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La Voce del Popolo | Mossa spiazzante sul tema dell’antifascismo?

Giorgia Meloni non è fascista. Ma non ama dirsi antifascista. E così l’argomento, che lei si illude di avere sotterrato, riaffiora in continuazione. Poiché non vi è dubbio sul fatto che la premier abbia preso le distanze dal suo album di famiglia. Ma è altrettanto indubbio che ella fa una certa fatica a riconoscere la cosa a chiare lettere. 

Forse perché quelle lettere non sono abbastanza chiare. Eppure occorre darle atto di aver rivisto tanta parte di sé fino ad archiviare nel volgere di pochissimi anni argomenti e sottintesi che facevano parte del suo lessico di intransigente oppositrice. Si pensi al blocco navale, scomparso dalla sua agenda. O ai troppi tentennamenti sull’euro. O anche al giudizio su Mario Draghi, con tutto quello che in quel giudizio è implicito. 

Lungo questo percorso di revisione di se stessa si è mossa con un certo coraggio e anche chi si trova alla sua opposizione deve dargliene atto. A maggior ragione ci si aspetterebbe una mossa spiazzante, risolutiva, definitiva sul tema dell’antifascismo.

Non per compiacere i suoi avversari. Ma per aiutare la sua stessa parte a fare quel salto che fin qui è mancato. E senza di cui il suo destino governativo resta in bilico, quali che siano i numeri elettorali. 

Lo scivolone della Rai sul monologo di Scurati dovrebbe aver ricordato alla premier di quali danni l’eccesso di zelo e di faziosità può produrre. Il fatto è che la democrazia è sempre un sistema complesso e delicato, laddove i tuoi avversari ti possono dare consigli giusti e i tuoi seguaci ti possono invece spingere verso strade sbagliate. Forse Meloni farebbe meglio a fare i suoi conti con questi paradossi.

 

Fonte: La Voce del Popolo – 24 aprile 2024

[Articolo qui riproposto per gentile concessione del direttore del settimanale della Diocesi di Brescia]

Perché la Resistenza è un patrimonio comune

Brigate del popolo si chiamavano le formazioni democratiche cristiane operanti nel periodo della Resistenza. Ed era questo, tra gli altri, un modo di qualificare l’intendimento e lo spirito col quale i cattolici parteciparono alla lotta per la liberazione e al rinascimento della Patria. Non era, cioè, intendimento di monopolio o spirito di fazione, ma ricerca e qualificazione di quel fondo comune, largamente popolare, per cui la Resistenza non fu soltanto un movimento militare, ma uno stato d’animo, una ribellione morale del popolo italiano.  

A distanza di dieci anni dal compimento della vicenda resistenziale possiamo dire che va riaffermata, come la più valida, questa concezione della Resistenza alla quale hanno partecipato – con differente contributo dl azione, di sacrificio di sangue, di pena, ma con unanime tensione di spirito – tutti gli Italiani che non fossero accecati dal livore fazioso, illusi circa il modo di salvare la Patria dalla rovina già in atto, o egoisticamente indifferenti alla sorte comune. 

Questo è, per noi, il modo migliore e il più appropriato di celebrare la Resistenza rilevandone uno degli aspetti più originali ed espressivi tra i grandi fatti della nostra storia nazionale: l’essere stata, cioè, il moto risorgimentale che ha raccolto in tutti i ceti, fino ai più umili, fino al più disancorati dai grandi movimenti storici l’adesione alla lotta, al dolore, anche a costo della vita; senza distinzione di provenienza sociale, non solo nell’alone eroico della tortura e della morte, ma nella fatica, nel rischio dell’assalto e nel disagio dell’addiaccio e della macchia. 

