L’arduo gioco iraniano: tante bombe per non fare la guerra?

A conferma che lo scontro non è nelle attuali aspirazioni di Teheran, non si è andati oltre lo stretto necessario, affrettandosi a dichiarare conclusa la reazione. La palla è rimbalzata nel campo israeliano.

Vi sono due aspetti, apparentemente contraddittori, che emergono dall’attacco sferrato dall’Iran a Israele nella notte fra sabato e domenica. Da un lato il lancio di centinaia di droni e missili effettuato direttamente dal territorio della Repubblica Islamica sembra essere stato studiato apposta per non produrre danni gravi: ampiamente preannunciato e facilmente contrastabile (considerando il noto scudo protettivo antimissile costruito da Israele e supportato nell’occasione dall’aviazione di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e, dato da considerare con grande attenzione, Giordania) come in effetti è avvenuto. 

È la conferma di ciò che tutti gli analisti sostengono da quando è iniziata la crisi di Gaza, ossia che gli ayatollah non vogliono entrare in guerra con Israele consapevoli dei rischi che essa comporterebbe per il loro stesso regime. Dall’altro, però, la rete stesa dai pasdaran – i Guardiani della Rivoluzione – attraverso una politica estera parallela a quella ufficiale dello Stato, ha implicato la formazione di alleanze sul territorio con un solo obiettivo unificante: la distruzione di Israele. A questo poi se ne aggiunge un altro, specifico di Teheran: l’estensione dell’influenza sciita nella regione e il conseguente predominio geopolitico e dunque anche economico. Su questo secondo fronte l’avversario principale è certamente l’Arabia Saudita, terra sacra dell’Islam sunnita.

Siamo in Medio Oriente, e ciò che appare contradditorio agli occhi occidentali non necessariamente lo è davvero. Cerchiamo di spiegarci. 

Teheran ha finanziato, addestrato e armato movimenti locali impregnati di fanatismo religioso utili ai suoi obiettivi di medio-lungo periodo. Così ha aiutato Hezbollah in Libano, gruppo sciita che oltre a controllare militarmente ed economicamente il sud di quel paese, influendo politicamente in modo significativo sul debole governo di Beirut, costituisce altresì una permanente minaccia per il nord di Israele. 

Ha aiutato Hamas anche se sunnita, in quanto fazione palestinese ostile a qualsiasi accordo con lo Stato ebraico, tentazione che invece l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha più volte avuto (peraltro contrastata, sull’altro versante, dall’estremismo ebraico che ha utilizzato gli aggressivi coloni in Cisgiordania per bloccare ogni possibile sviluppo in tal senso). 

Ha aiutato le milizie sciite Houthi in Yemen sia nella guerra civile che insanguina quel disastrato paese da oltre dieci anni sia nella loro azione di sabotaggio delle vie marittime commerciali sul Mar Rosso, che rappresentano il fronte meridionale dell’accerchiamento di Israele oltre che un formidabile problema per l’Arabia. 

Ha aiutato lo sciita di fede alawita Bahar al-Assad nel massacro del suo popolo asservendo la Siria al progetto strategico della cosiddetta “Mezzaluna sciita”, il collegamento che senza soluzione di continuità collega l’oriente persiano col Mar Mediterraneo passando attraverso Iraq (ove l’influenza e il potere iraniano sono notevoli e ove, per non trascurare alcun dettaglio, in ogni caso viene sostenuto il gruppo terroristico sciita Kataib Hezbollah), ovvero attraverso Siria e Libano. Una rotta anche commerciale di grande interesse per chiunque voglia operare in quell’area e che dunque ostacola il predominio regionale dell’Arabia, come detto l’altro obiettivo strategico iraniano. La Siria, inoltre, costituisce un altro anello dell’accerchiamento di Israele, questa volta a est al confine con le alture del Golan occupate da quest’ultimo sin dal 1967.

Questa ragnatela distesa nel tempo rischiava però di venire distrutta dallo sviluppo degli “Accordi di Abramo”, che promettevano di allargare sino addirittura all’Arabia Saudita la rete statale sunnita di riconoscimento di Israele e di avvio di relazioni anche commerciali e non solo diplomatiche. A Egitto e Giordania che ormai da decadi riconoscono lo stato ebraico si erano così aggiunti Marocco, Emirati, Bahrein in attesa, appunto, dei sauditi e sotto l’egida americana.

Per gli ayatollah era di vitale importanza disinnescare questo pericolo, enorme dal loro punto di vista. E così hanno lavorato a un qualche riavvicinamento diplomatico con gli avversari religiosi e geopolitici di Riad, con l’aiuto non certo disinteressato della Cina e nell’ambito del nuovo sviluppo dei paesi “Brics plus”, alleanza dal carattere antioccidentale ancora tutta da decifrare. Poi qualcun altro, guarda caso protetto dall’Iran, il 7 ottobre ha provveduto a sabotare gli Accordi e soprattutto il loro temuto sviluppo, confidando nella reazione furiosa di Gerusalemme guidata da una maggioranza governativa nella quale prevalgono estremisti che vedono solo nella forza militare la risoluzione di ogni loro problema.

Il martirio di Gaza ha come previsto infiammato le piazze arabe, ponendo in difficoltà i regnanti che riconoscono Israele e rendendo impossibile un passo in quella medesima direzione da parte dei sauditi. Un successo, dunque, per Teheran (anche perché nessuno può provare che la carneficina compiuta da Hamas nel sud di Israele sia stata concordata o addirittura preparata con gli iraniani). Ma la decisione israeliana di attaccare una loro sede consolare ha costretto la teocrazia ad una reazione diretta che però avrebbe dovuto essere tanto eclatante quanto innocua. E così è stato.

Da un lato si è accontentata la folla e dall’altro, a conferma che una guerra ora non è nelle aspirazioni di Teheran, non si è andati oltre lo stretto necessario, affrettandosi anzi a dichiarare conclusa la reazione e lanciando la palla nello schieramento avversario. Che ora dibatte, fra l’ansia distruttiva degli oltranzisti ebrei e la ragionevolezza degli alleati occidentali di Israele. E qualcuno sostiene che il compromesso potrebbe consistere nella non-reazione verso Teheran e per converso nell’attaccare Rafah. Sulla pelle dei palestinesi. Come sempre.