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domenica, 2 Novembre, 2025
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Europa, patria di tutti. E nella bandiera le radici cristiane

Fonte Agensir a firma di Enzo Romeo 

Si va di corsa verso le elezioni europee. Tornata “decisiva”, dicono tutti, per l’Italia e per il futuro del nostro continente. I venti impetuosi del sovranismo rischiano di lacerare la bandiera d’Europa. Per questo ho voluto raccontarne la storia, attraverso documenti inediti, in un libro dal titolo Salvare l’Europa – Il segreto delle dodici stelle, appena edito dall’Ave, l’editrice dell’Azione cattolica italiana.

I documenti che ho ritrovato negli archivi di Strasburgo dimostrano che la bandiera col cerchio stellato si ispira ai simboli dell’Immacolata Concezione (le dodici stelle e il manto azzurro).

A Lei erano devoti coloro che lavorarono al progetto dell’emblema del Consiglio d’Europa, prima istituzione comunitaria, nata giusto settant’anni fa. L’idea fu del capo ufficio stampa, Paul Lévy, ebreo belga convertitosi al cattolicesimo durante la seconda guerra mondiale. Vi collaborò un disegnatore di Strasburgo, Arséne Heitz, che portava sempre indosso la Medaglia miracolosa, coniata in seguito alle apparizioni della Madonna a Rue du Bac, a Parigi.

L’adozione della bandiera da parte del Consiglio d’Europa avviene l’8 dicembre 1955 (nel 1985 diventerà la bandiera ufficiale anche della Comunità europea), giorno in cui la Chiesa festeggia l’Immacolata. Semplice coincidenza o qualcosa di più? Come che sia, è un fatto che a realizzare il sogno dell’unità europea contribuirono in modo determinante tanti cattolici: Schuman, Adenauer, De Gasperi e molti altri ancora. Uomini che non volevano “sventolare” la loro appartenenza religiosa, ma essere lievito che fa crescere la pasta del servizio e della fratellanza.

Lungi da integralismi fuori luogo, il rimando ai simboli cristiani non deve né può essere la rivendicazione di una primazia, ma l’offerta di un terreno comune. Da esso deve trarre linfa la pianta dei cui frutti tutti possono nutrirsi, a prescindere da razze, fedi, origini e provenienze. Questa è la prospettiva che si evince dai discorsi sull’Europa degli ultimi pontefici, del cardinale Bassetti e del Presidente della Repubblica Mattarella che sono proposti nella seconda parte del volume.

Le istituzioni europee, svuotate del loro propellente ideale, sono oggi percepite dalla gente come distanti e inutili: una grande e costosa macchina burocratica che pone vincoli e frena lo sviluppo, che si intromette impropriamente nella vita e negli affari dei singoli cittadini e degli Stati.

Questa impressione fa dimenticare che grazie al processo unitario si è garantito all’Europa il più lungo periodo di pace della storia, che sono state riconosciute garanzie politiche e democratiche, che sono stati tutelati il diritto alla sicurezza, alla salute, all’educazione…

Le imperfezioni del sistema comunitario dovrebbero spingere non al suo affossamento, ma al superamento dei limiti attuali. Ciò sarà possibile se, oltre agli interessi particolari, si guarderà all’Europa come patria di tutti, generatrice e custode di valori condivisi, recuperando il sogno dei padri fondatori.

Salvare l’Europa significa ben più che vincere una tornata elettorale. Vuol dire preservare un patrimonio senza il quale il mondo sarebbe più povero.

Regina Coeli: Nuovo appello del Papa: preghiera e solidarietà per lo Sri Lanka

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, e per tutta questa settimana, si prolunga nella liturgia, anche nella vita, la gioia pasquale della risurrezione di Gesù, il cui evento mirabile abbiamo commemorato ieri. Nella Veglia Pasquale sono risuonate le parole pronunciate dagli Angeli accanto alla tomba vuota di Cristo. Alle donne che si erano recate al sepolcro all’alba del primo giorno dopo il sabato, essi dissero: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risorto» (Lc 24,5-6). La risurrezione di Cristo costituisce l’avvenimento più sconvolgente della storia umana, che attesta la vittoria dell’Amore di Dio sul peccato e sulla morte e dona alla nostra speranza di vita un fondamento solido come la roccia. Ciò che umanamente era impensabile è avvenuto: «Gesù di Nazaret […] Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte» (At 2,22.24).

In questo Lunedì “dell’Angelo”, la liturgia, con il Vangelo di Matteo (cfr 28,8-15), ci riporta vicino al sepolcro vuoto di Gesù. Ci farà bene andare con il pensiero al sepolcro vuoto di Gesù. Le donne, piene di timore e di gioia, stanno partendo di corsa per andare a portare la notizia ai discepoli che il sepolcro era vuoto; e in quel momento Gesù si presenta davanti a loro. Esse «si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono» (v. 9). Lo hanno toccato: non era un fantasma, era Gesù, vivo, con la carne, era Lui. Gesù scaccia dai loro cuori la paura e le incoraggia ancora di più ad annunciare ai fratelli ciò che è accaduto. Tutti i Vangeli mettono in risalto il ruolo delle donne, Maria di Magdala e le altre, come prime testimoni della risurrezione. Gli uomini, intimoriti, erano chiusi nel cenacolo. Pietro e Giovanni, avvertiti dalla Maddalena, fanno solo una rapida sortita in cui constatano che la tomba è aperta e vuota. Ma sono state le donne le prime a incontrare il Risorto e a portare l’annuncio che Egli è vivo.

Oggi, cari fratelli e sorelle, risuonano anche per noi le parole di Gesù rivolte alle donne: «Non temete; andate ad annunciare…» (v. 10). Dopo i riti del Triduo Pasquale, che ci hanno fatto rivivere il mistero di morte e risurrezione del nostro Signore, ora con gli occhi della fede lo contempliamo risorto e vivo. Anche noi siamo chiamati a incontrarlo personalmente e a diventare suoi annunciatori e testimoni.

Con l’antica Sequenza liturgica pasquale, in questi giorni ripetiamo: «Cristo, mia speranza, è risorto!». E in Lui anche noi siamo risorti, passando dalla morte alla vita, dalla schiavitù del peccato alla libertà dell’amore. Lasciamoci, dunque, raggiungere dal consolante messaggio della Pasqua e avvolgere dalla sua luce gloriosa, che dissipa le tenebre della paura e della tristezza. Gesù risorto cammina accanto a noi. Egli si manifesta a quanti lo invocano e lo amano. Prima di tutto nella preghiera, ma anche nelle semplici gioie vissute con fede e gratitudine. Possiamo sentirlo presente pure condividendo momenti di cordialità, di accoglienza, di amicizia, di contemplazione della natura. Questo giorno di festa, in cui è consuetudine godere un po’ di svago e di gratuità, ci aiuti a sperimentare la presenza di Gesù.

Chiediamo alla Vergine Maria di poter attingere a piene mani la pace e la serenità, doni del Risorto, per condividerle con i fratelli, specialmente con chi ha più bisogno di conforto e di speranza.


Dopo il Regina Coeli

Cari fratelli e sorelle,

vorrei esprimere nuovamente la mia vicinanza spirituale e paterna al popolo dello Sri Lanka. Sono molto vicino al mio caro fratello, il cardinale Malcolm Ranjith Patabendige Don, e a tutta la Chiesa arcidiocesana di Colombo. Prego per le numerosissime vittime e feriti, e chiedo a tutti di non esitare a offrire a questa cara nazione tutto l’aiuto necessario. Auspico, altrettanto, che tutti condannino questi atti terroristici, atti disumani, mai giustificabili. Preghiamo la Madonna…

[Ave, o Maria]

nel clima pasquale che caratterizza l’odierna giornata, saluto con affetto tutti voi, famiglie, gruppi parrocchiali, associazioni e singoli pellegrini, venuti dall’Italia e da varie parti del mondo.

A ciascuno auguro di trascorrere con fede questi giorni dell’Ottava di Pasqua, in cui si prolunga la memoria della Risurrezione di Cristo. Cogliete ogni buona occasione per essere testimoni della gioia e della pace del Signore risorto.

Buona e Santa Pasqua a tutti! Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci.

Iran: Il Petrolio e la sberla di Trump

Gli Stati Uniti hanno annunciato  che tutti i Paesi dovranno mettere fine all’import di petrolio iraniano a breve e che il 2 maggio non rinnoveranno le esenzioni di 180 giorni concesse ad otto Paesi, tra cui l’Italia.

In caso contrario scatteranno sanzioni. Lo scrive il Washington Post, citando due fonti del dipartimento di Stato americano e spiegando che si tratta di una escalation della campagna di “massima pressione” dell’amministrazione Trump contro Teheran.

Tre degli otto Paesi esentati avevano già cominciato a ridurre la loro importazione di petrolio dall’Iran: Italia, Grecia e Taiwan. Gli altri cinque sono Cina, India, Turchia, Giappone e Corea del Sud.

 

Cgil: Per l’Alitalia ancora nessun chiarimento

Ormai manca una settimana alla scadenza del termine per presentare l’integrazione dell’offerta ai commissari di Alitalia e le sorti dell’ex compagnia di bandiera rimangono avvolte nell’incertezza. E nessun chiarimento è arrivato dall’ultimo incontro, che si è tenuto giovedì 18 aprile, tra i sindacati e i commissari straordinari dell’aviolinea. Il governo professa ottimismo, ma la realtà è che la nuova compagine societaria ancora non c’è.

Per la Cgil, al termine dell’incontro informale con i commissari  “in cassa ci sarebbero 484 milioni di euro, più i depositi, che nell’insieme garantiscono i prossimi mesi e l’estate”,

Sul piano industriale, invece, i commissari non hanno riferito “per ragioni di riservatezza”, ma “nei prossimi giorni potremmo avere delle novità: qualora non dovessero arrivare entro il 30 aprile, mobiliteremo tutti i lavoratori”.

 

Il traffico di cuccioli vale 300 milioni all’anno

Sono oltre 400 mila i cani e i gatti che ogni anno vengono importati illegalmente dall’estero per essere venduti sul mercato nero a prezzi che oscillano tra i 60 ed i 1.200 euro per un valore di circa 300 milioni di euro. E’ quanto emerge da un’analisi di Coldiretti sull’ultimo Rapporto Agromafie in relazione all’operazione Crudelia dei carabinieri forestali di Reggio Emilia che ha portato all’esecuzione di 3 misure cautelari di divieto di dimora ed espatrio con altre 11 persone sotto inchiesta per associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito animali da compagnia, maltrattamento di animali, frode in commercio, falsità in atti e truffa per un giro d’affari si mezzo milione di euro all’anno e centinaia di cuccioli contrabbandati fra l’est Europa e l’Italia.

Il traffico di animali – spiega Coldiretti – rappresenta uno dei fenomeni malavitosi a maggior impatto sociale visto che una casa italiana su tre (32%) ospita almeno uno o più animali da compagnia che spesso diventano veri e propri componenti del nucleo familiare per un totale di oltre 14 milioni di cani e i gatti di tutte le razze, tagli ed età. Ma quelli che arrivano con la tratta clandestina – sottolinea Coldiretti – sono di solito cuccioli di poche settimane, quasi sempre non svezzati e ovviamente senza microchip d’identificazione richiesto dalla legge. Questi esemplari, assai spesso imbottiti di farmaci per farli apparire in buona salute, vengono introdotti nel territorio nazionale accompagnati da una documentazione contraffatta che ne attesta la falsa origine italiana e riporta trattamenti vaccinali e profilassi mai eseguiti.

Gli animali sono il più delle volte trasportati nascosti e pressati dentro contenitori, doppi fondi ed altri ambienti chiusi, stipati in furgoni e camion che percorrono lunghi tragitti. Un trattamento che aumenta anche del 50% il rischio di morte. Quello di cani e gatti illegali – sottolinea l’ultimo Rapporto Agromafie – è un commercio che talvolta si realizza anche con la complicità di alcuni allevatori e negozianti italiani che “riciclano” nel mercato legale animali di provenienza illegale. Il traffico di animali da compagnia costituisce un danno per tutte le parti coinvolte, ad eccezione di chi lo gestisce.

Ad esserne colpiti sono, oltre che gli allevatori ed i rivenditori onesti, in primo luogo gli animali stessi, vittime quasi sempre di maltrattamenti ed abusi. E se un cucciolo di razza offerto dal mercato illegale arriva a costare anche solo un ventesimo di quanto si spende nella filiera legale dell’allevamento, si tratta tuttavia solo di un “risparmio apparente” – evidenzia Coldiretti – visto che l’acquisto di cuccioli di razza attraverso circuiti non legali si traduce assai spesso in una spesa maggiore a lungo termine in cure mediche oppure addirittura nella morte dell’animale malato.

Bambino Gesù: 12 progetti in 10 paesi

Nel corso del 2018 sono state svolte 29 missioni internazionali per complessivi 145 giorni lavorativi con il coinvolgimento di 46 tra medici e infermieri del Bambino Gesù. Gli accordi di collaborazione siglati con i governi o le istituzioni sanitarie dei vari paesi o anche organizzazioni umanitarie internazionali come WHO e UNHCR, prevedono di norma sessioni di formazione on-the-job svolte da team di operatori del Bambino Gesù negli ospedali partner e periodi di formazione residenziale a Roma del personale medico e infermieristico locale.

Ad oggi sono 20 le specialità pediatriche oggetto di formazione in base agli accordi con i vari Paesi: dalla neurologia pediatrica (con focus su disabilità neuromotorie quali epilessia, sindromi neurologiche/genetiche e disturbi dello spettro autistico) alla neurochirurgia, dalla cardiochirurgia (diretta in particolare, in Giordania, all’assistenza e la cura dei profughi siriani e della popolazione pediatrica vulnerabile) alla radiologia interventistica, dalla neonatologia alla terapia intensiva, dalla chirurgia plastica e maxillo-facciale a quella laparoscopica, all’emodinamica e alla trapiantologia renale.

Un progetto speciale è quello che ha portato, il 2 marzo scorso, all’inaugurazione a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, del Centro di re-nutrizione terapeutica per bambini malnutriti nell’ambito di una più ampia ristrutturazione dell’Ospedale pediatrico nazionale già esistente. Su sollecitazione di Papa Francesco, che aveva visitato il complesso in occasione dell’apertura della Porta Santa della Misericordia nel 2015, il Bambino Gesù ha curato l’attività di ristrutturazione e avviato l’attività di formazione del personale locale che continuerà nel tempo, in collaborazione con Medici per l’Africa – Cuamm, Acf (Azione contro la fame) e Humanitas di Milano.

Salvini con il mitra: dovrebbe dimettersi. Ma forse è meglio che sia obbligato a governare.

Il Ministro degli Interni appare sui social con un mitra in mano e dice: “Ne inventeranno di ogni per fermare il Capitano, ma noi siamo armati e dotati di elmetto. Avanti tutta”.

Siria? Striscia di Gaza? Sudan? Libia? No: Italia.

Temo però che anche questa allucinante allegoria del potere attuale passerà senza conseguenza alcuna. Come l’irresponsabilità e l’incompetenza di chi oggi governa il Paese.
La “luna di miele” tra Salvini e larga parte del popolo italiano continuerà.

Molti, troppi, sono disposti a cedere parti della propria libertà in cambio di una (illusoria) sicurezza.

I presidi di democrazia sono troppo deboli, oggi, per mettere in campo reazioni all’altezza.
Se un simile atteggiamento fosse stato manifestato da un Ministro degli Interni durante la tanto vituperata “prima repubblica” – a parte il fatto che mai a nessuno sarebbe passato per l’anticamera del cervello – non sarebbe rimasto nelle sue funzioni per più di qualche ora.

Il suo partito, o il capo del Governo o il Quirinale lo avrebbero indotto a prendersi un periodo di riposo.

Oggi invece il suddetto Ministro detta legge nel  Governo e si prepara a diventare Presidente del Consiglio attraverso nuove elezioni in autunno oppure con una operazione di riassetto del potere dentro l’attuale Parlamento.

Forse è più probabile la prima ipotesi, visto lo sfascio della finanza pubblica, il declino economico e l’isolamento politico in Europa che il nostro Paese oggi manifesta, al di là delle ridicole rassicurazioni del Governo.
Misurarsi con la dura realtà della manovra finanziaria di autunno sarebbe arduo per chi ha promesso il sogno del cambiamento e invece dovrebbe dare conto – nei fatti – di un disastro.

Meglio rovesciare il tavolo del gioco e proseguire una campagna elettorale che in realtà non ha mai avuto termine. In fondo, ciò che conta non è la realtà concreta del Paese, ma la sua rappresentazione.

In questo sono bravi. Molto bravi.
Ma non è da escludere neppure la seconda ipotesi: non sono pochi i buoni samaritani che si possono prestare a soccorrere il vincitore…
La decisione del PD di presentare una mozione di sfiducia al Governo, per questo, al di là delle motivazioni specifiche, mi sembra un passo falso.

Questi ciarlatani vanno oggi costretti a governare, non a dimettersi.

Il dovere di un impegno organizzato sulle “cose”. Infante risponde a Pierluigi Castagnetti.

L’intervento di Pier Luigi Castagnetti su “Il Domani d’Italia” ha attirato la mia attenzione particolarmente nel punto in cui sostiene : “Semplicemente non credo, nella situazione storica che viviamo, all’opportunità di dar vita a una forza politica a ispirazione religiosa: il Concilio Vaticano II, l’ottantanove del crollo del Muro, la fine delle ideologie, la globalizzazione che ha cambiato le condizioni delle nostre democrazie, la rivoluzione digitale che ha rotto gli equilibri nella distribuzione della conoscenza e – dunque – della rappresentanza, impongono anche ai credenti di andare oltre, molto oltre, le nostalgie di un passato, glorioso ma irripetibile. Sono convinto che se Sturzo e De Gasperi fossero ancora tra noi ci spronerebbero a inventare scenari e soggetti inediti”.

Ora, mi permetto d’interloquire con lui, visto che a questo tipo di discussione dice di essere interessato.

Rifletto, intanto, sul fatto che la traduzione nella cosa pubblica dell’ispirazione cristiana tiene conto dei tempi storici vissuti concretamente. Senza per questo vederne sminuita la sostanza e la potenza vivificatrice. Il tumultuoso sviluppo del cammino umano, richiamato sommariamente da Castagnetti, richiede semmai un tasso di generosità in più, anche in relazione ad un impegno in cui coinvolgersi con lealtà e chiarezza, proprio per i riferimenti cui ci colleghiamo e per quello che siamo.

Noto che egli collega la contrarietà a dare vita ad un soggetto politico “d’ispirazione religiosa” anche al superamento del periodo in cui la contrapposizione si è giocata in gran parte nella dimensione ideologica.

Molto ci sarebbe da dire sul punto. Per ora, mi limito a sottolineare come, in realtà, oggi sia trionfante una sola ideologia: quella variante degenerata del liberalismo che mette in cima a tutto denaro e potere, slegati da ogni responsabilità sociale.

In ogni caso, Castagnetti sa bene che tutte le forze politiche d’ispirazione popolare o democratico cristiane, compresa quella Dc in cui abbiamo insieme militato, non sono mai state, né in Italia, né in Europa e neppure in America Latina, caratterizzate da un connotato ideologico.

A differenza di quanto riguarda la Dc tedesca, il Partito popolare spagnolo, e tante altre organizzazioni popolari o dc ancora vive e vegete, quella esperienza italiana giunse a conclusione non certo perché ne era stata superata “l’ideologia”. Bensì, per l’accumularsi di “cattive pratiche” e l’adagiarsi su un’ottica meramente gestionale e di potere, per la distanza progressiva maturata con i propri blocchi sociali ed elettorali di riferimento, per quelle tensioni interne accumulatesi nel tempo, incancrenite ed accentuate pure dal fuggi fuggi generale creatosi in occasione di una “mani pulite” non prevenuta in tempo da un autentico “rinnovamento”, agli inizi sottovalutata e peggio affrontata nel corso del suo sviluppo da un gruppo dirigente debole ed indeciso.

Tutta la storia del movimento popolare e democratico cristiano è, dunque, segnata da un’impronta fortemente programmatica.

In questo, anche in questo, emerge la grandiosità di pensiero e di capacità politica di don Luigi Sturzo. Egli, già nel 1902, avvertì da subito la necessità di sostanziare su di una base concreta l’autonomia di pensiero e di elaborazione politica. In primo luogo, da assumere nei confronti della Chiesa e della sua gerarchia, le quali non potevano essere trascinate in battaglie, pur necessarie, ma potenzialmente destinate ad intaccare l’universalità del loro magistero e delle loro sollecitazioni pastorali.

Oggi, la questione di una presenza pubblica di cittadini ispirati cristianamente si pone nuovamente. Ovviamente, sotto altri profili rispetto a quelli dei tempi di Sturzo. Ancora una volta, però, si pone sul piano delle “cose” attese dalla gente.

Esiste una questione che riguarda l’identità, che non deve essere sottovalutata. L’averlo fatto, invece, ha significato, inopinatamente, far apparire la destra, oggi più segnatamente la Lega, una sponda d’approdo valida e persino coerente.

E’ chiaro che la questione dell’identità, se non bene interpretata e se ad essa non viene offerto uno sbocco politico ragionevole e generosamente vissuto, per prima cosa nei confronti degli “ultimi”, se non supera la mera auto rappresentazione e delimitazione o “difesa” dei propri recinti, può sempre lasciare che emergano posizioni integraliste e confuse.

Nel rispondere a ciò, e riflettendo sui tanti di noi che si stanno “rifugiando” nell’astensionismo elettorale, si deve guardare alle condizioni oggettive di questo Paese e, quindi, definire le modalità della ripresa di un impegno.

Il partire dalle “cose”, il coinvolgersi in forma organizzata nella ricerca pragmatica di possibili soluzioni da offrire a tutto il Paese, senza distinzione alcuna, potrebbero creare occasioni di convergenza e di collaborazione con ben più ampi ambiti sociali e politici, aprendo e facendoci andare oltre il nostro steccato.

