazie al pressing esercitato dalla Coldiretti sono stati fatti molti passi in avanti nella trasparenza dell’informazione ai consumatori ma purtroppo ancora 1/4 della spesa degli italiani resta anonima.

L’obbligo di indicare l’origine è una battaglia storica della Coldiretti che, con la raccolta di milioni di firme, ha portato  l’Italia all’avanguardia in Europa. Per ultimo con l’obbligo di indicare in etichetta l’origine per pelati, polpe, concentrato e degli altri derivati del pomodoro grazie alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale 47 del 26 febbraio 2018, del decreto interministeriale per l’origine obbligatoria sui prodotti come conserve e salse, oltre al concentrato e ai sughi, che siano composti almeno per il 50% da derivati del pomodoro. Il 13 febbraio 2018 è entrato in vigore l’obbligo di indicare in etichetta l’origine del grano per la pasta e del riso, ma prima c’erano stati già diversi traguardi raggiunti: il 19 aprile 2017 è scattato l’obbligo di indicare il Paese di mungitura per latte e derivati dopo che il 7 giugno 2005 era entrato già in vigore per il latte fresco e il 17 ottobre 2005 l’obbligo di etichetta per il pollo Made in Italy mentre, a partire dal 1° gennaio 2008, vigeva l’obbligo di etichettatura di origine per la passata di pomodoro.

A livello comunitario – conclude la Coldiretti – il percorso di trasparenza è iniziato dalla carne bovina dopo l’emergenza mucca pazza nel 2002, mentre dal 2003 è d’obbligo indicare varietà, qualità e provenienza nell’ortofrutta fresca. Dal primo gennaio 2004 c’è il codice di identificazione per le uova e, a partire dal primo agosto 2004, l’obbligo di indicare in etichetta il Paese di origine in cui il miele è stato raccolto, mentre la Commissione Europea ha recentemente specificato che l’indicazione dell’origine è obbligatoria anche su funghi e tartufi spontanei.

 

L’ETICHETTA DI ORIGINE SULLA SPESA DEGLI ITALIANI
Cibi con l’indicazione origine                                           E quelli senza
Carne di pollo e derivati                                                    Salumi
Carne bovina                                                                      Carne di coniglio
Frutta e verdura fresche                                                   Carne trasformata
Uova                                                                                     Marmellate, succhi di frutta, ecc
Miele                                                                                     Fagioli, piselli in scatola, ecc.
Extravergine di oliva                                                          Pane
Pesce Derivati del pomodoro e sughi pronti (*)            Insalate in busta (IV° gamma), sottoli
Latte/Formaggi (*)                                                              Frutta e verdura essiccata
Pasta (*)
Riso (*)
Tartufi e Funghi spontanei
(*) grazie a norme nazionali
  Fonte: Elaborazioni Coldiretti

lo short track fa base a Courmayeur

La Nazionale italiana di short track guidata dagli allenatori Anthony Barthell e Assen Pandov si ritrova oggi al centro tecnico federale di Courmayeur per dieci giorni di raduno in vista dei prossimi appuntamenti internazionali: a febbraio sono infatti in programma le ultime due tappe stagionali di Coppa del Mondo. Si parte fra due settimane da Dresda, in Germania, per poi spostarsi al Palavela di Torino da venerdì 8 a domenica 10. Esattamente un mese più tardi in programma gli importantissimi Mondiali di Sofia, in Bulgaria. La grande novità di questo raduno è segnata dal ritorno di Arianna Fontana, la campionessa olimpica che rientra in gruppo dopo l’assenza della prima parte di stagione. Per lei cinque giorni di lavoro con la squadra anche se non prenderà poi parte alla Coppa del Mondo.

Diciotto dunque gli atleti convocati per il raduno azzurro: Mattia Antonioli (Esercito), Arianna Fontana (Fiamme Gialle), Nicole Botter Gomez (C.P. Pinè), Andrea Cassinelli (Velocisti Ghiaccio Torino), Yuri Confortola (C.S. Carabinieri), Tommaso Dotti (Fiamme Oro Moena), Davide Viscardi (Esercito), Marco Giordano (C.S. Esercito), Milan Grugni (Milan Evolution Skating), Cecilia Maffei (Fiamme Azzurre), Lorenzo Morrone (Velocisti Ghiaccio Torino), Cynthia Mascitto (Skating Club Courmayeur), Arianna Sighel (Sporting Club Pergine), Arianna Valcepina (Fiamme Gialle), Martina Valcepina (Fiamme Gialle), Elena Viviani (Fiamme Gialle), Lucia Peretti (Esercito) e Augusto Duzioni (Milan Evolution Skating).

Aborti in calo: scendono sotto quota 81mila.

Interruzioni volontarie di gravidanza sempre di più in discesa libera. Nel 2017 sono stati registrarti 80.733 aborti che, non solo confermano il trend in diminuzione del fenomeno, ma con un ulteriore spinta in più: le IVG diminuiscono in misura leggermente maggiore rispetto al 2016 (-4.9% rispetto al dato del 2016 e ben -65.6% rispetto al 1982, anno in cui si è osservato il più alto numero di IVG in Italia (234.801 aborti). Liguria, Umbria, Abruzzo e PA di Bolzano sono le Regioni dove le IVG hanno mostrato un rallentamento importante. Al contrario la PA di Trento è l’unica con un lieve aumento di interventi.

Si conferma l’influsso positivo della contraccezione di emergenza: l’andamento di questi ultimi anni, potrebbe essere almeno in parte collegato alla determina Aifa che ha cancellato l’obbligo di ricetta di ellaOne per le donne maggiorenni. Una ricaduta positiva anche sugli aborti clandestini che sarebbero in calo anche grazie all’arma delle pillole del giorno dopo acquistabili dalle donne maggiorenni senza prescrizione

Luigi e Mario Sturzo: il progetto cristiano di democrazia

Articolo già apparso su Servire l’Italia

L’ennesimo anniversario (il 100°!) della fondazione del PPI e di uno degli Appelli politici più importanti nella storia dell’Italia mi porta a due riflessioni iniziali, una negativa e una positiva.

La riflessione negativa mi dice che, nonostante tante celebrazioni in lode di questi due eventi storici, dalle parole non si è mai passati ai fatti, come se quel ricordo fosse utile solo per una formale e dovuta commemorazione, e non di stimolo a realizzare gli ideali di giustizia sociale e di libertà responsabile che il popolarismo sturziano proponeva.

Ma la riflessione positiva mi dice che il prezioso e sempre attuale patrimonio culturale del popolarismo non è affatto ibernato nel chiuso delle biblioteche. Sono idee che palpitano ancora di vita, circolano e fanno discutere, forse più di ieri, proprio perché quegli ideali di giustizia sociale e di libertà responsabile non si sono ancora pienamente realizzati nel nostro Paese. L’interesse per il pensiero e per la testimonianza di vita di don Sturzo è quindi ancora vivo. Ciò lo si deve al fatto che si tratta di un patrimonio culturale ricco di valori e di principi non dipendenti da ideologie o da mode passeggere, perché si tratta di valori e di principi derivanti in gran parte dal Vangelo e dalla dottrina sociale della Chiesa. Purtroppo molti politici li hanno ritenuti (e tuttora li ritengono) valori e principi difficili da seguire, tanto da giudicarle verità… utopiste. Ma don Sturzo non credeva affatto che Gesù e Leone XIII fossero due utopisti. Anzi per lui la vera utopia era credere che la giustizia sociale e la libertà responsabile si possano ottenere ignorando le verità evangeliche e i consigli della dottrina sociale della Chiesa. È davvero incredibile che questa semplice verità non sia stata ancora recepita dal mondo della politica, dopo tanti fatti storici che l’hanno convalidata.

Certamente nel 1891 il ventenne seminarista Luigi Sturzo non ritenne che fosse una utopia la seguente affermazione di Leone XIII scritta nella “Rerum novarum” e posta come “pietra d’angolo” della prima Enciclica sociale:

“IL CRISTIANESIMO HA RICCHEZZA DI FORZA MERAVIGLIOSA”

Con ciò Leone XIII voleva soprattutto dire che il Cristianesimo aveva una forza capace di abbattere l’impianto teorico della rivoluzione marxista, che in realtà rappresentava una “medicina” peggiore del male che voleva curare: la povertà e le pessime condizioni di lavoro degli operai. La vera giustizia sociale si poteva realizzare solo con la “rivoluzione” cristiana dell’Amore e con la stretta alleanza tra lavoro e capitale, anziché con l’abolizione della proprietà privata come voleva Marx per metterla tutta nelle mani capienti (ma poco efficienti) dello Stato.

E per ben 15 anni, dal 1905 al 1920, don Sturzo – come pro-sindaco di Caltagirone – dimostrò con i fatti che Gesù e Leone XIII non erano affatto due utopisti e che quella “ricchezza di forza meravigliosa” funzionava molto bene al servizio del bene comune. Con molta umiltà e con l’intelligenza di un “missionario” prestato alla politica, quando riceveva complimenti per il suo ottimo lavoro di amministratore pubblico, il pro-sindaco Sturzo era solito dire: “Non è farina del mio sacco, devo tutto al Vangelo e alla Rerum novarum”.

Il 20 gennaio 1901, a circa 10 anni dalla promulgazione dell’Enciclica leoniana, il giovane Sturzo – non ancora trentenne – scriveva che “ancora oggi, per somma vergogna, molti cattolici non conoscono quel prezioso documento”, da lui definito la ‘Magna Charta’ dei democratici cristiani. E il 15 maggio 1902, nel commemorare l’11° anniversario della famosa Enciclica, egli diede una profonda chiave di lettura dei mali che da sempre affliggevano (e tuttora affliggono) il mondo:

“Non è meraviglia se la società oggi non si adagia in nessuno dei partiti che dispiegano la bandiera della giustizia sociale; la giustizia, nella sua essenza, manca. Manca, perché manca l’amore verso il prossimo; e questo amore non vi è, non vi può essere, perché manca l’amore verso Dio; e l’amore verso Dio non vi è, né vi può essere, perché della religione se n’è voluto fare un rapporto soltanto privato e di coscienza, e non sociale; la religione è stata esclusa dalla società. La religione è un principio sintetico, che abbraccia tutti gli elementi della vita terrena per vivificarli del soffio della moralità, per ordinarli a un fine superiore, per elevarli con il carattere della supernaturalità”. E più avanti, nel suo discorso di commemorazione della “Rerum novarum”, don Sturzo ci faceva capire quanto fosse importante sfruttare quella “ricchezza di forza meravigliosa” per passare dalla profonda conoscenza del pensiero cristiano all’azione concreta capace di dare buoni frutti: “La parola della Chiesa non deve rimanere infruttuosa; essa non è solo principio di conoscenza, è principio di azione; essa deve animare le nostre aspirazioni e le nostre lotte, essa ci deve guidare e sorreggere, perché divina è la sua virtù. E spetta a noi attuare quegli insegnamenti nel vorticoso succedersi dei tempi e nel contrasto violento dell’attività umana. Noi cristiani e uomini del nostro tempo, chiamati per dovere di coscienza a scendere nel campo delle lotte pubbliche di pensiero e di azione, dobbiamo portarvi quell’elemento positivo che la Chiesa ci dà, che la ragione illuminata dalla fede ci suggerisce, che l’amore naturale, vivificato dal divino, ci impone; affinché nel cozzo dei fatti umani, che dipendono dalle nostre libere forze e dal nostro costante lavoro, possano la verità e il bene concretizzarsi nella società e prevalere nello svolgimento della storia”.

Erano parole forti, che troviamo fedelmente trasferite alla fine del famoso “Appello a tutti gli uomini liberi e forti” del 18 gennaio 1919: “Ci presentiamo nella vita politica con la nostra bandiera morale e sociale, ispirandoci ai saldi principi del cristianesimo, che consacrò la grande missione civilizzatrice dell’Italia, missione che anche oggi, nel nuovo assetto dei popoli, deve rifulgere di fronte ai tentativi di nuovi imperialismi, di fronte a sconvolgimenti anarchici di grandi imperi caduti, di fronte a democrazie socialiste che tentano la materializzazione di ogni idealità, di fronte a vecchi liberalismi settari, che nella forza dell’organismo statale centralizzato resistono alle nuove correnti affrancatrici”. La profonda fede e un grande coraggio portarono don Sturzo a combattere una difficile battaglia “civilizzatrice e affrancatrice” della società italiana contro l’egoismo di forze potenti, le vecchie forze (i liberali) e le nuove forze (i marxisti). Questo egoismo era ereditato da lunghi secoli di dominio dei pochi ma potenti benestanti sulla massa del popolo, che non aveva mai avuto alcuna voce in capitolo.

Al centro della società, con la loro corte e clientela, vi erano sempre stati i re, i principi, i baroni, i granduchi, i duchi, i conti, i marchesi e, talvolta, gli stessi pontefici. Questa realtà era “certificata” dalla cartina geografica dell’Italia segnata dai nomi indicativi dei sistemi intitolati ai potenti di turno: regno, principato, baronato, granducato, ducato, contea, marchesato, stato pontificio. In un simile contesto storico la voce del Cristianesimo – promotore di amore, rispetto e dignità per tutti gli esseri umani – non poteva essere in sintonia con la voce dei potenti, il cui principale interesse era di guadagnare più terra e più potere al duro costo di guerre continue. Per millenni la principale fonte di energia per coltivare la terra e per conquistarla era fornita dai deboli muscoli delle braccia dei tanti sudditi, per lo più “condannati” a essere soldati o contadini; questi erano appunto chiamati “braccianti”. Le loro braccia erano il vero “tesoro” a disposizione dei potenti, ma per il popolo erano braccia poco produttive, data la naturale debolezza dei muscoli umani. La povertà diffusa era causata dalla scarsa produttività di quei muscoli e i contadini venivano quindi pagati poco.

È molto significativo il diverso interesse dei potenti nei confronti dell’aratro e della pietra, ovvero il diverso interesse dimostrato per la “produttività” dei contadini e dei soldati. Per millenni sull’aratro non fu fatto alcun investimento; bastava sfruttare a basso costo i muscoli degli uomini e degli animali. Poi grazie all’invenzione del motore arrivò il trattore e l’aratro fu finalmente rottamato, ma solo dopo diversi millenni di completo disinteresse per alleggerire il duro lavoro dei contadini.

Invece sulla pietra i potenti hanno subito iniziato a investire molto: l’arma primordiale e meno costosa, la pietra, è stata via via sostituita con armi sempre più efficienti e costose, sino ad arrivare alla bomba atomica. È altrettanto significativo quanto è avvenuto dopo l’invenzione del volo umano, sognato e ritenuto possibile da Leonardo: per i primi decenni gli aerei furono guidati solo dai piloti militari. Ai piloti civili si pensò più tardi. perché questa straordinaria invenzione doveva innanzitutto servire a sterminare con maggiore efficienza i nemici. Ai potenti la “produttività” della guerra stava molto più a cuore dell’uso commerciale e pacifico degli aerei.

Morale: aveva ragione Gesù quando nell’ultima Cena, con una certa amara ironia, avvertì gli Apostoli di non seguire l’esempio dei “benefattori”: “I re delle nazioni le governano e si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così: chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa sia come colui che serve” (Lc XXII, 25).

In effetti la lunga storia dell’umanità ci dice che i “piani alti” del mondo politico ed economico sono stati spesso occupati da persone incapaci di testimoniare la grande validità e funzionalità delle verità evangeliche. Di conseguenza la missione civilizzatrice del Cristianesimo ha fatto fatica a farsi strada. Persino tra gli uomini di Chiesa vi era un tempo la convinzione o la rassegnazione che “così va il mondo, chi nasce ricco muore ricco e chi nasce povero muore povero, non c’è nulla da fare”. Peccato che i ricchi erano pochi, mentre i poveri erano tanti…

Ci fu pertanto una completa resa, anche della Chiesa, di fronte al duro sfruttamento da parte dei pochi “soggetti” sui molti “oggetti” della cosiddetta società civile, una società che in realtà era molto incivile e che purtroppo ancora lo è in diverse parti del mondo. Dopo aver letto la “Rerum novarum”, don Sturzo si ribellò contro questa resa e iniziò a dare il suo contributo per cristianizzare la politica e l’economia, dapprima a livello locale e poi a livello nazionale. La lunga esperienza di pro-sindaco di Caltagirone gli fece capire l’importanza dell’autonomia gestionale dei comuni, i danni prodotti dal potere accentratore ed eccessivo dello Stato, nonché l’esigenza di assicurare sempre il primato della morale nell’attività politica ed economica. Egli era solito dire che se la politica o l’economia calpestano la morale non hanno alcun diritto di chiamarsi “ragione politica” o “ragione economica”, perché in tal caso sono ragioni prive di ragione, ossia prive di razionalità e moralità. La storia ha sempre dimostrato che un regime politico e un sistema economico, che non considerino come valore fondamentale l’integrità morale dei suoi protagonisti, prima o poi sono destinati a crollare. I mali della società si possono correggere solo se è la ragione morale a guidare la ragione politica e la ragione economica; entrambe devono servire l’uomo e non servirsi dell’uomo. “Il denaro deve servire non governare” dice giustamente Papa Francesco. Quindi per don Sturzo cristianizzare la società voleva dire civilizzarla. Il suo famoso Appello del 18 gennaio 1919 era rivolto a tutti gli uomini liberi e forti, perché spettava a loro il compito di rendere libero e forte un popolo da sempre oppresso e sfruttato dai “piani alti” della politica e dell’economia. Il nome di “popolarismo” derivava da questa esigenza di giustizia e di civiltà che un partito aconfessionale, ma di ispirazione cristiana, aveva il compito di realizzare. Gli interessi del popolo dovevano essere portati al centro della società al posto degli interessi della ristretta corte dei re, degli imperatori, delle aristocrazie o, peggio, dei dittatori. Solo in un corretto sistema democratico si potevano realizzare gli ideali di giustizia sociale e di libertà responsabile che il popolarismo perseguiva.

Ma sappiamo che il suo generoso tentativo fu presto fermato dai poteri forti dell’industria e dell’agricoltura che favorirono l’avvento del fascismo per essere protetti dalla minaccia dei “rossi”. E dopo l’esilio fisico di ben 22 anni, don Sturzo dovette poi subire l’amarezza di venire esiliato anche culturalmente dagli “amici” democristiani, che criticavano la sua battaglia contro l’apertura a sinistra condotta al Senato e sulla stampa. Egli era convinto che, se il compromesso storico fosse stato concluso, sarebbe poi stato difficile realizzare un programma di governo ispirato da “quella ricchezza di forza meravigliosa” e nel pieno rispetto della moralità pubblica. Purtroppo ha avuto ragione. Ma non si può dire che la sua battaglia sia stata persa. Hanno certamente perso i suoi avversari degli anni ’20 e i suoi “amici” degli anni ’50. Il popolarismo è ancora attuale ed è da molti giudicato come il più valido antidoto al populismo. Inoltre riveste sempre una grande importanza la preziosa funzione pedagogica della buona politica, così come era concepita dal grande sacerdote e statista di Caltagirone. Egli credeva in una specie di processo di causa- effetto: la politica è utile se è buona ed è tale se è sostenuta dalla buona cultura. Questa si acquisisce attraverso lo studio del vero e del bene, studio a cui il Cristianesimo ha dato un decisivo contributo (purtroppo molti politici cristiani non lo hanno mai capito). La buona cultura è importante, perché esiste ed è spesso dominante la cattiva cultura, che si potrebbe definire – per chi è in buona fede – come lo studio di ciò che si ritiene vero, ma è invece falso o come lo studio di ciò che si reputa un bene, ma è invece un male.

Poiché gli esseri umani hanno ricevuto da Dio il grande dono della libertà e del connesso libero arbitrio, sono liberi di seguire il bene e di seguire il male, di fare cose giuste e di commettere errori. Come dire che la libertà può essere usata bene, cioè in modo responsabile, razionale, morale. E può essere usata male, cioè in modo irresponsabile, irrazionale e immorale. Quasi sempre il male e gli errori vengono fatti per mancanza di buona cultura o per abbondanza di cattiva cultura.

Ne consegue che per don Sturzo una delle più importanti forme di istruzione era l’educazione al buon uso della libertà, compito da svolgere ovunque: nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e persino nello svago. Ebbene per lui l’uso responsabile della libertà dipendeva in gran parte dal prevalere della buona cultura sulla cattiva cultura. Tutta la sua vita è stata un insegnamento e una testimonianza di buona cultura, perché alla base egli possedeva il tesoro di “quella ricchezza di forza meravigliosa”. L’augurio è che nell’anno del Centenario ciò venga capito e finalmente recepito dalla politica italiana.