Doveva essere così: la resistenza era nata carica delle esperienze tristi d’un regime che aveva monopolizzato e mortificato il senso della Patria come libera convergenza di solidali interessi popolari, che aveva trasferito ad una oligarchia come esclusivo di essa il diritto di interpretare la volontà dei cittadini, che aveva distorto lo sviluppo storico di un popolo giovane avviato alla naturale crescita della sua dignità civile e sociale, che aveva fatto della legge uno strumento di sopraffazione della libera discussione e che – nato dall’esercizio della violenza privata – con violenza esercitava i pubblici poteri per soffocare l’autonoma espressione della coscienza dei cittadini. Ma la Resistenza era nata – proprio per questa esperienza – piena di speranze: ed era la speranza che alimentava la ribellione e la attesa […]

[Prima parte dell’editoriale dell’allora vice segretario della Dc: Mariano Rumor, Un patrimonio comune – “Il Popolo”, 24 Aprile 1955]

De Gasperi, il 25 aprile e i tabù ideologici.

Attorno alla Festa del 25 aprile nel corso degli anni sono nate molte narrazioni. Il recente convegno organizzato da Tempi Nuovi a Roma sul magistero politico di Alcide De Gasperi in merito alla costruzione della Europa e al valore dell’europeismo, ha evidenziato alcuni di questi singolari aspetti. Ma forse vale la pena richiamare l’attenzione su alcuni tasselli che nel corso degli anni si sono sedimentati e curiosamente consolidati.

Innanzitutto il 25 aprile è diventata la Festa della sinistra nelle due diverse e molteplici espressioni. Una sorta di primogenitura e una auto investitura escludente che ha trasformato una delle date fondanti e storiche della nostra democrazia in una giornata profondamente divisiva. E anche quest’anno, come da copione, si è puntualmente verificata questa vulgata. Il “caso Scurati” non è nient’altro che la ciliegina sulla torta che cambia ogni anno i protagonisti ma non modifica affatto la sostanza.

In secondo luogo, e specularmente, per molti settori della destra italiana la data del 25 aprile è certamente importante ma non affatto decisiva e, men che meno, unitiva. Anche su questo versante si tratta di una prassi che si è venuta progressivamente affermando al punto che proprio sul 25 aprile – la Festa più rappresentativa per il profilo e la natura della nostra democrazia repubblicana – si registra una sorta di deriva degli “opposti estremismi” che resta uno degli

elementi più nefasti del nostro sistema politico.

In terzo luogo si registrano alcune singolari ed anacronistiche rimozioni. Tra queste ve n’è una di straordinaria gravità che non possiamo banalmente archiviare. E cioè, la Festa del 25 aprile è nata con Alcide de Gasperi. Il leader democristiano è stato un sincero, vero ed autentico antifascista ma il suo straordinario ed unico magistero politico con riferimento proprio all’antifascismo è stato semplicemente rimosso dal “politicamente corretto” nonchè del tutto dimenticato. Un elemento, questo, che rientra nei misteri della politica Italia e, soprattutto, della cultura politica democratica e antifascista del nostro paese.

In ultimo, ma non per ordine di importanza, non possiamo continuare a parlare dell’unità del paese quando persiste una virulenta divisione attorno al significato, alla pregnanza e alla natura della Festa della Liberazione. Non è lontanamente immaginabile sanare antiche e vecchie divisioni politiche, culturali e storiche quando permane una frattura quasi verticale sulla natura del 25 aprile.

Ecco perché, forse – e proprio cogliendo l’occasione della Festa della Liberazione del 2024 – è giunto anche il momento affinchè la cultura politica della sinistra e la cultura politica della destra prendano atto che senza un superamento definitivo dei rispettivi tic ideologici difficilmente si arriverà ad una vera e credibile condivisione sulle fondamenta civili ed ideali della nostra repubblica. E la Festa del 25 aprile è proprio una di quelle date attorno alle quali, adesso, non si può più tergiversare. Nè per pigrizia culturale, nè per rigidità ideologica e nè, tantomeno, per arroganza politica.

Dibattito | I democratici cristiani? Orfani…in libertà.