E’ sotto questo profilo che il concetto di “coalizione” tanto caro a De Gasperi può sostanziarsi e prefigurare nuovi sviluppi del quadro che ci troviamo dinanzi.

Non si tratta di provare a ripetere antiche esperienze. Non si può ridurre proposte di rinnovato, libero ed autonomo impegno alla riapertura di capitoli di storia già completamente letti ed esauriti.

Bensì, di prendere atto, invece, che nessuna vecchia o nuova forza politica è stata ed è grado di porre mano all’urgenza di introdurre più solidarietà, assicurare maggiore giustizia sociale, garantire il rispetto della dignità umana, il diritto al lavoro, rigenerare Stato e istituzioni, rendere effettivo il rispetto del cittadino, anche nelle sue dimensioni di soggetto fiscale e di consumatore, garantire la difesa della vita, della famiglia, dei gruppi sociali intermedi, delle autonomie amministrative.

Per questo, solo per questo, è necessario che quanti sono ispirati cristianamente escano dalla loro indifferenza ed irrilevanza, con abnegazione e chiarezza. Non certo per fare un partito autoreferenziale sollecitato solo dalle loro esigenze, ma per contribuire, assieme a tanti altri cittadini, credenti e non credenti, a partecipare ad una politica più ragionevole, costruttiva, moderna e senza divisioni preconcette.

Dobbiamo intervenire non per sottolineare la nostra identità in sé, ma per quel tantissimo che la nostra identità presuppone e richiede in relazione alla difesa del diritto naturale, della Persona, della famiglia, della dignità del lavoro, dell’adeguatezza dell’educazione e della formazione delle nuove generazione, nell’impegno per la Pace e per il disarmo.

Altrimenti, tutte le discussioni fiorite, paradossalmente in concomitanza di un centenario sturziano, mal compreso e poco adeguatamente interpretato, su “partito sì, partito no”  assomigliano davvero all’arzigogolato ragionamento di don Ferrante sulla peste, di manzoniana memoria.

Oggi, nel contesto in cui ci troviamo, una iniziativa politica libera e autonoma appare la vera risposta da dare all’invito ad “andare oltre, molto oltre” la nostalgia di cui parla Castagnetti.

Non dobbiamo dimenticare che il recente passato degli ultimi 25 anni ha dimostrato che la risposta all’indifferenza ed all’irrilevanza non è certo venuta efficacemente, e con risultati tangibili, dagli amici politici d’ispirazione cristiana che hanno pensato di militare a destra come a sinistra, rinchiusi in recinti altrui e andando molto poco “oltre”.

I bilanci sono sotto gli occhi di tutti. Fallimenti a destra, fallimenti a sinistra sulle questioni economico finanziarie, in materia di lavoro e occupazione, sull’impresa e le categorie sociali, sulla difesa della vita, della famiglia, per ciò che riguarda l’innovazione scientifica e tecnologica, la scuola e l’educazione. Non abbiamo visto davvero tanta capacità e possibilità di incidere realmente, mentre si è stati pienamente partecipi di quel bipolarismo che ha impoverito il paese, non l’ha rafforzato ed arricchito.

Oggi dobbiamo fare la nostra parte nel riproporre la forza di quelle idealità e pensiero politico che risollevarono l’Italia. Lo devono fare i veri liberali, coloro che si ispirano al pensiero socialista. Lo devono fare anche i cattolici democratici. Il dibattito è aperto e non ci sottraiamo certamente ad un confronto che possa essere costruttivo e convergente con coloro che, oggi, condividono una ispirazione, ma prospettano conclusioni diverse o non ne presentano affatto.

 

Liberi e Forti Alessandria: più deliberazione pubblica è più democrazia

“Non siamo un gruppo, né tantomeno un circolo, ma un ambito di impegno inclusivo, al quale tutti possono partecipare”, così Renato Balduzzi ha voluto definire, al termine dell’ultimo incontro, i confini aperti di Impegno Liberi e Forti, l’iniziativa avviata in provincia di Alessandria all’inizio di quest’anno, in corrispondenza del centenario dell’appello lanciato da don Luigi Sturzo nel 1919.

“Da un primo nucleo di uomini e donne di buona volontà”, racconta Guido Astori, tra i promotori di questo percorso, “si sta formando una rete che si allarga progressivamente, coinvolgendo rappresentanti di vari mondi del volontariato, della cultura e delle istituzioni di tutta la provincia”.

Questo sta avvenendo anche grazie a un particolare metodo di lavoro che il gruppo sta adottando, sperimentato nell’ultimo incontro, dedicato al tema dell’immigrazione.

“Ci siamo ispirati al principio della deliberazione pubblica – spiega Davide Servetti, esponente di Impegno Liberi e Forti – condividendo preliminarmente la necessità di approfondire, elaborare sintesi e soluzioni per poi esprimere posizioni chiare e proposte puntuali sul tema dell’immigrazione; così abbiamo interpellato e coinvolto testimoni ed esperti che, a diverso titolo, sono coinvolti direttamente dal fenomeno nella nostra provincia”. “Tutto questo – prosegue Servetti – ha l’intento di fondare la riflessione collettiva su dati di fatto e punti di vista fondati su esperienze dirette e significative sul territorio”.

Il punto di vista di questi informatori privilegiati è stato molto utile ai tre gruppi di lavoro, che hanno affrontato il problema declinato in tre diverse prospettive: 1) l’integrazione dei migranti, 2) la cooperazione con i paesi di provenienza e 3) la comunicazione del fenomeno nei social e nei mass-media. Le conclusioni sono state affidate ad Agostino Pietrasanta, il quale ha sottolineato la qualità della discussione avvenuta nei gruppi, anche grazie al lavoro di tre coordinatori – Marco Caramagna per la comunicazione, Marco Ciani per l’integrazione, Roberto Massaro per la cooperazione – che hanno accompagnato e guidato la discussione. La successiva riunione plenaria ha raccolto le osservazioni, gli spunti e le proposte sulla base delle quali già alcuni esponenti di Impegno Liberi e Forti stanno lavorando al fine di tradurle in azioni concrete sul territorio, “che saranno progettate, realizzate e comunicate – precisa Paola Varese, tra gli animatori dell’iniziativa – con lo stesso stile corale e partecipato che ha informato i nostri incontri fino a questo momento”.

“Il nostro Impegno, rivolto a tutti, credenti e non credenti – conclude Renato Balduzzi –, chiede in particolare a quanti si riconoscono nella storia del movimento dei cattolici democratici nel nostro Paese di reimparare, come quel padrone di casa del Vangelo, a estrarre dal tesoro di quella cultura politica cose nuove e cose antiche”. Di recente Papa Francesco ha indicato una via chiara e impegnativa a tutti i credenti che guardano all’impegno per il bene comune: “Essere cattolico nella politica non significa essere una recluta di qualche gruppo, organizzazione o partito, bensì vivere dentro una comunità”. Secondo Balduzzi sarà possibile raccogliere questa sfida solo “ritrovando con coraggio le forme e le modalità per pensare insieme la polis, superando i personalismi e le forme di individualismo che permeano la nostra società, inclusi talvolta gli ambienti e le organizzazioni del cosiddetto mondo cattolico”.

Sri Lanka, esplosioni in chiese e hotel: oltre 200 morti

Sei esplosioni simultanee sono avvenute nella domenica di Pasqua in tre chiese dello Sri Lanka, una delle quali nella capitale Colombo, e in altrettanti hotel del Paese frequentati da turisti. I morti accertati, secondo fonti di polizia, sarebbero 207, di cui almeno 35 stranieri, mentre i feriti sarebbero più di 450.

Il ministro della difesa ha dichiarato che: “si sospetta che la maggior parte degli otto attacchi con esplosivo compiuti oggi in Sri Lanka siano opera di kamikaze”.

La chiesa dello Sri Lanka ha sospeso tutte le celebrazioni pasquali in programma nel Paese e ha quindi diffuso un appello a donare sangue per i feriti.

Anche il Papa, al termine del messaggio e della celebrazione Urbi et Orbi per la Pasqua, ha voluto rivolgere un pensiero alle vittime degli attentati dello Sri Lanka. “Ho appreso con tristezza e dolore la notizia dei gravi attentati che, proprio oggi, giorno di Pasqua, hanno portato lutto e dolore in alcune chiese e altri luoghi di ritrovo dello Sri Lanka – ha detto -. Desidero manifestare la mia affettuosa vicinanza alla comunità cristiana, colpita mentre era raccolta in preghiera, e a tutte le vittime di così crudele violenza. Affido al Signore quanti sono tragicamente scomparsi e prego per i feriti e tutti coloro che soffrono a causa di questo drammatico evento”.

 

L’Europa e’ spazio millenario di migrazioni. un viaggio tra i monasteri benedettini

Articolo già apparso sulle pagine di https://www.politicainsieme.com a firma di Guido Puccio 

Ecco un libro che sprigiona energia e ti fa riscoprire il senso della speranza. E’ l’ultimo lavoro di Paolo Rumiz, il più affascinante scrittore contemporaneo di viaggi e insieme giornalista, globe-trotter e non rassegnato indagatore del declino dei valori del nostro tempo.

Questa volta il viaggio è tra le abbazie e i monasteri benedettini, dall’Appeninno al Danubio e fino all’Atlantico, capisaldi della fede e della civiltà che hanno salvato l’Europa nei secoli quinto e sesto, quando l’impero romano era ormai dissolto e il continente era ferocemente devastato dalla violenza delle invasioni barbariche. La regola dei monaci di Benedetto da Norcia, il santo patrono dell’Europa, è invariata: preghiera, lavoro, ascolto e accoglienza. E’ così che nei secoli bui, con la sola forza dell’esempio, i seguaci di Benedetto hanno contribuito ad europeizzare gli invasori e a custodire una cultura millenaria.

Il viaggio prende le mosse da Norcia, cioè dall’Appennino, “montagna antica, aspra e solitaria” dove l’Europa è nata tre volte: con Roma, con il monachesimo e con il Rinascimento. Ed è nella abbazia di Praglia  che Rumiz scopre sul comodino della sua celletta la “Regola” benedettina racchiusa in un piccolo volume con i suoi insegnamenti che vengono da lontano: “ la leadership che si esercita prima di tutto con l’ascolto; il prestigio che non dipende dall’età; la disciplina ma anche la dolcezza dei rapporti umani; l’apertura ai più giovani e l’ascolto di tutti.

Ma sono gli uomini che incontra che sconvolgono il “laico” autore. Come nel monastero di Sankt Ostilien, nella Baviera contadina con i suoi orti, le stalle, l’officina, la scuola, gli alveari, la fabbrica di birra e le scuderie dove tutti lavorano compreso l’abate Notker Wolf, con sei lauree,  dodici lingue parlate, che ha scritto trenta libri, ha insegnato a Roma e ha fatto i lavori più umili in Africa.  E quando Rumiz gli chiede come possono oggi i benedettini cambiare il mondo nel tempo della velocità digitale e delle false notizie, l’abate non si scompone e risponde che non possono cambiare il mondo ma qualche influenza possono averla creando una atmosfera di dialogo e non di paura, oggi così diffusa perché “quando i reggitori non sanno dare risposte al popolo gli offrono nemici.”

Avanti rispetto alla Chiesa gerarchica, l’ordine accoglie anche le donne e la visita alla abbazia di Vimoldone, alle porte di Milano,  dove le periferie e i  tristi supermercati giungono a sfiorare le verdi risaie lombarde, vede la presenza delle benedettine che custodiscono tesori medioevali, lavorano la lana e assistono gli indigenti. E così nelle abbazie in Francia dove “il vento atlantico sibila da Mont Saint Michel, l’abbazia benedettina più famosa dopo Montecassino, ancora nei grandi monasteri tedeschi, in Belgio e in Ungheria  dove con Orban è tornata la sindrome del confine e dove alla cortina di ferro scomparsa con la caduta dell’impero sovietico si sta sostituendo quella dei reticolati contro i profughi del medio oriente “ che non invadono più con la ferocia distruttiva dei barbari  ma fuggono per fame e indigenza”. Eppure spaventano solo il nostro materialismo e fagocitano i sovranisti a coltivare le paure distruggendo  il sogno dei padri fondatori dell’Europa che “ osarono sognarla nel momento in cui tutto sembrava perduto”.

Così, i monaci che rifondarono l’Europa sotto l’urto delle invasioni barbariche tessendo fili, trame e relazioni, oggi vanno imitati dando voce a chi sogna, viaggia, lavora, resiste, combatte e si fa carico del proprio destino con la forza di una cultura comune, l’appartenenza a uno spazio unico al mondo, fertile e misurabile, ricco di storia,  lingue, piazze, culture e paesaggi.

Madri fondatrici d’Europa

Articolo già apparso sulle pagine di http://www.associazionepopolari.it a firma di Carlo Baviera 

Ormai siamo entrati in campagna elettorale: per il rinnovo del Parlamento Europeo, ma anche per quello del Consiglio Regionale del Piemonte e di non pochi Comuni. Anche se le campagne elettorali si protraggono per l’intero anno e, nel caso specifico, il confronto sull’Europa che verrà è già iniziato da tempo.

Questa circostanza ha favorito la riscoperta e la riproposta dell’importanza della costruzione dell’Unità Europea per quanto riguarda il nostro futuro. Al di là di lentezze ed errori, la realizzazione di una Federazione che veda uniti i nostri popoli è fondamentale per non essere piccoli giocattoli nelle mani delle grandi potenze: sia dal punto di vista commerciale, che di politica estera, che di sovranità e nuova cittadinanza, che di politica culturale, sociale e di giustizia.

A tal proposito mi ha colpito un articolo di qualche tempo fa sulla rivista “Città Nuova” in cui si presentavano (parlando di idea di Europa e senza sminuire l’apporto fondamentale dei padri fondatori, Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi e di quanti fin dagli anni venti o dall’esilio, dal confino o dal carcere l’hanno sognata e proposta) quattro figure definite madri fondatrici: denominazione usata non da un punto di vista istituzionale, ma più in prospettiva storico-filosofica e di fondamenti del pensiero che in chiave di impegno contemporaneo.

María Zambrano: “Cos’è sta­ta l’Europa? Cos’è, nella sua complessa e ricchissima realtà, l’irrinunciabile? […] È una radice comune, ricevuta per trasmissione, non inventata, non dovuta al nostro sforzo. [..] Non sappiamo in che cosa consista quel quid che ci apparenta con tutto ciò che è europeo e che in questo istante ha più vigore di qualsiasi tratto nazionale, particolare o individuale. Quell’elemento che ci fa sentire l’Europa come una grande unità nella quale siamo compresi integralmente”. (M. Zambrano, L’agonia dell’Europa, Marsilio, Venezia 1999).

Hannah Arendt con le osservazioni sul legame tra diritti umani e cittadinanza (si pensi, oggi, alla condizione dei profughi e dei migranti): “Le guerre civili scoppiate nel periodo fra i due conflitti mondiali furono più sanguinose e crudeli che in passato; e diedero luogo a migrazioni di gruppi che a differenza dei loro più fortunati predecessori, i profughi delle guerre religiose, non furono accolti e assimilati in nessun Paese. […] C’erano state delle minoranze anche in passato, ma la minoranza come istituzione permanente, il riconoscimento che milioni di persone vivevano fuori della normale protezione giuridica e avevano bisogno per i loro diritti elemen­tari di un’ulteriore garanzia da un organismo esterno, la presunzione che questo stato di cose non fosse temporaneo e occorressero dei trattati per stabilire un modus vivendi durevole, tutto ciò era qualcosa di nuovo nella storia europea almeno su tale scala. […] Nessun paradosso della politica contemporanea è più pervaso di amara ironia del divario fra gli sforzi di sinceri idealisti, che in­sistono tenacemente a considerare “inalienabili” diritti umani in realtà go­duti soltanto dai cittadini dei Paesi più prosperi e civili, e la situazione de­gli individui privi di diritti, che è costantemente peggiorata.[..] è perfetta­mente concepibile, e in pratica politicamente possibile, che un bel giorno un’umanità altamente organizzata e meccanizzata decida in modo demo­cratico, cioè per maggioranza, che per il tutto è meglio liquidare certe sue parti”(H. Arendt, II tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, in Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004 [1948]).

Simone Weil (gli “obblighi” verso l’essere uma­no come complemento dei diritti umani fondamentali): “La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto […] II diritto è efficace allorché viene riconosciuto. L’obbligo, anche se non fosse riconosciuto da nessuno, non perderebbe nulla della pienezza del suo essere. Un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto. […]L’obbligo lega solo gli esseri umani. Non c’è obbligo per le collettività come tali. Ve ne sono invece per tutti gli esseri umani che compongono, servono, comandano o rappresen­tano una collettività, tanto per la parte della loro vita che è legata alla col­lettività quanto per quella che ne è indipendente [..] C’è obbligo verso ogni essere umano, per il solo fatto che è un essere umano, senza che alcun’altra condizione abbia a interve­nire; e persino quando non gli si riconoscesse alcun diritto”. (S. Weil, La prima radice, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea 2017 [1943]).

Chiara Lubich con la visione di Unione europea nel più ampio contesto dell’impegno politico come fraternità universale: “Sono questi i tempi in cui ogni popolo deve oltrepassare il proprio con­fine e guardare al di là; è arrivato il momento in cui la patria altrui va amata come la propria, in cui il nostro occhio ha da acquistare una nuova purezza. […] Noi speriamo che il Signore abbia pietà di questo mondo diviso e sban­dato, di questi popoli rinchiusi nel proprio guscio a contemplare la propria bellezza – per loro unica – limitata ed insoddisfacente, a tenersi coi denti stretti i propri tesori – anche quei beni che potrebbero servire ad altri po­poli presso cui si muore di fame – e faccia crollare le barriere e correre con flusso ininterrotto la carità tra terra e terra, torrente di beni spirituali e materiali”. [Dal Discorso dell’estate 1959, nel paese dolomitico di Fiera di Primiero; in La dottrina spirituale, Mondadori, Milano 2001, pp. 277-279]. “La fraternità è un impegno che favorisce lo sviluppo autenticamente umano del Paese senza isolare nell’incertezza del futuro le categorie più deboli, senza escluderne altre dal benessere, senza creare nuove povertà; salvaguarda i diritti della cittadinanza e l’accesso alla cittadinanza stessa, aprendo una speranza a quanti cercano la possi­bilità di una vita degna nel nostro Paese” [C. Lubich, Per una politica di comunione, in «Nuova Umanità», 2001/2].

Da quanto sopra si comprende che dobbiamo guardare l’Europa, sì come “unione di diversi” ma anche come comunità che ha delle radici comuni; radici spirituali, culturali, del diritto, di solidarietà, di umanesimo, di rispetto dei diritti della persona, di riconoscimento del pluralismo e della società civile.

E quanto accaduto a Parigi, con l’incendio che ha coinvolto la Cattedrale di Notre Dame, richiama a quest’anima dell’Europa, a queste radici, che fanno di popoli e nazioni diverse una storia e una civiltà comune.

Inoltre dovremmo capire che non è possibile avere alcune Istituzioni in comune e una moneta unica senza avere uno Stato: e questo Stato è la Federazione degli Stati Uniti d’Europa.

Mi pare che, parlare di Europa unita e rilanciare quell’obiettivo (questo è ciò a cui saremo chiamati col voto il 26 maggio) e considerare ciò che le “madri fondatrici” ci indicano, aiuti anche a recuperare i motivi di fondo dell’azione politica locale e nazionale: il bene comune, la moralità della vita pubblica, l’amore per il prossimo, la fraternità, il rispetto del pluralismo. Spero che siamo tutti consapevoli di questo compito per non restare invischiati solo da promesse generiche e da una visione contingente ed egoista.

Tennis: Fognini trionfa a Montecarlo

Fognini conquista il Masters di Montecarlo, il suo primo in carriera, superando in finale il serbo Lajovic. L’Italia torna, così, a vincere nel Principato 51 anni dopo Nicola Pietrangeli.

Ha battuto in finale 6-3, 6-4 Dusan Lajovic (48 Atp) in un’ora e 38′ di gioco. Finora l’unico italiano a trionfare nel Principato nel dopoguerra era stato Nicola Pietrangeli, campione in tre occasioni nel 1961, 1967 e 1968.

Quella contro Lajovic per Fabio era la finale numero 19 in carriera: salgono a 9 i titoli vinti, sicuramente l’ultimo il più importante e prestigioso.

 

 

 

Gli effetti nocivi della cannabis

Uno studio pubblicato su Annals of Internal Medicine, dimostrerebbe che in Colorado, dove la cannabis è legale, “i medici hanno notato qualcosa che a prima vista pareva molto strano, quasi paradossale: quei ragazzi (ma anche gli adulti) che arrivavano dopo aver assunto cannabis per bocca sembravano stare peggio di chi la marijuana l’aveva fumata o inalata. A dirla tutta, rispetto a chi la fumava, quelli che avevano mangiato biscotti o dolcetti alla cannabis erano una piccola minoranza – uno su dieci – ma sembrava che i disturbi più gravi si concentrassero proprio su di loro. A questo punto i medici hanno deciso di analizzare 10.000 pazienti arrivati al pronto soccorso per abuso di alcol e cannabis. Le analisi hanno dimostrato che in 3.000 di loro i disturbi erano riconducibili solo e soltanto alla cannabis”.

Insomma attenti prima di assumerla, perchè i rischi a tutt’oggi ancora non sono chiari

 

Buona Pasqua

“Che cosa abbiamo davanti agli occhi contemplando il crocifisso?

Abbiamo un miracolo nuovo.

Cristo ha fatto tanti miracoli sul mare, sui cechi, sui lebbrosi.

Ma il miracolo nuovo è che questo Dio non fa un miracolo per sé,

rimane in agonia, con le braccia aperte al Padre e al mondo.

E noi avvertiamo, guardandoti, o Signore,

che in quest’abbraccio universale,

che raggiunge tutti gli uomini di tutti tempi, ci siamo anche noi.