Il Programma del 1919, un programma per l’oggi

Articolo già apparso su Rinascita Popolare

Insieme all’Appello “ai liberi e forti” il 18 gennaio 1919 venne divulgato il Programma del Partito popolare italiano. Lo pubblichiamo come utile strumento di conoscenza e analisi storica. Ne possiamo apprezzare l’incisività e la concretezza.

Anche qui abbiniamo al documento storico un programma calato nella realtà odierna, scritto dai nostri Carlo Baviera, Giuseppe Davicino e Alessandro Risso.

Certo, i contesti storico, sociale ed economico sono radicalmente diversi e difatti molte proposte di allora hanno perso di significato. Ma gli autori, che si muovonoi nel solco della stessa tradizione culturale cattolico democratica, hanno cercato di mantenere la stessa sensibilità e lo stesso stile,  privilegiando la sintesi, con lo stesso numero di punti, dodici. Ma soprattutto sono stati conservati e attualizzati, i temi affini nei due documenti, Sarà interessante confrontarli, convinti che i valori del Popolarismo possono ancora essere molto utili a orientare le scelte del presente.

 

Il programma del 1919

I – Integrità della famiglia. Difesa di essa contro tutte le forme di dissoluzione e di corrompimento. Tutela della moralità pubblica, assistenza e protezione dell’infanzia, ricerca della paternità.

II – Libertà di insegnamento in ogni grado. Riforma e cultura popolare, diffusione dell’istruzione professionale.

III – Riconoscimento giuridico e libertà dell’organizzazione di classe nell’unità sindacale, rappresentanza di classe senza esclusione di parte negli organi pubblici del lavoro presso il comune, la provincia e lo Stato.

IV – Legislazione sociale nazionale ed internazionale che garantisca il pieno diritto al lavoro e ne regoli la durata, la mercede e l’igiene. Sviluppo del probivirato e dell’arbitrato per i conflitti anche collettivi del lavoro industriale e agricolo. Sviluppo della cooperazione. Assicurazioni per la malattia, per la vecchiaia e invalidità e per la disoccupazione. Incremento e difesa della piccola proprietà rurale e costituzionale del bene di famiglia.

V – Organizzazione di tutte le capacità produttive della nazione con l’utilizzazione delle forze idroelettriche e minerarie, con l’industrializzazione dei servizi generali e locali. Sviluppo dell’agricoltura, colonizzazione interna del latifondo a coltura estensiva. Regolamento dei corsi d’acqua. Bonifica e sistemazione dei bacini montani. Viabilità agraria. Incremento della marina mercantile. Risoluzione nazionale del problema del mezzogiorno e di quello delle terre riconquistate e delle province redente.

VI – Libertà ed autonomia degli enti pubblici locali. Riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione, in relazione alle tradizioni della nazione e alle necessità di sviluppo della vita locale. Riforma della burocrazia. Largo decentramento amministrativo ottenuto anche a mezzo della collaborazione degli organismi industriali, agricoli e commerciali del capitale e del lavoro.

VII – Riorganizzazione della beneficenza e dell’assistenza pubblica verso forme di previdenza sociale. Rispetto della libertà delle iniziative e delle istituzioni private e di beneficenza e di assistenza. Provvedimenti generali per intensificare la lotta contro la tubercolosi e la malaria. Sviluppo e miglioramento dell’assistenza alle famiglie colpite dalla guerra, orfani, vedove e mutilati.

VIII – Libertà ed indipendenza della Chiesa nella piena esplicazione del suo magistero spirituale. Libertà e sviluppo della coscienza cristiana, considerata come fondamento e presidio della vita della nazione, delle libertà popolari e delle ascendenti conquiste della civiltà nel mondo.

IX – Riforma tributaria generale e locale, sulla base dell’imposta progressiva globale con l’esenzione delle quote minime.

X – Riforma elettorale politica con il collegio plurinominale a larga base con rappresentanza proporzionale. Voto femminile. Senato elettivo con prevalente rappresentanza dei corpi della nazione (corpi accademici, comune, provincia, classi organizzate).

XI – Difesa nazionale. Tutela e messa in valore della emigrazione italiana. Sfere di influenza per lo sviluppo commerciale del paese. Politica coloniale in rapporto agli interessi della nazione e ispirata ad un programma di progressivo incivilimento.

XII – Società delle nazioni con i corollari derivanti da una organizzazione giuridica della vita internazionale: arbitrato, abolizione dei trattati segreti e della coscrizione obbligatoria, disarmo universale.

Un programma per l’oggi

I – Difesa e valorizzazione della Costituzione Italiana e dei valori irrinunciabili in essa enunciati; applicazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dei trattati internazionali per il disarmo e della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Sostegno per il rinnovamento dell’ONU, in un quadro di rafforzamento dei suoi poteri per la difesa della pace, della convivenza fra i popoli, dello sviluppo sociale, civile ed economico di ogni nazione.

II – Costituzione della Comunità Europea federale, con ampie autonomie per i territori regionali e le forme nazionali che la compongono; Governo federale eletto direttamente e Parlamento con poteri legislativi; Costituzione Europea fondata sul rispetto della dignità di ogni persona, delle comunità locali e delle articolazioni sociali, culturali e religiose. Tutela del diritto di emigrazione e immigrazione.

III – Riforme che pongano la famiglia, e non il singolo individuo, al centro delle politiche sociali ed economiche, in linea con le più avanzate esperienze europee; sostegno alla maternità; insegnamento libero e pubblico, rispettoso della libertà educativa delle famiglie; difesa della parità di genere e realizzazione concreta delle pari opportunità.

IV – Riconoscimento europeo della società civile e dei corpi intermedi; sviluppo dell’associazionismo, del Terzo Settore, della cooperazione economica, sociale, civile, del volontariato organizzato; aumento degli spazi di partecipazione e della democrazia deliberativa. Assistenza, previdenza sociale, sanità, scuola, università, formazione professionale, politiche attive per il lavoro, comunque gestite e organizzate, che siano garantite a tutti, all’interno della fiscalità generale. Investimenti rilevanti nell’istruzione e nella ricerca, unici strumenti per mantenere posizioni di rilievo nell’economia globalizzata.

V – Fronteggiare il riscaldamento del pianeta e l’inquinamento di falde, acqua, e aria; valorizzare e difendere l’ambiente, il paesaggio e tutti i beni comuni, nell’ambito di una politica energetica che abbandoni il “fossile” e passi alle “rinnovabili”, e che estenda a tutto il territorio italiano il recupero, il riciclo e il riutilizzo dei rifiuti.

VI – Piena attuazione del Titolo V della Costituzione sul sistema delle Autonomie locali, con riconoscimento delle funzioni proprie del Comune, della Provincia o Città Metropolitana e della Regione. Riforma della dirigenza pubblica e radicale semplificazione delle procedure burocratiche.

VII – Garantire a tutti opportunità di lavoro (imprenditoriale, intellettuale, manuale) attraverso la miglior organizzazione delle politiche attive per il lavoro e della formazione professionale. Equilibrare e semplificare, a livello europeo, legislazioni del lavoro, delle imposte, dei controlli; fissare una paga minima oraria inderogabile e redistribuire il lavoro sul maggior numero possibile di persone. Riconoscere le organizzazioni sindacali e di categoria per ogni forma di lavoro e per chi è momentaneamente in attesa di occupazione, con compartecipazione sindacale alla gestione sul modello tedesco.

VIII – Riforma della previdenza sociale all’insegna dell’eguaglianza tra persone e generazioni. Riconoscimento del valore pubblico dei lavori di cura svolti in ambito familiare, tramite interventi sulla legislazione del lavoro e sulle politiche fiscali e di bilancio.

IX – Riforma tributaria generale e locale, con trasferimento di tassazione dal lavoro alle rendite, mantenendo la progressività dell’imposta con l’esenzione delle quote minime. Responsabilità fiscale degli Enti locali a finanziamento degli ambiti di loro competenza. Trasferimento della competenza catastale ai Comuni. Perseguire l’armonizzazione delle norme fiscali europee. Lotta a evasione ed elusione fiscale, come elemento necessario di equità sociale e di minore esborso per i contribuenti onesti.

X – Riforma elettorale che garantisca al cittadino la libera scelta della lista e delle persone, con rappresentanza proporzionale per ribadire il valore del dialogo tra partiti, del confronto programmatico, della conciliazione di interessi per un governo orientato al bene comune. Attuazione dell’art. 49 della Costituzione sullo status giuridico dei partiti.

XI – Una giustizia che garantisca tempi brevi di giudizio, anche attraverso le applicazioni informatiche, e la certezza della pena, e che si preoccupi sempre del recupero del condannato; che semplifichi la legislazione esistente con uno sforzo per la realizzazione di testi unici, ed equipari le normative europee attuali.

XII – Servizio Civile, su base nazionale, come elemento di formazione civica e solidale, che deve essere perseguita da ogni grado di istruzione, collegato agli Enti di volontariato e protezione civile; un efficiente servizio di Polizia e tutela dell’ordine pubblico e un Esercito coordinati a livello europeo.

Roma: “Valorizzare la nostra diversità attraverso l’interculturalità”

Valorizzare la nostra diversità attraverso l’interculturalità”. Sarà questo il tema del primo corso di formazione formatrici dell’”Interculturalità nella vita religiosa”, che si svolgerà dal 21 gennaio al 1 febbraio di quest’anno presso il nuovo Centro di formazione della Uisg (Unione internazionale delle superiore generali) a Roma.

Al corso parteciperanno 180 religiose appartenenti a 46 Congregazioni diverse, provenienti da più di 50 Paesi del mondo: con una prevalenza di Africa e Asia (23% per ciascuno continente), a seguire Europa e America del Sud (21% e 20% rispettivamente); il 10% dall’America del Nord e il 3% dall’Oceania.

Questa iniziativa, spiega la segretaria dell’Uisg, sr. Patricia Murray, mira a formare quattro religiose per ogni Congregazione che “a loro volta potranno formare altre nella propria Congregazione, nel paese dove sono in missione ed essere al servizio della Chiesa. L’interculturalità è una sfida grande per la vita religiosa. Compito della Uisg – aggiunge la religiosa – è sostenere con la formazione le Congregazioni e attivare dei processi di formazione continua nelle diverse parti del mondo”.

Sos Fattoria Italia, addio a 1,7 milioni di animali

Addio alla vecchia fattoria in Italia dove sono scomparsi 1,7 milioni tra mucche, maiali, pecore e capre negli ultimi dieci anni. E’ la Coldiretti a lanciare l’allarme in occasione di Sant’Antonio Abate, il Patrono degli animali, in Piazza San Pietro a Roma dove per l’occasione sono arrivate mucche, asini, pecore, capre, galline e conigli delle razze più rare e curiose salvate dal rischio di estinzione. Una tradizione popolare – spiega Coldiretti – che il 17 gennaio vede in tutta Italia parrocchie di campagne e città prese d’assalto per la benedizione dalla variegata moltitudine di esemplari presenti sul territorio nazionale. Stalle, ricoveri e ovili si sono svuotati dal 2008 con la Fattoria Italia che ha perso – sottolinea la Coldiretti – solo tra gli animali più grandi, circa un milione di pecore, agnelli e capre, oltre a 600mila maiali e più di 100mila bovini e bufale.

Un addio che – precisa la Coldiretti – ha riguardato soprattutto la montagna e le aree interne più difficili dove mancano condizioni economiche e sociali minime per garantire la permanenza di pastori e allevatori. A rischio – denuncia la Coldiretti – anche la straordinaria biodiversità delle stalle italiane dove sono minacciate di estinzione ben 130 razze allevate tra le quali ben 38 di pecore, 24 di bovini, 22 di capre, 19 di equini, 10 di maiali, 10 di avicoli e 7 di asini.

Un patrimonio composto da veri e propri tesori della natura e della storia arrivati per l’occasione a San Pietro come l’Asino Amiatino, originario della provincia di Grosseto, in Toscana, dove è conosciuto con l’appellativo di “Miccio”; che per le sue caratteristiche è molto adatto ad essere utilizzato in zone impervie e marginali, o come la Chianina, la più “maestosa” tra le razze bovine italiane. Ma anche – spiega la Coldiretti – il cavallo maremmano dalla storia antichissima, presente nel litorale tirrenico della bassa Toscana già dal tempo degli Etruschi, tipico dei butteri, assieme al Pentro, cavallo della provincia di Isernia, in Molise, particolarmente resistente alle avversità climatiche e frugale, per questo adattato in un territorio che in inverno vede temperature molto basse e neve. Arrivata con le invasioni barbariche invece la Marchigiana diffusa in centro Italia, mentre tipico del Nord – continua Coldiretti – è il cavallo Haflinger altotesino dalla folta e setosa criniera di colore chiaro e dal carattere docile, adatto a essere utilizzato per terapie assistite con animali, ad esempio riabilitazione di persone con disabilità fisiche o psicomotorie. In piazza San Pietro – spiega Coldiretti –anche il maiale nero casertano “calvo”, detto anche di razza “pelatella” perché senza peli, che ha avuto la sua massima diffusione alla fine dell’800 per poi essere riscoperto in tempi recenti con allevamenti allo stato brado o semibrado. Oppure la pecora sopravissana, diffusa nel Centro Italia. E’ nota soprattutto per la lana di ottima qualità, oltre che per la sua versatilità. E non si possono dimenticare le galline come la Ancona con le sue tipiche penne a pois bianchi per mimetizzarsi meglio nell’ambiente sfuggendo a predatori e anche alla conta dei latifondisti che ne pretendevano una parte dai contadini.

Gli animali custoditi negli allevamenti italiani – sottolinea la Coldiretti – rappresentano un tesoro unico al mondo che va tutelato e protetto anche perché a rischio non c’è solo la biodiversità delle preziose razze italiane, ma anche il presidio di un territorio dove la manutenzione è garantita proprio dall’attività di allevamento, con il lavoro silenzioso di pulizia e di compattamento dei suoli svolto dagli animali. L’allevamento italiano – continua Coldiretti – è poi un importante comparto economico che vale 17,3 miliardi di euro e rappresenta il 35 per cento dell’intera agricoltura nazionale, con un impatto rilevante anche dal punto di vista occupazionale dove sono circa 800mila le persone al lavoro. “Per questo quando una stalla chiude si perde un intero sistema fatto di animali, di prati per il foraggio, di formaggi tipici e soprattutto di persone impegnate a combattere lo spopolamento e il degrado spesso da intere generazioni”, ricorda il presidente della Coldiretti Ettore Prandini.

Facebook rischia multa record per violazione privacy

Secondo il “Washington Post” Facebook rischia una vera e propria stangata da parte delle autorità di vigilanza statunitensi per violazione della legge sulla privacy che protegge i dati personali.

Potrebbe arrivare una multa record che supererebbe quella di 22,5 miliardi di dollari inflitta nel 2012 dalla Us Federal Trade Commission a Google.

Per il social media di Mark Zuckerberg sarebbe la prima sanzione dallo scandalo di Cambridge Analytica che coinvolse le informazioni riservate di circa 87 milioni di utenti.

 

Maturità 2019: la seconda prova multidisciplinare nelle diverse scuole

 

  • Liceo classico, materie seconda prova 2019: latino e greco
    Materie commissari esterni: lingua e cultura straniera e matematica e lingua letteratura italiana
  • Liceo scientifico, materie seconda prova: matematica e fisica
    Materie commissari esterni: italiano, lingua straniera e scienze naturali
  • Liceo scienze umane: scienze umane, diritto ed economia
    Commissari esterni: italiano, lingua straniera e matematica
  • Liceo linguistico: lingua straniera 1 e 3
    Commissari esterni: italiano, lingua straniera 2 e fisica
  • Liceo Musicale: teoria analisi e composizione
    Commissari esterni: italiano, lingua straniera e fisica
  • Liceo Coreutico: tecniche della danza
    Commissari esterni: italiano, lingua straniera e fisica
  • Liceo Artistico: seconda prova diversa a seconda degli indirizzi
    Commissari esterni: italiano, lingua straniera e storia dell’arte
  • Amministrazione Finanza e Marketing AFM, materia seconda prova : economia aziendale
    Materie commissari esterni: lingua italiana, inglese e diritto
  • Relazioni internazionali per il marketing: economia aziendale e inglese
    Materie commissari esterni: italiano, seconda lingua e diritto
  • Costruzioni ambiente e territorio: progettazione, costruzioni e impianti e geopedologia economia ed estimo
    Materie commissari esterni: lingua inglese e topografia
  • Meccanica, meccatronica, energia: disegno ,progettazione e organizzazione industriale – meccanica, macchine ed energia
    Materie commissari esterni: italiano, inglese e sistemi
  • Informatica e telecomunicazioni: informatica e sistemi e reti
    Materie commissari esterni: italiano, inglese, tecnologie e progett. sistemi informatici telecomunicazioni
  • Grafica e comunicazione: progettazione multimediale e laboratori tecnici
    Materie commissari esterni: italiano, inglese e processi di produzione
  • Agrario: produzioni vegetali e trasformazione dei prodotti
    Materie commissari esterni: italiano, inglese, economia estimo marketing e legislazione
  • Turistico: discipline truistiche e aziendali, lingua inglese
    Materie commissari esterni: discipline turistiche e aziendali e inglese
  • Trasporti e logistica: struttura, costruzione sistemi
    Materie commissari esterni: italiano, inglese e meccanica
  • Sistema moda: ideazione e progettazione
    Materie commissari esterni: italiano, inglese ed economia e marketing
  • Elettronica ed elettrotecnica: elettrotecnica ed elettronica e sistemi automatici
    Materie commissari esterni: italiano, inglese, tecnologie e progett. sistemi elettrici
  • Servizi enogastronomia e ospitalità alberghiera, materia seconda prova:  scienza e cultura alimentazione e laboratorio servizi enogastronomici
    Materie commissari esterni: italiano, inglese e diritto tecn. amm. della struttura ricettiva
  • Accoglienza turistica, seconda prova: laboratorio di servizi di accolgienza turistica, diritto e tecn. amministrative della struttura ricettiva
    Commissari esterni: italiano, inglese e scienza e cultura dell’alimentazione
  • Professionale Agricoltura: economia agraria e valorizzazione attività produttive legislazione di settore
    Materie affidate ai commissari esterni: italiano, inglese e agronomia
  • Servizi commerciali: tecniche professionali dei servizi commerciali
    Esterne: italiano, inglese e diritto ed economia
  • Produzioni industriali e artigianali: tecniche di produzione e organizzazione
    Materie affidate ai commissari esterni: italiano, inglese e tecnologie applicate
  • Manutenzione e assistenza tecnica: tecnologie tecniche installazione e manutenzione
    Materie affidate ai commissari esterni: italiano, inglese e tecnologie elettrico-elettroniche
  • Servizi socio sanitari: igiene e cultura medico sanitaria e psicologia generale e applicata
    Commissari esterni: italiano, inglese e legislazione socio-sanitaria

 

Nel corpo umano almeno 5.000 specie di batteri

Aggiornato il catalogo dei batteri del corpo umano: dalle circa 1.500 specie finora note ora ne comprende quasi 5.000 specie e molte di queste, circa il 77%, erano finora sconosciute; altre ancora, alcune centinaia, sono distribuite in modo diverso nelle popolazioni, a seconda del grado di industrializzazione. La ricerca, pubblicata sulla rivista Cell, è guidata dall’Italia, con il gruppo di bioinformatica dell’Università di Trento coordinato da Nicola Segata ed Edoardo Pasolli.

Unendo alle tradizionali indagini genetiche e microbiologiche le analisi basate su grandi quantità di dati (big data), i ricercatori italiani hanno studiato quasi 10.000 campioni di batteri prelevati in tutti i continenti, ricavati in gran parte da banche dati pubbliche. Su questa base hanno catalogato oltre 150.000 genomi batterici. Hanno così scoperto che nelle popolazioni non occidentali, come quelle africane e sud america.