Alla fine, è accaduto ciò che era previsto: la nostra area sociale e culturale andrà divisa al voto con candidati sparsi qua e là in diverse liste, quasi tutte lontane dai nostri valori e principi ispiratori. All’impegnativa prova della raccolta delle firme, nelle diverse circoscrizioni elettorali del voto europeo, su una lista condivisa di centro dc e popolare, i vari capi e capetti della composita galassia della diaspora dc, hanno preferito la scorciatoia della presenza in liste collegate alla destra o alla sinistra della politica italiana.

Gli ex popolari del Pd li ritroveremo nelle liste di quel partito, come il caso intrigante dell’ex direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, pronti a offrire il loro sostegno per il Partito socialista europeo. Altri, come gli amici di Tarolli, in lista Azione di Calenda, noto “azionista de noantri”, da sempre caratterizzato da un’irrefrenabile idiosincrasia democristiana, alla fine portatori d’acqua alla destra macroniana di Renew Europe. Idem gli amici di Tempi Nuovi, indecisi tra Calenda e Renzi, ma sempre orientati a sostegno del partito europeo di Macron, con la variabile campana di Mastella, la cui consorte confida di entrare nel parlamento europeo con la lista di Italia viva, con capolista l’on. Bonino, da sempre antagonista coerente e indefessa di tutti i nostri valori.

Restano quelli che, come l’Udc di Cesa sono da sempre vassalli della destra leghista e i Moderati di Lupi e Romano, accolti nella lista di Forza Italia che, invece, ha detto no alla Dc di Cuffaro e all’apertura di candidature d’area democratico cristiana, coscienti del vento favorevole che soffia a favore delle loro vele, come già dimostrato dal voto molisano, in diretta alternativa alla Lega in declino verticale.

Anch’io avevo sperato nella possibilità di una lista unitaria a sostegno del Ppe, dovendo constatare amaramente da un confronto avuto con alcuni esponenti dei vertici di Forza Italia, l’inagibilità di tale proposta.

Ecco, dunque, che al voto europeo di giugno saremo orfani di una nostra lista e forzatamente “liberi” di attribuire la nostra preferenza a quei candidati che, nei diversi schieramenti presenti nelle cinque circoscrizioni elettorali, saranno più vicini alle nostre idee. 

Questa è la reale condizione di impotenza politica dell’area frammentata dei cattolici italiani, da sempre caratterizzata dalle sue componenti essenziali: democratici, liberali e cristiano sociali.

Una cosa a me pare certa: fin quando durerà questa nostra impotenza non potrà nascere un centro politico in grado di porsi come elemento di equilibrio tra una destra sovranista e nazionalista, con molti residui revanscisti, e una sinistra definitivamente spostata sulle posizioni proprie del “partito radicale di massa” indicate a suo tempo per il Pci dal prof. Del Noce. Se, da un lato, vivo con inquietudine, una progressiva perdita della speranza, confermo intatta la fede nei valori sui quali ho orientato tutta la mia esperienza politica. 

So, per dolorosa verifica personale, che la Dc costituisce un fatto storico irripetibile, visti anche i molti tentativi fatti senza successo per la sua rinascita, nella lunga stagione della diaspora. So anche, però, che per costruire una reale alternativa alla destra nazionalista e sovranista guidata dall’on. Meloni, serve dar vita a un’alleanza ampia e plurale tra le culture politiche che hanno fatto grande l’Italia: popolare, liberale, repubblicana e riformista socialista. Tappe indispensabili: il superamento della legge maggioritaria e la difesa della Costituzione repubblicana. Ciò si potrà perseguire adottando insieme: il cancellierato, secondo il modello tedesco, con legge elettorale di tipo proporzionale, sbarramento al 4-5% e l’istituto della sfiducia costruttiva. I partiti di questa area dovrebbero ritrovarsi uniti su questo progetto e insieme concordare un programma economico e sociale all’altezza dei bisogni dei ceti medi produttivi e delle classi popolari dell’Italia. Spetta ancora a noi dc e popolari farci carico dell’avvio di questo percorso.