E le tue braccia allargate ci dicono:

“Sei anche tu nell’abbraccio dell’alleanza,

sei anche tu nell’abbraccio della sicurezza dell’amore del Padre per te,

sei anche tu nell’abbraccio della misericordia

che supera il tuo timore, le tue colpevolezze.

Sei anche tu nell’abbraccio di questo amore gratuito, purissimo, totale;

sei anche tu in questo abbraccio sponsale, indissolubile,

che è la tua certezza di vita per sempre”

 

Carlo Maria Martini

Cambiare gioco nel pensare ad una nuova voce organizzata di ispirazione cristiana

Di Domenico Galbiati già Pubblicato su www.convergenzacristiana.it

Si torna a discutere di cattolici e del loro impegno politico. Si può farlo a due condizioni. Anzitutto, che non si tratti di una riflessione ristretta ad una chiesuola di addetti ai lavori, condotta in chiave rievocativa. Piuttosto rapportando effettivamente il tema alla condizione storica del momento ed in vista di un impegno attivo, di carattere sociale e di ordine propriamente politico.

In secondo luogo, sapendo che, anche qui, come quando si parla di “centro”, e’ necessario adottare nuove categorie interpretative. Quelle del tempo che fu sono superate ed inservibili. Ad insistervi, si finisce in testa-coda.

Non si tratta, quindi, di rievocare un presunto partito “dei” cattolici – che, come tale, non e’ mai esistito ne’ di diritto, ne’ di fatto o un partito “di” cattolici. In ogni caso, la riflessione è obbligata, in relazione al tempo che viviamo. Non può essere elusa. E’ complessa, dato che, come non si stancava di ripetere Mino Martinazzoli, la religione è universale e la politica, al contrario, è particolare.

Tematica antica e pur sempre nuova poiché si ripropone, sempre la stessa, ma, ad ogni tornante della storia sempre in termini inediti e, quindi, da riesplorare ogni volta da capo.

Bisogna piuttosto cambiar gioco e prendere le mosse da una domanda radicale: ha ancora senso oggi, può essere utile o addirittura necessaria, la presenza in campo di una forza organizzata, autonoma e competente che si ispiri a principi e valori cristiani? Che assuma, come proprio orientamento di fondo, la concezione dell’uomo, della vita, della storia che corrisponde ad una antropologia cristiana?

E’ necessario capire, però,’ ed anzitutto, se la domanda può effettivamente essere posta, cioè’ se abbia senso. Vanno, perciò, chiarite almeno due premesse.

Anzitutto, che bisogno c’è di scomodare l’antropologia o comunque le loro radici filosofico-culturali come fattori necessari a dar conto della fisionomia politico-programmatica di forze che intervengono nel discorso pubblico?

Non siamo forse felicemente approdati ad una stagione post-ideologica, cosicché, gli stessi partiti cui spetta l’onere di canalizzare la rappresentanza, possono finalmente risolversi in agili e disincantate formazioni che la mettano tutta concretamente sul piano immediato della prassi, secondo una declinazione empirica delle cose del mondo che non sia più gravata da filosofemi astratti?

Senonchè,  le sfide epocali che ci assediano, l’intreccio in cui si avviluppano condizionandosi a vicenda sono tali e tante che forse possiamo raccontarcela così al bar sotto casa, ma, in effetti, se non c’è un pensiero fondativo che innervi una visione di lungo termine, e di coerenza complessiva del ventaglio tematico che dobbiamo affrontare, si va inevitabilmente incontro al fallimento.

Seconda premessa: non è che la domanda di cui sopra sia sostanzialmente retorica, cioè contempli una risposta scontata, nel nostro caso positiva, in quanto non si tratta di un “domandare” sincero, ma piuttosto della proiezione, più’ o meno inconscia, del nostro desiderio che, dopo le stagioni di Sturzo e di De Gasperi e Moro, la nostra cultura torni a pieno titolo nell’ agorà dei confronto pubblico, per quanto i tempi siano così profondamente mutati ?

A questo punto si potrebbe – per essere sicuri di non cadere in una tagliola mentale che ci fabbrichiamo da soli – guardare un attimo alla considerazione che hanno dei principi cristiani e della loro valenza sul piano civile, alcuni che ci osservano da fuori il nostro mondo.

Lasciamo, quindi, perdere, ad esempio – in quanto da cattolico dichiarato potrebbe apparire sospetto – Jean Luc Marion e quel che afferma nel suo recente volume ( “Breve apologia per un momento cattolico”) in ordine al rilievo civile che, in questa stessa fase storica, la presenza dei cattolici ha assunto in Francia, figlia prediletta della Chiesa, ma, ad un tempo, emblema della netta separazione tra Stato e Chiesa.

Guardiamo piuttosto a due filosofi dichiaratamente atei. Il primo, Francois Jullien – per quanto la sua sia una riflessione di ordine filosofico che non concerne immediatamente il piano politico – attraverso una lettura originale del Vangelo di Giovanni, sostiene come il Cristianesimo sia una sorgente viva di ricchezze per la vita dei nostri giorni, anche “senza passare per le vie della fede”, cioè anche per chi non crede.

Aggiunge che solo il Cristianesimo consente l’ “evento”, cioè l’ “accadere” di un inedito assoluto che e’ vita, esperienza di libertà e di verità.

Il secondo Jurgen Habermas – considerato il maggior filosofo vivente ed erede della scuola di Francoforte, pensatore post-metafisico ed, almeno metodologicamente, ateo, come si definisce – afferma chiaramente, a dispetto di tanti “illuminati” che vorrebbero confinarle nel privato della coscienza personale di chi ci crede, come le istanze religiose a pieno titolo debbano essere ammesse e debbano concorrere al discorso pubblico, in quanto recano in sé, in funzione della vita civile, valori ed intuizioni irrinunciabili che, peraltro, a suo avviso, vanno traslate da un linguaggio che lui ritiene mitico, ad un impianto concettuale razionale.

E’ possibile che chi, libero da pregiudizi, guarda al Cristianesimo dal di fuori, ne sappia cogliere la ricchezza forse meglio di molti che, vivendolo, dovrebbero conoscerlo, senonchè lo osservano con uno sguardo reso opaco dalla consuetudine?

E questo non aiuta forse a delineare uno dei caratteri essenziali che devono connotare una forza organizzata di ispirazione cristiana che voglia concorrere da protagonista agli sviluppi dell’attuale momento storico?

Dobbiamo pensare, infatti, ad una presenza che, consapevole dei principi e dei valori del Cristianesimo, faccia propria convintamente la Dottrina Sociale della Chiesa, assunta integralmente, e ne esplori, altresì, la consonanza con la nostra Carta Costituzionale.

Un movimento che garantisca il costante approfondimento – secondo una continuità che trascende le particolari fasi storiche – della cultura politica del cattolicesimo democratico e, nel contempo, sia, per più aspetti, concettualmente diverso da ciò che hanno rappresentato, nelle rispettive contingenze temporali, sia il PPI che la Democrazia Cristiana.

Partiti popolari e democratici, ma – per quanto forze aperte, non arroccate, ne’ autoreferenziali – necessariamente orientate ad organizzare, anzitutto, il consenso dei cattolici.

Senonchè, un movimento che voglia offrire oggi il concorso della propria ispirazione cristiana ad un momento difficile della nostra vicenda politica ed istituzionale, deve preoccuparsi, innanzitutto, di declinare i propri riferimenti – contestuali per chi crede al dono della fede – secondo un linguaggio che ne sappia mostrare, anche a chi il dono della fede non lo ha ricevuto, la valenza che è pure ed intensamente di ordine umano e di carattere civile, ad essi strutturalmente intrinseca. Così da proporre un approdo, la costruzione di una piattaforma di possibile impegno comune anche a chi proviene da altre culture.

Si tratta, allora, di invertire la tendenza degli ultimi decenni. Di riguadagnare la nostra capacità critica, la nostra autonomia di pensiero e d’azione.

 

Europa: Il cantiere per nuove forme di statualità

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L’articolo appare nell’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Dario Velo

l 9 maggio è la giornata in cui si festeggia la nascita del processo di unificazione europea. La data è stata scelta per onorare la dichiarazione di Robert Schuman con cui il ministro francese il 9 maggio 1950 lanciava alla Germania di Adenauer il progetto di creazione della Ceca, primo passo verso la federazione europea.

La dichiarazione era stata scritta da Jean Monnet. Per comprendere l’importanza di quel primo passo è necessario comprendere la strategia con cui Jean Monnet ha sempre operato e che ha consentito all’Unione europea di progredire fino a oggi. Una strategia che non è stata compresa da molti per la sua innovatività. È stato tacciato di essere funzionalista, tecnocrate, di aver dato importanza agli aspetti economici dimenticando i valori. Accuse totalmente infondate che derivano unicamente dalla difficoltà di comprendere il rovesciamento rivoluzionario delle idee politico-costituzionali tradizionali. Una nuova visione del processo costituente che non ha teorizzato ma che ha direttamente concretizzato: Monnet è sempre stato uomo d’azione.

La Ceca è un’istituzione volta a dare dimensione europea a un settore produttivo specifico; la sua portata è in realtà molto più ampia in quanto contiene i principi fondamentali che guideranno il processo di unificazione europea negli anni successivi.

Un aspetto da sottolineare è l’importanza del settore carbo-siderurgico in quegli anni, che non potrebbe essere correttamente valutata ove si faccia riferimento alla configurazione attuale di quello stesso settore produttivo.

All’epoca, il settore produttivo carbo-siderurgico aveva valore strategico per l’industria, per la produzione di armamenti, per l’approvvigionamento di energia che copriva per circa il 70 per cento il fabbisogno totale. La regione della Saar, ricca di carbone, era stata tradizionalmente oggetto di contesa fra Francia e Germania; nel 1947 era stata costituita in una forma di protettorato francese; economicamente integrata alla Francia, politicamente era amministrata da un governo autonomo sottoposto al controllo di un alto commissario francese.

Il bacino della Ruhr, cuore della potenza tedesca, a sua volta era gestito da una autorità internazionale.

Il confronto mondiale fra Occidente e Urss rese palese la insostenibilità di queste soluzioni. La guerra fredda richiedeva l’apporto della Germania e quindi il suo sviluppo industriale. Per evitare una debolezza dell’Europa occidentale nel suo insieme, gli Stati Uniti si orientarono a favore della possibilità per la Germania di riappropriarsi dell’industria pesante per alimentare lo sviluppo. Con l’aggravarsi della tensione con il blocco sovietico, la Germania costituiva un alleato troppo importante per essere lasciato in una situazione di debolezza, politica ed economica.

La prospettiva della rinascita di una Germania forte, leader economico del continente, risvegliava peraltro i secolari timori della Francia, che pure riconosceva la razionalità dell’orientamento statunitense. Questa contraddizione fu superata grazie all’orientamento innovativo, di portata storica, ideato da Monnet: acconsentire allo sviluppo del settore carbo-siderurgico tedesco non sotto il controllo tedesco, bensì di una autorità sovranazionale condivisa, la Ceca. Questa formula, semplice nei suoi tratti essenziali, rappresentò il varo dell’unificazione europea. Il settore carbo-siderurgico in Francia, Germania e negli altri paesi aderenti veniva posto sotto il controllo di un’autorità europea, di carattere federale, eletta democraticamente dai paesi membri. La Germania sarebbe così stata coinvolta nella costruzione europea, in modo da non rappresentare più una minaccia per gli altri paesi europei e, al tempo stesso, riacquistando pari dignità internazionale.

La portata di questa soluzione si rivelò di importanza fondamentale per il processo di unificazione europea, al di là dello specifico problema affrontato: la europeizzazione del settore carbo-siderurgico. Il metodo monnettiano, inaugurato dalla Ceca, consentirà al processo di unificazione di svilupparsi, risolvendo di volta in volta i problemi cruciali che l’unificazione era chiamata ad affrontare.

Monnet stesso sintetizza la natura del metodo da lui ideato e fatto proprio da Schuman nella Dichiarazione: un’azione concreta e risoluta, imperniata su un punto limitato ma decisivo, che provochi un cambiamento fondamentale e, poco per volta, modifichi i termini stessi dell’insieme dei problemi. Questa logica costituente gradualistica consentirà successivamente la nascita dell’Euratom, della Cee, dell’Unione monetaria europea e una serie di progressi intermedi.

La Ceca conteneva inoltre un’opzione di portata egualmente fondamentale: il superamento della logica intergovernativa e l’affermazione graduale di istituzioni sovranazionali. Monnet aveva ricoperto il ruolo di vicesegretario generale della Società delle nazioni e, in tale posizione, aveva fatto esperienza diretta dei limiti delle organizzazioni internazionali fondate sui rapporti intergovernativi. Il fallimento del Consiglio d’Europa come motore di un nuovo ordine europeo aveva confermato ai suoi occhi i limiti insuperabili delle organizzazioni intergovernative. La cooperazione intergovernativa esclude il trasferimento di poteri agli organi comuni, e ciò rende deboli e inefficaci i processi decisionali di questi ultimi, sempre sottoposti ai veti dei governi interessati prioritariamente alla tutela degli interessi particolari della nazione di appartenenza.

Al tempo stesso era impossibile creare nell’immediato una struttura federale; la recente fine del secondo conflitto mondiale alimentava il timore che in una struttura federale potesse prevalere la volontà dello stato membro più sviluppato e popoloso ─ la Germania ─ contro cui tutti gli stati membri della Ceca avevano combattuto. Per superare questo ostacolo si intuisce la possibilità di organizzare una nuova forma di statualità, in grado di vivere un processo di trasformazione già implicito all’avvio del processo. Per valutare la portata di questa intuizione, essa va collocata nel contesto della politologia dell’epoca, la quale non aveva definito chiaramente i modelli di statualità federale e confederale. Si disegna per la Ceca un modello costituzionale con aspetti federali e confederali, prevedendo meccanismi in grado di attivare un processo di trasformazione in senso federale. Monnet non è un teorico astratto, è anzi permeato di cultura empirica. Il suo disegno discende dalla capacità di ricercare soluzioni di portata strategica in grado di risolvere i problemi.

Il meccanismo fondamentale attivato è il trasferimento di poteri dagli stati membri al processo di unificazione. La portata di questa innovazione non è ancora pienamente compresa, in quanto non corrisponde alle esperienze acquisite. La soluzione ideata può essere sintetizzata, cogliendone alcuni punti essenziali che caratterizzeranno in seguito il processo di unificazione europea fino a oggi.

Organo sovranazionale è costituito dall’Alta autorità, con potere di assumere decisioni vincolanti per i paesi membri della Ceca. L’Alta autorità è composta da 9 membri nominati dai governi per 6 anni, con il mandato di esercitare le proprie funzioni nell’interesse comune, in piena indipendenza dai governi che li aveva nominati. Spetta all’Alta autorità il ruolo di governo e al tempo stesso essa detiene la facoltà di iniziativa legislativa.

L’Alta autorità è affiancata da un “senato”, il Consiglio dei ministri, composto da un membro per ogni stato, con il compito specifico di coordinare le decisioni dell’Alta autorità nel settore carbo-siderurgico con le politiche economiche nazionali. Spetta al Consiglio dei ministri deliberare parere conforme all’unanimità per le decisioni più importanti e a maggioranza per le decisioni di minore rilievo. Il Consiglio dei ministri è organo confederale, ma la distinzione fra decisioni all’unanimità e a maggioranza contiene una valenza federale. Accanto al “senato”, viene creata una “camera bassa”, un’Assemblea rappresentante i popoli dei paesi membri. L’Assemblea ha poteri consultivi ma può deliberare, con maggioranza qualificata dei due terzi, la caduta dell’Alta autorità. I suoi membri sono designati dai parlamenti nazionali, ma è prevista la possibilità di elezione a suffragio universale diretto.

Infine, la Ceca prevede una quarta istituzione, la Corte di giustizia, composta da 7 membri nominati dai governi per 6 anni, chiamata a garantire il rispetto del Trattato e a dirimere le controversie. Quest’ultima istituzione ha massima importanza per lo sviluppo federale della Ceca: questa consapevolezza deriva dalla conoscenza del ruolo svolto nell’esperienza statunitense della Corte costituzionale. Questa struttura del Trattato Ceca anticipa, come già si è richiamato, la struttura istituzionale della Cee prima e dell’Unione europea poi nei tratti essenziali. L’esperienza del processo di unificazione europea nel corso di mezzo secolo conferma la previsione di Monnet che questa struttura istituzionale avrebbe consentito lo sviluppo graduale dei poteri federali, assecondando un processo costituente “a tappe” successive.

Questa forma di statualità, mai sperimentata in precedenza, rispondeva a una esigenza specifica. Monnet aspira a definire una statualità in grado di superare i limiti della cooperazione intergovernativa fondata sulla regola della unanimità delle decisioni; la nuova statualità è orientata a realizzarsi implementando un ordine federale non predefinito ma costruito gradualmente con i necessari e possibili gradi di libertà creativa costituzionale. Al tempo stesso, Monnet vuole evitare i rischi e i limiti di una scelta radicale a favore di una struttura federale compiuta fin dall’inizio, sull’esempio di esperienze federali consolidate quale in primis la costituzione federale degli Stati Uniti. Una scelta radicale così configurata non sarebbe stata sostenuta dal necessario consenso degli stati europei. Essa inoltre avrebbe ostacolato la creazione graduale di un modello innovativo. È questo il punto cruciale che distinguerà, per tutta la sua vita, Monnet dai federalisti “radicali” guidati da Altiero Spinelli.

Una scelta radicale di questo genere avrebbe costituito, per Monnet, una soluzione conservatrice, alimentata dalle esperienze del passato, destinata a frenare la possibilità di rendere l’unificazione europea un cantiere ove sperimentare nuove forme di statualità, per l’Europa e in prospettiva per il mondo intero. Monnet non ha mai dimenticato i valori mondialisti che avevano animato la Società delle nazioni negli anni compresi fra le due guerre mondiali.

Il Trattato della Ceca precorre infine l’affermazione dell’economia sociale di mercato come costitutiva del modello europeo. La Ceca svolge un ruolo importante anche in campo sociale, tutelando la salute e la sicurezza dei lavoratori, sviluppando un’edilizia popolare per i lavoratori stessi e tutelando l’inserimento e i diritti civili degli operai provenienti da altri Paesi europei ed extraeuropei. All’epoca, i flussi migratori sono prevalentemente intraeuropei, unidirezionali dal Sud verso il Centro-nord.

Tradizionalmente, la politica sociale era sviluppata dalle istituzioni pubbliche, nel quadro della politica di welfare generale. La Ceca afferma un modello diverso, ove libertà di mercato e solidarietà si fondono in modo organico, con un nuovo rapporto pubblico-privato. È questo il portato fondamentale dell’economia sociale di mercato, che afferma tre principi in un ordine coerente: libertà, solidarietà, sussidiarietà. Sarà Alfred Müller-Armack a coniare il termine stesso «economia sociale di mercato», in epoca successiva al Trattato Ceca. Anche da questo punto di vista, è confermata la carica innovativa della Ceca, che anticipa il modello europeo così come si è progressivamente definito, in alcuni contenuti cruciali.

Tripoli: E’ di 220 morti e oltre mille feriti l’ultimo bilancio delle vittime

E’ di 220 morti e oltre mille feriti l’ultimo bilancio delle vittime del conflitto in corso a Tripoli dal 4 aprile, giorno in cui il generale Khalifa Haftar ha lanciato l’offensiva militare per conquistare la capitale libica. E’ quanto riferisce l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) precisando che tra i civili uccisi figurano operatori sanitari, donne e bambini. Secondo l’Onu, sono oltre 30mila gli sfollati.

La battaglia iniziata a Tripoli è una delle più significative e importanti degli ultimi anni in Libia, tanto che diversi osservatori hanno parlato del rischio che inizi una terza guerra civile libica.

Secondo fonti diplomatiche citate da Reuters, né gli Stati Uniti né la Russia avrebbero intenzione di appoggiare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che chiede una tregua in Libia e che condanna Haftar per l’aggressione contro Tripoli.

In Sicilia tornano i treni storici del gusto

Dal 27 aprile, e fino all’8 dicembre del 2019, i treni storici del gusto attraverseranno la Sicilia in lungo e in largo per portare i turisti a conoscere questo meraviglioso territorio ricco di borghi, castelli, parchi e riserve naturali. Nel programma sono coinvolti ottantasette i Comuni.

L’iniziativa, che si ripeterà anche quest’anno, aveva fatto registrare nel 2018 oltre 10 mila presenze. “I treni storici del gusto 2019”, è un progetto realizzato dalla Regione Siciliana in collaborazione con la Fondazione Ferrovie dello Stato e la partnership di Slow Food Sicilia. A presentarla a Catania sono stati il Presidente della Regione Nello Musumeci, il direttore generale della Fondazione Ferrovie dello Stato Luigi Francesco Cantamessa e l’assessore regionale al Turismo Sandro Pappalardo.
“La Sicilia – ha detto Musumeci – vive un momento magico in termini turistici ma non possiamo tuttavia cullarci sugli allori. Abbiamo il dovere di lavorare e di fare molto di più, aumentando la qualità dei servizi anche attraverso la collaborazione con enti pubblici e privati. I treni storici raggiungeranno località impensabili, facendo degustare ai viaggiatori prodotti tipici locali”.

L’edizione di quest’anno si arricchisce della collaborazione con l’assessorato ai Beni Culturali e Identità Sicilia e l’assessorato all’Agricoltura, Sviluppo rurale e Pesca per estendere la narrazione alle produzioni agroalimentari e vitivinicole. Si comincia da Siracusa da dove partirà “Il treno dei dolci delle feste” che farà tappe a Noto, nell’Oasi di Vendicari, sull’Isola delle Correnti e a Ispica. L’ultima corsa, in programma l’8 dicembre, partirà da Palermo e sarà “Il treno dello sfincione e della frutta d’inverno”, farà sosta a Bagheria e Cefalù.

Nel mezzo, sono previsti altri cinquanta itinerari, tre dei quali riguarderanno manifestazioni inserite nel Calendario dei Grandi Eventi in Sicilia.