La ragione, secondo gli autori, potrebbe essere legata ai diversi stili di vita, come la differente dieta e il diverso utilizzo di antibiotici. Il prossimo passo sarà capire il possibile collegamento tra questi batteri e l’aumento di malattie croniche, come patologie autoimmuni, obesità, diabete e malattie oncologiche. Lo studio riguarda l’analisi del cosiddetto microbioma umano, l’insieme di microrganismi che popola l’organismo e che, secondo le ultime ricerche, è fondamentale per la salute umana. In particolar modo, i batteri che abitano l’intestino, che agiscono come una centrale biochimica per il corpo, fornendo molecole cruciali non disponibili nella dieta e rafforzando le difese immunitarie, agendo ad esempio da barriera nei confronti di microrganismi portatori di malattie.

Cattolici popolari, parte la Rete dei “liberi e forti”

Rete Bianca, il movimento politico e culturale nato per favorire la ricomposizione della frantumata presenza politica dei cattolici democratici e popolari, promuove la formazione della rete dei ‘liberi e forti’ organizzando e raccordando associazioni, movimenti, comitati e circoli in tutto il paese.

Una presenza politica e culturale e non partitica, aperta, inclusiva, laica e finalizzata a rilanciare un rinnovato protagonismo dei cattolici popolari in un contesto storico e politico confuso e, per certi aspetti, delicato per le stesse sorti della democrazia italiana.

Una proposta che si inserisce nelle molteplici iniziative disseminate in tutto il paese per ricordare, rileggere e riattualizzare lo storico “appello ai liberi e forti” e la costituzione del Partito Popolare Italiano di Luigi Sturzo fondato nel gennaio del 1919.

Uno strumento, appunto, politico e culturale che Rete Bianca mette in campo con l’obiettivo, da un lato, di non disperdere un patrimonio ideale che continua ad essere attuale e moderno e, dall’altro, di gettare le premesse per un rinnovato impegno, laico ed autonomo, dei cattolici italiani nella società contemporanea. Una società dominata da simboli, parole d’ordine e metodi che rischiano, se non arginati, di travolgere gli stessi capisaldi di una politica democratica e costituzionale. E che richiede, oggi più che mai, una forte, coerente e convinta opposizione all’attuale equilibrio politico. E la cultura popolare e cattolico democratica può, al riguardo, svolgere un ruolo decisivo e determinante.

E, sotto questo versante, l’apporto del popolarismo di ispirazione cristiana attraverso la rete dei ‘liberi e forti’ può dare un contributo decisivo alla intera politica italiana.

Non per il bene dei cattolici ma per la salute e la qualità della democrazia.

L’Unione dei nuovi “Liberi e Forti”

Occorre essere pienamente consapevoli che un ciclo sociale e politico si è chiuso.

In Italia, in Europa e nell’intero Occidente si misurano cambiamenti epocali che hanno provocato una radicale mutazione anche della politica e delle sue categorie.
La grande crisi globale dei primi anni duemila non era solo economica e finanziaria.
Era in realtà l’epigono di una concezione dello sviluppo e della società.
Da un lato, erano evidenti i benefici delle nuove tecnologie e della globalizzazione, mentre dall’altro non si erano però elaborati solidi presídi politici, etici, culturali ed istituzionali capaci di compensare la forza e la pervasività delle innovazioni.
Il crescente differenziale tra le potenzialità enormi del nuovo scenario e le inadeguate capacità della cultura di capirne la natura ed i limiti, anche sul piano antropologico – e della politica di governarne gli effetti più perversi – hanno finito per mettere sotto scacco i sistemi di democrazia liberale.
La democrazia liberale – nella sua articolazione rappresentativa tipica del Novecento – ha così perso il suo carisma presso larga parte della popolazione.
Ne è nata una domanda politica radicalmente nuova, frutto della paura del futuro e del rifiuto di ogni istituto di mediazione ma assieme anche portatrice di una nuova istanza di protagonismo del singolo, contro ogni forma di élite.
Tutto ciò è accaduto in maniera scomposta, fuori da ogni mediazione culturale e politica capace di dare a questa fase il profilo di una evoluzione organica e condivisa.
Ed ha trovato nell’offerta populista e sovranista la risposta più gettonata e rassicurante.

Pur condividendo una profonda preoccupazione per questo scenario e per il futuro della democrazia, non credo però che questo momento di difficoltà e di transizione sia “la fine della storia”.
Potenzialità e positività si mescolano, infatti, in modo confuso e anche contraddittorio, con pericoli e insidie.
Ed in ogni caso, i nuovi scenari dettati dalla tecnologia, dalla conoscenza e dall’apertura dei sistemi sono destinati inesorabilmente a rafforzarsi.
Tocca a quella che conosciamo come democrazia liberale trovare la forza per cambiare, riconquistare il carisma perduto e poter così ancora rappresentare un riferimento credibile e autorevole per il popolo.
Ciò vale in primo luogo per le culture politiche e per i partiti.
Sono finiti i modelli del passato, ma c’è ancora bisogno di buona politica, di cultura, di valori, di competenza, di idealità.
Personalmente, appartengo alla vasta categoria delle persone “partiticamente apolidi” a livello nazionale. Condizione certo disagevole, ma – in questa fase – piuttosto felice per progettare e costruire futuro a partire da ciò che si muove nei territori, nelle varie comunità locali, nelle reti informali che si stanno costituendo tra i molti “liberi ma deboli”.
Trasformare tutto ciò nell’Unione dei nuovi “Liberi e Forti” deve essere l’impegno per il prossimo futuro: senza nessuna improvvisazione, frenesia da prestazione immediata o sottovalutazione del percorso tutto in salita che di sta davanti. Nella piena coscienza che le soluzioni non stanno affatto nelle congetture di tipo tattico.
E nella matura e responsabile convinzione che tra “popolarismo” e “populismo” – contrariamente a ciò che ha affermato su Interris Gennaro Sangiuliano – non esiste alcuna forma di contiguità valoriale, semmai irriducibile alterità, non solo di toni e di metodo, ma di ispirazione, di visione della democrazia e di concezione stessa di “popolo”, come bene ha argomentato su ildomaniditalia Dante Monda nella sua intervista.

Dobbiamo piuttosto avvertire come un “bene comune” e come un servizio alla democrazia la nostra vocazione a reinterpretare – nelle nuove modalità – i valori in cui abbiamo creduto e crediamo, perché possono essere essenziali di fronte alle tre emergenze più urgenti che ogni giorno diventano più impellenti.
1.
Ricostruire uno spirito di “comunità” che sia capace di finalizzare la spinta al primato dell’individuo, tipica di questa epoca storica, ad una nuova idea di “bene comune”.
A fronte del rischio di degrado valoriale della vita civile – ben evidenziato anche nel recente Rapporto Censis – ci appaiono come solidi riferimenti i costanti moniti al “nuovo umanesimo” di Papa Francesco e l’appello del Presidente Mattarella “ai buoni sentimenti che rendono migliore la società”, che ne costituisce la più persuasiva e convincente traduzione laica e politica.
Se da un lato le vecchie forme del “primato collettivo” si dimostrano obsolete e chiuse in se stesse, incapaci di interpretare sofferenze e ansie di larga parte del popolo, dall’altro va ribadito che non esiste nessun sentiero di futuro se non dentro la percezione di un destino comune e nell’ambito fecondo di una nuova etica della responsabilità, della solidarietà e del rispetto delle persone e dell’ambiente a livello locale e globale.
2.
Rianimare la democrazia e riscoprirne il respiro “comunitario” e “sociale”.
In larga parte dell’Occidente, la democrazia liberale e le sue forme rappresentative sono in forte crisi di legittimazione sociale e spesso anche di funzionamento.
Ma la democrazia non è solo costituita dal suo volto formale e procedurale.
Essa è innanzitutto un valore comunitario e sociale. E non può perdere la sua finalità che consiste nel perseguire con modalità pacifiche e condivise il valore dell’uguaglianza sociale e la piena valorizzazione dei talenti di ogni persona e di ogni aggregazione sociale.
Questa visione esclude ogni deriva “post democratica”.
Se gli istituti della democrazia sono in crisi, essi vanno riformati nel loro funzionamento e alimentati da una credibile visione di contenuto, non sostituiti con forme populiste, di fatto autoritarie, oppure con meccanismi che esaltano il solo rapporto tra le aspettative dell’individuo ed il potere (come appare nelle recenti ipotesi di democrazia diretta attraverso la Rete o attraverso una esaltazione dell’istituto referendario).
Per questo occorre che la crisi profonda dei partiti politici possa trovare un suo sbocco positivo, benché anche radicalmente innovativo: senza questo supporto fondamentale, la democrazia sarà sempre più a rischio di svuotamento ed i cittadini potranno avere solamente l’impressione di “contare”, ma saranno sempre più spettatori e non protagonisti della politica.
3.
Rifondare una idea europeista convincente e “calda”.
Non esiste futuro senza Europa e nessun errore, seppur grave, commesso negli ultimi tempi dalle leadership europee può legittimare una prospettiva anti europea.
È molto grave che un Paese Fondatore come l’Italia si presti oggi ad essere il grimaldello contro l’Unione Europea, assecondando così da un lato le posizioni dei Paesi del Patto di Visegrad e dall’altro gli interessi politici ed economici della Russia e degli Usa, i quali – attraverso le loro attuali leadership – scommettono contro il futuro di una Europa unita, forte ed autorevole nel quadro internazionale ed in particolare nel Mediterraneo e nei rapporti con le economie emergenti ad Oriente.
Non bastano i richiami retorici all’europeismo. Serve una forte iniziativa politica, che punti a strutturare le istituzioni comunitarie in maniera più ambiziosa ed efficace.
Ad iniziare dalla creazione di un Ministro dell’Economia della Zona Euro e dalla correlata messa in campo di Eurobond per finanziare grandi progetti di investimento sociale ed economico.
Solo così si potrà sconfiggere la deriva distruttiva nel sovranismo (altro nome del “nazionalismo” che ha portato disastri e sciagure immani nella storia europea) e riconciliare l’idea europea con le inquietudini e le attese del popolo.

Card. Basetti: “Dobbiamo ringraziare il Signore per aver donato all’Italia e alla Chiesa don Luigi Sturzo”

Il cardinale Gualtiero Bassetti

Fratelli e sorelle carissimi, questa antica basilica dedicata ai Santi dodici Apostoli, posta nel cuore della Roma cristiana, ci ricorda le gesta dei primi seguaci del Signore, che hanno avuto il coraggio di annunziare la Parola del Vangelo in tutto il mondo allora conosciuto. Porta però anche il segno di memorie recenti: ha conosciuto infatti la preghiera nascosta, e non per questo meno intensa, di un gruppo di credenti, guidati dal sacerdote siciliano don Luigi Sturzo, mentre intendevano mettersi all’opera per offrire il loro servizio politico all’Italia del primo dopoguerra lacerata da divisioni ideologiche, economiche e sociali.

Nel centenario di questo episodio, passato alla storia come l’appello ai «Liberi e forti», e nel 60° anniversario della morte di don Sturzo, ci siamo raccolti oggi in questo sacro tempio per riaffermare quanto la Parola del Signore abbia la forza di liberare il nostro spirito dal male del peccato, e quanta capacità essa abbia di penetrare nelle pieghe della società per farla rivivere e per rendere la vita di ognuno più umana e più santa.

Nella pagina proclamata oggi, l’evangelista Marco racconta come Gesù, arrivato a Cafarnao ed entrato in una casa, annuncia la Parola di Dio e guarisce un paralitico.

Si tratta di uno dei miracoli più importanti dell’attività di Gesù in Galilea, perché non soltanto comporta la guarigione da una situazione incurabile, ma anche, e soprattutto, la liberazione da quella che si può descrivere ugualmente come una forma di paralisi: la condizione che viene dal peccato. Come aveva già notato Clemente di Alessandria, «l’arte del medico, secondo Democrito, guarisce le malattie del corpo; la saggezza libera l’anima dalle sue ossessioni. Ma [Gesù Cristo], Sapienza e Parola del Padre che ha assunto la carne umana, si prende cura dell’intera natura della sua creatura. Il Medico dell’umanità, il Salvatore, guarisce congiuntamente corpo e anima» (Commento a Marco; cf. Oden – Hall, Mark. Ancient Christian Commentary on Scripture, 29).

Gesù, che opera con il cuore, la misericordia e la potenza del Padre, si prende cura della persona in tutte le sue dimensioni: non solo quella corporea e fisica, ma anche quelle più profonde e spirituali. Ecco perché la pagina della guarigione del paralitico si presta a una lettura ulteriore.

Non dobbiamo dimenticare, infatti, che tutto questo avviene in una cittadina della Galilea, Cafarnao, quella che l’evangelista Matteo chiama «la città di Gesù» (cf. Mt 9,1). Si noti invece che nella scena immediatamente precedente alla guarigione del paralitico, quella in cui l’evangelista racconta la purificazione di un lebbroso, Gesù si trovava «fuori, in luoghi deserti», perché «non poteva più entrare pubblicamente in una città» (Mc 1,45). È importante sottolineare che Gesù è tornato in città e non è rimasto fuori dal luogo abituale in cui gli uomini vivono!

Pur non abitando in una grande città ellenistica dell’Impero Romano nella Provincia della Giudea, non vuol dire che Gesù fosse disinteressato alla vita di una cittadina come Cafarnao. Anzi, dobbiamo pensare che, abitando in quella polis, vi abbia anche in un certo modo esercitato un ruolo civile, che certamente si esprimeva attraverso l’interessamento per la vita di quella povera gente, che viveva principalmente grazie alla pesca e ai commerci.

È questo il passo che ci permette di ritenere ancora attuale l’Appello di don Luigi Sturzo ai liberi e forti. Un messaggio che ci permette di cogliere in tutta la sua portata il valore storico-sociale dell’opera di don Sturzo, un uomo che, dall’esperienza concreta del suo vissuto di sacerdote, ebbe l’intuizione di chiamare a raccolta i cattolici liberi dalle pastoie e dagli interessi di parte e forti nello spirito, per offrire un servizio all’intero paese, lacerato da lotte sociali talora strumentalizzate da logiche di potere e da visioni contrastanti, sullo sfondo di uno scenario economico-sociale devastato dalla guerra e da povertà diffusa.

Fu in questa chiesa che, alla vigilia del famoso appello, il servo di Dio don Luigi Sturzo, con il manipolo di seguaci, si ritrovò a pregare per mettere tutto nelle mani di Dio, alla cui luce ogni umano impegno trova forza e vigore.

Anni dopo, ricordando questo episodio, scrisse: «Durante quest’ora di adorazione rievocai tutta la tragedia della mia vita. Non avevo mai chiesto nulla, non cercavo nulla, ero rimasto semplice prete: per consacrarmi all’azione cattolica sociale e municipale avevo rinunciato alla cattedra di filosofia; dopo venticinque anni ecco che abbandonavo anche l’azione cattolica, per dedicarmi esclusivamente alla politica. Ne vidi i pericoli e piansi. Accettavo la nuova carica di capo del partito popolare con l’amarezza nel cuore, ma come un apostolato, come un sacrificio» (L. STURZO, Politica e morale (1938), Coscienza e politica (1953), Edizioni Zanichelli, Bologna 1972, 106s.).

Da quella nascosta preghiera dinanzi al Santissimo Sacramento scaturì una storia di impegno e dedizione alla causa del bene comune che tutti ben conosciamo e che ancor oggi richiama il nostro interesse e la nostra ammirazione. Sturzo concepì la sua attività sociale e politica come esigenza e manifestazione dell’amore cristiano: non valore astratto, ma principio ispiratore dell’azione concreta che porta ad impegnarsi per cambiare le sorti di questo mondo, specialmente riguardo ai più bisognosi. L’amore di Sturzo per i poveri non è infatti un epidermico sentimento di filantropia, né è dettato da un superficiale sentimentalismo, ma è un fatto consapevolmente cristiano fondato sulla «fratellanza comune per la divina paternità».

Egli collega l’ordine naturale con quello soprannaturale e vede nella giustizia e nell’amore quei valori che i cristiani, con l’aiuto e l’esempio di Gesù, hanno il compito di attuare nella storia. Da queste premesse egli concepirà l’impegno politico come dovere morale e atto d’amore. In epoca recente, parlando di don Sturzo, san Giovanni Paolo II ebbe a dire che «seppe infondere nei cattolici italiani il senso del diritto-dovere della partecipazione alla cosa pubblica al servizio della verità e dei più deboli, mediante l’applicazione dei principi della dottrina sociale della Chiesa» (L’Osservatore Romano, 22-23 novembre 1982, 3).

Oggi, a distanza di cento anni, questo appello risuona nell’animo di quanti hanno a cuore le sorti del Paese, ancora una volta lacerato e diviso; risuona nell’animo di quanti sentono quella spinta ideale che vede nella difesa della vita e nella promozione umana il motivo di fondo di ogni impegno sociale.

Dobbiamo ringraziare il Signore per aver donato all’Italia e alla Chiesa don Luigi Sturzo, che è stato insieme un uomo di Dio e un sacerdote che si è fatto annunciatore e testimone dell’amore del Signore verso gli uomini. Con tutta la sua vita ha affermato il primato di Dio e ha pagato di persona il suo impegno per la verità, la libertà, la giustizia, l’amore e la pace. Egli ha vissuto una spiritualità incarnata nel contesto sociale del suo tempo ed ha esercitato la sua carità pastorale attraverso un impegno culturale, sociale e politico d’ampio respiro, animato dalla fede cristiana e ispirato al motto paolino, rilanciato da san Pio X, di instaurare omnia in Christo. «Nella mia vita – affermò più tardi il servo di Dio – ho chiesto incessantemente al Signore di essere sempre e soltanto, ovunque, sacerdote, alter Christus».

Carissimi, siamo di fronte alla storia di un uomo, di un sacerdote che ha percorso la strada della santità e dell’impegno cristiano attraverso un particolare impegno pubblico; egli lo ha fatto per amore del Cristo che ha scorto sofferente nei suoi concittadini nudi e affamati, lo ha fatto per amore della Chiesa, nella compagine laicale del suo tempo fortemente divisa e in conflitto; lo ha fatto per il suo amato Paese, che vedeva preda delle fazioni più estreme, nell’oscuramento dei valori della dignità umana e del progresso civile.

Ricordando quell’ora intensa di preghiera, qui in questa insigne basilica chiediamo anche noi quest’oggi al Signore che volga il suo sguardo di amore e di misericordia sulla sua Chiesa e su tutta la società civile italiana perché possa ritrovare la via della concordia e della fraternità, e ogni uomo e ogni donna di questo Paese possa sempre veder riconosciuti i propri diritti nella solidarietà e nella giustizia.

Shutdown, cancellata la partecipazione a Davos dellʼintera delegazione Usa

La partecipazione a Davos è stata cancellata dalla Casa Bianca per tutta la delegazione Usa, anche per il segretario di stato Mike Pompeo e per il segretario al Tesoro Steven Mnuchin. Lo ha riferito la portavoce presidenziale Sarah Sanders, spiegando il pesante forfait con lo shutdown che sta bloccando da giorni il Paese. Anche Donald Trump, come già annunciato da tempo, non andrà al summit economico.

Informazione data poche ore dopo lo schiaffo alla speaker della Camera Nancy Pelosi.

Con una lettera la Casa Bianca aveva annunciato infatti alla esponente dem che il previsto viaggio all’estero in Belgio, Egitto e Afghanistan è cancellato causa shutdown. Una palese rappresaglia dopo la richiesta a Trump di non tenere il discorso sullo stato del’Unione fino a quando non finirà il blocco delle attività amministrative.

Tutto questo mente la first lady Melania Trump volava con un jet governativo in Florida, per recarsi nella residenza di Mar-a-Lago.

Verso un processo decisionale più efficiente nella politica fiscale dell’Ue

La comunicazione pubblicata due giorni fa dalla Commissione europea propone un calendario per una transizione progressiva verso il voto a maggioranza qualificata nell’ambito della procedura legislativa ordinaria in alcuni settori della politica fiscale condivisa dell’Ue, come già avviene per la maggior parte degli altri settori.

Con il voto a maggioranza qualificata gli Stati membri sarebbero in grado di raggiungere più rapidamente compromessi efficaci e democratici in materia di fiscalità, liberando così tutto il potenziale contenuto nel tema. Nell’ambito della procedura legislativa ordinaria, inoltre, le decisioni in materia fiscale beneficerebbero di contributi concreti del Parlamento europeo: il parere dei cittadini potrebbe essere rappresentato meglio e la rendicontabilità accresciuta.