Con De Gasperi per l’Europa di domani

Cari amici, l’Europa non può essere il terreno di conquista degli anti europeisti. Non è un ideale decaduto bensì un progetto che sempre si rinnova. L’Europa siamo noi perché noi crediamo nell’Europa – e per questo abbiamo scelto il Partito Democrtico Europeo. Noi che intendiamo lavorare insieme, con culture diverse, al futuro dell’Europa; noi che rendiamo omaggio, nel solco di una tradizione ancora viva, agli artefici di un’idea di unità e solidarietà, nel segno dell’umanesimo civile; noi che ricordiamo, insomma, quanto si debba ai democratici cristiani la nascita e la crescita della nostra Europa. 

È importante che ci siamo ritrovati qui, a ridosso della Nuvola di Fuksas, in questo nuovo e grande albergo che insiste – guarda caso – proprio su “Viale Europa”. Potevamo indovinare uno scenario più adeguato? Credo di no. E c’è di più, visto che la toponomastica della Città assegna all’Eur, questo straordinario esempio di urbanistica e architettura, la denominazione di “Quartiere Europa”. La scelta – ovviamente Rutelli ne sa più di me – fu operata nel 1965, a 8 anni dal Trattato di Roma, da un’amministrazione (Sindaco Amerigo Petrucci)  a guida democristiana. È tutta una simbologia, in fondo, che ci aiuta a rafforzare il messaggio attuale dell’europeismo.

 

Cari amici,

il convegno, fuori campagna elettorale ma con il “timbro politico” del Partito Democratico Europeo, lo abbiamo dunque immaginato come un fervido tributo a chi l’Europa l’ha fatta realmente – quindi non l’ha soltanto pensata o discussa  – e l’ha fatta a dispetto degli ostacoli, anche numerosi, posti dalla storia. Dobbiamo essere grati ai nostri Padri Fondatori. Grandi leader, formati alla scuola del cristianesimo sociale e democratico, seppero imprimere una svolta ai rapporti tra le nazioni europee uscite da una guerra devastante. Schumann e Adenauer rimossero l’antica ostilità tra Francia e Germania, De Gasperi rese l’Italia co-protagonista di questo sogno di riconciliazione. Con intelligenza e tenacia, portò avanti un’operazione che aveva tante incognite, guidando il Paese fuori dal labirinto del patriottismo autarchico. Con ciò si aprì una nuova prospettiva per la quale l’essere cittadini d’Europa non fu più un’astrazione o una speranza vaga, sempre a rischio di frustrazione e sempre in qualche modo revocabile. Dunque, grazie a questa prova di coraggio e lungimiranza, siamo diventitati cittadini d’Europa. E oggi, l’Europa è una realtà che abbraccia la nostra vita quotidiana, anche quando ce ne lamentiamo. 

È stato un percorso impegnativo. Già sul finire dell’altro conflitto mondiale, la Grande guerra del ‘15-‘18, si manifestò l’aspirazione a comporre un nuovo status del Vecchio Continente. Tuttavia, solo dopo l’immane tragedia del secondo conflitto mondiale e la sconfitta del nazi-fascismo s’imboccò la strada giusta, quella della prima unità rappresentata dalla Ceca (la Comunità del Carbone e dell’Acciaio). De Gasperi, come sappiamo, in questo progetto riversò la passione di un italiano che aveva mosso i primi passi in politica nell’ambiente multinazionale e multiculturale dell’Impero Austro-Ungarico, entrando molto giovane nel Parlamento di Vienna come deputato popolare trentino.