Cresce il numero dei ragazzi affetti dalla steatosi epatica non alcolica

L’obesità è uno dei principali problemi mondiali, sia nei bambini sia negli adolescenti. All’aumentare dell’eccesso di peso dei piccoli, è seguito un parallelo aumento dei casi di steatosi epatica non alcolica. Negli ultimi vent’anni la condizione, nota anche come fegato grasso, è divenuta la malattia cronica del fegato più frequente nel mondo occidentale. In Italia si stima che ne sia affetto circa il 15 per cento dei bambini, ma il tasso arriva fino all’80 per cento tra i piccoli obesi.

Oltre a una possibile predisposizione genetica, cause della steatosi epatica non alcolica sono l’alimentazione e lo stile di vita. Una persona in sovrappeso ha una probabilità molto più elevata di sviluppare il fegato grasso. La condizione, almeno all’inizio, quasi mai si manifesta con sintomi chiari. Perciò è frequente la sua sottovalutazione.

L’unica terapia per la steatosi epatica non alcolica è la correzione degli stili di vita. Per un’alimentazione corretta, l’ideale rimane affidarsi alla nostra dieta mediterranea.

 

Lettera sulla eredità del popolarismo. risposta ad Alessandro Risso.

Caro Direttore,

ti sarei grato se volessi cortesemente ospitare questa mia interlocuzione con Alessandro Risso, che pur conoscendo poco stimo molto per ciò che fa con l’Associazione Popolari piemontese, in particolare con la rivista on line “Rinascita popolare”.

Partiamo dall’incidente con Lino Labate. Come tu sai io ho reagito in quel modo per la semplice ragione che non avevo scritto alcuna lettera: chiunque l’avrebbe fatto vedendosi pubblicata una lettera a propria firma che non aveva mai steso, avesse condiviso anche l’intero contenuto. E’ servito perché le ricerche hanno portato a evidenziare l’equivoco.

Ma mi preme più la sostanza, evidenziata dal titolo che tu hai indicato:“Castagnetti non crede all’eredità culturale del popolarismo”. Niente di più falso e offensivo. Sono almeno vent’anni che giro settimanalmente ogni città italiana, molte università, molte diocesi praticamente a parlare solo di questo. Semplicemente non credo, nella situazione storica che viviamo, all’opportunità di dar vita a una forza politica a ispirazione religiosa: il Concilio Vaticano II, l’ottantanove del crollo del Muro, la fine delle ideologie, la globalizzazione che ha cambiato le condizioni delle nostre democrazie, la rivoluzione digitale che ha rotto gli equilibri nella distribuzione della conoscenza e – dunque – della rappresentanza, impongono anche ai credenti di andare oltre, molto oltre, le nostalgie di un passato, glorioso ma irripetibile. Sono convinto che se Sturzo e De Gasperi fossero ancora tra noi ci spronerebbero a inventare scenari e soggetti inediti. Personalmente sono interessato molto a questa discussione.

Ma non voglio sottrarmi alle accuse che mi sono state rivolte di una certa inerzia politica.

Facciamo un passo indietro.

Nel 2002 venni rieletto segretario del PPI, assieme a un ‘collegio’ di 58 altri rappresentanti, da un congresso composto da oltre mille delegati in rappresentanza di quasi duecentomila iscritti, con il mandato preciso e unico di promuovere, assieme ad altre tre piccole forze politiche che si muovevano nel centro del centrosinistra e spesso composte da amici ex democristiani, un nuovo soggetto politico di centrosinistra, che verrà poi denominato “Democrazia è libertà” e di gestire gli aspetti organizzativi conseguenti. L’esperienza ci ha dimostrato che la liquidazione di ciò che preesisteva sarebbe stata cosa assai complicata dal punto di vista civilistico (sia per il PPI che per gli altri soggetti di cui comprensibilmente non si parla più, penso anche al PCI, al PSI, al PRI…). È evidente che il mandato riguardava la costruzione di un nuovo soggetto che assorbisse il precedente, e non che lo affiancasse.

Per cui la mia preoccupazione è sempre stata quella di non promuovere alcuna iniziativa politica e tantomeno alcun tesseramento, sia per onorare il mandato congressuale, sia per non creare situazioni di rimessa in discussione del nuovo soggetto che avrebbero trovato la reazione in primo luogo di parlamentari e dirigenti provenienti dalla nostra storia.

Ciò non mi ha impedito peraltro di dedicarmi, assieme ad altri dirigenti, a iniziative che contribuissero a conservare e onorare la storia del popolarismo e la sua ricchezza valoriale ancor oggi preziosa per la politica del nostro paese, come la promozione della memoria e del magistero dei nostri ‘padri fondatori’, Sturzo, De Gasperi e Moro, ogni anno, con iniziative editoriali e convegni a Caltagirone, Roma, Trento, e in altre città, oltreché il suggerimento e la collaborazione piuttosto attiva con le iniziative dell’Istituto Sturzo (tralascio di parlare della difficile gestione dei debiti pregressi e risalenti sino alla Democrazia Cristiana, oltreché del contenzioso giudiziario non ancora concluso, gestione di cui si occupano generosamente tesoriere e co-rappresentante legale).

La scelta di non promuovere iniziative politiche legate all’attualità è stata una scelta, lo ripeto. La mia preoccupazione è sempre stata quella di evitare di provocare polemiche politiche ‘intestine’, facili da prevedere qualora avessi consentito di non rispettare il mandato congressuale del 2002, che avrebbero ulteriormente mortificato la memoria e il prestigio della nostra tradizione. Basti pensare che recentemente il prof. Nino Luciani volendo riunire a Bologna tutte le sigle che pretendono una qualche derivazione o rappresentanza della vecchia Democrazia Cristiana ne ha censite oltre una cinquantina.

No, la DC e il PPI furono una sola esperienza e io ho sentito il dovere, anche tra tante incomprensioni, di difenderne la memoria. In questi anni ci è toccato infatti di assistere a uno spettacolo piuttosto deprimente: chi si è autocertificato come improbabile componente dell’ultimo Consiglio Nazionale della DC per poter adire alla magistratura, chi vi ha fatto ricorso per ottenere l’uso del simbolo, chi per l’uso della testata ‘Il Popolo’, chi non era presente all’ultimo Congresso del PPI perché allora non vi aderiva e successivamente ha avanzato pretese le più disparate, chi in questi anni ha transitato da varie sigle politiche e da ultimo è salito su una improbabile cattedra di coerenza politica. C’è posto per tutti e non sarò io a contestarlo.

Personalmente non ne sono convinto, ma se c’è qualcuno oggi che intende dar vita a un nuovo partito di cattolici o altre esperienze di collegamento lo osserverò con tutto il rispetto e l’attenzione interessata, ovviamente.

Ma, se possibile, lo si faccia senza attivare polemiche infondate e inevitabilmente penose.

 

  

Adesso un “centro plurale”

L’obiettivo politico e culturale per chi non si riconosce – oggi e non ieri – nella “nuova destra”, nella “nuova sinistra”, e nel movimento “antisistema, antipolitico e populista” dei 5 stelle non può che ricostruire, con pazienza ma con tenacia, “il pensiero, la cultura e la politica di centro”. Ma per ricostruire un progetto politico che, come ovvio, non può essere maldestramente confuso con un semplice e banale posizionamento geografico, si deve uscire dall’isolamento e dalla autoreferenzialità puramente testimoniale. Un vizio, questo, che accomuna involontariamente e ingenuamente tutti coloro che sono impegnati da un lato a distruggere tutto ciò che potrebbe emergere all’orizzonte e, dall’altro, a ritagliarsi un ruolo del tutto marginale e prepolitico. Cioè, di fatto, inutile se si vuol condizionare e incidere nella concreta dialettica politica italiana.

Sono molti, ormai, gli elementi che portano a questa conclusione e che, dopo il voto del 26 maggio, dovranno essere in cima all’agenda politica. Soprattutto per chi non si rassegna ad alcune costanti che, a tutt’oggi, continuano a caratterizzare il dibattito politico nel nostro paese. E cioè, no alla radicalizzazione del confronto politico; no alla riedizione – seppur aggiornata e rivista – della teoria degli “opposti estremismi; no al confronto secco tra la destra e la sinistra; no alla cancellazione per decreto delle posizioni intermedie; no alla ripulsa verso la cultura riformista e di governo.

Semmai, e al contrario, va pronunciato un forte e secco si’ ad alcuni elementi che, uniti in un disegno armonico, costruiscono un progetto politico, culturale e di governo in grado di recuperare la miglior stagione riformista e democratica del nostro paese.

Si’ quindi, al pieno riconoscimento della cultura delle alleanze; si’ alla valorizzazione del pluralismo politico, sociale e culturale; si’ al recupero e riattualizzazione delle culture politiche riformiste e costituzionali; si’ alla cultura della mediazione; si’ alla capacità politica di comporre gli interessi contrapposti; si’ al dialogo e al confronto democratico tra la maggioranza e l’opposizione senza perseguire il disegno – caro alla “nuova destra” di Salvini e alla “nuova sinistra” di Zingaretti – di annientare politicamente il nemico o di distruggerlo sotto il profilo morale ed etico; si’ alla riscoperta della cultura di governo e si’, infine, ad un rigoroso rispetto delle istituzioni e dello Stato.

Insomma, si tratta di invertire la rotta rispetto alla deriva dell’attuale radicalizzazione del conflitto politico per ridare una qualità e un’anima alla democrazia italiana. In questo quadro il contributo politico, culturale, programmatico e anche etico dei cattolici democratici e popolari può essere importante e decisivo ai fini del raggiungimento di quell’obiettivo. Certo, un contributo non esaustivo ed esclusivo ma sicuramente di qualità. Purché, e su questo versante non si può più tergiversare, si esca dall’attesa impotente, dal rinvio al 2040 e anche oltre, dal ritrarsi nelle fila del prepolitico o dalla predicazione astratta e quindi sterile. Chi continua con questi atteggiamenti lavora, consapevolmente o meno che sia ha poca importanza, per ridare slancio e vigore all’attuale geografia politica. Adesso, invece, servono altre categorie: coraggio, lungimiranza, coerenza e volontà di impegno.

La corruzione nell’Africa sub-sahariana. Sottosviluppo e stati-vampiro

L’articolo appare nell’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Giulio Albanese

In questi anni si è molto parlato delle ragioni che determinano il sottosviluppo dell’Africa sub-sahariana. Una delle cause principali, secondo molti analisti, è rappresenta dalla corruzione, un vero e proprio flagello, causa primaria di uno spreco enorme di risorse finanziarie e umane. A questo proposito, va ricordato che, nel febbraio dello scorso anno, i capi di stato e di governo del continente, in occasione della cerimonia d’apertura del trentesimo vertice dell’Unione africana, dichiararono il 2018 l’Anno africano della lotta alla corruzione.

Purtroppo, l’indice di percezione della corruzione (Corruption Perceptions Index – Cpi), pubblicato nel gennaio scorso dall’ong Transparency International, dimostra che le nobili intenzioni dell’organismo panafricano non si sono ancora tradotte in risultati positivi concreti. La dice lunga il fatto che nella lista dei 10 paesi più corrotti al mondo, 6 siano africani. La Somalia è al primo posto, seguita dal Sud Sudan, mentre la Guinea Equatoriale è al settimo, la Guinea Bissau all’ottavo, seguite da Sudan al nono e Burundi al decimo posto.

Fin dalle sue origini, nel 1995, il Cpi è la più importante pubblicazione di Transparency International ed è diventato l’indicatore globale più noto della corruzione nel settore pubblico. L’indice offre una fotografia del livello di corruzione percepita nei paesi che classifica a livello globale. C’è anche da evidenziare che, con un punteggio medio di 32 punti su 100, l’Africa sub-sahariana è la regione con il risultato più basso del Cpi, seguita da vicino dall’Europa orientale e dall’Asia centrale, dove si registra una media di 35.

Lo smascheramento pubblico di transazioni internazionali irregolari e di ricchezze impropriamente acquisite, con la complicità di gruppi stranieri beneficiari di prestiti fatti a questo o quel regime, è la dimostrazione che il continente africano non è povero, come alcuni ingenuamente si ostinano a crede. Semmai è impoverito. Ed è proprio questo l’aspetto inquietante che andrebbe stigmatizzato. «La corruzione prevede sempre due complici: colui che intasca il denaro (inteso come soggetto richiedente sul mercato dell’illecito) e colui che lo consegna (il cosiddetto offerente)», nota John Christensen, fondatore di Tax Justice Network, il quale sollevò già anni or sono alcune obiezioni rispetto a una visione manichea del problema per cui vengono sempre assolte quelle nazioni dove risiede il cosiddetto potere economico-finanziario. Perché se il computo delle ruberie integrasse non solo la “domanda”, ma “anche la dimensione dell’offerta”, la graduatoria dei paesi con un alto indice di corruzione sarebbe assai diversa da quella che viene pubblicata sui giornali e vedrebbe in testa — sostiene Christensen — paesi con alti standard di democrazia come quelli occidentali.

Dunque, lungi da ogni retorica, la battaglia contro la corruzione deve farsi culturale e “civilizzatrice” a nord e a sud del mondo, in ogni sfera del corpo sociale. Indubbiamente, solo una maggiore partecipazione dei cittadini alla gestione dello stato e al controllo dell’uso delle risorse pubbliche potrà ridare loro fiducia nelle istituzioni che a oggi garantiscono, con sfumature e valenze diverse, ben pochi spazi di vera trasparenza.

Alla fine degli anni ‘70, l’africanista Marie-France Mottin azzardava una conclusione sulla geopolitica del continente sulla quale varrebbe la pena riflettere: «Perché non ammettere che la responsabilità del fallimento è collettiva, e avviare finalmente un vero dialogo, in un linguaggio libero dagli interessi, dalle ideologie e dai rancori?».

Chissà, se forse un giorno sapremo accettare questa provocazione, l’Africa smetterà d’essere il cimitero delle astrazioni e disillusioni collettive che affliggono quella che il missionario San Daniele Comboni chiamava “l’infelice Nigrizia”. Il grande intellettuale beninese Albert Tévoédjrè, in un suo celebre libro, dal titolo più che emblematico, Povertà, ricchezza dei popoli auspicava leader africani davvero illuminati, capaci d’essere «prima di tutto dei dirigenti della vita sociale», servitori della res publica. E come in una sorta di gioco degli specchi, le risposte opposte alla sfida dello sviluppo sembrano eludere il problema dello stato-nazione, così come venne postulato dallo storico inglese Basil Davidson, vale a dire una forma istituzionale di imitazione occidentale che si traduce in governi personali e autocratici fondati sul nepotismo e la corruzione esercitati a favore di una o più componenti etniche della popolazione contro le altre.

A questo riguardo Davidson, uno dei maggiori africanisti del ‘900, stigmatizzò le pesanti responsabilità delle ex potenze coloniali nella captazione di élite autoctone che si prestano impunemente al mantenimento di rapporti economici ineguali seppure informali. L’analisi di alcuni scenari infuocati, in cui la conflittualità non ha solo una valenza politico-istituzionale, ma anche militare, mette in luce l’esistenza di circuiti politici legati a istituzioni, eserciti e milizie private, signori della guerra locali, compagnie multinazionali, finalizzati allo sfruttamento delle risorse naturali presenti sul territorio e ovviamente del tutto indipendenti da qualsiasi forma di consenso o legittimazione popolare.

L’ex governatore della Banca centrale del Ghana, Frimpong Ansah, arrivò a definire gli stati africani postcoloniali addirittura come “stati-vampiro”, biasimando il drenaggio del denaro pubblico e delle risorse perpetrato dalle oligarchie locali secondo logiche clientelari e predatorie. Altri studiosi, come Jean-François Bayart, ritengono che questo processo degenerativo sia attribuibile all’incapacità distributiva delle risorse in direzione dello sviluppo e del benessere sociale a causa del perdurante asservimento a fazioni etniche incapaci di servire il bene pubblico.

Ma qualunque sia la spiegazione storica, è logico chiedersi se nel continente africano vi siano oggi paesi virtuosi. Il Cpi evidenzia le Seychelles e il Botswana come quelli con un punteggio più alto rispetto ad altri paesi della regione. In particolare, i loro governi sono stati capaci di realizzare sistemi democratici di governance relativamente ben funzionanti.

Una cosa è certa: la massima di Papa Gregorio Magno Corruptio optimi pessima (“la corruzione dei migliori è la peggiore”) continua a essere uno straordinario frammento di saggezza che conserva immutata nel tempo la sua carica profetica. Un’allocuzione che stigmatizza, con forza ed efficacia, le responsabilità di coloro che amministrano il potere e la ricchezza delle nazioni.

Mattarella: “Francia-Italia: una relazione indistruttibile”

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato nelle scorse settimane un’intervista a Richard Heuzé, pubblicata da Politique Internationale con il titolo “Francia-Italia: una relazione indistruttibile”.

Si allega la traduzione di cortesia di larghi estratti dei passaggi più significativi.

R.H.: La crisi diplomatica.

S.M.: L’indomani dell’aggressione di Mussolini, della guerra e poi del comune impegno nella Resistenza, la riconciliazione con la Francia è stata una tappa fondamentale verso il reintegro dell’Italia nella comunità internazionale. A quel tempo soltanto pochi paesi erano disposti ad ascoltare ciò che aveva da dire la nuova Italia repubblicana. La vicinanza fra i due Ministri degli Esteri, Carlo Sforza e Georges Bidault, ha permesso la realizzazione, nel 1948, di un progetto di Unione doganale fra Parigi e Roma che andava ben al di là del Trattato di pace del 1947. Tale Unione ha preceduto l’adesione dell’Italia alla NATO, nel 1949, e al Consiglio d’Europa, ancora una volta con l’appoggio di Parigi.

I paesi latini aspiravano a svolgere un ruolo importante nella costruzione di un nuovo ordine europeo che, a quel tempo, cercava ancora la sua strada fra l’entente cordialefranco-britannica e il modello di un’Europa carolingia, oscurata dal millenario antagonismo fra Berlino e Parigi.

Ma il dialogo culturale fra la Francia e l’Italia non risale certo al dopoguerra: è stato alimentato per tutto il XIX secolo da intensi scambi fra intellettuali. Ad esempio Victor Hugo ha intrattenuto un’intensa corrispondenza con Angelo Brofferio, uno dei protagonisti del Risorgimento, che lo scrittore francese definiva “avvocato del popolo” e “atleta della libertà”.

In una delle sue lettere a Brofferio, che gli offriva asilo in Piemonte, Victor Hugo, esiliato a partire dal colpo di stato di Luigi-Napoleone Bonaparte, lanciava l’idea di un “grande parlamento federativo continentale”. Se ne trova una descrizione più precisa in Actes et paroles, dove lo scrittore annuncia la creazione degli Stati Uniti d’Europa. Mi permetta di citarne un passo: “L’Allemagne serait à la France, la France serait à l’Italie ce qu’est aujourd’hui la Normandie à la Picardie et la Picardie à la Lorraine. Plus de guerre, par conséquent plus d’armée. Plus de frontières, plus de douanes, plus d’octrois… Une monnaie continentale (…) [qui] résorberait toutes les absurdes variétés monétaires d’aujourd’hui. (…) Liberté d’aller et de venir, liberté de s’associer, liberté de posséder, liberté d’enseigner, liberté de parler, liberté d’écrire, liberté de penser, liberté d’aimer, liberté de croire…” (1) Quale migliore descrizione?

(1)La Germania sarebbe per la Francia, la Francia sarebbe per l’Italia, quello che è oggi la Normandia per la Piccardia e la Piccardia per la Lorena. Niente più guerre, di conseguenza niente più eserciti. Niente più frontiere, dogane, dazi …Una moneta continentale (…) (che) riassorbirebbe tutte le assurde varietà monetarie di oggi. (…) Libertà di andare e venire, libertà di associarsi, libertà di possedere, libertà di insegnare, libertà di parlare, libertà di scrivere, libertà di pensare, libertà di amare, libertà di credo …”)..

R.H.: Cancellate le conseguenze della crisi diplomatica tra Italia e Francia?

S.M.: Assolutamente. Il Forum economico che si è tenuto il 1° marzo a Versailles, e che ha riunito le organizzazioni degli imprenditori dei nostri due paesi, la Confindustria e il Medef, ha dimostrato che i nostri rapporti di lavoro non hanno subito lacerazioni.

R.H.: Il Trattato di Aquisgrana del 22 gennaio 2019 con la Germania rafforza il Trattato dell’Eliseo del 22 gennaio 1963. L’Italia deve adombrarsene?

S.M.: Facciamo un passo indietro. Con la Dichiarazione Schuman del maggio 1950 è stato avviato, con il leale sostegno della Repubblica Italiana, un dialogo tra Germania e Francia. Quella Dichiarazione costituisce il fondamento su cui si è basata la costruzione europea, che ha preso avvio con la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) per sfociare nell’Unione Europea così come la conosciamo oggi. In questo processo, ha svolto un ruolo decisivo la profonda convergenza di vedute tra Schuman, De Gasperi e Adenauer.

Siamo lieti che la Francia e la Germania, due paesi amici, alleati e membri fondatori dell’Unione – al pari dell’Italia – abbiano deciso di rinsaldare i loro legami al servizio di questo grande disegno europeo. E spero che ciò avrà ricadute positive su tutta l’Europa. Non pensiamo neanche per un attimo che la riaffermazione di quel rapporto rispecchi la minima tentazione egemonica o prefiguri l’instaurazione di un direttorio ai vertici dell’Unione.

R.H.: La questione di membri delle Brigate Rosse ricercati dalla giustizia italiana e accolti in Francia.

S.M.: Penso che i nostri due paesi, tanto vicini per cultura giuridica e per storia, sapranno trovare un accordo su una questione delicata come quella delle estradizioni. Vede, il nostro paese ha sofferto molto durante quelli che si sogliono definire gli “anni di piombo”. Siamo riusciti a sconfiggere il terrorismo senza mai derogare in alcun modo alle regole della democrazia e alle garanzie di diritto. In particolare, non abbiamo mai fatto ricorso alla legislazione di emergenza. Ecco perché oggi l’esigenza di giustizia è così fortemente sentita dal popolo italiano.