A tal fine la Commissione non propone alcuna modifica delle competenze dell’Ue in materia fiscale e neppure della facoltà di cui dispongono gli Stati membri di fissare le aliquote d’imposta delle persone fisiche o delle società ritenute più idonee. L’obiettivo è invece quello di consentire agli Stati membri di esercitare in modo più efficace la sovranità già condivisa per affrontare più rapidamente le sfide comuni.

A causa della regola dell’unanimità alcune proposte chiave per la crescita, la competitività e l’equità fiscale nel mercato unico sono bloccate da anni. Allo stesso tempo il Parlamento europeo ha finora rivestito un ruolo meramente consultivo nel processo decisionale. Il nuovo approccio delineato spianerebbe invece la via ad una nuova dinamica, imprimendo un nuovo impulso al processo decisionale in questo settore in un momento in cui il futuro dell’imposizione è assurto a questione scottante per la comunità internazionale. Far fronte alle difficoltà relative al quadro attuale potrebbe consolidare l’Europa come leader mondiale nell’elaborazione di soluzioni realistiche per le sfide della politica fiscale del futuro.

Nella comunicazione appena pubblicata la Commissione chiede ai leader europei, al Parlamento europeo e alle altre parti interessate di valutare la possibilità di effettuare una transizione graduale in quattro fasi verso un sistema decisionale basato sul voto a maggioranza qualificata: nella prima fase gli Stati membri concorderebbero di ricorrere al voto a maggioranza qualificata nel caso di misure intese a migliorare la cooperazione e l’assistenza reciproca tra Stati membri nella lotta all’evasione e alla frode fiscale, nonché per le iniziative amministrative che agevolano l’operato delle imprese nell’Ue, come ad esempio gli obblighi di dichiarazione armonizzati. Si tratta di misure di norma accolte con favore da tutti gli Stati membri, ma che possono essere bloccate per motivi non connessi alle questioni in esame.

La seconda fase introdurrebbe il voto a maggioranza qualificata in quanto utile strumento per far avanzare le misure nelle quali l’imposizione sostiene altre finalità strategiche, come ad esempio la lotta ai cambiamenti climatici, la protezione dell’ambiente o il miglioramento della salute pubblica. Nella terza fase il ricorso al voto a maggioranza qualificata contribuirebbe a modernizzare le norme di Bruxelles già armonizzate, come quelle in materia di IVA e di accise. Un processo decisionale più rapido in questi settori consentirebbe agli Stati membri di stare al passo con gli sviluppi tecnologici e i cambiamenti del mercato più recenti, a beneficio dei Paesi e delle imprese europee.

La quarta fase permetterebbe, infine, di passare al voto a maggioranza qualificata per i grandi progetti fiscali, quali la  base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società e un nuovo sistema per l’imposizione dell’economia digitale. La comunicazione propone che gli Stati membri prendano in considerazione l’elaborazione delle fasi 3 e 4 entro la fine del 2025.

Napoli capitale eterna della pizza, a luglio le Olimpiadi

L’Associazione Verace Pizza Napoletana – Avpn compie 35 anni e per l’occasione chiama a raccolta i pizzaioli di tutto il mondo per le Olimpiadi della Vera Pizza Napoletana, una gara intercontinentale che si disputerà nel corso della convention internazionale, in scena dall’8 al 10 luglio a Napoli, a Capodimonte.

La presentazione ufficiale del calendario delle attività, che si è svolta a Roma, è stata anche l’occasione per il debutto, in anteprima nazionale, di PullicenHell, la prima birra targata Avpn e realizzata in partnership con Kbirr per evidenziare il binomio artigianalità e napoletanità, celebrando al tempo stesso la figura di Pulcinella.

Ora la Avpn dovrà selezionare i candidati.

Ad aprire i ‘gironi’ per le qualificazioni sarà il Brasile, in occasione della fiera AnuFood Brazil (12-14 marzo), dove si sceglieranno i rappresentanti per il Sud America. Si prosegue poi in Germania per le candidature per l’Europa (Francoforte, 25-29 marzo) e poi ancora negli States per valutare i migliori maestri dell’East Coast e del Canada (15-19 aprile). Chiudono il tour, le qualificazioni olimpiche per l’Oceania in Australia (Melbourne, 29 aprile – 5 maggio), quelle per l’Asia in Giappone (Kyoto, 13-18 maggio) e quelle per la West Coast e il Messico, sempre negli Usa ma dal 3 al 7 giugno.

Cani, gatti & company in una casa su tre

Una famiglia italiana su tre (32%) ospita in casa almeno uno o più animali da compagnia, che in molti casi diventano veri e propri componenti del nucleo familiare, tanto da rinunciare a uscire la sera o ad andare in vacanza per non lasciarli soli o permettergli addirittura di dormire nella camera da letto. E’ quanto emerge dal Dossier “Gli animali nelle case e nelle fattorie degli italiani nel 2018” presentato in occasione di Sant’Antonio Abate, il Patrono degli animali, in Piazza San Pietro a Roma dove per l’occasione sono arrivate mucche, asini, pecore, capre, galline e conigli delle razze più rare e curiose salvate dal rischio di estinzione. Una tradizione popolare – spiega Coldiretti – che il 17 gennaio vede in tutta Italia parrocchie di campagne e città prese d’assalto per la benedizione dalla variegata moltitudine di esemplari presenti sul territorio nazionale. Secondo gli ultimi dati disponibili – sottolinea Coldiretti – sono oltre 14 milioni i cani e i gatti in Italia, ai quali si aggiungono 3 milioni di conigli e tartarughe, 13 milioni di uccelli e 30 milioni di pesci.

Il 19,3% delle famiglie italiane possiede un solo animale, secondo un’analisi Coldiretti su dati Eurispes, mentre il 7,1% ne ospita due, il 3,7% ne ha tre e nel 2,3% ce ne sono addirittura quattro o più. A livello territoriale si registrano però – rileva Coldiretti – significative differenze, con le Isole (Sicilia e Sardegna) che si rivelano le più amanti degli animali, presenti in quasi una casa su due (46,7%), di gran lunga davanti al Centro Italia (34,7%), al Sud (31,9%) e al Nord Ovest (30,6%), mentre al Nord Est la percentuale scende al 24,9%, praticamente una famiglia su quattro.

Il mantenimento di un animale ha un costo – continua la Coldiretti – che in oltre la metà delle famiglie (57,7%) è sotto i 50 euro al mese, mentre in un altro 31,4% si colloca tra i 51 e i 100 euro al mese. L’8,1% degli italiani arriva a spendere fino a 200 euro, un 2,2% a 300, e uno 0,6% si spinge addirittura oltre. Ma oltre al costo economico avere un animale in casa comporta anche qualche sacrificio. Tra chi ne possiede uno – prosegue la Coldiretti -, il 53,5% sacrifica una parte consistente del proprio tempo libero per accudirlo, il 46,2% rinuncia a uscire la sera o a viaggiare per non lasciarlo solo. Uno su tre (37,3%) prepara i pasti a cani e gatti usando solo ingredienti freschi invece di cibo specializzato e un 53,5% permette ai proprio animali di dormire con sé, con la percentuale che sale al 56,4% nel caso di coppie senza figli.

Il ruolo degli animali all’interno della società è cresciuto ed è stato anche riconosciuto a livello giuridico da norme e regolamenti come la legge sull’agricoltura sociale fortemente sostenuta dalla Coldiretti che valorizza gli effetti positivi della pet-therapy, entrata prepotentemente tra le nuove attività previste. Fra le pratiche di agricoltura sociale – spiega la Coldiretti – vi sono infatti i servizi di cura e assistenza terapeutica come l’ippoterapia o l’onoterapia senza dimenticare però la funzione formativa e conoscitiva soprattutto nei confronti delle nuove generazioni svolta dalle fattorie didattiche con l’apicoltura e gli allevamenti di piccoli animali da cortile ma anche di mucche, maiali, pecore o capre. Un’attività che la Coldiretti sostiene attraverso l’iniziativa educazione alla Campagna Amica che coinvolge oltre centomila alunni delle scuole.

Giovani per la Casa Comune

Aiutare i giovani a prendere coscienza delle sfide evidenziate da Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’ e trovare le vie per promuovere una cultura della tutela del creato, sono i temi al centro del 3° Convegno Internazionale promosso dalla Fondazione “Giovanni Paolo II per la Gioventù” in occasione della 34° Giornata Mondiale della Gioventù.

Delegati delle conferenze episcopali, di movimenti, comunità e aggregazioni laicali a livello mondiale s’incontreranno nei locali dell’Università Cattolica S. Maria Antigua per un tempo di riflessione e di scambio al cui centro sarà l’intervento del cardinale Peter Turkson, Prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, co-organizzatore del convegno.

L’incontro, organizzato con il contributo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, vedrà, tra l’altro, anche la partecipazione dell’arcivescovo di Panama, del rettore dell’USMA e del segretario del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita. I lavori si svolgeranno in sessione plenaria e in gruppi di lavoro, con interventi di esperti nel campo delle questioni ambientali o della pastorale giovanile proveniente dai cinque continenti. Tra le questioni affrontate, i partecipanti discuteranno il rapporto tra cambiamenti climatici e povertàl’accesso all’acqua potabile e la tutela alla biodiversità.

Al termine dei lavori sarà approvato un documento finale che sarà presentato in conferenza stampa lunedì 21 gennaio p.v.

Esiste il Blue Monday?

Blue Monday (lunedì triste) è il nome assegnato a un particolare giorno del mese di gennaio, solitamente il terzo lunedì del mese, ritenuto essere il giorno dell’anno più deprimente per le nazioni dell’emisfero boreale. Il concetto è stato originariamente reso pubblico nel 2005 all’interno di un comunicato stampa del canale televisivo britannico Sky Travel, in cui si affermava di avere calcolato la data utilizzando un’equazione.

L’intera idea rientra nell’ambito della pseudoscienza, e l’equazione che ne è alla base viene ritenuta priva di alcun fondamento.

In seguito il concetto è stato ripetutamente riutilizzato da altre compagnie per scopi pubblicitari, oltre al tentativo di applicarlo alle tendenze dei messaggi nei social media. Alcuni esperti legali lo hanno definito il “lunedì del divorzio” (Divorce Monday), notando che durante il mese di gennaio viene intrapreso il maggior numero di procedimenti per il divorzio rispetto agli altri mesi dell’anno.

Quindi, attenti a quel che vi diranno e non vi lasciate incupire da un’equazione sbagliata.

Il card. Gualtiero Bassetti ricorda don Luigi Sturzo

Il card. Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Cei, ha attualizzato – a braccio – la figura di don Luigi Sturzo, nell’omelia della messa celebrata oggi nella basilica romana dei Santi Apostoli.

“Oggi, a distanza di cento anni, questo appello risuona nell’animo di quanti hanno a cuore le sorti del Paese, ancora una volta lacerato e diviso; risuona nell’animo di quanti sentono quella spinta ideale che vede nella difesa della vita e nella promozione umana il motivo di fondo di ogni impegno sociale”

“Dobbiamo ringraziare il Signore per aver donato all’Italia e alla Chiesa don Luigi Sturzo, che è stato insieme un uomo di Dio e un sacerdote che si è fatto annunciatore e testimone dell’amore del Signore verso gli uomini”, le parole del presidente della Cei: “Con tutta la sua vita ha affermato il primato di Dio e ha pagato di persona il suo impegno per la verità, la libertà, la giustizia, l’amore e la pace. Egli ha vissuto una spiritualità incarnata nel contesto sociale del suo tempo ed ha esercitato la sua carità pastorale attraverso un impegno culturale, sociale e politico d’ampio respiro, animato dalla fede cristiana e ispirato al motto paolino, rilanciato da san Pio X, di instaurare omnia in Christo. ‘Nella mia vita – affermò più tardi il servo di Dio – ho chiesto incessantemente al Signore di essere sempre e soltanto, ovunque, sacerdote, alter Christus’”.

“Siamo di fronte alla storia di un uomo, di un sacerdote che ha percorso la strada della santità e dell’impegno cristiano attraverso un particolare impegno pubblico”, ha commentato Bassetti: “egli lo ha fatto per amore del Cristo che ha scorto sofferente nei suoi concittadini nudi e affamati, lo ha fatto per amore della Chiesa, nella compagine laicale del suo tempo fortemente divisa e in conflitto; lo ha fatto per il suo amato Paese, che vedeva preda delle fazioni più estreme, nell’oscuramento dei valori della dignità umana e del progresso civile”.

“Se non si sa rinunciare a qualcosa di grande, non potremo mai fare qualcosa di grande”.

La sua entrata in politica, ha proseguito il cardinale, “non fu un passo a cuor leggero, della politica vedeva anche i pericoli. Per questo la preghiera era accompagnata dalle lacrime”. “La dottrina sociale della Chiesa non è staccata né dalla morale, né dalla bioetica”,non si può essere “scolari negligenti”: “Se non sei uomo di preghiera e di spirito, non puoi annunciare Cristo, ma non puoi nemmeno annunciare la dottrina sociale della Chiesa”.

Quanto alle “difficoltà” incontrate da Sturzo, il presidente della Cei ha ribadito anche a braccio: “Alcune di queste difficoltà le troviamo anche nel tessuto sociale della nostra Italia”.

“Ricordando quell’ora intensa di preghiera, qui in questa insigne basilica chiediamo anche noi quest’oggi al Signore che volga il suo sguardo di amore e di misericordia sulla sua Chiesa e su tutta la società civile italiana perché possa ritrovare la via della concordia e della fraternità, e ogni uomo e ogni donna di questo Paese possa sempre veder riconosciuti i propri diritti nella solidarietà e nella giustizia”

Rileggere il rapporto tra don Sturzo e La Pira per un rinnovato impegno dei cattolici in politica

Articolo già apparso sulla rivista Toscana oggi

Fa parte della storia il diverbio che, a metà degli anni cinquanta, vide come protagonisti don Sturzo e La Pira. Storie personali diverse: don Sturzo esule per molti anni nel Regno Unito e poi negli Stati uniti; La Pira fermo oppositore del regime fascista e «clandestino», in Italia. Ruoli diversi: La Pira sindaco di Firenze; don Sturzo giornalista e non più direttamente impegnato in politica. Contesto storico diverso da quello attuale: Italia in ripresa economica dopo il disastro della guerra, ma anche con crisi sociali, licenziamenti, disoccupazione e povertà in crescita.

Sul rapporto Sturzo-La Pira il Collegamento sociale cristiano – Amici di Supplemento d’anima promuove per domenica 20 gennaio, in occasione del centenario dell’«Appello ai liberi e forti» (18 gennaio 1919), un incontro a Firenze presso la Sala dell’Annunciazione della SS. Annunziata (ingresso da via Cesare Battisti, 6) dal titolo «Don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira: ciò che li divide, ciò che li unisce», relatore il prof. Marco Vitale, già docente di economia di impresa all’Università Bocconi di Milano e Università di Pavia.

 

L’incontro, con inizio alle 9.45, si concluderà con la Messa celebrata dal vescovo Gastone Simoni. «Lo sguardo storico che, nell’incontro da noi proposto – spiegano gli organizzatori – sfiorerà le innegabili divergenze di allora, sarà tuttavia finalizzato a guardare all’oggi e al futuro per cogliere, dalla testimonianza dei due grandi personaggi e attraverso le loro convergenze la loro comune e profonda conoscenza della Dottrina sociale della Chiesa, stimoli nuovi e prospettive nuove per un rinnovato impegno anche nella politica attiva».

Ancora attuali, dopo 100 anni

Articolo già apparso sulle pagine di Rinascita popolare a firma di Carlo Baviera

Come poter attualizzare il pensiero e l’apporto “popolare” dopo 100 anni di storia? Cento anni in cui – sia nel periodo “aventiniano” con l’opposizione alla dittatura, sia durante la Resistenza, sia nella stesura del testo Costituzionale e nella ricostruzione democratica – da quella cultura politica e dall’impegno di molti suoi uomini significativi sono venuti contributi importanti che restano un punto di riferimento. E non solo per quanti, formati alla luce dell’insegnamento sociale della Chiesa e cresciuti con una formazione cattolico democratica, intendono continuare ad essere uomini e cittadini “Liberi e Forti”.

Al di là della ricorrenza, l’anniversario del Partito popolare più che celebrato ha bisogno di essere riproposto in modo innovativo, e solo se vi è una proposta e una iniziativa pubblica da mettere a servizio dell’intera società.

Cosa si intende dire? Che i partiti, i movimenti politici, le organizzazioni civili sono strumenti; si formano e finiscono. Non sono il fine. Il fine è il bene comune, il fine è la persona con i suoi diritti inalienabili che devono essere difesi e garantiti, il fine è la crescita integrale della comunità civile e politica. Perciò sono le idee, i progetti, i programmi per l’oggi ciò che servono, e chi vuole contribuire allo sviluppo integrale della società non deve portare le proprie storie, le proprie eredità, il proprio pur valoroso passato; deve confrontarsi con le questioni presenti, con le richieste e i bisogni delle persone di questa generazione, con le sfide globali che piaccia o meno ci investono e ci interrogano.

E le idee e i progetti non si costruiscono a tavolino, ma nell’impegno civico di tutti i giorni e attraverso il dialogo e il confronto con le persone. Ne discende l’importanza di fare rete e di iniziare ad andare oltre l’impegno culturale e formativo. Serve sempre l’impegno “pre-politico”, ma è venuta l’ora di fare qualche passo in più, di rischiare, di tornare a dire parole “popolari”, anche scomode.

In questo rischiare mi chiedo se sia a tutti noi ancora chiaro che “la religione è unità, la politica è divisione” come affermava Sturzo. Perché molti equivoci del recente passato e di alcune speranze del presente stanno in questa poca chiarezza: i partiti non sono strumenti delle religioni, e la diversità delle opzioni fra i cristiani sono legittime nelle questioni politiche. Piuttosto si tratta per i cattolici democratici di superare sia la tentazione dell’indifferenza che quella dell’irrilevanza; che non significa, che i delusi dalle esperienze nel centrodestra e nel centrosinistra debbano costruire il centro-centro. Piuttosto, che si deve ripartire dalla concretezza e dalla realtà del Paese e delle persone, per costruire una politica di alleanza con chi ha una visione di socialità, di solidarietà, di uguaglianza, di sostegno al lavoro al welfare alla famiglia alla natalità.

Come secondo interrogativo, mi chiedo se siamo ancora convinti che si è “o sinceramente conservatori o sinceramente democratici”. So che nessuno si considera un conservatore e che tutti, destre, centro, sinistre, si ritengono democratici; ma essere democratici richiede scelte coerenti. Mi limito sempre ad attingere a Sturzo per tagliare corto: “È chiaro che io stimo monca, inopportuna, contrastante ai fatti, rimorchiante la Chiesa al carro dei  liberali, la  posizione di un partito cattolico conservatore; e che io credo necessario un contenuto democratico del programma dei cattolici nella formazione di un partito nazionale”.

E oggi coloro che erano considerati i liberali non sono forse le destre? il centrodestra? Non sono forse coloro che pensano a tagliare le tasse ai redditi maggiori, coloro che sono pregiudizialmente contro qualsiasi forma di patrimoniale, coloro che non si preoccupano dei diritti e delle necessità dei ceti lavoratori, che pensano a tutte le questioni sociali come piaghe da sradicare con la forza e l’ordine, che non accettano alcuna regola sociale, coloro che danno del buonista a chi si dedica ai poveri e agli emarginati, coloro che intendono la politica come nazionalismo, coloro che confidano soprattutto nella forza militare per i rapporti con gli altri Stati?

Ritengo, storicamente, un errore sia dei popolari che dei socialisti di Turati, non essersi accordati nel 1922 per dar vita ad un Governo di coalizione; lo stesso, per le incomprensioni fra questi e Giolitti, lascando spazio alla successiva dittatura.