L’esperienza di una vasta comunità di popoli, con tante lingue ufficiali, lasciò in lui un segno indelebile. Gli venne da lì, con tutta probabilità, la convinzione che federare l’Europa – vale a dire l’Europa della libertà e della democrazia – fosse il motivo più valido per salvaguardare lo spirito delle nazioni e la peculiare vocazione dei popoli, senza ricadere nel vortice dell’etno-nazionalismo. Fu tra i più accesi sostenitori della Difesa comune (la CED) e negli ultimi giorni della sua vita terrena ne pianse l’abbandono, proprio a causa di un voto inaspettato e fatale dell’Assemblea parlamentare di Parigi.  

Fu il primo blocco, ma poi si riprese a camminare: dal Trattato di Roma (1957) al Trattato di Maastricht (1992), dalla guerra fredda alla caduta del Muro di Berlino, dalla Comunità dei 6 membri iniziali all’Unione dei 27 attuali (per la contrazione dovuta alla Brexit): un tragitto non facile che ci ha portato alla moneta unica e di recente, sotto i colpi della pandemia, alla definizione di un piano comune d’investimenti (Pnrr) mai prima adottato. Ci possiamo sentire soddisfatti? Sicuramente avremmo preferito che ci fosse un più alto grado di solidarietà e una maggiore spinta verso l’integrazione. Tuttavia non dobbiamo trascurare i traguardi raggiunti, né dobbiamo ingessare il discorso sulle difficoltà e le inadempienze. Un conto però è la critica per quel che manca e si desidera, per obiettivi più ambiziosi, altro è il pretesto che si usa, ad opera di populisti e sovranisti, per diminuire o contrastare la dinamico virtuosa dell’europeismo.

 

Cari amici,    

noi crediamo nella forza dell’Europa. Ci crediamo anche se vediamo molto bene le ombre di una decrescita che ha tra le sue cause innanzi tutto il crollo demografico. L’Unione europea rappresenta comunque un esperimento positivo – l’unico veramente riuscito, a livello politico istituzionale, nel panorama internazionale del secondo Novecento – per il quale si è composta e definita una vera entità sovranazionale. Dentro i suoi confini è cresciuto un modello sociale e si è articolato, pur con i limiti ben noti, un mercato economico europeo. Il 50 per cento della spesa mondiale destinata al welfare si consuma in questo nostro Continente, che oggi raccoglie poco più del 5 per cento della popolazione del pianeta. Ne siamo orgogliosi, ma ne avvertiamo il peso per le responsabilità che comporta di fronte alle nuove generazioni. E non basta: l’industria, l’agricoltura, il commercio, i servizi raggiungono livelli che ne fanno un pilastro dell’economia globale, con ricadute importanti sulle singole economie nazionali. Questo è ciò che abbiamo ereditato e costruito, ma questo è anche ciò che dobbiamo promuovere e sviluppare ulteriormente, con il coraggio di grandi riforme. 

Non è il tempo della pigra contemplazione dei risultati raggiunti. I dati del problema li conosciamo, serviranno per un tratto non breve almeno 500 miliardi l’anno da destinare alla trasformazione del sistema produttivo europeo. Paradossalmente siamo diventitati noi – parliamo dell’occidente evoluto e più in particolare dell’Europa – il mondo che un tempo chiamavamo “in via di sviluppo”: molti settori, specie nel terziario, dovranno cambiare profondamente. Avremo, anzi abbiamo bisogno di reinventare un modello di sviluppo – un modello, come abitualmente si dice, più verde e sostenibile. Da ciò consegue che la transizione economica richiederà più programmazione e direzione politic, non per “mettere le braghe” alle innovazioni, ma per gestirne l’impatto sulla società, e in primo luogo sull’occupazione: anche passare per un lavoratore da un impiego a un altro implicherà un’azione di accompagnamento da parte dei pubblici poteri, con adeguati strumenti per la riqualificazione professionale. Se non avremo ingegno e visione nel “riformare” il capitalismo, cosa mai dovremo aspettarci? Ci sono troppe ombre all’orizzonte. In effetti, una razionalizzazione diretta a moltiplicare l’efficenza finirà per dare all’economia una curvatura iper-meccanicistica, specie perché imposta dagli apporti fantastici e allarmanti della Data technology, con uno scenario disumanizzante a motivo della perdita di valore e dignità del lavoro. Potremo, in questo caso, tornere a fare i conti con la minaccia di una nuova alienazione e quindi ci dovrà soccorrere un appello, di radice antica e nobile, all’umanizzazione dell’economia. 