R.H.: Le elezioni europee.

S.M.: Sono quarant’anni che il Parlamento europeo è eletto a suffragio universale diretto, ma, per la prima volta, stiamo assistendo a una vera e propria campagna elettorale pan-europea nel senso pieno del termine. Non si tratta cioè di 27 campagne elettorali separate, bensì di un unico dibattito in un’unica arena, cui prendono parte leader e partiti politici di tutti i paesi. I temi della campagna rispecchiano sempre meno le questioni nazionali. La gente si interessa sempre più a ciò che accade negli altri paesi dell’Unione ed è consapevole di condividere un destino comune. Lungi dal provare estraneità, come vorrebbero far credere alcuni, gli europei provano un senso di appartenenza crescente. E paradossalmente, all’origine di questo rinnovato interesse vi sono i movimenti euroscettici. A forza di denigrare le istituzioni e le politiche europee, sono riusciti a mobilitare nuovamente gran parte della popolazione.

R.H.: Il risveglio della mobilitazione.

S.M.: I dibattiti si stanno svolgendo in spazi considerati finora come appartenenti alla “sfera riservata” della diplomazia: la questione dei missili a medio raggio, il riarmo nucleare, le regole del commercio internazionale, la politica africana, le migrazioni, la finanza internazionale… L’Europa si sta costruendo dal basso. L’organismo sociale europeo in formazione comprende sensibilità che trascendono i confini nazionali e si apprestano a esprimersi tramite quell’esercizio democratico comune che è l’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo. Non è un caso che l’Articolo 1 del Trattato di Maastricht esorta a realizzare una “unione sempre più stretta” fra i paesi membri. Questo obiettivo è in via di realizzazione.

R.H.: Si parla molto di crisi del multilateralismo…

S.M.: E’ vero che certe organizzazioni sono invecchiate e rispecchiano rapporti di forze ormai scomparsi. Ma la crisi è conseguenza delle politiche dei principali attori sulla scena internazionale più che dell’inadeguatezza degli strumenti multilaterali stessi. Non dimentichiamo che questi strumenti, a cominciare dall’ONU, hanno svolto un ruolo prezioso all’indomani della scomparsa della “cortina di ferro”. Durante questo periodo è stato possibile raccogliere i “dividendi della “pace” del dopo-guerra fredda. Dal canto suo, l’Unione europea, con l’allargamento ai paesi dell’Europa Europa centrale e orientale, ha realizzato il sogno dell’unità del continente.

E’ chiaro che la scelta cui siamo oggi di fronte oggi non è cambiata: bisogna permettere agli Stati di agire a piacimento e piegarsi alla legge del più forte, o bisogna invece istituire un sistema di regole condivise che rispetti l’esistenza e l’uguaglianza di tutti gli Stati? Ovviamente, io sono favorevole a questa seconda soluzione. Occorre dar vita a una vera comunità internazionale che non sia al servizio delle politiche di potenza, bensì degli interessi dei popoli che la compongono, e aprire la strada a quello che definirei un “multilateralismo efficiente”. Di qui la necessità che gli Stati si raggruppino in seno a insiemi più vasti, sul modello dell’Unione europea o delle organizzazioni che vediamo formarsi, non senza difficoltà, in altri continenti. Comunque sia, è chiaro che il vuoto politico che risulterebbe dal trionfo dell’unilateralismo esporrebbe il mondo a tensioni premonitrici di conflitti potenzialmente devastanti.

R.H.: Il vento del sovranismo.

S.M.: Vi è un gran numero di paesi che si trovano in situazioni senza precedenti. Ma non credo che questi cambiamenti possano avere conseguenze sul funzionamento del Parlamento, della Commissione e del Consiglio europeo, e meno ancora minacciare l’esistenza dell’Unione. La logica storica che sottende all’integrazione è più forte di tutte le polemiche, di tutte le contestazioni e di tutte le deviazioni. Tanto più che stiamo assistendo all’emergere di una nuova generazione di giovani europei che sono al tempo stesso francesi ed europei, italiani ed europei, tedeschi ed europei, i quali viaggiano per tutta l’Europa in piena libertà, una libertà a cui non vogliono rinunciare. Ecco perché ho fiducia nel futuro, nonostante le difficoltà, che non vanno ignorate, ma neanche esagerate.

R.H.: La solidarietà tra i popoli europei e l’ondata di immigrazione in Italia.

S.M.: Si tratta di una questione che chiama in causa la coscienza europea. Che la solidarietà sia mancata è un fatto di cui non si può che prendere atto. La maggior parte dei governi ha reagito in funzione di preoccupazioni elettorali interne, e ciò ha impedito loro di dare una risposta comune a questo fenomeno senza precedenti. Naturalmente, non è stato così in tutti i paesi. La Cancelliera tedesca Angela Merkel ha dato prova di un notevole coraggio, anche sul piano elettorale. Altri si sono rifiutati di fare checchessia. In ogni caso, questo episodio ha mostrato la necessità di una risposta collettiva alla tratta di esseri umani. Tale risposta deve poggiare sull’apertura di vie regolari di accesso all’Europa e richiede un impegno molto saldo e immediato al fine di garantire lo sviluppo dei paesi da cui provengono i flussi migratori. Ciò che stiamo facendo è ancora insufficiente, e ciò che abbiamo fatto per l’Africa è del tutto inadeguato. Da qui a trent’anni, gli africani saranno 2 miliardi e mezzo, a fronte di 700 milioni di europei. Questo problema deve essere affrontato di petto adottando una politica europea comune. Non possiamo ignorarlo né fingere che non esista.

R.H.: La crisi migratoria ha indebolito i valori fondativi dell’Unione?

S.M.: Ancora una volta, poniamoci in una prospettiva storica. Questi flussi migratori, soprattutto per la loro intensità, hanno costituito un fenomeno nuovo per l’Unione europea. Avevamo a disposizione degli strumenti classici, come la politica dell’asilo, fino ad allora praticata in un contesto politico, economico e sociale completamente diverso. Ma non siamo stati in grado di analizzare e anticipare le conseguenze della destabilizzazione di un certo numero di paesi del Medio Oriente né della crisi umanitaria dell’Africa. Curiosamente, a livello globale, le questioni demografiche sono da vari decenni al centro di un ampio dibattito e di riflessioni politiche approfondite, in particolare in seno all’ONU, mentre in Europa, che pure è il continente più esposto sul breve periodo, sono relegate in secondo piano.

L’intreccio tra difesa dei confini esterni dell’Unione e quella dei confini nazionali non ha certo migliorato la situazione. Di qui l’impossibilità di giungere a un accordo che definisse una nuova politica europea in materia di migrazione e di asilo.

Dobbiamo quindi lavorare, con rapidità ed energicamente, a soluzioni veramente europee: canali di migrazione legali; misure per combattere i trafficanti di esseri umani; mezzi per migliorare le condizioni di vita nei paesi di provenienza. Non bisogna perdere di vita il fatto che le migrazioni non si dirigono mai verso un solo paese dell’Unione, ma verso l’Europa nel suo complesso. Ripeto: soltanto una soluzione europea può consentirci di padroneggiare un fenomeno che rischia di scuotere il continente. Questo sarà uno dei temi principali della prossima legislatura europea.

R.H.: Sanzioni contro i paesi membri che rifiutano la solidarietà e mettono in discussione i valori fondanti dell’Unione europea.

S.M.: Innanzitutto, una parola sull’Unione europea. Essa viene spesso confrontata a una prova di equilibrio su una bicicletta. Un ciclista, per abile che sia, non può resistere a lungo facendo surplace. Il successo dell’Unione dipende dalla sua capacità di andare avanti. Di tanto in tanto subisce una battuta d’arresto. E’ stato così nel 1954 per la Comunità europea di difesa, e più recentemente, nel 2005, per il progetto di Trattato costituzionale. Ecco perché il cantiere del completamento dell’architettura europea non si deve fermare. Bisogna anzi farlo ripartire, tenendo conto dell’opinione dei cittadini. Gli strumenti esistono; sono previsti dai trattati. Si tratta di porli in opera al fine di raggiungere decisioni politiche.

Ciò detto, per tornare alla Sua domanda, le sanzioni rientrano nel diritto europeo. I principi fondamentali dell’Unione sono sanciti dai trattati e questi ultimi prevedono delle procedure volte a garantirne un’applicazione equa e omogenea. Ma vi è un altro interrogativo: quali valori vogliamo proteggere? La libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti umani, il primato del diritto… in breve, valori che riguardano le persone e i popoli, e non certo la conservazione di ipotetici “spazi vitali”, né gli interessi nazionalistici o l’antagonismo fra comunità. Guardiamoci da coloro che vorrebbero ribaltare questo approccio!

R.H.: Il dopo Brexit e le economie maggiori della Ue.

S.M.: In Europa, l’integrazione economica è ormai una realtà. Lo è, in larga misura, sul piano dei servizi finanziari, della ricerca, delle tecnologie d’avanguardia, dei settori industriali. Per giunta, mi preme ricordare che l’Italia è per dimensioni la seconda economia manifatturiera dell’Ue. Spetta ai paesi più grandi promuovere un percorso di integrazione per soddisfare l’economia europea nel suo insieme più che le priorità dei singoli paesi.

Di tanto in tanto, tornano a galla velleità di “direttorio”: dobbiamo respingerle senza esitazione. Tutti sono chiamati a contribuire, altrimenti rischiamo di non condurre in porto le riforme di cui l’Unione ha bisogno, oppure produrre risultati che non sarebbero certamente un passo avanti.

Di fronte alla globalizzazione, che non cessa di guadagnare terreno, vi è una volontà comune di stabilire norme internazionali in materia di economia circolare, di gestione sostenibile delle risorse, di ambiente e di clima, di tutela della privacy, di diritti dei lavoratori? E di far sì che tali norme migliorino la qualità di vita delle persone e rendano la concorrenza più trasparente e più leale? L’Unione europea ha svolto un ruolo di primo piano in un certo numero di ambiti. Deve forse rinunciare a quest’ambizione per sprofondare nella contemplazione delle realtà nazionali e del loro passato?

Gli europei sono chiamati a compiere scelte difficili se vogliono trovare un equilibrio tra confronto globale e concorrenza interna. Ciò vale per i “campioni” europei dell’industria e dei servizi. E vale anche per le imprese dette OTT, over the top, particolarmente interessate dalla direttiva sui diritti d’autore che dovrebbe essere adottata a breve.

R.H.: Europa e Africa.

S.M.: Promuovere lo sviluppo economico e sociale dei paesi africani è un dovere morale e storico. Ma è anche nell’interesse dell’Europa, tenuto conto delle pressioni migratorie, della necessità di garantire la stabilità di quella regione del mondo, pur nel rispetto dei principi e dei valori che animano l’Unione europea. Ciò che avviene alle porte della nostra casa comune – le crisi politiche o militari, le conseguenze delle catastrofi naturali o del cambiamento climatico – ci colpisce direttamente. Facciamo parte dello stesso spazio geopolitico e per questo dobbiamo, insieme, esigere che i popoli esercitino una responsabilità comune al fine di favorire l’integrazione delle giovani generazioni nei processi di sviluppo sociale, economico e politico. L’Unione ha compiuto alcuni passi nella direzione giusta, in particolare con la creazione del fondo fiduciario per l’Africa. Ma occorre fare molto di più e incoraggiare un dialogo più serrato fra l’Unione europea e l’Unione africana. Non ci riusciremo certo continuando a procedere in ordine sparso.

R.H.: L’Europa si interessa abbastanza al Mediterraneo?

S.M. – La risposta è no. E altrettanto si potrebbe dire dell’Alleanza Atlantica. L’Unione europea deve esercitare appieno il suo peso politico per creare le condizioni per la pace e la stabilità, lo sviluppo e il rispetto dei diritti umani. Il Mediterraneo non deve tornare ad essere, come al tempo della “guerra fredda”, il teatro delle rivalità fra potenze regionali o globali, soprattutto se queste potenze sono paesi europei. Numerose iniziative europee – dall’Unione per il Mediterraneo ai partenariati di vicinato – si sono gradualmente arenate senza che si facesse nulla per impedirlo. E’ un grave errore cui occorre rimediare.

R.H.: Unione europea, Russia e sanzioni.

S.M.: L’Italia condivide la posizione di molti suoi partner europei, quella di un “doppio binario”: da un lato la fermezza, per mezzo di sanzioni, per esprimere chiaramente la nostra opposizione a ogni violazione manifesta del diritto internazionale; dall’altro il dialogo, al fine di incoraggiare Mosca ad adottare un atteggiamento più responsabile. Dalla lotta contro il terrorismo alla sicurezza, dalle migrazioni al cambiamento climatico, molti sono gli ambiti in cui la Russia svolge un ruolo di primo piano. Non dobbiamo avere paura di un confronto franco e aperto, sempre sottolineando che le sanzioni sono un modo per esortarla a riconciliarsi rapidamente con la comunità internazionale.

R.H.: Il dovere della memoria.

S.M.: Per le nostre società, l’antisemitismo è un vero e proprio veleno. Agisce come un virus estremamente pericoloso, in grado di infiltrarsi nel tessuto sociale delle democrazie. Un virus che malauguratamente, nonostante gli sforzi delle società europee, non è mai stato completamente debellato. La lotta contro l’oblio e la valorizzazione della memoria sono gli unici anticorpi in grado di sconfiggere le terribile malattia di antisemitismo. Ricordate queste parole di Primo Levi, iscritte all’ingresso del memoriale di Berlino dedicato agli ebrei d’Europa assassinati: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire”. Ecco perché occorre instancabilmente preservare la memoria, raccontare, spiegare e non dimenticare. Perché questo virus, anche quando lo si crede sconfitto, rimane latente, come constatiamo ahimè in questo momento. Nel dicembre 2018 abbiamo allestito al Quirinale una piccola esposizione per ricordare l’adozione delle leggi razziali da parte di Mussolini nel 1938. A ottant’anni di distanza il messaggio non ha perso nulla della sua attualità.

Libia: la rivalità tra le potenze straniere spinge il paese verso la guerra

L’Onu denuncia che in Libia è la rivalità tra le potenze straniere che appoggiano le opposte fazioni in lotta a spingere il paese verso una vera e propria guerra civile. Lo riferisce il quotidiano britannico “Financial Times”, che pubblica un’intervista del suo specialista in affari mediorientali, Andrew England, con la vice responsabile della missione dell’Onu in Libia (Unsmil), Stephanie Williams.

“Abbiamo indicazioni che ingenti quantità di materiale bellico stanno raggiungendo entrambe le parti in confitto”. “Tutto ciò deve finire perché una escalation e un allargamento del conflitto in Libia rischiano di avere conseguenze umanitarie catastrofiche”.

Infatti secondo Mohamed Eljarh, direttore di Lorc Research and Consultancy, società di consulenza libica: “la comunità internazionale dovrebbe contribuire alla soluzione della crisi, ma è diventata parte del problema”.

Istat: fiducia dei consumatori in diminuzione. Giù anche quella delle imprese

Ad aprile 2019 l’indice del clima di fiducia dei consumatori si stima in diminuzione per il terzo mese consecutivo, passando da 111,2 a 110,5; una dinamica negativa si rileva anche per l’indice composito del clima di fiducia delle imprese, che passa da 99,1 a 98,7.

Il calo dell’indice di fiducia dei consumatori riflette il deterioramento di tutte le sue componenti: il clima economico, personale e corrente registrano le flessioni più marcate mentre una diminuzione più contenuta si registra per il clima futuro. Più in dettaglio, il clima economico cala da 123,8 a 122,6, il clima personale passa da 106,8 a 105,9, il clima corrente scende da 107,8 a 106,9 e il clima futuro flette, seppure in modo lieve (da 115,9 a 115,6).

Con riferimento alle imprese, l’indice di fiducia diminuisce in quasi tutti i settori, ma con intensità diverse. Nella manifattura la flessione è lieve, con l’indice che passa da 100,8 a 100,6, nei servizi risulta più consistente (da 100,1 a 99,0) e nel commercio al dettaglio è più marcata (da 105,3 a 101,4). Fanno eccezione le costruzioni dove l’indice aumenta da 140,3 a 141,2.

Per quanto riguarda le componenti dei climi di fiducia delle imprese, nella manifattura si rileva un peggioramento sia dei giudizi sugli ordini sia delle attese sulla produzione unitamente a una diminuzione del saldo relativo alle scorte di magazzino. Nelle costruzioni la dinamica positiva dell’indice riflette il miglioramento dei giudizi sul livello degli ordini.

Nei servizi si deteriorano i giudizi sugli ordini e sull’andamento degli affari; invece si segnala un aumento delle attese sugli ordini. Con riferimento al commercio al dettaglio, il marcato calo dell’indice è la sintesi di un’evoluzione negativa sia dei giudizi sulle vendite, il cui saldo torna negativo per la prima volta da giugno 2018, sia delle relative attese; il saldo delle valutazioni sul livello delle giacenze diminuisce.

Calabria, in arrivo fondi per il dissesto idrogeologico

Oltre 250 milioni di euro per gli interventi per la riduzione del rischio idrogeologico in Calabria sono stati stanziati dal Ministero dell’Ambiente tramite accordi di programma con la Regione negli ultimi otto anni, circa 30 milioni solo nel 2018, cui vanno aggiunti nel 2018-2019 altri finanziamenti in corso di perfezionamento, pari a circa 20 milioni di euro, e quelli provenienti dal Patto per lo sviluppo della Regione Calabria, che ammontano a circa 300 milioni. Oltre 500 milioni di euro, complessivamente, nei quali sono inclusi gli interventi per la difesa dall’erosione costiera.

Il dissesto idrogeologico costituisce infatti un tema di particolare rilevanza per la regione a causa degli impatti sulla popolazione, sulle infrastrutture lineari di comunicazione e sul tessuto economico e produttivo. Il forte incremento delle aree urbanizzate, spesso in assenza di una corretta pianificazione territoriale, ha portato ad un considerevole aumento degli elementi esposti a frane e alluvioni e quindi del rischio. Le superfici artificiali sono passate dal 2,7% negli anni ‘50 al 7,65% del 2017. L’abbandono delle aree rurali montane e collinari ha inoltre determinato un mancato presidio e manutenzione del territorio. In questi ultimi anni la Calabria è stata interessata da intensi e frequenti fenomeni atmosferici che ne hanno compromesso in modo significativo il già debole assetto geomorfologico del territorio. Dopo le province di Crotone e Catanzaro, è stato il litorale ionico reggino ad essere flagellato da un’intensa perturbazione atmosferica che ha causato frane, esondazioni e fortissime mareggiate lungo il litorale.

“Il Ministero – ha detto il titolare dell’Ambiente Sergio Costa – e il Governo si sono attivati concretamente per la Calabria, una splendida terra ingiustamente trascurata. Lo dimostrano gli oltre 500 milioni di euro stanziati per il dissesto idrogeologico della regione, per  le opere di manutenzione e i danni da esso provocato, e il ddl ‘Cantiere ambiente’, un piano dettagliato per la messa in sicurezza dell’Italia dal rischio idrogeologico, che riordina il sistema affastellato di disposizioni normative e che razionalizza risorse e poteri e fa risparmiare circa il 70% di tempo per l’erogazione e la realizzazione delle opere”.

La cefalea

Per mal di testa o cefalea si intende il dolore provato in qualsiasi parte della testa o del collo. Può essere un sintomo di diverse patologie. Il tessuto cerebrale di per sé non è sensibile al dolore, poiché manca di recettori adatti, perciò il dolore è percepito per via della perturbazione delle strutture sensibili che si trovano intorno al cervello. Nove zone della testa e del collo hanno queste strutture: il cranio (più esattamente, il periostio del cranio), muscoli, nervi, arterie e vene, tessuti sottocutanei, occhi, orecchie, seni paranasali e le mucose.

Vi sono una serie di diversi sistemi di classificazione per il mal di testa. Il più riconosciuto è quello proposto dalla International Headache Society. La cefalea è un sintomo aspecifico, ciò significa che ha molte possibili cause. Il trattamento di un mal di testa dipende dalla eziologia, cioè dalla causa di fondo, ma comunemente prevede l’assunzione di analgesici.

Il mal di testa spesso deriva da una trazione o dalla irritazione delle meningi e dei vasi sanguigni. I nocicettori possono anche essere stimolati da traumi cranici o tumori e quindi causare mal di testa. Inoltre il loro stimolo può avvenire in seguito a stress, dilatazione dei vasi sanguigni e la tensione muscolare. Una volta stimolato un nocicettore invia un messaggio dalla fibra nervosa alle cellule nervose del cervello, segnalando che una parte del corpo fa male.

La fisiopatologia delle cefalee primarie è ancora più difficile da determinare rispetto alle cefalee secondarie. Sebbene il meccanismo che porta a emicrania, cefalea a grappolo e cefalea tensiva non sia ancora ben compreso, vi sono state diverse teorie nel corso del tempo che tentano di fornire una spiegazione di ciò che accade esattamente nel cervello.

La cefalea si manifesta principalmente con un dolore alla testa. Le crisi dolorose possono essere episodiche o croniche; nel primo caso sono sporadiche, mentre quando cronicizzano la frequenza di comparsa è elevata (si presentano per almeno 15 giorni al mese). In alcuni casi, il dolore è modesto e facilmente risolvibile con l’adozione di piccoli accorgimenti. Talvolta, invece, le crisi possono essere particolarmente forti e invalidanti.