Penso che le linee di fondo e i riferimenti valoriali per un programma, di una formazione autenticamente “neo-popolare”, non possano non rintracciarsi nell’Enciclica Laudato sì, che è apprezzata molto anche da personalità laiche e non credenti. Poi  (ritenendo che si debba partire dal concreto della vita quotidiana) metto in fila rapidamente, alcuni punti che mi pare non possano essere lasciati in disparte:

– la centralità del lavoro (i diritti di chi lavora e il riconoscere la dignità di ogni persona e popolo ad avere terra e casa) e il sostegno alle attività economiche che producono beni di utilità sociale e che rispondono a requisiti etici;

– la valorizzazione e la difesa dell’ambiente, del paesaggio, delle culture, e una informazione libera non condizionata dal potere pubblicitario né dalle ingerenze delle Istituzioni;

– una forte consapevolezza di cittadinanza europea, perché tutti sentiamo l’esigenza di muoverci, viaggiare, soggiornare, lavorare e studiare nel continente senza barriere, vincoli e controlli burocratici, in un unico mercato e regole comuni; e politiche umanitarie e di integrazione nella gestione dei fenomeni migratori;

– il sostegno a politiche non stataliste e centraliste garantendo la libertà religiosa, quella della società civile, dei corpi intermedi, delle organizzazioni sindacali e il riconoscimento e lo sviluppo del Terzo Settore, della cooperazione economica, sociale, civile, del volontariato organizzato (altro che tassa sulla bontà!); un insegnamento libero e “pubblico” con la connessa libertà educativa delle famiglie; assistenza, previdenza sociale, beni comuni, sanità, scuola, Università, formazione professionale, comunque gestite e organizzate ma non privatizzate, e l’erogazione dei servizi pubblici, da garantire a tutti e non frutto di profitto;

– una legislazione “family friendly”; sostegno alla maternità; difesa e realizzazione concreta delle pari opportunità; aumento degli spazi di partecipazione e della democrazia deliberativa; l’attivazione di buone pratiche in campo sociale, lavorativo e ambientale e una politica energetica che abbandoni il “fossile” e sfrutti il più possibile “le rinnovabili”;

– infine qualificante, come filosofia di fondo, dovrebbe essere l’impegno nel procedere al superamento della cosiddetta economia dello “scarto” (di persone, popoli, comunità locali), al contrasto della tendenza ad omologare e uniformare ogni sistema di vita, di produzione, di commercio e di consumo nelle diverse aree territoriali, difendendo spazi di pluralismo e le ricchezze culturali di tutti i popoli; insieme al mai inutile impegno per il disarmo in vista di politiche di pace.

Queste le caratteristiche e gli impegni che potrebbero connotare la presenza del “personalismo comunitario e solidale” fin dai livelli locali. Questo ciò che intendo per celebrare in modo opportuno una ricorrenza perché sia compresa in modo positivo e possibilmente condivisa da chi ancora pensa a una democrazia progressiva nel solco dei “Liberi e Forti”; nella speranza che chi fa riferimento a quella storia e a quei valori trovi modalità per riunificare esperienze anziché procedere a ulteriori divisioni.

Un Popolo in cammino. Conversazione con Dante Monda

Per molte delle personalità che lo frequentano, Jorge Mario Bergoglio è l’uomo degli incontri personali, che ti avvince con i suoi modi e ti sorprende con i suoi orientamenti. Per la gente comune, è una persona alla mano, semplice e calorosa. Per quanti conoscono il suo pensiero religioso, è impegnato affinché la Chiesa si apra all’incontro con il popolo, attraverso un messaggio di comprensione e di entusiasmo. Per i mass media è un Pastore, portatore di una concezione moderna e profondamente spirituale dell’essere Chiesa e del vivere compiutamente il Vangelo in mezzo alle sfide poste dalla società moderna. Ne parliamo con Dante Monda, autore di una tesi di Laurea sul tema “L’idea di popolo in Jorge Mario Bergoglio” presso l’Università Luiss “Guido Carli” di Roma.

 

D: Con il tuo lavoro (la tesi di Laurea dal titolo “L’idea di popolo in Jorge Mario Bergoglio”) hai avuto occasione di avvicinarti anzitutto all’uomo e alla sua esperienza di vita. Se dovessi raccontarlo, che tipo è Jorge Mario Bergoglio?

I rischi nell’avvicinarsi a Bergoglio sono due: da un lato appiattirlo sul suo tempo, sulle vicende travagliate e contraddittorie del suo paese e della Chiesa argentina; dall’altro neutralizzarlo e renderlo un Papa “piacevole”, un’anima pia, astrattamente spirituale. Invece considerando complessivamente la sua figura e la sua storia si ha il quadro di un personaggio complesso, in cui storia e spirito, terra e cielo, sono sempre collegati e considerati insieme. Insieme, cioè mai confusi: nessuno dei due poli sostituisce l’altro.

Un altro equivoco si genera nel considerare il “pensiero polare” di Bergoglio: che questa polarità significhi ambiguità, relativismo, imbroglio, sofisma, debolezza e annacquamento della fede. Questo giudizio è tipico di chi, pur cogliendo la tensione interna al pensiero del pontefice, la interpreta come contraddizione e non come “opposizione” paradossale. E questo, a mio avviso, deriva sostanzialmente da un pregiudizio (dai quali del resto nessuno può dirsi immune). Precisamente, dal pregiudizio occidentale chiamato “razionalismo”, cioè dalla convinzione che i concetti colti dalla ragione debbano essere assoluti e definiti, senza sfumature. Ecco, Bergoglio è consapevolmente alieno a questo pregiudizio, che è il vero e proprio orizzonte filosofico dominante (nel senso che esso strutturalmente vuole dominare il reale e la vita) dell’Occidente. Il Papa dalla fine del mondo si presenta in questo modo: è uno straniero, tanto da risultare a tratti eversivamente “fuori luogo”, scandaloso. Che tipo è Bergoglio? Un pastore e un padre, e anche un profeta e uno straniero che annuncia la fine del mondo per come siamo abituati a conoscerlo dominandolo.

 

D: La ricezione del Concilio Vaticano II in America Latina è un punto di passaggio fondamentale. La Chiesa come “popolo di Dio” si declina in forme nuove rispetto all’Occidente europeo. Quanto ha influito nell’elaborazione dell’idea di popolo in Bergoglio?

La “teologia del popolo”, originale variante argentina della sudamericana “teologia della liberazione”, è il contesto nel quale il giovane novizio, sacerdote e poi provinciale Bergoglio elabora la sua concezione del popolo di Dio, incarnato nei popoli della terra. In quella regione, oppressa da una diseguaglianza economica e politica, il seme piantato dal Concilio sembra fare frutto in anticipo rispetto al vecchio continente, magari con qualche frutto acerbo (le derive marxiste). La Chiesa come popolo era la risposta a quell’oppressione: era la Liberazione.

È come se nelle comunità in cui il Vangelo si era dovuto inculturare nella vita di popoli, dando vita a originali espressioni della Parola, in quelle culture meticcie e periferiche, la distanza e la ricerca di un’autonoma identità, il terreno fosse fertile per ripensare al popolo come “soggetto storico autonomo”.

Bergoglio pensa il pueblo in questi termini originali, o meglio originari. Ritorna alle fonti evangeliche e propriamente antropologiche del mito del popolo. Ritorna alle basi, ai fondamenti del vivere insieme, rifiutando qualsiasi costruzione ideologica “preconfezionata”, compreso il clericalismo. Da qui deriva la novità, nel risalire agli elementi fondamentali della comunità umana, e all’elemento fondamentale: la carità che spinge alla prossimità e dunque all’unità nelle differenze.

 

D: E’ nota la moderazione di Bergoglio, lontana dai “poteri forti” e con un’attenzione al sociale, in controtendenza con una Chiesa (come quella argentina) tradizionalmente conservatrice. Qual è la tua opinione al riguardo?

Il suo è un pensiero polare, come detto. Dunque né semplicemente progressista, né semplicemente conservatore. È un errore farne un Papa “sociale”, o peggio “socialista”. La dimensione sociale, la vicinanza ai poveri, è la semplice e spontanea messa in pratica del Vangelo con spirito missionario, a cominciare dalle periferie (“andate in tutto il mondo”). Le frizioni con settori della gerarchia ecclesiastica (e non solo con quella argentina) rivelano delle storture precedenti a Francesco, figlie di un malinteso senso del rapporto fra sacro e profano, spirito e cultura. Per Francesco la cultura umana deve esprimere con la sua voce il Vangelo, ma non è il Vangelo, non può sostituirlo. Ciò è alla base del fondamentale realismo di Francesco, che sfida lo status quo de-naturalizzandolo e de-sacralizzandolo, senza d’altro canto mai inseguire il cambiamento per il cambiamento. Francesco ci ricorda che Chiesa non vuol dire “tempio”, “sancta sanctorum” magari chiuso agli impuri, ma “assemblea”, “popolo” in cammino, “città di Dio” diffusa per il mondo.

 

D: Nel tuo lavoro si parla molto delle sfide poste dalla modernità alla società democratica. Quali sono, in particolare, la “pars destruens” e la “pars costruens” proposte da Bergoglio?

La critica di Francesco allo stato attuale della democrazia è schietta e lucida. Le democrazie sono “atrofizzate”, “a bassa intensità”, a causa di un “divorzio” fra le élite, perse in astratti nominalismi, e le masse anonime, sradicate, al contempo omologate e disintegrate da un dilagante individualismo di soggetti atomizzati, soli e impotenti. In questa situazione ha gioco facile l’idea distorta di un popolo omogeneo ed escludente l’altro e il diverso, il cosiddetto populismo. Invece Francesco respinge in toto qualsiasi ideologia, sia quelle sovraniste che quella individualista, che in fondo sono la stessa: l’ideologia dell’autoreferenzialità. Insomma, finché non si esce fuori dal proprio orizzonte auto-riferito per incontrare l’altro, non vi potrà essere vera democrazia.

La vera democrazia, la proposta di Francesco, è nel segno della “cultura dell’incontro”. Si tratta dell’appello a una nuova partecipazione e coinvolgimento delle fasce popolari, che rianimino dal basso delle democrazie meramente elettorali e senz’anima. Il popolo gioca qui un ruolo fondamentale, esso è il protagonista, il solo soggetto che ha l’autorità di decidere del proprio destino. Rivitalizzare dal basso, come quando si riaccende un fuoco, spolverando le ceneri, senza adorarle. Non sono sogni utopici, ma è una forte chiamata a un impegno concreto, a cominciare dal quartiere, e dall’impegno sociale, chiamato “politica con la P maiuscola”.

 

D: L’Appello di don Luigi Sturzo ai Liberi e Forti, a 100 anni di distanza, contiene un messaggio innovativo ancora molto attuale. Cosa può dire a un giovane del 2019, anche rispetto all’impegno politico nel contesto attuale?

È significativo che l’attuale pontefice negli anni ’10 del ventunesimo secolo sproni il popolo di Dio a un impegno concreto anche propriamente politico a un secolo di distanza da un appello diverso ma simile: la fondazione del Partito Popolare Italiano di don Sturzo. A proposito, ho assistito l’altro giorno alla presentazione del libro “Elogio dei liberi e forti. La responsabilità politica dei cattolici” (Lucio D’Ubaldo e Giuseppe Fioroni, casa editrice Giapeto), in cui si è parlato dell’attualità del pensiero popolare: sembra che qualcosa oggi si muova nel senso di una ripresa di quel pensiero e nella sua attuazione.

La coincidenza di questa ricorrenza fa riflettere considerando una certa somiglianza fra i due appelli, al di là delle differenze fra i due religiosi, provenienti da ambienti culturali distanti. Se Sturzo vede nel popolo il limite al potere e in un certo pensiero liberale (quello non “settario”, cioè direbbe Bergoglio non autoreferenziale) un alleato nella critica alle ideologie statolatre, Bergoglio conosce ben altro liberalismo, e lo associa più al colonialismo che non agli ideali di libertà e uguaglianza.

Ma al di là delle differenze, dicevamo, ciò che accomuna i due uomini di Dio è la loro carica profetica nell’individuare il bisogno di un rinnovato impegno del popolo, cioè delle persone, per il bene comune, senza però mai ingabbiare questo impegno in una struttura ideologica o confessionale. Il concetto sturziano di “ispirazione cristiana” come alternativa sia al confessionalismo che al laicismo, oggi è incarnato di nuovo dal messaggio di Franesco, avverso ad ogni teologia politica ma anche ad ogni “ghettizzazione” della religione: la carità cristiana agisce in un movimento diffusivo ed inclusivo, i cui la fede è il motore dell’azione e non una bandiera identitaria. Entrambi i sacerdoti, a ben guardare, sono maestri di vera e libera laicità e promotori di un genuino impegno per la cosa pubblica, che oggi insegnano tanto a un mondo smarrito e confuso, in preda alla paura. La paura, l’ansia, sentimento dominante, soprattutto fra i giovani, porta oggi a due reazioni ugualmente sterili: da un lato il ripiegarsi narcisistico sull’individuo, dall’altro, il rifugiarsi in schieramenti politici che sbandierano un’identità forte in forza dell’esclusione dell’altro. L’appello ai Liberi e Forti oggi risuona in tutta la sua forza in quanto consente di smarcarsi da questa alternativa fatale tra individualismo e omologazione, per puntare alla vera sfida di oggi: “rifondare i legami sociali”, rivitalizzare le relazioni (personali e strutturali) della società, dare nuova vita alle nostre democrazie.

Danimarca: Un’isola per bandire gli immigrati

Correva l’anno 2015 quando il paese scandinavo approvava e modificava le leggi con un messaggio chiaro: gli stranieri non sono i benvenuti. Con una popolazione di quasi sei milioni di abitanti, in quell’anno più di 57.000 immigrati e rifugiati sono arrivati ​​in cerca di protezione e opportunità, la cifra più alta registrata negli ultimi due decenni. La maggior aveva attraversato la rotta balcanica con l’obiettivo finale di raggiungere la Svezia , il paese che ospita il maggior numero di rifugiati pro capite in Europa, o la Germania, che ne ospita il maggior numero totale.

Da allora si sono susseguite leggi sempre più restrittive sull’immigrazione.

L’ultima novità annunciata lo scorso mese del governo di coalizione di centro-destra – con il sostegno incondizionato degli xenofobi del Partito popolare danese (PPD) è quella di bandire i rifugiati nella piccola isola di Lindholm (nel Mar Baltico) .

Nell’isolotto, di sette ettari e senza residenti permanenti, al momento esiste un solo laboratorio di ricerca per i virus. Il laboratorio inizierà quest’anno per essere ricondizionato per accogliere gli immigrati che dovrebbero iniziare ad arrivare nel 2021.

Su Twitter, il profilo ufficiale del Df ha pubblicato un cartoon che raffigura un uomo dalla pelle scura scaricato da un traghetto su un’isola deserta. Il testo: “Espulsi, i criminali stranieri non hanno motivo di rimanere in Danimarca. Fino a quando non riusciremo a liberarcene, li trasferiremo sull’isola di Lindholm. Saranno obbligati a rimanere nel nuovo centro di espulsione durante la notte e ci sarà la polizia tutto il giorno. Grande!”.

Ma il ministro delle Finanze Kristian Jensen ha precisato che non sarà una prigione e che un traghetto consentirà ai nuovi ospiti di Lindholm di recarsi sulla terra ferma, pur dovendo tornare sull’isola la sera.

Migrantes Roma: nasce l’Osservatorio per la tutela dei minori fragili

Nasce l’Osservatorio per la tutela e il sostegno dei minori fragili soprattutto migranti grazie all’iniziativa dell’ Ufficio Migrantes di Roma, lassociazione “Medicina Solidale e l’associazione “Dorean Dote”. Un progetto che prende il via grazie alla esperienza vissuta sul campo dalla tre realtà proponenti soprattutto nelle periferie della Capitale e nei luoghi di maggiore degrado come le occupazioni, i campi rom. Proprio in questi contesti i minori, italiani e stranieri, sono le prime vittime con condizioni di vita pessime, esposti ad abusi di ogni genere spesso nascosti e sconosciuti. Verrà effettuato un monitoraggio costante degli under 15 con rilevamento dei dati riferiti alle condizioni di vita, la frequenza scolastica, il settore epidemiologico e di salute e l’ambiente familiare.

L’Osservatorio prende vita, in realtà, per monitorare tutti i minori fragili della Capitale, italiani e immigrati, ed anche per contribuire – in accordo con le istituzioni locali – a pensare e  costruire delle politiche e interventi mirati a favore dei minori fragili nella città di Roma.

“Questo laboratorio – dichiara mons. Pierpaolo Felicolo, direttore dell’Ufficio Migrantes di Roma – è nato dal lavoro che ha creato una rete di diverse realtà sociali, e mira proprio a mettere in risalto che è lavorando in questo modo che si può essere più efficaci, toccando un aspetto importante che riguarda i migranti più fragili, i minori non accompagnati. Si cerca di venire incontro alle loro esigenze e aiutarli veramente”.

“L’esperienza quotidiana a Medicina Solidale con i bambini vulnerabili, tanto italiani quanto stranieri – afferma Lucia Ercoli, presidente di Medicina Solidale – mi ha messo difronte all’urgente necessità di mettere a sistema una rete virtuosa che i tuteli i più piccoli, che ponga al centro dell’attenzione i bambini vulnerabili con le loro concrete e reali esigenze”.

“Da anni ci occupiamo di minori in condizioni di fragilità – dice Massimo Cicillini di Dorean Dote – in particolare di minori rom che vivono nei campi presenti a Roma. E la possibilità  di mettere insieme forze diverse a beneficio dei minori fragili ci è sembrata un’occasione per costruire un futuro migliore: perché aiutando i bambini si costruisce un futuro migliore anche per la società”.

Dal Ministero dell’Ambiente 10 milioni per e-car in aree protette

Stanziati 7,7 milioni di euro per la realizzazione di servizi di osservazione e prevenzione degli impatti dei cambiamenti climatici nelle aree naturali protette nazionali terrestri e nei siti di importanza comunitaria (SIC) mediante l’acquisto e l’utilizzo di circa 170 autoveicoli alimentati ad energia elettrica e/o ibridi a basse emissioni e 2,4 milioni di euro per la realizzazione delle medesime attività di osservazione e prevenzione nelle aree marine protette che riceveranno in dotazione 50 autoveicoli a basse emissioni (elettrici e/o ibridi) insieme a delle apparecchiature tecnologiche necessarie allo svolgimento dell’attività di sorveglianza e di monitoraggio delle aree marine protette.

Sono questi gli investimenti previsti dal protocollo d’intesa sottoscritto lo scorso 6 dicembre dal Ministero dell’Ambiente, di concerto con la Direzione Generale per la protezione della natura e del mare, con il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, il Comando Generale delle Capitanerie di Porto e la Federazione Italiana dei Parchi e delle Riserve Naturali, al fine di promuovere specifiche iniziative e progetti, anche a fini dimostrativi, nelle aree protette nazionali e comunitarie per ridurre le emissioni dei gas a effetto serra.

Il documento prevede, oltre alla diffusione dei mezzi elettrici e a basse emissioni e al miglioramento tecnologico dei sistemi di sorveglianza anche la diffusione di azioni rivolte all’efficientamento energetico delle strutture presenti nelle aree naturali protette, lo sviluppo delle energie rinnovabili, l’organizzazione di eventi volti alla sensibilizzazione delle comunità locali e dei numerosi visitatori sui temi della mobilità sostenibile, della riduzione delle emissioni e dell’adattamento ai cambiamenti climatici.

Il Protocollo ha una durata di 36 mesi e per la sua messa in opera sono già stati sottoscritti due specifici Protocolli attuativi con il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri e con il Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto.

Castore e Polluce, uguali ma diversi

“Castore e Polluce, uguali ma diversi” è il titolo del terzo appuntamento di “Che Mito! Storie e leggende dalla collezione museale e dal territorio”, in programma per domenica 20 Gennaio, dalle ore 10:30, al Museo della Città e del Territorio di Cori (LT). Il progetto, rivolto alle famiglie, è ideato e realizzato dall’associazione culturale “Arcadia” nell’ambito dei servizi educativi del Museo, in collaborazione con la Libreria “Anacleto” di Cisterna di Latina ed “Utopia 2000” Società Cooperativa Sociale Onlus, ed il patrocinio del Comune di Cori.

Protagonisti dell’incontro saranno Castore e Polluce e i resti marmorei del gruppo statuario dell’inizio del I secolo a.C., rinvenuti nell’area del tempio ad essi dedicato, nella terrazza mediana del foro dell’antica Cora, che ritrae i Dioscuri con i loro cavalli. Dopo la presentazione dei gemelli divini ci sarà il racconto del mito ad essi legato: Mitici figli di Zeus, generati insieme con Elena dall’uovo di Leda, congiuntasi con Zeus trasformato in cigno, compivano le loro gesta sempre uniti: Castore domatore di cavalli, Polluce valente nel pugilato.

Ambedue considerati divinità benefiche e salvatrici e protettori dei naviganti nelle burrasche, fra le gesta loro attribuite, la liberazione della sorella Elena, la partecipazione alla spedizione degli Argonauti; la caccia al cinghiale Calidonio. Il mito più popolare è il ratto delle Leucippidi: Castore fu ucciso dagli Afaridi e Polluce pregò il padre Zeus che mandasse la morte anche a lui, ma Zeus gli concesse di rinunciare a metà della propria immortalità in favore del fratello. Così i due vivono insieme, alternativamente, un giorno nell’Olimpo e l’altro nel regno dei morti.

Su Rai Storia “l’appello ai liberi e forti”

Don Luigi Sturzo diffonde l’appello “A tutti gli uomini liberi e forti’’. E’ l’atto istitutivo del Partito Popolare Italiano. Così negli anni del non expedit pontificio, don Sturzo fonda , un’organizzazione politica indipendente dei cattolici italiani.

Nel primo Congresso, svoltosi a Bologna, il sacerdote siciliano ribadisce il carattere laico e aconfessionale del partito e precisa la sua concezione dello Stato.

Queste le basi da cui parte il ragionamento che Giuseppe Sangiorgi, questa sera, alle ore 21 su Rai Storia, porterà alla nostra attenzione.

Nasce la dieta ‘universale’

Le cattive abitudini a tavola provocano rischi più alti per la salute di tabacco, sesso non protetto e alcol tutti insieme. Per salvare noi e il pianeta occorre raddoppiare a livello globale i consumi di frutta, verdura, e ridurre di oltre il 50% quelli di zuccheri e carni rosse entro il 2050.

Sono alcuni dei passaggi dello studio della Commissione Eat-Lancet che sarà presentato  a Oslo e pubblicato dalla prestigiosa rivista scientifica Lancet. La commissione, finanziata dalla Fondazione Eat della coppia di miliardari norvegesi Petter e Gunhild Stordalen, riunisce autori considerati tra i massimi esperti di nutrizione e sostenibilità (dal professore di Harvard Walter Willett all’inventore del ‘chilometro zero’ Tim Lang) provenienti da università di tutto il mondo e organizzazioni come Fao e Oms.

L’obiettivo è piuttosto ambizioso: proporre una ‘dieta sana universale di riferimento’ basata su criteri scientifici per nutrire in modo sostenibile una popolazione mondiale di 10 miliardi di persone nel 2050 ed evitando fino a 11,6 milioni di morti l’anno dovuti a malattie legate ad abitudini alimentari non sane.

La dieta universale prevede l’assunzione di 2.500 chilocalorie al giorno che, in una gamma flessibile, si traducono in approssimativamente 230 grammi di cereali integrali, 500 di frutta e verdura, 250 di latticini, 14 di carni (bovine o suine o ovine), 29 di pollo, 13 di uova, 28 di pesce, 75 di legumi, 50 di noci, 31 di zuccheri (aggiunti e non). Condimento consigliato gli oli vegetali, extravergine di oliva o colza. Oltre a cambiare i consumi, riducendo gli sprechi del 50%, gli autori del rapporto fissano obiettivi-limite nell’utilizzo di terra, acqua e nutrienti per la produzione agricola sostenibile. E indicano una grande varietà di aree di intervento per raggiungere questi risultati coinvolgendo governi, industrie e società, come ad esempio l’educazione e l’informazione, l’etichettatura, tasse sul cibo, il sostegno economico alla produzione di alimenti sani.

Chi sono i padroni della finanza mondiale

Articolo già apparso sulle pagine della rivista Interris a firma di Federico Cenci

o stato di sfiducia del cittadino medio europeo nei confronti della finanza sta toccando in questa fase storica vette mai raggiunte prima. Diversi sono i segnali che lo dimostrano, a cominciare dalla formidabile crescita di consenso, che si registra qua e là in tutti i Paesi dell’Unione europea, dei movimenti cosiddetti populisti ed euroscettici. Ma la finanza costituisce davvero una sorta di feroce Cerbero che minaccia i popoli o si tratta di una percezione alterata della realtà? Una risposta la offre il libro “I padroni della finanza mondiale – Lo strapotere che ci minaccia e i contromovimenti che lo combattono” (ed. Chiarelettere – 2018), scritto dal sociologo e già eurodeputato, nonché esperto di organizzazioni criminali Pino Arlacchi. Calabrese di Gioia Tauro, sottosegretario generale all’Onu dal ’97 al 2002, egli ritiene che “l’attuale sistema finanziario ultraglobalizzato” è “la minaccia più grave che incombe sul pianeta” e punta il dito nei confronti delle agenzie di rating americane, “le quali – afferma – perseguono interessi di privati”. Da parlamentare europeo fu tra i firmatari di una proposta per chiedere la riforma di queste agenzie rendendole pubbliche ed europee. In Terris lo ha intervistato a margine di una presentazione del volume avvenuta a Roma.

Dott. Arlacchi, chi sono i padroni della finanza mondiale?
“Si tratta di un concerto di poteri che ha il suo centro a Wall Street con delle depandance in Europa, nella Commissione europea, nelle principali banche d’investimento e nella city di Londra”.

Quando è nato questo dominio della finanza?
“È un processo graduale, iniziato negli anni ’70, quando la finanza ha smesso di servire l’industria, ed è proseguito espandendosi negli anni ’80 e ’90 con una serie di misure di deregolazione, liberalizzazioni, privatizzazioni, che hanno dato un grande spazio alla finanza privata che prima non c’era. È così che la finanza, anziché servire lo sviluppo economico di un Paese, è diventata la padrona dello sviluppo e questo fatto ha finito per uccidere lo sviluppo stesso”.

Quali sono state le cause di questa espansione liberista?
“Ci sono due cause. Ce n’è una immediata: la controrivoluzione liberista lanciata da Reagan negli Usa e dalla Thatcher in Gran Bretagna, come risposta alla crisi degli anni ’70. E ce n’è una nel lungo periodo: lo sviluppo naturale di questo ciclo del capitalismo, che vede il declino della potenza egemone statunitense e la nascita di nuove potenze”.

Prima ha parlato della Commissione europea come “depandance” del centro di potere finanziario che si trova negli Stati Uniti…
“È così. Sono stato eurodeputato per cinque anni e ho visto il diverso trattamento che hanno i temi economici e finanziari rispetto agli altri temi dell’agenda del Parlamento europeo, della Commissione e del Consiglio. E soprattutto ho visto che tipo di trattamento. Un esempio? Con l’estensione oltre i confini americani delle sanzioni a Teheran, è stato impedito alle imprese europee di intervenire nel mercato iraniano: siccome l’Iran non è integrato nel sistema finanziario degli Usa, l’apertura di un immenso campo d’investimenti all’industria europea avrebbe danneggiato la potenza egemone. Una prova più concreto dello strapotere finanziario non riesco a trovarla”.

Come valuta le dichiarazioni di Juncker di ieri sulla crisi greca e sulle misure d’austerità: un “mea culpa”?
“Ogni volta che si ottiene il proprio risultato, si fa questa professione di rammarico, che però non serve a nulla. Indietro non si torna, il risultato è stato ottenuto a costo di una vera e propria ‘tragedia greca’ che viene indicata come modello per gli altri Paesi dell’Unione”.

Nel suo libro indica come paradigma da seguire l’economia cinese…
“Non solo la Cina, ma anche altri Paesi dell’Asia come il Giappone e l’India, hanno dimostrato che si può crescere a tassi altissimi, ridurre la povertà, creare occupazione reale attraverso una economia sociale di mercato”.

Esistono però diverse contraddizioni in Cina, a cominciare dai diritti dei lavoratori…
“In Cina vado ogni anno da quasi vent’anni: conosco molto bene la traiettoria di sviluppo della Cina moderna e posso affermare che si tratta di un falso mito. I salari medi di un lavoratore cinese sono oggi più o meno uguali a quelli di un lavoratore portoghese, con un sistema di prezzi più basso e con un sistema di tutele maggiore. Chi fa queste affermazioni non conosce la Cina attuale, dove si è registrato un aumento del ceto medio e, nel giro di 25 anni, un aumento del reddito pro capite di 40 volte. Risultati ottenuti perché c’è stata una gestione efficace dell’economia, che consiste nello Stato che dirige il mercato e non viceversa; nell’industria che gestisce la finanza e non viceversa. Questo accadeva anche in Italia prima dell’ondata neoliberista degli anni ’70, quando infatti c’è stato il miracolo economico del dopoguerra: a quei tempi era il Governo che creava le infrastrutture giuste, necessarie per lo sviluppo economico. Dall’attuale stagnazione economica non potremo uscire finché non guarderemo al passato o finché non prenderemo esempio dall’Asia”.

Così può rinascere l’Europa?
“Esatto. Ma per farlo deve prima di tutto abbandonare l’idea – che tanto ha affascinato nel corso degli anni – degli Stati Uniti d’Europa, ovvero che, sull’esempio degli Usa, bisogna mettere insieme una serie di servizi e istituzioni con un grande centro federale a Bruxelles. Piuttosto, ritengo che la crisi dovrebbe suggerirci un modello diverso, di un’Europa più flessibile, che tenga conto delle diversità economiche dei vari Stati europei, che rispecchia anche il mosaico europeo composto da tante culture. Gli Stati Uniti sono nati distruggendo le culture che c’erano prima, l’Europa invece è nata sulla base di duemila anni di sviluppo locale, e tutto ciò non si può abolire per inseguire un modello non nostro”.

Una riappropriazione delle identità che è spesso il cavallo di battaglia dei movimenti cosiddetti populisti che stanno prendendo piede in Europa…
“Alcune istanze di certi movimenti rappresentano degli spunti di riflessione di cui tener conto, però non possiamo distruggere il sistema europeo, la moneta unica, sulla base di una visione nazionalistica: ciò sarebbe deleterio. Questo sistema va rifondato, tornando alle radici, con una Banca centrale che contribuisce allo sviluppo economico e non si occupa solo della stabilità dei prezzi; tornando al Trattato di Roma che a differenza di quello di Maastricht non parla solo di mercato e di finanza. Bisogna guardare ai padri fondatori, i quali ritenevano l’Europa non solo un’entità geografica, ma uno spirito”.

“Elogio dei liberi e forti”

Articolo apparso sulla rivista Tempi

Conoscere le radici cattoliche della nostra società e della vita istituzionale, ricostruendone le basi storiche: è questo l’obiettivo del saggio scritto a quattro mani da Lucio D’Ubaldo e Giuseppe Fioroni, due protagonisti della politica italiana. Il volume, dal titolo Elogio dei liberi e forti – La responsabilità politica dei cattolici (Giapeto Editore), è stato presentato ieri sera presso lo Spazio Espositivo Tritone della Fondazione Sorgente Group, nel corso di un incontro-dibattito con Giorgio De Rita, Segretario generale del Censis, intervistato dal giornalista de Il Foglio Matteo Matzuzzi.

Ripercorrendo i contenuti del libro, si è parlato di fondamentali passaggi storici partendo dall’800 fino alla pubblicazione dell’appello di Don Sturzo ai liberi e forti. Di grande impatto è considerata l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, che ha posto i semi della dottrina sociale della Chiesa sollecitando l’impegno a fianco dei lavoratori e dei bisognosi, per una riforma della società in chiave cristiana. Don Sturzo, dal canto suo, fu tra i primi a prefigurare la nascita di un partito a base popolare ma moderno, cioè organizzato e con un forte radicamento nella società.

Proprio questa chiave, secondo Giorgio De Rita, rende l’opera estremamente attuale: «Don Luigi Sturzo è stato profetico rispetto al futuro, perché ha creduto di poter aspirare a una società basata sulla libertà ma non sull’anarchia, che deve trovare una guida salda nel senso di responsabilità dei suoi governanti. È la stessa istanza che il Rapporto Sociale del Censis oggi riscontra: gli italiani si dichiarano più che mai bisognosi di una guida autorevole che sappia superare la perdita di riferimenti e il diffuso atteggiamento di rancore nei confronti del diverso».

«Il senso dell’appello di Sturzo – ha concluso l’autore D’Ubaldo – è costruire un partito organizzato che si richiamasse per la prima volta ai principi di uguaglianza, libertà e fratellanza mutuati dalla Rivoluzione francese, qualcosa di veramente nuovo rispetto a quello che era stato l’impegno dei cattolici fino a quel momento, soprattutto dopo il tramonto del progetto autoritario in seguito alla prima guerra mondiale. Si tratta di principi ancora validi per qualunque organizzazione politica».

Industria: Istat, a novembre fatturato in aumento dello 0,6%

A novembre si stima che il fatturato dell’industria aumenti leggermente in termini congiunturali (+0,1%), dopo la flessione dello 0,5% del mese precedente; nella media degli ultimi tre mesi, l’indice complessivo ha mantenuto lo stesso livello dei tre mesi precedenti.

Gli ordinativi registrano una lieve diminuzione congiunturale (-0,2%); nella media degli ultimi tre mesi, sui tre mesi precedenti, si registra un calo più consistente (-1,2%).

La dinamica congiunturale del fatturato riflette un leggero aumento del mercato interno (+0,1%) e una variazione nulla di quello estero. Per gli ordinativi la flessione congiunturale è sintesi di una contrazione delle commesse provenienti dal mercato interno (-1,1%) e di un incremento di quelle provenienti dall’estero (+1,1%).

Con riferimento ai raggruppamenti principali di industrie, a novembre gli indici destagionalizzati del fatturato segnano un aumento congiunturale dell’1,9% per i beni strumentali e una riduzione dell’1,0% sia per i beni di consumo sia per i beni intermedi.

Corretto per gli effetti di calendario (i giorni lavorativi sono stati 21 come a novembre 2017), il fatturato totale cresce in termini tendenziali dello 0,6%, con una flessione dello 0,4% sul mercato interno e un incremento del 2,5% su quello estero.

Con riferimento al comparto manufatturiero, il settore del coke e dei prodotti petroliferi raffinati registra la crescita tendenziale più rilevante (+13,5%), mentre l’industria farmaceutica mostra la flessione maggiore (-9,7%).

L’indice grezzo degli ordinativi segna un calo tendenziale del 2,0%, sintesi di una marcata diminuzione, del 4,4%, per il mercato interno e di un incremento dell’1,4% per il mercato estero. La maggiore crescita tendenziale si registra nel settore delle apparecchiature elettriche (+27,4%), mentre la diminuzione più marcata si rileva nel comparto dei mezzi di trasporto (-11,2%).

Cesare Battisti, il prode che cambiò divisa per un ideale

Anni 10 I° Guerra Mondiale 1915 / 1918 Nella foto: Cesare BATTISTI ( 1875 - 1916 ) in divisa degli Alpini FARABOLAFOTO ( 761554 )

Nato in Austria quando Trento era ancora controllata dagli Asburgo, è forse – con Guglielmo Oberdan – l’esponente dell’irredentismo italiano più popolare e citato dalla storiografia contemporanea.

Giuseppe Cesare Battisti, da non confondere con il Cesare Battisti pluriassassino ed ergastolano che il 14 gennaio 2019 è stato accolto a Ciampino in pompa magna da alcuni membri del governo leghista-pentastellato, trentino, classe 1875, decise di cambiare divisa militare in nome della libertà degli alto-atesini.

E così sposò la causa del giovane Regno d’Italia. Era una causa che partiva in realtà da molto lontano, ed era passata in maniera traumatica dall’occupazione napoleonica alla Restaurazione, per percorrere la tragedia della Grande Guerra e rivendicare ai posteri le ragioni della “vittoria mutilata”. Massone, di formazione socialista nel senso più complesso della sua accezione (era fondamentalmente un filantropo di estrazione umanistica), sin da ragazzo frequentò vari istituti di studio italiani (a Firenze e a Torino) aderendo ad alcuni movimenti studenteschi vicini a Gaetano Salvemini.

Nel momento in cui Cesare decise di cambiare sponda, lo fece da deputato del Reichsrat, l’allora parlamento austriaco, nel quale era stato eletto per il collegio Tirolo 6: impossibilitato a dare luogo tramite la politica alle istanze di autodeterminazione di Trento, nell’estate del 1914 emigrò definitivamente in Italia appellandosi a Vittorio Emanuele III perché annettesse con la forza l’Alto Adige all’Italia. Lo chiedevano migliaia di cittadini di etnia italiana per ragioni non solo geografiche, ma soprattutto politiche e identitarie.
Nel maggio 1915 l’Italia entra in guerra contro l’Austria, e Cesare non esita nemmeno un minuto: si arruola negli Alpini, Battaglione Edolo 50ma Compagnia. Ma le cose non vanno affatto per il verso giusto.

Solo un anno dopo, nel pieno degli scontri, è catturato proprio a Trento dalle truppe asburgiche; il 12 luglio 1916 è accusato di diserzione e alto tradimento, e viene impiccato in località Fossa del Cervara dopo essere stato sottratto a un tentativo di linciaggio da parte della folla che stava assistendo alla marcia verso il patibolo. Non rinnegò neanche in quei terribili attimi i suoi ideali, ma ribadì anzi la sua fede politica e la volontà di essere considerato cittadino italiano.

Il sacrificio di Battisti si compì in un periodo di forte tensione tra Austria-Ungheria e Italia, ovvero quando la Triplice era ancora operativa e attribuiva a Roma un ruolo assolutamente marginale. Tanto che la sistematica occupazione austro-tedesca di territori sovrani – tra cui la Bosnia Erzegovina – aveva provocato gravi malumori nella popolazione italiana e nelle stesse istituzioni.

Quella condizione, che evidenziò la posizione di partner debole del governo italiano, aveva lasciato nell’opinione pubblica uno strascico di malumori non più sanabili, e aveva contribuito a determinare un clima di avversione tramutatosi ben presto in sentimento di riscossa nazionale. Un clima per cui le aspirazioni irredentistiche sul Trentino e la Venezia Giulia si fecero sempre più energiche e confluirono in un ampio contesto di affermazioni colonialistiche, che il nascente regime mussoliniano esacerbò sino alla tragedia del secondo conflitto mondiale.

Venezuela, lʼAssemblea nazionale dichiara Maduro “usurpatore”

L’Assemblea nazionale venezuelana (controllata dall’opposizione) ha approvato una risoluzione in cui dichiara Nicolás Maduro “usurpatore della presidenza” e quindi considera “giuridicamente inefficace” la sua guida del Paese.

Il presidente della An, Juan Guaidó, ha dichiarato che “l’Assemblea assume le competenze che le riconosce la Costituzione, che le permettono di avanzare chiaramente verso un governo di transizione e libere elezioni”.

 

 

Una pista ciclabile unirà Torino a Milano

Una pista ciclabile lunga 82 km collegherà Torino e Milano dal 2020, lungo il Canale Cavour. Un protocollo d’intesa per realizzarla è stato firmato dalla Regione Piemonte, dalle Province di Vercelli e Novara, dai parchi del Ticino, del Po, della Collina Torinese e del lago Maggiore e Canale Cavour.

La ciclabile costerà 25 milioni di euro. Il progetto sarà in carico alla Città metropolitana di Torino e sarà curato dall’ingegner Luigi Spina, che ha già realizzato le ciclabili della provincia torinese. La ciclovia sarà larga 3,4 metri: partirà fra Chivasso e Crescentino, e correndo lungo il Canale Cavour raggiungerà Galliate e il Ticino. All’altezza di Turbigo si innesterà nella ciclabile esistente, che da Sesto Calende arriva a Milano lungo i Navigli.

Allevamento: A Brescia un caso di Lingua Blu

Al momento si tratta di un solo animale colpito dalla malattia, ma l’allarme è scattato su un perimetro di 30 km. Il «virus della lingua blu» (blue tongue), isolato in una stalla a Puegnago del Garda, torna a spaventare gli allevatori della  provincia.

La Bluetongue è una malattia infettiva, non contagiosa, dei Ruminanti domestici e selvatici.

Il virus si trasmette attraverso le punture dei moscerini ematofagi del genere Culicoides; in Africa e nel bacino del Mediterraneo la specie epidemiologicamente più importante è C.imicola sebbene il contagio sia possibile anche per mezzo di vettori passivi (attrezzature e strumentazioni di stalla contaminate).

Elevate temperature serali e forti precipitazioni alla fine dell’estate tendono ad aumentare l’attività dei vettori, che è massima nella tarda estate -primo autunno, e quindi la trasmissione della malattia. Una volta inoculato, BTV tende a colonizzare le cellule del sangue, soprattutto i globuli rossi, fatto che facilita la trasmissione tramite il pasto di sangue del vettore.

La mortalità può essere elevata specie nelle aree precedentemente indenni dalla malattia.