La cefalea tensiva si presenta con un dolore persistente, ma generalmente lieve e bilaterale (interessa sia il lato destro, sia quello sinistro). Si manifesta con un senso costrittivo localizzato nella regione occipitale o frontale. In alcuni casi, invece, il sintomo è diffuso a tutto il capo, dando origine al cosiddetto “cerchio” alla testa. Gli attacchi spesso iniziano in tarda mattinata o nel primo pomeriggio. La cefalea tensiva non pregiudica le normali attività quotidiane. Talvolta, il dolore è accompagnato da capogiri, rigidità della nuca e manifestazioni ansiose; è invece raramente associato a nausea, vomito, fastidio alla luce o al rumore.
L’emicrania è spesso monolaterale (interessa solo una metà del capo), coinvolgendo inizialmente la regione frontale sopra l’occhio, poi anche la fronte e la tempia. Si manifesta con attacchi ricorrenti che possono durare alcune ore o, nei casi più gravi, qualche giorno. Il dolore è intenso e di tipo pulsante, simile ad un martellamento che sembra far scoppiare la testa. Occasionalmente, l’attacco può essere preceduto e accompagnato da una serie di sintomi reversibili di tipo neurologico, che costituiscono la cosiddetta “aura”: abbagliamenti, flash scintillanti di forma geometrica (scotomi), oscuramento o annebbiamento del campo visivo e, in alcuni casi, difficoltà a esprimersi, formicolio e intorpidimento di un’estremità.
La cefalea a grappolo si presenta con attacchi unilaterali, molto dolorosi e ravvicinati (si verificano a intervalli di tempo piuttosto brevi). Il dolore, in questo caso, è di tipo trafittivo e lancinante, localizzato intorno all’occhio e allo zigomo, con possibile irradiazione a tempia, mandibola, naso o mento. In alcuni casi, tutto il lato del cranio viene colpito dal dolore. Tali episodi sono associati ad altri sintomi ben definiti: abbassamento della palpebra, lacrimazione, irritazione della congiuntiva e rossore al viso. Inoltre, può esservi associato uno stato di agitazione. A differenza dell’emicrania, non si accompagna quasi mai a nausea o vomito e, in particolare, non si associa mai all’aura.
Per quanto riguarda le cefalee secondarie, alcune caratteristiche del dolore alla testa dipendono dalla causa. Oltre al mal di testa, ad esempio, possono comparire sintomi come febbre e vomito (infezioni), rinorrea (sinusite), deficit neurologici (encefalite, tumore o altra lesione con effetto massa), sincope (emorragia subaracnoidea), irritazione della congiuntiva e altri disturbi visivi (glaucoma o ipertensione endocranica).

L’attacco alla Raggi sprofonda nell’ambiguità. L’errore del PD sulla richiesta di dimissioni

Un conto è denunciare i limiti della Giunta Raggi, altro è cavalcare l’onda di sdegno per una intercettazione equivoca o equivocabile. Che il socio di maggioranza, ovvero il Comune di Roma, chieda di correggere il bilancio non è un “reato politico”. È l’assemblea ad approvare il bilancio, ed essa coincide con il socio unico, quindi con il Campidoglio. Vietare al Sindaco d’interloquire con gli amministratori dell’AMA, posseduta al 100 per 100 dal Comune, è qualcosa che sfiora l’assurdo.

La Raggi, come si legge nel post qui riportato integralmente, dichiara di essersi mossa nell’interesse della città. Il problema è che finora non si è visto alcun risultato apprezzabile sul fronte della pulizia delle strade romane. Sul piano dell’azione amministrativa i rilievi sono tanti e gravi, dal momento che l’immobilismo in materia ambientale rappresenta un macigno sulla efficienza della gestione grillina. Dopo tre anni non si ha notizia di quale debba essere il sito per la cosiddetta discarica di servizio, sicché i rifiuti continuano a viaggiare (a costi elevati) fuori città e fuori regione.

La disamina delle disfunzioni, non solo nell’ambito di pulizia e decoro urbano, induce a rafforzare i motivi dell’opposizione a questa esperienza fallimentare dei Cinque Stelle. Ciò non toglie che le accuse della Lega – al governo con il partito della Raggi – appaiano fuor di misura, per qualche verso implausibili. Non si può mutare radicalmente logica passando da Palazzo Chigi a Palazzo Senatorio, facendo sì che a distanza di un chilometro appena l’alleanza di governo si capovolga in feroce dialettica di forze antagoniste, senza il minimo ritegno. L’ambiguità è totale. Anche un bambino capisce che siamo di fronte a un gioco di ritorsioni, perché se il Vice Premier Di Maio chiede lo sfratto per un sottosegretario leghista, il Vice Premier Salvini passa al contrattacco e chiede la testa della “First citizen”  della Capitale.

Ora, se il Pd non avverte il pericolo che nasce da questa torbida concatenazione politica, fatalmente decade a forza di complemento del plebeismo imperante. Invocare le dimissioni della Raggi, in aperta sintonia con tutta la destra, è una risposta facile ma sbagliata: l’opinione pubblica, almeno quella che si presenta immune dal morbo del moralismo inconsulto e della irrazionalità, si attenderebbe prioritariamente l’impegno coscienzioso e limpido a ricondurre nelle istituzioni (anzitutto nel Consiglio comunale) il confronto sul merito delle questioni. Si può fare con durezza e nondimeno con serietà. Invece fare gazzarra, al pari dell’armata irregolare dei salviniani, non aiuta a posizionare il Pd sul terreno di una vera opposizione, credibile e responsabile. In questo modo si alimenta, anche senza volerlo, il degrado della vita democratica e civile.

Fino a quando? E soprattutto, fino a quando si pensa di poterne trarre vantaggio?

IL POST DELLA RAGGI

Molto rumore per nulla. Indagano il governatore dell’Umbria Catiuscia Marini per concorsi truccati nella sanità; il sottosegretario della Lega Armando Siri per una presunta tangente di 30mila euro tra Sicilia e Liguria; il segretario del Pd e Governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, per finanziamento illecito…ma parlano di me.

Parlano di audio rubati in cui dico quello che direbbe qualsiasi altro cittadino di Roma: me la prendo duramente con l’ex amministratore delegato dell’Ama perché ci sono i rifiuti in strada e non lo posso accettare.

Uso parolacce ma non me ne vergogno perché sono incazzata quando vedo chi pensa a prendere i premi aziendali piuttosto che a pulire la città. Perché questo è quello che si ascolta in quegli audio.

Nessuna pressione ma solo tanta rabbia per chi non ha fatto bene il lavoro per il quale era pagato. Si pretendeva che approvassi un bilancio con il quale i dirigenti di Ama avrebbero avuto centinaia migliaia di euro in più.

I vertici del Campidoglio – il ragioniere generale, segretario generale, il direttore generale, l’assessore al bilancio, i dipartimenti competenti – hanno bocciato la proposta dell’ex ad Bagnacani. Ed io e la mia Giunta abbiamo votato contro come avrebbe fatto qualsiasi romano.

Addirittura si ipotizzava che aumentassi ancora la tassa dei rifiuti, mentre in azienda sarebbero continuati ad arrivare i premi a pioggia. Mi sono ribellata e non me ne pento. Continuano a gettare fango su di me ma io ho le spalle grosse e continuerò a difendere la mia città e i miei concittadini.

[dal profilo facebook del Sindaco]

Merlo: Popolari, ora si rilanci l’Associazione. Senza finzioni e senza equivoci

La riflessione pubblicata su queste colonne da Alessandro Risso, presidente dell’Associazione dei Popolari piemontesi, merita di non cadere nel vuoto. L’oggetto della questione e’ molto semplice e per nulla polemico. Men che meno verso Pier Luigi Castagnetti, una persona a cui mi lega stima personale e amicizia politica.

Ora, però, di fronte alla necessità sempre più impellente – almeno così mi pare di capire dal fecondo dibattito che attraversa l’area cattolica italiana e, nello specifico, del mondo popolare di ispirazione cristiana – di rilanciare e riqualificare la presenza politica dei cattolici, e’ singolare e del tutto controproducente che un’Associazione nazionale che dovrebbe rappresentare ciò che resta dell’area popolare sia, di fatto, clamorosamente silente da quasi 17 anni. Un’Associazione, tra l’altro, che aveva proprio il compito, squisitamente politico e culturale, di unire il mondo popolare ancora presente e disseminato in tutto il paese attorno ad un progetto politico e che non aspetta altro, soprattutto nell’attuale fase politica, di ascoltare un “fischio” di convocazione, per dirla con una felice battuta di Carlo Donat-Cattin.

E qui sorgono alcuni dubbi e perplessità che meritano, adesso, di avere però una risposta. Ne’ burocratica, né protocollare e ne’ ironica. Se il Presidente “eterno”, per dirla con Risso, nominato nel lontano 2002 intende proseguire con il nulla di fatto praticato sino ad oggi, non c’è nulla di male. Anzi. È sufficiente, come avviene, credo, in tutte le associazioni del mondo, prendere atto di questa situazione. Convocare l’assemblea e procedere alla nomina di un nuovo gruppo dirigente.

E, com’è ovvio e scontato, di un nuovo Presidente. Fuorchè non ci siano motivi misteriosi, personali e pertanto inconfessabili sconosciuti a tutti noi e quindi non razionalmente spiegabili sul perdurare di questa anomala situazione. Può anche darsi ma non lo so. E quindi non mi pronuncio. Comunque sia, il punto centrale della questione – che interessa, credo, a tutti i popolari e agli ex popolari del nostro paese – oggi è quello di far ritornare protagonisti, e più incisivi, i cattolici democratici e popolari nel nostro paese e nella politica italiana. E l’Associazione nazionale dei Popolari – che potrebbe essere uno strumento importante per centrare questo obiettivo – non può restare silente, marginale, passiva ed impotente. È arrivato il momento di ripartire. E sempre nel massimo rispetto personale e politico del Presidente silente dell’Associazione Popolari.

Ocmin (Cisl): Più coraggio e investimenti per cambiare la condizione attuale delle donne.

Uscito su “Conquiste del lavoro”, quotidiano della Cisl, ieri 18 aprile a firma di Liliana Ocmin

Com’è cambiata la condizione delle donne negli ultimi 50 anni in termini di empowerment, uguaglianza di genere e salute sessuale e riproduttiva? A questa domanda ha cercato di dare risposta il nuovo Rapporto del Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA) “ Questioni in sospeso. Diritti e libertà di scelta per tutte le persone”, presentato nei giorni scorsi a Roma, in contemporanea mondiale in oltre 100 città,  che racconta, attraverso le storie di vita di 6 donne, cosa è accaduto ai diritti delle donne, in particolare a quelli della sfera sessuale e riproduttiva, a 25 anni dalla Conferenza del Cairo e a 50 anni dalla nascita dello stesso Fondo UNFPA. Dahab Elsayed, 60 anni, che ora vive in un quartiere periferico del Cairo, narra dell’entusiasmo che attraversava la sua città nel 1994, durante lo svolgimento della Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo, e della sua storia personale, fatta di scelte molto limitate e segnata dalla pratica delle mutilazioni genitali femminili cui venne sottoposta da piccola – era un dovere, dice, le possibilità di matrimonio, unica prospettiva di allora, dipendeva solo da questo e tutte le ragazze erano coinvolte – e a cui lei ha sottoposto sua figlia.

Oggi, con più conoscenze e maggiore consapevolezza, pensa che ciò sia sbagliato e sua nipote è stata risparmiata da questa pratica cruenta che mette a rischio sia la salute fisica che quella psichica delle bambine. La sua storia, come quella delle altre cinque donne, dimostrano come le aspirazioni e soprattutto le opportunità, a volte schiacciate e ostacolate da questioni culturali tradizionali, altre volte sconvolte da guerre e conflitti sociali, in alcuni casi  hanno preso svolte inaspettate e hanno avuto un successo prima inimmaginabile; questo grazie anche all’impegno di molte donne e attiviste che hanno contribuito a cambiamenti epocali in molti paesi. La libertà di scelta delle donne è ancora molto influenzata da fattori esterni, come la mancanza di risorse, nel campo dell’educazione ad esempio. Quante donne ancora sono in grado di scegliere senza sacrificare le proprie aspirazioni e la propria carriera? Gli ostacoli sono tanti ed il percorso non è semplice.

Molti risultati sono stati raggiunti, ma bisogna fare di più per cambiare il quadro che abbiamo davanti. In tutto il mondo, una donna su tre sperimenta ancora una qualche forma di violenza fisica o sessuale durante la propria vita. Circa 800 milioni di donne sono state date in sposa quando erano bambine. Almeno 200 milioni di ragazze e donne che vivono oggi in 30 paesi hanno subito le MGF e circa 44 milioni sono bambine e adolescenti con meno di 14 anni. Entro il 2030 fino a 68 milioni di ragazze saranno sottoposte alle MGF se non aumenterà l’impegno per porre fine a questo fenomeno. In Europa vivono 500.000 ragazze e donne che hanno subito le MGF, e ogni anno altre 180.000 ragazze rischiano di esservi sottoposte. Nel 2016, in Italia, il numero di donne straniere maggiorenni con MGF era tra le 60mila e le 81mila unità. Ogni giorno più di 500 donne e ragazze nei paesi in situazioni di emergenza muoiono durante la gravidanza e il parto, per la mancanza di personale sanitario qualificato e aborti non sicuri. Globalmente, le donne rappresentano il 40 per cento della forza lavoro nel settore formale, ma svolgono il lavoro di cura e domestico da 2 a 10 volte in più rispetto agli uomini. Nel 2018, circa 136 milioni di persone hanno avuto bisogno di aiuti umanitari.

Almeno una su cinque tra le donne rifugiate ha subito violenza sessuale, anche nei paesi di transito. Occorrono, pertanto, più investimenti per contrastare ed eliminare ogni forma di violenza e discriminazione contro le donne e centrare l’obiettivo dell’uguaglianza di genere entro il 2030, come prevede anche l’Agenda delle Nazioni Unite. Come Coordinamento nazionale donne, proseguiamo nel nostro impegno per contribuire a realizzare questi e altri obiettivi,  per promuovere i diritti fondamentali della persona, l’uguaglianza, il lavoro dignitoso per tutti, la solidarietà economica, il benessere generale e la pace tra le popolazioni continuamente minacciata. Un pensiero, in vista delle prossime festività pasquali va agli uomini, alle donne e ai bambini della nostra vicina Libia sprofondata nuovamente nel buio di un conflitto fratricida. Il nostro auspicio è che tutto ciò finisca al più presto.

Buona Pasqua a tutte e a tutti.

 

L’eterno conflitto del governo giallo verde

Siamo sbalorditi nel constatare che non passa giorno che il governo giallo verde non sia in conflitto al suo interno. Tutti i pretesti sono buoni per alimentare la diatriba tra la Lega e i 5Stelle, in particolare tra Salvini e Di Maio. Si va dall’immigrazione all’i.v.a., dalle infrastrutture ai poteri agli enti locali, al problema delle famiglie e via dicendo….

Tutto potrebbe andar bene se si trattasse di un esercizio letterario, se intendessero affilare le lame dialettiche, ma così non è affatto. Qui si tratta invece di sciabolate date alla credibilità del nostro Governo Nazionale; sberle all’economia, falcioni alle speranze e improperi ai nostri costumi.

E tutta questa musica, purtroppo, ce la dovremo sorbire fino alle elezioni Europee del 26 maggio. Non ci sarà tregua! Sappiamo già in anticipo quello che ci attende domani, dopo domani e così di seguito. Una noia mortale!

Mai che, invece, qualcuno si alzasse e provasse a progettare qualcosa di lungo, di serio, di complesso e di difficile. Da una eternità siamo in attesa di una espressione politica che abbia quelle caratteristiche. Non sarà di moda, anzi sicuramente passerà essere antipatica, ma come si sa, le medicine non sono mai dolci. Invece, per rimetterci in sesto, dobbiamo necessariamente sorbirne la loro benefica amarezza.

In aggiunta a tutto questo, capiterà in moltissimi Comuni che vanno al rinnovo, un supplemento di dispute a rincarare la dose. Non è che siamo privi di esperienza e non è nemmeno questo un periodo novello per questo clima, però constatiamo che il vizio non tarda a morire e che anzi sembra più ringalluzzito; del resto, più i mezzi di comunicazione invaderanno la nostra esistenza, tanto più si accentuerà questa stolta sarabanda tra le parti.

Come si vede, c’è un filo di pessimismo in quel che scrivo, posso permettermelo perché se mi giro, scopro di avere una lunga storia, storia che mi consente di esaminare l’evoluzione del costume politico nazionale.

Queste espressioni, nel fondo, sono anche scritte perché qualche giovane smentisca questi miei lamenti. Sarebbe un segno Pasquale trovare qualcuno che indicasse una via alternativa a quel che faticosamente subiamo.

In fondo, visto che non scriverò da qui a domenica, resterò in attesa di qualche piacevole smentita, qualche nota di speranza che sveli un tragitto meno accidentato e più elevato.

L’auspicio lo faccio quindi a noi tutti.

 

“Contrordine, compagni”: il nuovo libro di Bentivogli

Articolo già apparso sulle pagine di https://www.industriaitaliana.it

Produzioni, lavoro, nuovi ecosistemi cambieranno la vita di ciascuno, per cui la prima operazione da compiere è quella di comprendere ciò che ci aspetta e capire che si tratta di una trasformazione più impegnativa di una semplice robotizzazione. Anche la Fiat Ritmo del 1978 era completamente automatizzata e veniva prodotta tramite robot nello stabilimento di Cassino, in provincia di Frosinone, ma la fabbrica 4.0 è qualcosa di completamente diverso: è interconnessa con un livello di interdipendenza all’interno di un ecosistema intelligente, in un dialogo tra macchina e macchina e tra macchine e uomo. La vera svolta è la connessione costante con l’ecosistema esterno materiale e immateriale attraverso nuvole di dati (cloud). In Italia, di fatto, non esiste ancora nulla del genere. Le prime piccole esperienze nel nostro Paese sono nicchie, cantieri che non somigliano nemmeno a una fabbrica 4.0. Quest’ultima è invece completamente integrata al suo interno sulle nove tecnologie abilitanti, che vedremo nel dettaglio più avanti: sistemi di produzione avanzati, manifattura additiva, realtà aumentata, simulazioni, integrazione orizzontale e verticale dei sistemi informativi, Internet delle cose, cloud manufacturing, cybersicurezza, utilizzo e analisi dei big data.

Le fabbriche di Siemens e Bosch sono state le prime a cimentarsi davvero sul 4.0. Questa mutazione implica la necessità di ripensare la produzione e le persone impegnate nella produzione, ma anche di rigenerare il territorio intorno a una fabbrica smart. Una fabbrica funziona se ci sono addetti con la professionalità adeguata, ma soprattutto se intorno vi è, appunto, un ecosistema intelligente. È questo contesto che consente di riportare la manifattura al centro, e l’Industry 4.0 è l’occasione – l’ultima – per raggiungere l’obiettivo, con buona pace di chi parla di dematerializzazione dell’economia. Per riuscirci, oltre che di formazione – se ne parlerà ampiamente più avanti – c’è bisogno di una programmazione e di una progettazione politica e sociale che tenga conto dei megatrend tecno-industriali e umani, da svilupparsi sul lunghissimo periodo e non limitata al ricatto dell’immediato.

Le politiche e le iniziative con orizzonte triennale sono in questo senso inutili. Quelle italiane, che sono semestrali (ultimamente quotidiane), sono più che inutili. Bisogna guardare a un orizzonte di almeno venti o trent’anni, considerando, per esempio, che con gli attuali tassi di crescita nel 2100 l’Africa avrà quattro miliardi di abitanti, tre in più rispetto al miliardo attuale. E considerando anche che, in Italia, gli ultraottantenni raddoppieranno e nel giro di qualche decennio avremo molti più over 65 che giovani. Entrambe le circostanze dovrebbero far rifl ettere sulle dinamiche demografi che e migratorie mondiali, e spingerci a ripensarne totalmente l’interpretazione, i modelli, le priorità e le politiche di gestione.

Progettazione: eccola, dunque, la parola chiave. E per non andare fuori strada, bisogna scriverla su un foglio bianco. È questa la prova di coraggio per muoversi in mare aperto, su mappe completamente nuove, e fare sul serio. Fondamentale sarà, inoltre, la partecipazione. La rivoluzione digitale sta consegnando agli archivi l’idea fordista che in fabbrica il lavoro vada organizzato seguendo una rigida catena di comando. Il combinato disposto di Industry 4.0 e delle infrastrutture di blockchain e Intelligenza artificiale modificherà in maniera profonda l’organizzazione del lavoro. Il sociologo Federico Butera spiega che la «gara contro le macchine» è un nonsense logico. Le macchine, cioè la tecnologia, possono essere progettate in modo da produrre risultati positivi per tutti, a patto che la progettazione sia un lavoro di squadra, che liberi i lavoratori dalle gabbie delle mansioni consentendo loro di svolgere un ruolo creativo.7 La partecipazione va estesa anche ai percorsi formativi, alla scuola e alle università. È la via della «democrazia industriale» che è stata seguita con successo dalla Germania e dai Paesi scandinavi.

Il protagonismo delle persone, ovviamente, dev’essere promosso anche fuori dalle fabbriche. Un’autentica partecipazione si realizza pure sul versante del consumo, spingendo le aziende a fare della sostenibilità la bussola che orienta le loro decisioni. Il «voto col portafoglio», ovvero scelte di consumo che premino aziende e imprese che producono seguendo protocolli di sostenibilità, promosso dall’economista Leonardo Becchetti, può aiutare concretamente le persone a divenire soggetti e non oggetti del mercato, e, come vedremo, si configura anche come strumento di lotta sindacale. Se la fabbrica del XX secolo attribuiva al lavoro una dimensione collettiva, oggi questa dinamica si è affievolita. Dunque la chiave di volta per ritrovare una dimensione alta del lavoro è quella della conoscenza e della partecipazione a ogni livello. Bisogna valorizzare esperienze nuove e autentico buon senso contro chi predica la disintermediazione e profetizza un mondo in cui il 90 per cento delle persone starà in panchina vivendo di sussidi, mentre il 10 per cento lavorerà.