Identità e apertura dei liberi e forti

E’ stato davvero interessante l’incontro di ieri, caratterizzato dall’intervista a De Rita (Censis) sul saggio di Lucio D’Ubaldo e Giuseppe Fioroni, che ha avuto come tema  “I 100 anni dall’appello di don Sturzo: Elogio dei liberi e forti”. L’intervento finale di Lucio si è posto il problema di trovare il presupposto politico e culturale al fine della ricerca di quella ‘identità di cattolici popolari che sembra essersi indebolita, e lo ha fatto ripensando all’impegno sturziano. Sono tuttavia possibili delle alternative politiche.

Il contributo passato dei cattolici, a partire da don Sturzo, è stato quello di avere condotto le masse popolari dalla condizione “plebea” al livello della direzione dello Stato. La politica ha tentato di imprimere una spinta politico e idealistica che potesse trasformare le persone da uno stato di sudditanza a quello di liberi cittadini. Ma, oggi? Oggi, di fronte alla globalizzazione e alla secolarizzazione quello Stato post-guerra e post-boom economico, sembra essere una questione passata:  le risorse non ci sono, come pure non ci sono più piani Marshall o Putiniani. Questo Stato pesante, lento, inefficiente, non consente più lo sviluppo economico e sociale. Le casse pubbliche non coprono le guarigioni dai conflitti sociali (crisi dei corpi intermedi).

Ci vuole quindi un nuovo Stato, una nuova idea di Repubblica e di Democrazia. Ci vuole insomma un nuovo Patto tra governati e governanti. Tutti, cattolici e non, post-comunisti e non, devono ripensare a nuove identità che non buttino all’aria quelle vecchie (solidarietà, fraternità, correzioni del sistema capitalistico, responsabilità verso la res publica). Ecco, questo potrebbe essere il terreno più avanzato per ritrovare lo spirito di Sturzo, che, come sostiene Lucio, valorizzò l’impegno dei popolari per poter mettere in atto i suddetti principi fondamentali.

Per una nuova generazione di «liberi e forti»

Articolo già apparso sulle pagine di Aggiornamenti Sociali a firma di Giacomo Costa

ompie cent’anni il testo noto come Appello ai liberi e forti. Tradizionalmente associato al nome di don Luigi Sturzo, fu redatto il 18 gennaio 1919 da una Commissione provvisoria, di cui il sacerdote siciliano era segretario politico, nel percorso che condusse alla fondazione del Partito popolare italiano. Sebbene sia conosciuto spesso solo per brani, grazie a citazioni e richiami successivi che ne ricollocano le espressioni in un contesto parzialmente diverso da quello originario, questo testo ha segnato profondamente la storia politica italiana del Novecento e per questo abbiamo deciso di riprodurlo per intero insieme a questo Editoriale.

Compiere cent’anni significa inevitabilmente appartenere al “secolo scorso”, a un’epoca ormai sempre meno familiare. Non a caso al Novecento, a cui l’Appello appartiene, ormai si dedicano musei. Ma trasformare in reperto il passato comporta il rischio di sopprimerne la generatività e la capacità di interpellare ancora il presente. Lo ricordava lo scorso 22 maggio il card. Bassetti, presidente della CEI, nell’Introduzione alla 71ª Assemblea generale. Proprio dopo aver citato l’Appello, affermava infatti: «La storia della Chiesa italiana è stata una storia importante anche per la particolare sensibilità per l’aspetto politico dell’evangelizzazione […]. Dobbiamo esserne fieri, ma soprattutto è venuto il momento di interrogarci se siamo davvero eredi di quella nobile tradizione o se ci limitiamo soltanto a custodirla, come talvolta si rischia che avvenga perfino per il Vangelo».

Per sfuggire a questo rischio, occorre ripartire proprio dalla consapevolezza della distanza temporale che ci separa dal passato. Nel caso dell’Appello, questo significa prendere atto che non dà indicazioni da seguire alla lettera nel nostro presente: troppe situazioni sono cambiate (basti pensare che il suffragio universale è realtà ormai da tempo); troppe parole hanno mutato di significato o sono cambiate le risonanze che suscitano: alcune, ad esempio, sono state arricchite da cent’anni di ricerca e dibattito (è il caso dello statalismo, a cui era dedicato l’Editoriale dello scorso novembre); troppi sono i problemi che nemmeno esistevano o erano ignorati, come il degrado ambientale o i mutamenti climatici, o che hanno cambiato radicalmente di segno: l’Italia, oggi meta di flussi migratori, era un secolo fa terra di emigrazione di massa. Cercare nelle parole del passato istruzioni per i problemi del presente espone a rischiosi cortocircuiti.

Prenderne consapevolezza consente di mettere a fuoco che la potenza di un testo come l’Appello ai liberi e forti non risiede nelle soluzioni, ma nel continuare a rappresentare una fonte di ispirazione per le modalità con cui si approcciano i problemi nuovi e quelli che nel tempo si sono modificati ma non sono stati risolti, come la questione meridionale o la parità di genere, che, pur in forme diverse da quelle del 1919, continuiamo a trovare sulla nostra agenda politica. In questa linea, nelle pagine che seguono proporremo alcuni spunti che possano illuminare la perdurante fecondità di quel testo, cioè la ragione per cui, a cent’anni di distanza, vale la pena tornare a leggerlo.

Una carica dinamizzante

Dell’Appello colpisce innanzi tutto la brevità: in due sole pagine riesce ad articolare in modo coerente uno sfondo valoriale preciso, una visione antropologica e politica di riferimento, una lettura della società e dei suoi problemi che conduce a identificare misure pratiche da inserire in un programma politico. Colpisce ancora di più se lo si colloca nel suo contesto storico, ben precedente alle riflessioni del Concilio sulla coscienza, sulla libertà religiosa o sulla legittima autonomia delle realtà temporali e quindi sulla laicità; e in una fase in cui il magistero sociale della Chiesa consisteva di un’unica enciclica, la Rerum novarumPartendo da una serie di intuizioni che la riflessione impiegherà decenni a elaborare, quali i principi della dottrina sociale (dignità della persona, bene comune, sussidiarietà, solidarietà), l’Appello connette piani diversi: è questa capacità che oggi deve risultare di stimolo, ben più degli specifici contenuti.

Si nota poi la sua potenza espressiva: il testo interpella i lettori, parla insieme alla testa e al cuore, così da mobilitare le energie della persona e di tutte le persone. Non è una operazione di élite, in quanto sa cogliere in modo autentico l’anima popolare: non trascura chi è ai margini e soprattutto non esacerba le tensioni, ma si pone nella logica di una mediazione capace di risolvere i conflitti sociali di cui ha piena consapevolezza. È proprio questa attenzione a costruire ponti e tessere relazioni che gli conferisce autorevolezza. Convince perché sa entrare in contatto, non si impone come fa invece la propaganda. Da questo punto di vista si differenzia radicalmente da molte altre proposte, anche dei giorni nostri, che in modi diversi si richiamano a una ispirazione popolare, ma per marcare differenze identitarie, frammentando la società anziché unirla in un soggetto collettivo.

Infine, l’Appello ai liberi e forti ci permette di cogliere il contributo che la fede cristiana può dare alla politica e alla società. Si vede all’opera la creatività che la caratterizza quando non viene ridotta a ripetizione di formule e dottrine, o utilizzata come base di privilegi o di una pretesa di potere. Così il testo interpella tutti, aldilà di confini e appartenenze; sarebbe un tradimento utilizzarlo come bandiera della presenza organizzata di gruppi di cattolici in politica.

Rileggere l’Appello può così rivelarsi particolarmente fecondo oggi, in un tempo in cui – lo possiamo testimoniare da quell’osservatorio particolare che Aggiornamenti Sociali da 70 anni rappresenta (cfr il riquadro qui sotto) – sono molti i tentativi di riarticolare una proposta politica convincente e capace di suscitare un diffuso impegno politico democratico, sostenibile, partecipato. Anche il nostro è un tempo di chiamate, di convocazioni e di appelli, che si devono misurare con un contesto di ripiegamento identitario a livelli diversi: nei confronti dell’altro e del diverso (i migranti sono l’esempio più evidente), del futuro (la scarsa attenzione per la sostenibilità), così come dell’Europa e del resto del mondo (il tema dei sovranismi). Ne scaturisce una politica che anziché cercare mediazioni e progetti condivisi, esaspera le contrapposizioni, alimentando la lotta dei penultimi contro gli ultimi. Non basta essere contro tutto questo, occorrono soggetti politici “liberi e forti” che elaborino proposte per qualcosa che risulti chiaramente alternativo e capace di coagulare il consenso dei molti che non si riconoscono nella retorica politica oggi dominante. Del resto anche l’Appello si presentava come alternativo alle proposte muscolari (di destra e di sinistra) in circolazione ai suoi tempi.

Le ali della libertà

Oggi come nel 1919 libertà è un termine magnetico, capace di toccare le corde più profonde dell’essere umano e risvegliarne le aspirazioni e i desideri più intensi. Oggi come allora circolano però accezioni molto diverse di libertà, e la storia ci ha mostrato come queste differenze abbiano precise conseguenze quando si prova a tradurre l’aspirazione alla libertà in istituzioni e strutture sociali. La libertà dell’individualismo liberale non è quella del personalismo solidale, e così via. L’autodeterminazione è certamente un elemento fondamentale di ogni concezione di libertà, ma oggi si tende spesso ad assolutizzarlo. “Padroni a casa propria” è lo slogan che sembra condensare la concezione prevalente di libertà, a tutti i livelli, distogliendo l’attenzione alla sua altrettanto costitutiva dimensione relazionale.

L’Appello è sensibile all’importanza dell’autodeterminazione, dei singoli così come dei gruppi sociali e dei popoli – era un cardine del programma wilsoniano espressamente richiamato –, ma ciò che innanzi tutto qualifica i “liberi” a cui si rivolge è il senso del «dovere di cooperare» e la capacità di agire «senza pregiudizi né preconcetti». Quest’ultima espressione è spesso stata intesa con riferimento alla disponibilità, a prescindere dall’appartenenza confessionale: è del tutto chiaro, infatti, che l’Appello non si rivolge ai soli cattolici. Rileggendole oggi, ci rendiamo conto che quelle parole hanno un significato più ampio: fanno appello alla capacità di collaborare per il bene comune superando tutte le appartenenze, non solo quelle confessionali, ma anche quelle ideologiche, culturali, sociali, economiche, compresi quindi gli interessi di parte e il tornaconto individuale o di gruppo. Tutte le appartenenze portano con sé il pericolo dell’autoreferenzialità, della trasformazione in casta, rischiano di smarrire la propria parzialità pretendendo di diventare il tutto. In questo senso, libertà è anche un limite verso se stessi, un argine alla pretesa di assolutizzare la propria posizione e quella della propria parte.

Il primo frutto di questa libertà è la promozione dell’uguaglianza in maniera concreta, o almeno dell’equità in termini di opportunità (cfr artt. 2-3 Cost.). Ne è prova tangibile l’insistenza con cui l’Appello ribadisce la necessità di «congiungere il giusto senso dei diritti e degl’interessi nazionali con un sano internazionalismo», facendone anzi un indicatore di libertà morale. Questo non vale ovviamente solo sul piano dei rapporti internazionali, su cui torneremo: la tutela delle legittime aspirazioni alla libertà di ciascuno non può legittimare nessuna pretesa di “passare per primo” o di avere più diritti degli altri. La libertà, se non è disponibile a tutti, è oppressione degli uni sugli altri e odioso privilegio. Di questo, e non di autentica libertà, godevano gli aristocratici libertini dell’Ancien Régime, a scapito di una moltitudine di oppressi. È questo «il vero senso di libertà», che richiede di aprire spazi di autonomia per tutti, a prescindere da ogni identità e appartenenza, in quegli ambiti che l’Appello stesso elenca con grande chiarezza: libertà religiosa, libertà d’insegnamento, libertà sindacale e associativa (le «organizzazioni di classe»), libertà di partecipazione politica ai diversi livelli (la «libertà comunale e locale»).

Rileggendo l’Appello, tocchiamo con mano che ancora oggi la libertà non è un’etichetta vuota e che un buon criterio per discriminare le tante proposte politiche in circolazione può essere proprio la nozione di libertà su cui si fondano, e la disponibilità a concedere opportunità a tutti, e non solo a reclamare i diritti della propria parte.

Forza e potere

Il vero senso di libertà diventa anche un criterio per l’esercizio dell’autorità e del potere, a cui legittimamente ogni partito (anche il Partito popolare italiano che nasce con l’Appello) aspira.

I “liberi e forti” sanno riconoscere i propri limiti e aprire spazi perché i singoli e i gruppi – tutti, nessuno escluso – possano crescere grazie a una progressiva assunzione di responsabilità nella costruzione del bene comuneL’autorità così concepita non coincide col potere. Il potere può prescindere dal consenso o cercare di carpirlo; il potere si presta a essere abusato, seduce ed è sedotto. L’autorità è relazionale: non può agire se non è riconosciuta. Per questo i “liberi” hanno bisogno di essere “forti”, per usare il potere come forma per esercitare l’autorità.

L’aggettivo “forti” merita una riflessione specifica, in quanto rimanda sia alla forza e al suo uso, sia alla fortezza, intesa come la virtù che assicura fermezza e costanza nella ricerca del bene. Senza fortezza, l’uso della forza perde ogni riferimento etico e si trasforma in arbitrio e prepotenza. Proprio come la libertà, anche la forza ha bisogno innanzi tutto di un’istanza di autolimitazione. L’Appello ne è ben consapevole, tanto che invoca istituzioni internazionali “forti”, cioè capaci di resistere alle «tendenze sopraffattrici dei [popoli] forti» nei confronti dei «popoli deboli». Questa dinamica non interessa solo i rapporti tra i popoli, ma anche quelle tra i gruppi sociali e persino tra gli individui.

Dalla nozione di forza dipendono le modalità dell’agire politicoÈ una concezione mutilata della politica quella che si basa sulla rivendicazione dei diritti e sulla conquista del potere, ma dimentica l’esercizio di un’autentica mediazione sociale, scivolando su un piano inclinato in fondo al quale non può trovarsi altro che la violenza distruttiva di chi non ha altri modi per farsi ascoltare. Ce lo mostrano in modo eclatante le proteste dei “gilets jaunes” che stanno incendiando la Francia, e tante altre situazioni analoghe. Solo la libertà nel modo di esercitare il potere consente di aprire spazi di partecipazione democratica e di mediazione tra i diversi attori sociali. Altrimenti, come abbiamo imparato, le forme della democrazia si svuotano e si trasformano in un ginepraio di procedure, dentro cui crescono i privilegi di una minoranza, l’irresponsabilità della classe dirigente, il senso d’impotenza dei più e l’oblio dei deboli. E, inevitabilmente, il fascino per le “soluzioni di forza”.

Un appello per l’Europa

Rileggere l’Appello ai liberi e forti ci ha ricondotti ad alcune categorie portanti della politica, che quel testo continua a illuminare in modo stimolante. Oggi come allora le considerazioni di fondo premono per tradursi in atto: non a caso all’Appello seguiva un programma politico. Nessuna attuazione potrà esaurire la ricchezza e la profondità dei principi, ma senza di essa questi ultimi resteranno nel regno dell’astrazione, privi di efficacia. Che cosa significa provare oggi a esercitare libertà e forza? Ad articolare autorità e potere? In che direzione siamo chiamati a muoverci?

In un momento in cui l’Italia usciva da una guerra rovinosa, anche se vinta, e doveva impegnarsi per trasformarsi da Paese agricolo a nazione in via di industrializzazione e da democrazia “oligarchica” con suffragio censitario a democrazia di massa con suffragio universale (almeno maschile), colpisce come lo sguardo dei redattori dell’Appello non sia rivolto verso l’interno, ma collochi con decisione il futuro dell’Italia all’interno di un ordine internazionale imperniato sulla Società delle nazioni.

Un secolo dopo, il quadro di attori internazionali si è certamente arricchito – il livello delle istituzioni europee era probabilmente impensabile nel 1919 –, ma il nocciolo della questione non si è molto modificato: immaginare il futuro italiano richiede di definirne le modalità di relazione con il contesto internazionale. Oggi, ben più che l’orizzonte globale, i nodi riguardano il livello europeo e in particolare l’Unione Europea. Le difficoltà britanniche a gestire la Brexit dimostrano che alla fine risulta quasi impossibile fare a meno dell’Unione, non perché questa sia una gabbia o una condanna, ma perché l’esigenza di aggregazione di un’area continentale come la nostra è un dato di fatto in un mondo dominato da giganti geopolitici, cosa che nessun Paese europeo è. Non a caso, proprio la posizione nei confronti dell’Europa è diventata, quasi ovunque, una delle discriminanti principali tra gli schieramenti politici e uno dei temi più caldi delle campagne elettorali.

Proprio come la Società delle nazioni nel 1919, anche per noi italiani oggi l’Europa resta una scelta e volere l’Europa non può significare arrendersi a un’Europa qualunque e neanche accontentarsi di quella esistente, che in alcuni suoi aspetti è indifendibile(cfr Riggio G. [ed.], «Dietro le quinte dell’Unione Europea. Un dialogo a tre voci da Bruxelles» alle pp. 36-43 di questo fascicolo). Quali riforme sono possibili e necessarie per spingerla nella direzione desiderata? Sulla scorta dell’Appello, siamo interessati a provare a costruire un’Italia che sia parte e promotrice di un’Europa “libera e forte” nel senso che abbiamo delineato sopra?

È chiaro che si tratta di un progetto di riforma profondo e radicale, come lo era nel 1919 la richiesta di estendere il voto alle donne, di riformare la burocrazia, di rendere elettivo anche il Senato, di riconoscere le autonomie locali sulla base di una sussidiarietà che oggi anche la UE ha inserito tra i propri principi, ma che non è sempre facile percepire.

Un’Europa “libera e forte” sarà capace di articolare autorevolmente unità e rispetto delle differenze, senza obbligare tutti a marciare con lo stesso passo, ma senza nemmeno concedere a nessuno diritti di veto più o meno mascherati. Questa Europa potrà allora chiedere ai singoli Paesi che la compongono di essere a loro volta “liberi e forti”, cioè di rinunciare a interpretare la sovranità di cui dispongono in modo autoreferenziale e facendo del proprio interesse l’unica bussola dell’azione politica. Come abbiamo visto, liberi e forti sono coloro che sanno riconoscere un limite alle proprie pretese, e questo vale anche per gli Stati, nelle relazioni che li uniscono e ancora di più in quelle che istituiscono con i loro cittadini e le forme della loro vita associata.

Apparati pubblici “liberi e forti”, a livello nazionale e sovranazionale, sapranno promuovere concretamente la partecipazione dei cittadini, incoraggiando la loro capacità di iniziativa e le forme strutturate a cui questa dà vita. Questo riconoscimento permetterà a quelli che tradizionalmente sono chiamati corpi intermedi di esplicare la loro fondamentale funzione di mediazione. Solo così è possibile promuovere la coesione sociale e la formazione di capitale sociale, restituendo al popolo la sua soggettività e sovranità, non attraverso slogan o retoriche riaffermazioni di identità presunte. È probabilmente questa la differenza fondamentale tra una politica popolare, che rispetta il popolo e la sua autonomia originaria, e una politica populista, che rende il popolo un ostaggio di chi è al potere. Con un’attenzione particolare – anche su questo l’Appello è molto chiaro – a chi è ai margini e ai più deboli. È proprio la capacità di proteggere i più deboli e di promuovere la loro partecipazione che legittima l’uso della forza e lo differenzia dalla brutalità. Per questo è fondamentale che un’Europa che si pone alla ricerca di una identità popolare che rischia di smarrire non sacrifichi il “pilastro sociale”, ma lo metta al centro delle sue politiche.

Istituzioni europee e nazionali che funzionano con questo spirito consentiranno l’esistenza di popoli e gruppi sociali liberi e forti, capaci di resistere alle tentazioni solipsistiche, nazionali o nazionalistiche che siano. Questo è il vero DNA dell’UE: da norme, leggi, accordi e procedure non possiamo prescindere, ma restano il mezzo per dare attuazione a un ideale e a un sogno più alto. L’idea che possano esistere solo relazioni dirette, che prescindano da ogni mediazione istituzionale, non è invece altro che un’illusione esposta al rischio della manipolazione, per quanto sia molto di moda nei nostri giorni.

Se qualcosa ci insegna la lettura dell’Appello è che il cambiamento di cui abbiamo bisogno sarà possibile solo se i “liberi e forti” che anche oggi popolano la società italiana ed europea sentiranno ancora «il dovere di cooperare», senza chiudersi dietro barriere di interessi e appartenenze. Tra pochi mesi le elezioni europee ci riproporranno una domanda sempre più cruciale: quale Europa vogliamo? E quale Italia al suo interno? Ma di fronte a parole sempre più inflazionate, a proclami sempre più erosi dal cinismo della post-verità, i “liberi e forti” nell’Europa del 2019 decideranno ancora di unirsi?

 

A proposito dell’appello ai liberi e forti

La pubblicazione dell’ultimo rapporto del Censis ha sollevato più di qualche allarme con dati che fanno pensare ad un generale impoverimento, non solo economico, ma soprattutto culturale, della popolazione italiana, incattivita, impoverita, ulteriormente invecchiata e senza grandi progetti e interessi comuni. E’ immediato, ancorchè di parte, della nostra parte, il richiamo alla situazione che viviamo dopo il terremoto delle ultime elezioni politiche.

Il voto del 4 marzo, da un certo punto di vista, annuncia la fine del sistema democratico novecentesco. Non solo è l’evento che manda in primo piano umori, sentimenti e paure, seppellendo contenuti, valori e comportamenti della politica tradizionale, ma è soprattutto il voto che condanna i partiti tradizionali, PD in testa, alla marginalità, come e più di quanto successo altrove nella sinistra europea ed occidentale.

E’ anche il voto che rimuove ogni idea di futuro dall’agire politico e il M5S, aperto a ogni possibilità ed alleanza, si fa portatore di qualsiasi istanza e del suo stesso contrario. Non è di sinistra, non è di destra, anzi è sia di destra che di sinistra, è, come dice Di Maio, al di là della contrapposizione destra/sinistra. Lo stesso concetto di sinistra sembra ormai profondamente inattuale e nel centro destra, la formazione vincente è una Lega in possesso di armi lontane e diverse da quelle delle destre tradizionali e con le quali batte alla grande la tradizionale destra berlusconiana, non più in grado di esercitare egemonia moderata sulle spinte estremiste di Salvini.

Non è solo un problema italiano; i partiti tradizionali, soprattutto socialdemocratici, vivono una crisi profonda in tutta l’Europa e, con loro, vacillano le stesse colonne portanti della cultura sociale europea, quelle nate dalla rivoluzione francese: libertà ed uguaglianza, certo, ma anche la più cristiana delle tre architravi della modernità, la fratellanza.
Questo contesto storico così drammatico spinge a ritrovare in ciascuna forza politica, i valori degli inizi, quelli più puri e per questo il libro di cui parliamo è così pertinente. Ma, ci chiediamo subito, noi viviamo una fase in cui confermiamo la scelta già compiuta dalla Storia, cercando in Sturzo le idee e lo stile di lavoro così democristiani o dobbiamo anche andare a ripercorrere il politically incorrect di Murri, la sua etica intransigente così attrattiva per i giovani del suo tempo? Chi è più attuale oggi, Sturzo o Murri?, questa è la prima domanda che poniamo agli autori del libro.

Più in generale, in un mondo che sembra svuotarsi di valori e in cui il crollo di Verità condivise sembra aprire il campo alle più violente verità personali (dal linguaggio della politica agli hooligans) e in cui i progetti delle comunità sembrano diventare impossibili in un mare di desideri micronizzati, consumistici ed individuali, come può tornare attuale il richiamo a un programma che seppur politico e aconfessionale chiama in campo, ancora, una coscienza?
E’ evidente che questo programma, oltre che plurale, sociale, debba, superando grosse difficoltà, essere anche immediatamente credibile. Viviamo, però, in un tempo in cui il correlato della credibilità di un programma non risiede nelle competenze o nell’esperienza dei suoi propugnatori, quanto, piuttosto, nell’autorità della leadership. Ma come si fa, nell’epoca della comunicazione irresponsabile e infondata, nell’epoca della violenza non solo verbale, a rendere credibile un programma? Vediamo una sola strada alternativa al populismo dilagante ed è quella in cui il programma necessario (sottolineiamo necessario) sia la missione di un soggetto capace, oggi, di vestire il saio di chi riconosca errori commessi e si proponga con un sacrificio di parte dei poteri acquisiti. Per questo avanziamo questo provocatorio richiamo allo stile di vita e di lavoro di Murri, oltre che di Sturzo. Con l’avvertenza che un richiamo, a Sturzo, a Murri, o anche a Mattei o Moro, non potrà essere una semplice riproposizione. Troppe cose son cambiate, a partire dalla fine di quel peculiare mix interclassista che ha fatto della DC, erede del PP un vero partito di lotta e di governo, interprete di una cultura con larghe tracce di polemica anticapitalistica e di una pratica politica di conciliazione di istanze popolari ed assetti del potere. Interclassismo democristiano che è stato un modo tutto italiano di correlare realtà economica capitalistica e morale cattolica.

Oggi sembra irrecuperabile anche solo il richiamo a quel patto tra Trono e Altare di cui si pala nel libro. E non solo per le vicende della storia ma anche per quell’affinità elettiva tra capitalismo e spirito protestante così lontana dalla diffidenza cattolica verso il successo e la ricchezza. Il baricentro del rapporto tra capitalismo e spirito cristiano passa da tempo per Amsterdam, Londra, Berlino. Quale può allora essere la chiave di un nuovo patto sociale tra le masse non solo cattoliche e un potere economico sempre più lontano, non solo moralmente, ma anche spazialmente globalizzato?
Il 4 marzo italiano ha profonde analogie con le avanzate populiste in vaste aree del sistema delle democrazie occidentali. Da dove nasce tale rabbiosa e violenta carica antisistema?
Siamo da anni alle prese con una sostanziale stagnazione, puntualmente rilevata nel Rapporto del Censis, che ha visto in questi Paesi una sensibile decrescita del potere d’acquisto soprattutto tra i ceti medi e più deboli, con aumenti abnormi di disoccupazione soprattutto giovanile. Basta il dato socioeconomico a spiegare il 4 marzo italiano o i gilet gialli in Francia (con le debite differenze)? Oppure ha qualche valido motivo di proporsi, soprattutto fra i giovani, il rifiuto di una politica inconcludente e talvolta anche inquinata? Si dice che i giovani non voteranno alle europee e che si mostrano scettici verso la stessa Organizzazione Comunitaria. Certo, giusto, inevitabile: come potrebbero provare interesse per un ‘Europa che negli ultimi decenni non ha assicurato loro un futuro?

Il decadimento della politica, cui stiamo assistendo, ha motivi solo sociali, economici e morali oppure la politica sconta la perdita di autorevolezza e di credibilità dopo la caduta delle sue grandi verità del novecento? La difficoltà appare enorme. Da una parte i partiti non dispongono di luoghi utopici verso cui portare le speranze della gente, dall’altra non possono vantare risultati di gran vanto nell’azione politica sviluppata nel recente passato
E’ qui che il ripensamento dei motivi che portarono alla nascita dei Popolari può contribuire a costituire un riferimento verso una coscienza politica non solo dei singoli militanti, ma anche di un intero partito.
Una specie di mutazione antropologica emerge dal voto, come una frattura profonda, nel sistema democratico e nel patto tra democrazia rappresentativa e cittadini, ormai convinti in larghi settori che un sistema di partiti incapaci e burocrati non assicuri più l’equità e lo sviluppo sociale promesso a lungo. Occorrerà stare molto attenti alla rottura di questo patto, perché è stato finora elemento costitutivo delle stesse regole della convivenza civile e democratica.

Inoltre la democrazia non appare più, dogmaticamente, un bene supremo ed eterno, una specie di variabile indipendente rispetto ai costi dei suoi poteri, alle spese sempre crescenti del sistema di rappresentanza, a partire dalle campagne elettorali e dai costi di apparato. Non è da oggi che la democrazia mostra questo ed altri punti di crisi, in una fase difficoltosa del suo percorso nelle società occidentali. Andare a fondo di questo problema, però, porta a rivedere il rapporto di rappresentanza e gli stessi meccanismi di formazione – e di conservazione – del consenso, oltre che la qualità e la quantità degli organismi di governance, centrale e periferica. Non è questo è un terreno di riforma profonda del sistema dei partiti?
Una profonda mutazione sembra emergere anche dal punto di vista dell’architettura dei partiti, in particolare del PD, ultima formazione a chiamarsi partito, più strutturata e più solida di tutte. Il M5S ha vinto senza nessuna struttura territoriale. Lo stesso Macron , in Francia, ha vinto utilizzando al massimo i canali di comunicazione a disposizione con Internet e, anzi, distruggendo le strutture del partito di provenienza. La comunicazione oggi passa per altre strade ed altre modalità di aggregazione, tematiche più che territoriali.
Ma la stessa liquefazione del processo politico che ha visto affermarsi Macron sta oggi rivolgendosi contro il Presidente francese. Questo vuol dire che partiti e sistemi politici liquidi sembrano non poter garantire la stessa stabilità di una comunità politica che poggi su solidi corpi intermedi e associativi.

In questa situazione terribile dove, accanto ai problemi di carattere nazionale, emergono, ancora più minacciose, le immagini di una possibile disgregazione dell’Unione Europea, quale è il principale motivo di una chiamata in campo della militanza cattolica?
La parola maggiormente presente nella cultura cattolica delle origini, in Sturzo come in Murri e poi, dopo, in La pira e fino a Moro è Responsabilità ed essa fa anche da sottotitolo al libro di D’Ubaldo e Fioroni. Ma possiamo parlare di responsabilità verso un rinnovato impegno futuro senza assumerla anche per riesaminare la nostra azione passata?
Ci prendiamo o no la responsabilità, per la nostra parte, di un declino che iniziò ormai trent’anni fa e che non siamo riusciti, né dal governo, né dall’opposizione a contrastare, oppure scarichiamo tutte le colpe sui populisti?
La lotta di Sturzo contro le tre malattie diaboliche della politica sembra appartenere ad un lontano passato e in troppi ci siamo assuefatti ad una situazione, ormai così lontana da quel profilo morale, considerata, sotto sotto, standard. La forma partito che abbiamo scelto e praticato non ha nulla che vedere con la sottomissione della politica alle istanze elettoralistiche e relative correnti?
Tutti diciamo che la più grande differenza tra una forza politica organizzata come partito e i populisti sia nella presenza o meno, nel processo democratico, del ruolo dei corpi intermedi, sindacati ed enti locali soprattutto. Ebbene, mentre ne riproponiamo la funzione vitale ai fini del tessuto democratico, forse è il momento di ripensare il nostro stesso atteggiamento verso i sindacati, per esempio, troppo spesso liquidati e incolpati del mantenimento di tutti i corporativismi e massimalismi. O verso gli Enti Locali che troppo spesso guatiamo come il leone una preda. In questi grandi filoni di società civile, in questi grandi corpi intermedi, non è forse arrivato il momento di stare con abiti francescani, disposti ai necessari, pur dolorosi, sacrifici?

Nicola Zingaretti ha più volte parlato a favore di un grande partito di sinistra che, solo negli ultimi anni, sarebbe stato portato alla rovina da Renzi. Con tutti i limiti che non abbiamo mai smesso di rilevare in Renzi, noi pensiamo esattamente il contrario e cioè che Renzi abbia tentato un’opera di modernizzazione che ha visto proprio nel fuoco amico del suo stesso partito il primo avversario.

Su questi temi, al di là dei problemi stringenti, il PD dovrà avviare un dibattito congressuale straordinario alla ricerca di nuove identità programmatiche e nuovi protagonisti. Non è neanche detto che un dibattito del genere possa avere esiti, pur nelle differenze, unitari. La scelta obbligata di una linea radicalmente riformista, con un programma di cambiamenti urgenti a livello istituzionale ed elettorale, con obiettivi di riforma profonda nella politica fiscale, in quella energetica ed infrastrutturale, ponendo al primo posto il rientro da un debito pubblico il cui servizio costa, ogni anno, 70 – 80 miliardi di euro inesorabilmente sottratti a qualsiasi politica di rilancio dello sviluppo, porterà inevitabilmente all’ emergere di opzioni ed obiezioni ancora inclini al massimalismo. Per non parlare delle diversità connesse alle diverse visioni della forma partito da assumere.
A valle di una vera e propria rifondazione di questo tipo potranno essere compiute in modo più solido le alleanze e le scelte di schieramento più opportune tra culture distinte ma non distanti. Per adesso, la strada dell’opposizione è semplicemente obbligata.

Caritas: la povertà a Roma sta aumentando

La povertà a Roma sta aumentando. Lo si legge nel Rapporto 2018 sulle povertà elaborato per il secondo anno dalla Caritas di Roma.

Sono, infatti, 21.149 le persone che a Roma hanno chiesto aiuto alla Caritas nell’ultimo anno.

Il lavoro e la casa sono le richieste più diffuse: quasi il 60% degli utenti chiede un lavoro mentre il 61,3% chiede un sostegno per pagare la locazione abitativa, la voce di spesa di maggior peso per le famiglie. Le persone che si rivolgono alla Caritas hanno bisogno di “essere ascoltate” perché “è la solitudine, la mancanza di relazioni umane, il non essere considerati degni di attenzione, la cosa che più lamentano gli ultimi”.

Tra i bisogni principali svetta la questione del reddito inadeguato, dunque la povertà materiale che registra quasi l’80% delle persone che bussano alle porte di Caritas. Ma sono presenti anche problemi come “isolamento, precarietà abitativa, gestione economica inadeguata, fragilità psicologica, malattie, bassa scolarità, conflittualità familiare, disinformazione rispetto ai propri diritti”.

A Roma, in particolare, il reddito individuale imponibile medio si distribuisce in maniera profondamente diseguale: si va dai 40.530 del II Municipio ai 17.053 del VI Municipio (dunque meno della metà rispetto al primo municipio in classifica). Nel complesso meno del 2% (1,8) denuncia un reddito di oltre 100.000 euro l’anno, mentre il 51,3% possiede un reddito fino a 15.000. euro.

Vicenza: “Verso un’Europa migrante”

Creare momenti di dialogo e confronto sul tema delle migrazioni e comprendere a fondo le ragioni che spingono migliaia di persone a spostarsi dai propri Paesi d’origine, ma anche promuovere una visione comunitaria del fenomeno migratorio. Sono gli obiettivi di “Verso un’Europa migrante”, un ciclo di sei incontri che si terrà a Vicenza nei prossimi mesi e che sarà rivolto a tutta la cittadinanza. Una rassegna che si pone in continuità con l’esperienza biennale di “Verso una città migrante”, iniziata nel 2017.

Il primo appuntamento è in programma per il 22 gennaio alle 20.30 al Centro Culturale San Paolo di viale Ferrarin con padre Camillo Ripamonti, presidente dell’associazione Centro Astalli di Roma, e Simone Varisco della Fondazione Migrantes. I due ospiti tratteranno i dati e i numeri del fenomeno migratorio in un’ottica che va oltre i pregiudizi fornendo un’analisi realistica e puntale della situazione in Italia e in Europa.

La seconda data della rassegna, poi, è prevista per il 18 febbraio alle 20.30 al Centro dei Ferrovieri di via Rismondo con l’incontro dal titolo “Un’invasione che non si ferma”. Fabio Butera, giornalista che collabora con La Repubblica e autore del reportage sul caso della nave Trenton, incontrerà Nello Scavo, inviato di  Avvenire che lo scorso ottobre è stato inviato a bordo della Missione Mediterranea.

Il Polo giovani B55, in Contrà Barche, invece, farà da cornice al terzo appuntamento in calendario per il 18 marzo. Sempre a partire dalle 20.30 Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale e vincitrice del premio “Anna Lindh Foundation Award” con il reportage “La barca senza nome”, spiegherà cosa c’è da sapere oggi sull’immigrazione.

“La quotidiana storia di un medico a Lampedusa” è il titolo del quarto appuntamento, che si terrà il 15 aprile nella Sala dell’Arco del Palazzo delle Opere Sociali di Piazza Duomo (ore 20.30). Ospite della serata il dottor Pietro Bartolo, direttore del Presidio Sanitario e Poliambulatorio di Lampedusa, che dall’inizio degli anni Novanta ha curato migliaia di uomini, donne e bambini sbarcati sull’isola. Bartolo è stato anche uno dei protagonisti del docufilm di Gianfranco Rosi “Fuocoammare” (vincitore dell’Orso d’Oro di Berlino).
Si continua il 6 maggio nella sede del Centro e Documentazione e Studi di Presenza Donna, in contra’ Mure Pallamaio. Alle 20.30 Laura Silvia Battaglia, giornalista e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, condurrà l’incontro “Yemen, una guerra con armamenti italiani”.

L’ultimo appuntamento il 13 maggio negli spazi di Porto Burci (Contra’ dei Burci, 27) alle 20.30.

La rassegna, organizzata con il patrocinio del Comune di Vicenza, è promossa da Non Dalla GuerraCentro Astalli Vicenza, Centro Culturale San Paolo-Vicenza, Cittadini per Costituzione, Cooperativa Pari Passo, Incursioni di Pace-Rete Progetto Pace Vicenza, Migrantes, Movimento dei Focolari Veneto, Pax Christi, Presenza Donna. 

CO-GOVERNANCE: corresponsabilità nelle città oggi

Dal 17 al 20 gennaio 2019, 400 amministratori, cittadini, economisti, esperti e
professionisti di tutto il mondo si incontreranno a Castel Gandolfo (Roma): quattro giorni
di confronto e approfondimento sulla gestione delle città, fare rete e imparare modelli di
sostenibilità e convivenza.

Interverranno, tra gli altri, pensatori e protagonisti del lavoro nelle città, che rifletteranno sul loro significato in quest’era ‘post-democratica’ come Emilce Cuda, argentina, politologa e profondamente conoscitrice del pensiero di Papa Francesco o l’ on. Sunggon Kim (김성곤) – buddista, già Segretario Generale dell’Assemblea Nazionale Coreana. Sarà presente
l’architetto Ximena Samper, colombiana, l’on.Ghassan Mukheiber, libanese, Chairman
dell’Arab Region Parliamentarians Against Corruption. Da segnalare anche la presenza del
Sindaco di Katowice (Polonia) dove si è appena conclusa la COP 24, il responsabile
dell’accoglienza ai rifugiati della Catalogna, Angel Miret e il Presidente della Comunità islamicadi Firenze e della Toscana, Izzedin Elzir.

Se governare le città è sempre stata un’arte complessa, oggi lo è ancora di più. Occorre
rispondere a una società che cambia senza sosta, attraversata da problemi locali e globali e da un ritmo di sviluppo tecnologico convulso che rischia di aprire abissi economici e zone inedite di nuove povertà. Occorre decidere per oggi e programmare a lunga distanza. È per questo che le città sono strategiche dal punto di vista politico e culturale perché sono “casa” per più della metà della popolazione mondiale (fonte Onu) e non è una scelta libera, ma spesso legata a mancanza di cibo e lavoro.

In questa epoca di sovranismi, le città stanno emergendo come veri e propri hub sociali,
distributori di infinite connessioni: civili, politiche, antropologiche, economiche, comunicative. Le città, dunque, come espressione di un nuovo modello identitario, dove identità non fa rima con localismo o nazionalismo esasperati, ma con partecipazione, condivisione dell’appartenenza a una vicenda comune, perché siamo parte della famiglia umana, prima ancora di prendervi parte.

Bankitalia, a novembre nuovo record del debito pubblico: 2.345,3 miliardi

Nuovo record per il debito pubblico italiano. A novembre è aumentato di 10,2 miliardi rispetto al mese precedente, risultando pari a 2.345,3 miliardi. E’ quanto si legge nel supplemento al Bollettino Statistico “Finanza pubblica, fabbisogno e debito” di Bankitalia.

L’incremento segnato nel mese di novembre è andato a finanziare il fabbisogno del mese (5,8 miliardi) e l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (3,3 miliardi, a 51,9). Bankitalia precisa che l’effetto complessivo degli scarti e dei premi all’emissione e al rimborso, della rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e della variazione dei tassi di cambio ha inoltre incrementato il debito di 1,2 miliardi.

In riferimento alla ripartizione per sottosettori, la variazione del debito ha sostanzialmente riguardato le amministrazioni centrali, aggiungono a via Nazionale, specificando che il debito delle amministrazioni locali e quello degli enti di previdenza sono rimasti pressoché invariati.