A questa visione tecnofobica, a chi sostiene che l’innovazione semplicemente cancellerà occupazione, opponiamo un modello in cui l’uomo si libera nel lavoro, riducendo la fatica e limitando le mansioni ripetitive e alienanti, allargando gli spazi in cui mettere in campo la propria intelligenza e fantasia. Le macchine, insomma, non distruggeranno soltanto, ma miglioreranno il lavoro e, ne parleremo nel dettaglio, ne creeranno di nuovo. Se accantoniamo per un attimo tutte le opinioni in merito, se vogliamo ragionare in modo empirico su quanto sta accadendo e sul suo impatto, noteremo che il nostro sistema industriale è sempre andato a più velocità: oggi è evidente che le aziende che faticano, che non investono e licenziano, sono proprio quelle più lontane dall’innovazione. (….)

Sarebbe utile capire come il Paese di Leonardo, Giotto, Galileo e Michelangelo sia diventato il Paese «timoroso ed esitante» di oggi. Lo ha ben ricordato Massimiliano Magrini: «È fuori dal gregge che si crea innovazione». Serve almeno un po’ di insoddisfazione per l’esistente: il pensiero divergente, come vedremo, è l’unico non sostituibile dagli algoritmi di Intelligenza artificiale, l’unico capace di ridiscutere verità acquisite per innovare anche il sapere precostituito. Il pensiero divergente è quello che ha guidato Leonardo da Vinci, Steve Jobs, ma anche Gandhi. Innovatori che hanno trovato insoddisfacente l’orizzonte che il pensiero tradizionale della loro epoca considerava immutabile. In conclusione, le innovazioni dirompenti e la loro affermazione ci stanno rendendo più forti. La nostra crescita individuale, morale, sul piano delle competenze e delle capacità progettuali e di governo del cambiamento non è, però, altrettanto rapida.»

«Questo non ci permette di capire e utilizzare in modo sapiente le tecnologie. Un aspetto critico che dobbiamo sicuramente affrontare, una sfida a rimboccarci le maniche per coglierne le opportunità e ridurne i rischi. Da un po’ di tempo si sente dire che ci stiamo avvicinando alla «singolarità». In fisica, una singolarità è un punto nello spazio o nel tempo, come il centro di un buco nero o l’istante del Big Bang, nel quale la matematica «smette di funzionare» come accadrebbe in altri punti generici, e con essa, quindi, la nostra capacità di comprendere. Il parallelo con la nostra evoluzione suggerisce che ci troviamo in una condizione unica, quella in cui l’avanzamento tecnologico esponenziale può rivelarsi talmente dirompente da spazzare via gran parte dei nostri riferimenti. Se pensiamo ai progressi nel campo dell’Intelligenza artificiale e in quello delle neuroscienze, ci rendiamo immediatamente conto della straordinaria portata del cambiamento in corso. Possiamo gioirne ingenuamente o lasciarci intimorire da questa prospettiva. In entrambi i casi l’assenza di consapevolezza e di spirito di iniziativa prefigura gli scenari peggiori.

Unicef: a Tripoli 500.000 bambini a rischio

Nei giorni scorsi la violenza dei combattimenti [tra le milizie del generale Haftar e le truppe del governo di accordo nazionale guidato da Serraj] si è intensificata nella capitale libica di Tripoli e nei dintorni.
Quasi mezzo milione di bambini a Tripoli, e altre decine di migliaia nei sobborghi a ovest della capitale vivono in una situazione immediata di pericolo a causa della recrudescenza delle ostilità..
Per questo L’UNICEF chiede a tutte le parti in conflitto di tutelare tutti i bambini, in ogni situazione, e di mantenerli fuori dalle violenze, in linea con quanto prescrive il diritto internazionale umanitario.
L’UNICEF ammonisce tutte le parti ad astenersi dal commettere gravi violazioni contro l’infanzia, inclusi il reclutamento e l’impiego di minorenni nei combattimenti.

Industria: Istat, a febbraio il mercato interno sostiene l’aumento del fatturato (+0,3% in un mese).

A febbraio si stima che il fatturato dell’industria aumenti in termini congiunturali dello 0,3%, proseguendo la dinamica positiva di gennaio. Nella media degli ultimi tre mesi, l’indice complessivo è comunque diminuito dell’1,6% rispetto ai tre mesi precedenti.

Gli ordinativi registrano una diminuzione congiunturale del 2,7%; nella media degli ultimi tre mesi, sui tre mesi precedenti, si registra un calo dell’1,3%.

La dinamica congiunturale del fatturato è sintesi di un aumento del mercato interno (+0,8%) e di una flessione di quello estero (-0,9%). Per gli ordinativi il calo congiunturale riflette una leggera contrazione delle commesse provenienti dal mercato interno (-0,4%) e una più marcata diminuzione di quelle provenienti dall’estero (-6,0%).

Con riferimento ai raggruppamenti principali di industrie, a febbraio gli indici destagionalizzati del fatturato segnano un aumento congiunturale dell’1,2% per i beni strumentali, una lieve riduzione, dello 0,1%, sia per i beni di consumo che per i beni intermedi e un calo più consistente, dell’1,0%, per l’energia.

Corretto per gli effetti di calendario (i giorni lavorativi sono stati 20 come a febbraio 2018), il fatturato totale cresce in termini tendenziali dell’1,3%, con incrementi dell’1,1% sul mercato interno e dell’1,6% su quello estero.

Con riferimento al comparto manufatturiero, il settore dei macchinari e attrezzature registra la crescita tendenziale più rilevante (+5,5%), mentre l’industria dei mezzi di trasporto mostra la flessione maggiore (-5,6%).

L’indice grezzo degli ordinativi segna un calo tendenziale del 2,9%, sintesi di un modesto incremento dello 0,6% per il mercato interno e di una marcata diminuzione, del 7,7%, per il mercato estero. La maggiore crescita tendenziale si registra nel settore dell’elettronica (+1,4%), mentre il peggior risultato si rileva nell’industria farmaceutica (-8,4%).

Approvata la direttiva sul whistleblowing europeo

Il Parlamento europeo ha approvato la nuova direttiva sul whistleblowing con una maggioranza di 591 voti a favore, 29 contrari e 33 astenuti.

Le nuove regole poste dall’UE in materia di whistleblowing tutelano in particolare gli informatori che rivelano le violazioni del diritto comunitario in settori quali appalti pubblici, servizi finanziari, riciclaggio di denaro, sicurezza dei prodotti e dei trasporti, sicurezza nucleare, salute pubblica, protezione dei consumatori e dei dati.

La disciplina si è resa necessaria alla luce delle risultanze di uno studio effettuato nel 2017 per conto della Commissione Europea, che ha dimostrato che la mancanza di tutela degli informatori ha comportato, nell’ambito degli appalti pubblici, quasi dieci miliardi di euro all’anno.

Infine, protezione non solo per chi segnala, ma anche per i colleghi che “aiutano” il whistleblower nel suo percorso di segnalazione.

Nuove tutele

Per garantire la sicurezza dei potenziali informatori e la riservatezza delle informazioni divulgate, le nuove norme consentiranno di comunicare le segnalazioni:

– all’interno dell’ente o azienda presso cui si lavora;

– direttamente alle autorità nazionali competenti;

– agli organi e le agenzie competenti della Ue.

L’informatore sarà comunque protetto in caso decidesse di divulgare pubblicamente le informazioni, in caso di pericolo imminente per l’interesse pubblico o rischio di ritorsione. Restano esentate dalle tutele le piccole aziende e i piccoli municipi.

Garanzie per gli informatori

Saranno tutelati anche i soggetti che assistono gli informatori in qualità di facilitatori, colleghi e parenti.

Agli informatori devono essere garantiti:

– l’accesso gratuito a informazioni e consulenze complete e indipendenti sulle procedure e sui mezzi di ricorso disponibili;

– l’assistenza legale nel corso del procedimento;

– sostegno finanziario e psicologico.

Sclerosi multipla: arriva un nuovo farmaco

Il nuovo medicinale permette di raggiungere fino a 4 anni di controllo della malattia a fronte di un massimo di 20 giorni di trattamento orale somministrato nell’arco dei primi 2 anni.

Il Mavenclad, nome commerciale del farmaco, è stato ammesso proprio in questi giorni alla rimborsabilità dall’Agenzia italiana del farmaco.

La sclerosi multipla è una malattia autoimmune del sistema nervoso centrale che si stima colpisca circa 2 milioni e 300 mila persone nel mondo. La maggior parte ha un’età compresa tra i 20 e i 40 anni e l’85% dei malati è affetto da sclerosi multipla recidivante-remittente. Il nuovo farmaco presentato oggi a Milano da Merck combatte proprio questa forma di sclerosi multipla e promette di avere effetto a lunga distanza dall’assunzione.

18 aprile: l’Italia alle urne

Istituto Luce Cinecittà: tutte le immagini e i fotogrammi più belli di come eravamo, rivissuti attraverso i film, i documentari e i video che hanno fatto la storia del nostro Paese.

Moderati, oggi? In vista di che?

La generazione nata e cresciuta tra le macerie della prima repubblica, nell’epoca degli slogan e del marketing elettorale, storce il naso quando sente la parola “moderazione”, o anzi, peggio, non capisce proprio. Perché non è solo una parola condannata dalla contestazione post ’68 a significare compromesso e conservazione; la sua sfortuna è andata oltre: oggi la si ignora completamente, non la si comprende. La semplificazione sfrenata del messaggio politico, che oggi corre ad una velocità estrema e sproporzionata rispetto a qualsiasi epoca precedente, non lascia tempo per nessuna elaborazione e rimodulazione degli impulsi più immediati e irriflessi da parte del pensiero.

A partire da questa analisi, però, non serve a niente rimpiangere un mondo scomparso, più “moderato” e più saggio, come se si potesse tornare indietro. La storia, l’evoluzione tecnologica e sociale, non può essere arrestata e invertita, insomma, i buoi sono usciti dalla stalla.

Invece, è opportuno chiedersi “in virtù di cosa” si dovrebbe e potrebbe effettivamente essere moderati. Lo si comprende meglio se si ha chiaro il senso profondo della moderazione. Esso non è il compromesso statico dello status quo, il grigiore che oggi circonda ogni istituzione, avvertita ormai come tristemente lontana, tanto da non suscitare neanche più una vera protesta. Anzi, l’equilibrio del “concreto vivente”, direbbe Romano Guardini, è sempre dinamico, “passa”, “oscilla”, mai riposando in un successo immanente presunto come eterno. Questo tipo di moderatismo è drammatico e tutt’altro che conservatore e “grigio”.

Tuttavia, questo senso profondo del perché essere moderati ci sembra che oggi non sia più dato per scontato: la crisi di consensi delle grandi tradizioni politiche è stata anche una crisi di identità. Chi sono i moderati? Che volto hanno? Forse non è fuori luogo porsi queste domande.

Del resto l’identità si costruisce proprio a partire dalle crisi, da un confronto diretto e franco con sé stessi e con i problemi reali. E da tale provvidenziale confronto ne nasce non una facile soluzione, ma una narrazione. Rappresentanza è rappresentazione, narrazione, immaginazione. Solo ripartendo da una visione, da un simbolo (nel senso letterale del termine, cioè “unione”) si genererà la nuova comunità. Il compito che ora si presenta a chi pensa politicamente in questo paese è un compito creativo: disegnare l’immagine della comunità politica che si vuole proporre, un’immagine concreta e vivente, dinamica, ancora in evoluzione.

E’ con questo spirito che vi voglio indicare il documento che segue di Aurelian Craiutu  IL RADICALISMO DELLA MODERAZIONE

Alessandro Risso: Castagnetti non crede nell’eredità culturale del popolarismo

Caro Direttore,

 

ho letto su “Il Domani d’Italia” la vicenda dello scritto inizialmente attribuito a Pierluigi Castagnetti e poi corretto nell’autore. Se dovessi scegliere un aggettivo per definirla, direi “imbarazzante”, ma prenderò per buono l’equivoco, senza entrare nel merito del giudizio sul PD di Zingaretti che ha provocato tanta agitazione.

Voglio invece tornare sul fatto che nel pubblicare il commento incriminato all’articolo di Nino Labate, avete indicato Castagnetti come “segretario dell’Associazione I Popolari”. E qui non ci siamo. Non mi riferisco al fatto che dell’Associazione nazionale Castagnetti è il “presidente” e non il segretario, sbaglio comprensibile riguardando l’ultimo segretario politico del PPI.

Contesto invece il fatto che Castagnetti venga ancora qualificato con riferimento all’Associazione.

Avevo già scritto un ampio articolo su “Rinascita popolare” poi ripreso anche da voi – al quale rimando – per lamentare l’assoluta inattività dell’Associazione nazionale, che in quasi 17 anni non ha mai avviato un tesseramento, mai convocato un’Assemblea dei soci, mai eletto un Direttivo, né un Segretario, né un Tesoriere, né un Proboviro, né un Revisore. L’eterno presidente si basa ancora sulla nomina iniziale del 2002 fatta da una cinquantina di dirigenti del disciolto PPI, in continuità con l’incarico di ex segretario del partito. Come ho già scritto, Castagnetti “nei fatti ha dimostrato di non credere nell’Associazione e penso che non abbia più, per questo palese disinteresse, il diritto morale di rappresentarla”.

Ti chiederei quindi la cortesia di non accostare Castagnetti all’Associazione I Popolari per non riaprire ferite in coloro che credono nel valore del progetto, seppur tradito dal vertice.

Qualcuno dei lettori si domanderà che titolo ho per parlare così: da pochi giorni sono stato rieletto presidente dei Popolari piemontesi, realtà presente e attiva dal 2002 in linea con il progetto nazionale che prevedeva Associazioni regionali collegate. Molte sono le realtà culturali che si ispirano ai valori del popolarismo, ma purtroppo solo in Piemonte si è dato seguito all’idea iniziale. Con il risultato paradossale che, a norma di Statuto (art. 9), posso legittimamente considerarmi l’unico componente effettivo dell’Assemblea, in assenza di altri presidenti regionali e di eletti in rappresentanza di soci che non esistono. Anche se in teoria potrei da solo sfiduciare Castagnetti, penso tuttavia che una situazione così al limite dell’assurdo andrebbe sanata diversamente.

Sarebbe necessaria una riunione dei “costituenti”, allargata a quanti hanno dimostrato di avere a cuore l’eredità culturale del popolarismo, per valutare il cammino percorso e decidere il da farsi. Castagnetti potrebbe così in quella sede spiegare le ragioni della sua totale inattività e coerentemente rassegnare le dimissioni.

Sarebbe un contributo alla chiarezza in una fase di positivo fermento seguito alle riflessioni sul Centenario del PPI sturziano, possibile preludio a una nuova stagione politica dei “liberi e forti”. Se anche “Il Domani d’Italia” volesse farsene promotore e raccogliere opinioni in merito, sarebbe un bel passo avanti.

Grazie per la pubblicazione, con un cordiale saluto.

Alessandro Risso

Presidente dell’Associazione “I Popolari” del Piemonte.

Enzo carra: un ricordo di Roberto Ruffilli

Primo pomeriggio di un giorno di metà aprile, è il 1988. Squilla il telefono sulla mia scrivania, accanto all’Olivetti 32 E’ la voce di un mio amico di Forlì. Hanno ammazzato Ruffilli, detta d’un fiato. E’un giornalista e cura i dettagli.  Questa non è una telefonata ma una notizia d’agenzia. Sento un campanello e vedo il padrone di casa che apre la porta. E’l’ora di pranzo, quell’uomo mite e pacificamente pingue, con gli eterni Rayban che a lui non riescono a fornire l’aria da duro è rientrato da poco e vorrebbe mangiare un boccone in santa pace. Scapolo, è solo in casa. Ha passato una mattinata trascorsa a uno dei soliti convegni ai quali un parlamentare, e lui è senatore da cinque anni, non può facilmente sottrarsi. Quel giorno di primavera poi, alla Camera di Commercio di Forlì, si celebra il centenario dell’oratorio salesiano nel quale si è mosso da ragazzo Ruffilli e viene presentato “Liberi per la fede e per l’amore” di don Franco Zaghini. Come fai a non andarci si è chiesto il giorno prima Roberto.

Che sabato ragazzi. La sua è stata una grande settimana. Mercoledì scorso De Mita ,del quale lui è uno dei consiglieri più ascoltati, ha giurato con il suo governo. Qualcuno ha pensato che lì ci sarebbe stato posto anche per Ruffilli, ma niente e lui notoriamente non ha fame di potere. La fame piuttosto ce l’ha ora. Vuole riprendere fiato e si mette comodo, in maniche di camicia. Non aspetta nessuno. Buon sabato pomeriggio professor Ruffilli.

Suonano alla porta. Chi può essere? È il postino, anzi sono due postini che devono consegnargli un pacco.  Appena dentro, questi lo spingono verso lo studio, inginocchiati, gli urlano Franco Grilli e Stefano Mingozzi, autori dell’ultimo delitto delle “vecchie Brigate Rosse”. Infine, compare l’arma, la mitica Skorpion Vz61 di acciaio color morte che scarica tre colpi alla nuca di Roberto. Il pacco dei finti postini verrà ritrovato tempo dopo, macchiato dal sangue di Ruffilli.  Presto arrivano gli uomini della Questura e spuntano le prime ipotesi. Tra queste non c’è la pista che porta alle Brigate Rosse. La rivendicazione lascia perplessi, come si usa dire in questi casi. Possibile che siano ancora loro? Invece è così.

Cinque anni prima. Elezioni politiche del 1983. Roberto Ruffilli viene candidato da Ciriaco De Mita per il Senato, a Roma. Mi telefona una sera. Senti sai dov’è Fidene? Sì, gli dico. Ecco, questi della Dc organizzano un dibattito giovedì sera. Vieni con me a discutere? lo dico anche a Paolo Giuntella. Certo, rispondo. Giovedì pomeriggio lo vado a prendere alla sede dell’Arel, in piazza Sant’Andrea della Valle.  Suono alla porta e mi apre lui. Prendo la borsa e andiamo, garantisce. Entro. Nel salone, seduti dietro due enormi tavoli vedo Nino Andreatta e Romano Prodi. Il tempo di salutarci e riappare Roberto. Dove andate? fa Andreatta. E Ruffilli, divertito, usando un lei fortemente accademico: sa professore, io sto in campagna elettorale e bisogna pur farsi conoscere dagli elettori. Andreatta scuote la testa, già bisogna pure farsi conoscere!

A Fidene, sulla Via Salaria, il dibattito organizzato dalla sezione democristiana e affollatissimo. Giuntella è in gran forma ed espone con la sua voce soave e cavernosa argomenti definitivi e apocalittici. Io interpreto la parte del dubbioso e dell’incerto. Roberto si diverte e non chiede voti tanto che alla fine è il segretario della sezione ad imporsi: mi raccomando a voi, questo è il nostro nuovo senatore!

Torniamo verso il centro e quando siamo in macchina Roberto mi chiede come sta mia madre. Sa che mio padre è morto il primo marzo di quel 1983. Che vuoi fare, dico, gli sto dietro, ma puoi immaginare. Sì, immagino.

Dopo le elezioni facciamo qualcosa per lei promette in una nuvola di fumo. Così è. Una volta eletto, a luglio, Roberto mi dice che deve andare a Venezia, per un convegno sull’isola di San Giorgio. Io in quei giorni ho in programma un’intervista sulla Biennale. Andiamo assieme. Ma porta con te mamma, dice. E partiamo. Noi due davanti, mia madre dietro. Lui e lei grandi fumatori che si stanno simpatici. Scherzano tutto il tempo e sarebbe bello che il viaggio fosse ancor più lungo. Ci vediamo spesso dopo.

Fino a quel giorno d’aprile, che è  ”il più crudele dei mesi, genera lillà dalla terra morta, confondendo memoria e desiderio, risvegliando le radici sopite con la pioggia della primavera.”

 

Bordin, Un radicale senza settarismi

All’inizio ti immaginavo con i capelli neri e la barba, una mezza specie di Che Guevara radicale, la voce calda e ampia di un rivoluzionario. Poi ti ho conosciuto, a casa di una tua collega, e ho capito che non c’avevo capito niente.

Mi sono presentato come quello che aveva un blog con una rubrica: “la bordata di Bordin”, in cui riproponevo per iscritto alcune tue battute fulminanti. e tu mi dicesti: “ah sei tu!!”. Poi non ci siamo più tanto visti. Mi sono nati i figli e il tempo scarseggiava ma uno, il primo, ad un anno e mezzo l’ho portato alla presentazione del libro di Mattia Diletti dove c’eri anche tu. Ti chiamava Boddini.

Mi sono rimaste le rassegne stampa, tra la colazione da preparare e le urla mattutine della moglie che ti voleva sempre “spegnere” perché non sopporta le “voci di sottofondo”. Ma la tua non era una voce di sottofondo, poteva essere si cavernosa, ma si imponeva all’ascolto, calda e intelligente, di una intelligenza ed ironia che pure i bambini coglievano, ridendo di gusto quando ti scattava una parola di turpiloquio. Eri una voce familiare e insieme alta, intellettuale, colta.

Un radicale senza settarismi o culti della personalità. Una miniera di memoria politica e giudiziaria.  Si potrebbe fare uno spettacolo teatrale, con le tue infinite chiose ai protagonisti e comprimari della politica. Sei stato un maestro di libertà di pensiero ma anche un operatore di servizio pubblico, perché tale era la Tua rassegna Stampa di Radio Radicale. Un servizio pubblico vero, che non è tale perché equidistante. ma è tale perché è autentico. Umano, troppo umano. Come te e le tue sigarette.

Addio Massimo Bordin, P.S. Certo proprio adesso te ne dovevi andare, adesso che il Servizio pubblico di cui per anni sei stato direttore sta per essere liquidato da una banda di ignoranti e cialtroni.  Ma non potevi aspettare un altro po’, e li avremmo sbertucciati insieme!

[Dal profilo Fb dell’autore]

Inflazione: Istat conferma le stime, a marzo prezzi in aumento dello 0,3% su base mensile e dell’1% in un anno

Nel mese di marzo 2019, si stima che l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), al lordo dei tabacchi, aumenti dello 0,3% rispetto al mese precedente e dell’1,0% su base annua (come a febbraio), confermando la stima preliminare.

La stabilità dell’inflazione è la sintesi di dinamiche contrapposte: da una parte l’accelerazione dei Beni energetici non regolamentati (da +0,8% a +3,3%), dall’altra il rallentamento dei prezzi dei Beni alimentari non lavorati (da +3,7% a +1,9%), dei Servizi relativi ai trasporti (da +0,9% a +0,5%) e dei Tabacchi (da +4,5% a +4,0%).

L’“inflazione di fondo”, al netto degli energetici e degli alimentari freschi, rimane stabile a +0,4%, mentre quella al netto dei soli beni energetici decelera lievemente da +0,7% a +0,6%.

L’aumento congiunturale dell’indice generale è dovuto principalmente alla crescita dei prezzi dei Beni energetici non regolamentati (+1,6%), dei Tabacchi e dei Servizi relativi ai trasporti (+1,3% per entrambi), solo in parte bilanciata dal calo dei prezzi dei Beni alimentari non lavorati (-1,6%).

L’inflazione è stabile per i beni e per i servizi (rispettivamente a +1,3% e a +0,7%); pertanto rispetto al mese precedente il differenziale inflazionistico, negativo tra servizi e beni, si conferma a -0,6 punti percentuali.

L’inflazione acquisita per il 2019 è +0,4% per l’indice generale e pari a zero per la componente di fondo.

Dinamiche divergenti si registrano per i prezzi dei prodotti di largo consumo: quelli dei Beni alimentari, per la cura della casa e della persona decelerano da +1,6% a +1,1%, mentre quelli dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto rimangono stabili a +1,5%, registrando in entrambi i casi un’inflazione più alta di quella complessiva.

L’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA) aumenta del 2,3% su base mensile (per effetto della fine dei saldi invernali dell’abbigliamento e calzature, di cui l’indice NIC non tiene conto) e dell’1,1% in termini tendenziali (stabile rispetto al mese precedente), confermando la stima preliminare.

L’indice nazionale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati (FOI), al netto dei tabacchi, registra un aumento dello 0,2% su base mensile e dello 0,8% rispetto a marzo 2018.

Libia: l’UNHCR ricolloca presso un proprio Centro un secondo gruppo di rifugiati detenuti

L’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ieri ha ricollocato altri 150 rifugiati detenuti nel Centro di Abu Selim, nella zona sud di Tripoli, presso il proprio Centro di raccolta e partenza (Gathering and Departure Facility/GDF) situato nel centro della capitale libica, al riparo dalle ostilità.

Il Centro di detenzione di Abu Selim è uno dei tanti a essere stati colpiti dalle ostilità in Libia, fin dallo scoppio dei combattimenti nella capitale quasi due settimane fa.

I rifugiati presenti nel Centro hanno riferito all’UNHCR di essere terrorizzati e traumatizzati dagli scontri e di temere per le proprie vite.

Lo staff dell’UNHCR che ieri si è occupato di organizzare il ricollocamento ha riferito come gli scontri fossero in corso a circa 10 km di distanza e chiaramente udibili.

Nonostante l’intenzione di ricollocare un numero ulteriore di rifugiati, lo staff dell’UNHCR ha dovuto desistere a causa del rapido inasprirsi dei combattimenti nell’area. L’UNHCR intende riprovare a mettere in pratica tale soluzione salva-vita non appena le condizioni sul posto lo consentiranno.

“Mettere in salvo queste persone è una corsa contro il tempo. Il conflitto e il deteriorarsi delle condizioni di sicurezza ostacolano ogni nostro sforzo”, ha dichiarato Lucie Gagne, Assistente Capo Missione dell’UNHCR in Libia.

“È necessario trovare urgentemente soluzioni per le persone bloccate in Libia, fra cui evacuazioni umanitarie volte a trasferire i più vulnerabili fuori dal Paese”.

Fra i rifugiati ricollocati ieri, i più vulnerabili e bisognosi, vi erano donne e minori. Il ricollocamento è stato effettuato col sostegno di International Medical Corps, partner dell’UNHCR, e del Ministero dell’Interno libico.

Questo ricollocamento costituisce il secondo trasferimento di persone organizzato dall’UNHCR da quando si è acuito il conflitto in Libia nelle ultime settimane.

La settimana scorsa l’UNHCR aveva ricollocato più di 150 rifugiati dal Centro di detenzione di Ain Zara, anch’esso nella zona sud di Tripoli, al GDF, portando il totale di rifugiati qui accolti attualmente a oltre 400.

Dopo il ricollocamento di ieri, restano oltre 2.700 rifugiati e migranti detenuti e bloccati in aree in cui gli scontri sono ancora in corso. Oltre alle persone rimaste ad Abu Selim, vi sono quelle negli altri Centri di detenzione in prossimità delle ostilità, fra i quali quelli di Qasr Bin Ghasheer, Al Sabaa e Tajoura.

Le condizioni attuali nel Paese continuano a evidenziare che la Libia rappresenta un luogo pericoloso per rifugiati e migranti e che quanti fra essi sono soccorsi e intercettati in mare non devono esservi ricondotti. L’UNHCR ha chiesto ripetutamente che si metta fine alla detenzione di rifugiati e migranti.

 

Presentato il I Rapporto sulle mobilità ad emissioni zero in Italia

Legambiente ha presentato la scorsa settimana il I Rapporto sulle mobilità ad emissioni zero nel Belpaese, realizzato in collaborazione con MotusE.  Stando ai dati, un numero sempre maggiore di persone decidono di spostarsi in città con mezzi non inquinanti: bicicletta o e-bike, con i mezzi pubblici a trazione elettrica, compresi i treni urbani o anche a piedi.

Il Report di Legambiente prende in esame  i dati dei 104 capoluoghi italiani attraverso diversi indicatori: dalla disponibilità di mezzi elettrici all’inquinamento, dal tasso di motorizzazione alla presenza di piste ciclabili, finendo poi al modal share con l’intento di una prima mappatura sull’offerta di mobilità a zero emissioni su tutto il territorio nazionale. Sicuramente a farla da padrona in Italia è ancora una mobilità inquinata, congestionata, poco sostenibile, ma c’è una rivoluzione ormai in atto e con una crescita esponenziale. Le grandi città italiane, seppur con percentuali molto diverse e ancora lontane da Milano, riescono in ogni caso a combinare sistemi per consentire spostamenti non inquinanti ai propri cittadini. Lo studio di Legambiente riesce così a stimare e definire l’accessibilità, da parte dei cittadini a questi servizi, come la quota degli spostamenti con il mezzo pubblico o con servizi di sharing mobility. A Bologna ad esempio l’accessibilità raggiunge il 40% e gli spostamenti a zero emissioni (elettrici, bici, a piedi) rappresentano il 39%. A Torino a fronte di un’accessibilità (Tpl + bici +sharing) del 27% gli spostamenti zero emissioni sono il 40%; a Napoli i numeri evidenziano un 50% di movimenti che già avvengono con mezzi non inquinanti con un’accessibilità pari al 34%. Ancora, a Genova il 39% degli spostamenti è zero emissioni (accessibilità 36%); a Firenze il 17% (accessibilità 26%) e a Roma il 20% (accessibilità 27%).

“La sfida del clima è la più urgente, globale e difficile che abbiamo davanti per salvare il Pianeta – ha sottolineato il vicepresidente nazionale di Legambiente Edoardo Zanchini –. Ma rappresenta anche un’occasione unica per costruire concretamente una mobilità a emissioni zero, attraverso politiche capaci di riuscire a far crescere gli spostamenti in bici, a piedi, il trasporto pubblico e la mobilità elettrica. Dobbiamo convincerci del fatto che uscire dall’inquinamento che contraddistingue i nostri centri urbani è possibile e al contempo possiamo riappropriarci di piazze e strade, rendendo più vivibili e sicure le nostre città. Le storie e i numeri che raccontiamo nel nostro rapporto ci dicono che sono tanti i segnali positivi, con una disponibilità crescente dei cittadini a spostarsi con mezzi non inquinanti. Per dare il via a questa rivoluzione, però, servono scelte coraggiose e di sistema, politiche nazionale che fino ad oggi sono mancate perché non si può lasciare tutto alla buona volontà dei sindaci. Occorre dirottare le risorse economiche, destinate ieri come oggi a strade e autostrade, verso gli investimenti per le aree urbane, per rilanciare la ‘cura del ferro’ del trasporto pubblico e potenziare il trasporto ferroviario per offrire un’alternativa ai pendolari”.

“Lo studio appena presentato – ha spiegato il responsabile Mobilità Sostenibile di Legambiente Andrea Poggio, che ha curato il Rapporto – non va letto come una classifica, piuttosto come l’inizio di una nuova rivoluzione nella mobilità urbana. Le novità sono almeno tre: nelle città ci si muove sempre di più, più ci si muove meno si usa l’auto di proprietà e, infine, ci si muove sempre più smart, connessi e multimodali. Si usano modalità e mezzi diversi anche per compiere lo stesso viaggio. La mobilità a zero emissioni, se demandata alla sola mobilità privata, con i pochi modelli proposti di auto e moto elettriche, tutti ancora piuttosto cari o poco competitivi, non ha i numeri oggi neppure per farsi vedere. La vera differenza la fa ovviamente ancora il mezzo pubblico, ma sarebbe un errore se si considerasse sufficiente. Il mezzo pubblico elettrico fa la differenza soprattutto se in città si va in bicicletta e ci sono servizi di sharing mobility. Insieme sono vincenti. Insieme sono in grado di ricondurre alla minoranza gli spostamenti con il motore a combustione privato”.

Il Report contiene anche 12 racconti di buone pratiche già attivate nel territorio italiano. Si parte dal capoluogo lombardo dove entro i prossimi anni il trasporto pubblico locale, sarà presto elettrico, rinnovabile e efficiente. Già oggi l’offerta di trasporto pubblico nella città metropolitana di Milano è potente, sia per entità (650 milioni di passeggeri all’anno), sia per il predominio della trazione elettrica, il 74% dell’offerta, con 960 vetture metropolitane, 535 tram e filobus in servizio, 30 autobus elettrici e idrogeno. Entro il 2030 sarà completata questa transizione. Ancora, l’esperienza del Campus di Savona, dell’Università degli studi di Genova, trasformato in una piccola smart city dove oltre a una microrete energetica intelligente sono state, tra le altre cose, installate anche 4 colonnine di ricarica per veicoli elettrici per promuovere una mobilità a zero emissioni. O come a Firenze dove il Comune ha sperimentato l’alleanza per flotte di taxi elettriche e a Ostuni (BR) dove si dimostra che anche spostarsi per turismo può essere sostenibile e a zero emissioni.

Legambiente ricorda, infine, che gli stessi piani del traffico delle città sono oggi condizionati, per legge, ai piani di mobilità sostenibile (Pums). Ed è nella definizione di questi piani, di transizione alla mobilità a zero emissioni, che passa il cambiamento delle nostre città. Per il Pums di Milano, ad esempio, “lo spazio pubblico è bene comune”, non parcheggio di mezzi privati quindi, ma aree ad uso di tutti i cittadini.

La Passione di Cristo in scena a Carbognano

Tutto è pronto, a Carbognano, per la sesta edizione della Passione di Cristo.

Oggi, a partire dalle 21:30, il centro storico del caratteristico paese in provincia di Viterbo si trasformerà in uno straordinario palcoscenico a cielo aperto.

Sotto le stelle, dalla sontuosa Chiesa di San Pietro Apostolo fino al Castello Farnese, saranno portati in scena i momenti più salienti e drammatici dell’ultimo giorno di vita di Gesù.

Tra migliaia di lumini, animali, luci, ricostruzioni sceniche, ol­tre duecento rievocatori, con ambientazioni ed effetti speciali, riporteranno i visitatori indietro nel tempo, dando vita ad uno spettacolo in grado di emozionare tutti i presenti, coinolgendoli  come se fossero realmente  immersi nello svolgimento degli eventi che videro il martirio di Gesù.

Una nuova scena sarà presentata quest’anno durante la rappresentazione, quella di Gesù nell’Orto degli Ulivi (Getsemani), dove si ritirò dopo l’Ultima Cena per pregare prima di essere tradito da Giuda, uno dei suoi apostoli.

Un momento decisivo, importante e significativo che segna l’inizio delle ultime dodici ore del Figlio di Dio prima di giungere alla Crocifissione e di conseguenza alla Resurrezione.

Grazie ad una coreografia continuativa, studiata senza alcuna separazione dalla scena, sarà possibile fruire di una straordinaria interazione in grado di ricreare una partecipazione unica e toccante. Da sottolineare la cura nei dettagli che fa la differenza, resa possibile da una minuziosa documentazione filologica, fedele nella ricostruzione e nelle varie caratteristiche storiche.

La chemioterapia metronomica ora è rimborsabile

L’Agenzia Italiana del Farmaco, nell’ultimo aggiornamento della legge 648/96, ha autorizzato la piena rimborsabilità di un medicinale usato nel trattamento, con somministrazione settimanale frazionata, dei tumori solidi dell’adulto.

Ma cos’è la chemioterapia metronomica?

E’ una chemioterapia a piccole dosi continue:
Ciò sembra efficace non solo in termini di riduzione della tossicità, ma forse anche per il miglioramento degli effetti sulla crescita del tumore.

Questa nuova modalità di somministrazione dei farmaci chemioterapici è denominata “chemioterapia metronomica” che si riferisce alla frequente, talvolta quotidiana, somministrazione di chemioterapici a dosi significativamente al di sotto del MDT (dose massima tollerata) , senza interruzioni tra i vari cicli.

 

 

Dopo l’incendio di Notre Dame. Che futuro ci aspetta senza la casa comune Europea?

Il rogo della Cattedrale di Notre Dame è molto più di una grave perdita di patrimonio artistico.
Come qualcuno ha ricordato, quell’opera d’arte è stata più volte ricostruita e così potrà essere ancora. Gli strumenti della tecnologia e della tecnica certamente oggi lo consentono più che nei secoli passati.

In realtà, ciò che colpisce è qualcosa di più profondo e simbolico.
È andata a fuoco una icona dell’Europa e del cristianesimo europeo. Ed è accaduto in uno dei momenti di maggiore loro debolezza.
Una Europa vecchia, stanca, divisa, marginale nel mondo, spiazzata dai cambiamenti antropologici, economici e geopolitici. Impaurita dai fenomeni migratori. Incapace di esercitare un qualsiasi ruolo sui quadranti di crisi che stanno alle sue stesse porte. Una Europa priva di guide morali prima che politiche.

E un cristianesimo che appare a sua volta stanco e col fiato grosso di fronte alla nuova inquietante “modernità” che lo sta scuotendo nelle radici etiche e culturali. Fino al punto di far emergere – nel documento diffuso qualche giorno fa dal Pontefice Emerito – crepe e distinzioni di proporzioni fino ad ora mai viste, assieme alla tentazione del rifugio in un mitizzato e rimpianto passato pre-conciliare.

Quelle fiamme che tutto il mondo ha seguito in diretta sono la cifra simbolica di un dilemma che dovrebbe scuotere le nostre coscienze.
Che futuro ci aspetta senza la casa comune europea? E quale impalcatura culturale e morale -al di là degli aspetti strettamente religiosi – potrà sorreggere le nostre comunità alle prese con i nuovi scenari tecnologici e sociali, se non quella dell’umanesimo cristiano?

Quali sono le alternative?
Non ci sono solo il tetto e la guglia di Notre Dame da ricostruire e rinnovare, ma tutto ciò che quella Cattedrale ha rappresentato nella nostra storia comune.

Umbria: Un appello ai liberi e forti?

Non è difficile arguire che le dimissioni di Catiuscia Marini, Presidente della Regione Umbria, rechino il timbro del segretario del Pd Nicola Zingaretti.

In questa vicenda, allo stato degli atti, esce malconcio il modello di governo che ruota attorno alla forza politica dichiaratamente omogenea alla storia della sinistra di origine comunista.

Alla traumatica decisione si è giunti dopo giorni di incertezza e confusione. Non è un’ammissione di colpa, giacché nelle parole del comunicato ufficiale risuona la dichiarazione di innocenza della principale protagonista della scena istituzionale e politica.

Alla Marini, dunque, è stata tolta la fiducia dal Nazareno. Sì tratta, in qualche modo, di un formidabile paradosso: dentro il Pd prevale la convinzione della correttezza che ha guidato l’operato della Giunta umbra. Ciò nondimeno, sull’onda delle polemiche e degli attacchi concentrici, la scelta delle dimissioni è apparsa la più coerente e forse la più efficace.

C’è da chiedersi, a questo punto, come sia possibile allestire una coalizione antipopulista e antisovranista in grado di reggere l’urto, per evitare che la “nobiltà” del gesto della Marini si riveli in concreto nella forma di un riconoscimento della propria sconfitta (morale e politica). Tutto appare notevolmente complicato.

Occorre lanciare un appello – ai liberi e forti dell’Umbria? – per individuare a tambur battente una personalità indipendente attorno alla quale aggregare le forze sane della regione, senza abdicare al dovere di “resistenza” verso una nuova destra che può insediarsi, sfruttando una crisi tanto grave, nel cuore del sentimento popolare di questa piccola, ma decisiva Regione del Centro-Italia.

L’austerità mette in pericolo la Chiesa

La consegna del silenzio che di fatto vige, almeno nella Chiesa ufficiale, sugli aspetti teologici, culturali, ecclesiologici e pastorali dello scritto di Benedetto XVI per una rivista per il clero tedesco, Klerusblatt, non impedisce di valutarne i risvolti politici. Non tanto sul piano degli equilibri intraecclesiali, che lascio ai colleghi vaticanisti, quanto sul profilo pubblico della Chiesa cattolica in Italia.

Nel testo del Papa emerito emerge nitida la critica a una Chiesa che sembra apparire desiderosa di uniformarsi ai canoni del politicamente corretto, a rischio di sembrare diluita nelle pur importanti cause di questo, come l’ecologismo, l’europeismo o l’attenzione verso il dramma dei migranti. Anche nel fare doverosamente pulizia al proprio interno da crimini orrendi si dà più l’impressione, scrive papa Ratzinger, di «considerare la Chiesa addirittura come qualcosa di malriuscito che dobbiamo decisamente prendere in mano noi stessi e formare in modo nuovo». Ma l’illusione di fare «una Chiesa migliore creata da noi stessi», osserva il papa tedesco, riduce la Chiesa ad esser «in gran parte vista solo come una specie di apparato politico» e «una Chiesa fatta da noi non può rappresentare alcuna speranza».

Questo mi sembra il passaggio centrale del saggio di papa Ratzinger nella prospettiva di una sua lettura laica e storico-politica. Vi si scorge la consapevolezza (profetica?) dell’enorme rischio cui la Chiesa cattolica va incontro, in conseguenza del suo apparire ai cittadini prevalentemente come organizzazione politica e umanitaria.

Per valutare tale rischio in tutta la sua possibile portata occorre la capacità di guardare oltre il muro dell’illusione nell’ingiustificata speranza che il pilota automatico delle regole europee e la guida impolitica del Paese egemone, la Germania riunificata, possano dare una risposta alla crisi che dilaga in Europa.

Non lo possono fare poiché di tale crisi sono la causa principale. Di quella crisi che, come ha affermato Chiara Tintori (curatrice di un libro-intervista a padre Bartolomeo Sorge, Perché il populismo fa male al popolo), «ha fatto la sua comparsa nel 2008, provocando una contrazione produttiva e delle opportunità di lavoro, portando con sé un aumento costante delle disuguaglianze».

Molte e diverse voci ormai – da papa Francesco a economisti come Paul De Grauwe, giornalisti come Federico Rampini e persino esponenti dell’alta finanza come Carlo De Benedetti – dimostrano coscienza del fatto che l’attuale ciclo economico deflazionista è giunto al capolinea. Alcuni fra loro ci avvertono che l’attuale sistema fondato sul primato della moneta sulla persona umana e sulla democrazia non risulta più sostenibile. Restando all’Italia, ciò che si prospetta per i prossimi anni, se si proseguirà, come tutto lascia intendere – anche il DEF da poco varato – sulla linea dell’austerità, che somma al disagio dei poveri quello della classe media che precipita, è quello che l’economista Nino Galloni ha definito una “prospettiva libica”, di diffuso caos sociale, di guerra per bande e anarchia dilagante, essendo il popolo italiano, a differenza di quello francese, incapace di ribellarsi per un’ideale di giustizia universale, ma piuttosto incline a perseguire il proprio “particulare”.

In un tale scenario che ci si augura di non dover mai vedere, ma che purtroppo rientra tra gli sviluppi più probabili, a causa di lunghi anni di politiche tragicamente miopi e sbagliate, il popolo inferocito da una crisi economica di cui non è colpevole ma vittima, finirebbe per cercare i suoi capri espiatori. E siccome già nel presente, da parte dei veri responsabili della crisi si possono osservare delle manovre per addossare alla Chiesa la responsabilità di quanto sta succedendo, una Chiesa percepita come un tutt’uno con l’establishment politico–economico–mediatico (anche se così non è nei fatti, almeno per quei tanti cristiani che stanno vicino agli ultimi e costituiscono il popolo ancor più dimenticato dei penultimi), finirebbe per esporsi facilmente come bersaglio dell’enorme scontento popolare. Una Chiesa che appare soprattutto come un apparato politico rischia di divenire bersaglio di nuove persecuzioni.

«La Chiesa di oggi è come non mai una Chiesa di martiri e così testimone del Dio vivente». Per le cronache attuali questa affermazione di Benedetto XVI sembra valere principalmente per dei contesti extraeuropei. Ma nel giro di pochi anni rischia di potersi riferire anche all’Italia, e all’Europa, e le fiamme che hanno devastato Notre Dame, se non vi sarà un deciso e netto cambio di direzione nelle politiche economiche e monetarie, potrebbero ben presto trasformarsi in un simbolo che prefigura ciò che la Chiesa cattolica potrebbe dover patire nell’intera Europa, incendiata e dissestata dall’austerità.