Certo, con tutti i rischi immaginabili, bisogna comunque mettere in moto l’Europa per non perdere le sfide della globalizzazione. Vedremo meglio il modo in cui sarà necessario farlo non appena arriveranno sul tavolo, ufficialmente, i rapporti che Mario Draghi ed Enrico Letta hanno avuto incarico di redigere. Le linee fondamentali sono state anticipate, dall’uno e dall’altro, con fredde e allarmate ricognizioni sul rischio di declino nel caso di blocco o ritardo grave nell’azione di riforma.

 

Cari amici,

è importante che si disegnino nuovi scenari, facendo però attenzione a non assecondare formule velleitarie o smaccatamente propagandistiche, come quando si evoca il superamento dell’unanimità negli atti deliberativi dell’Unione Europea o l’elezione diretta del presidente della Commissione, chissà se con la formula – mi si consentirà di dirlo a mo’ di battuta – del “sindaco d’Europa”. Ci sono riforme che incidono molto e non entrano invece nel dibattito politico corrente. È strano che si rinunci, per dirne una, a correggere il funzionamento della BCE, laddove nessuna norma impedisce di attribuire o meglio riattribuire alla competenza delle singole Banche centrali – Paese per Paese – le funzioni di vigilanza sui rispettivi sistemi bancari, lasciando a Francoforte il controllo su pochi e grandi istituti finanziari. 

Mentre continuiamo a impostare programmi specifici, per i quali è necessario in ogni caso l’incremento di risorse su basi condivise, trascuriamo deliberatamente l’argomento più spinoso, vale a dire l’argomento del debito comune. È un tabù che impedisce di cogliere la dinamica soggiacente a una progressiva “federalizzazione” del debito, essendo questa, come insegna la storia degli Stati Uiti d’America, la combinazione più potente di solidarietà e responsabilità per spingere verso una convergenza politica necessaria.   

Nelle sue memorie, Jacques Delors racconta che al suo esordio alla guida della Commissione aveva preso in considerazione l’idea di fare della difesa comune l’obiettivo prioritario, sfidando le resistenze soprattutto di Francia e Gran Bretagna. Vi dovette rinunciare, per realismo, scegliendo in alternativa la battaglia per la moneta unica. Con l’euro si è realizzato un enorme passo in avanti, ma non siamo ancora giunti al traguardo di una vera integrazione politica. Sta di fatto però che dopo un lungo ciclo di pace, in Europa e ai suoi confini, il “ritorno della guerra” ci obbliga a confrontarci sull’urgenza di un esercito europeo.

In questa cornice è alquanto illogico che la Gran Bretagna non riveda almeno alcuni tratti della sua auto esclusione dal concerto europeo. Dovremmo assecondare un cambio di sensibilità. Ricordo che Aldo Moro si dimostrò uno strenuo sostenitore dell’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità europea. Auspicabilmente, si tratta di riavvolgere il filo di una storia, per trovare le possibili sintesi future.   D’altronde, quale difesa comune può esserci in Europa senza il concorso a pieno titolo di Londra? Non basta la Nato, se essa non trova, dirimpetto a sé, la sagoma istituzionale di un’Europa coesa e determinata, capace di organizzare con più razionalità ed efficenza il suo potenziale difensivo.

Il discorso non riguarda un protocollo di riarmo a fini di aggressione. Il ripudio della guerra appartiene all’eredità del nostro Novecento e certamente ci qualifica nei rapporti internazionali, assegnando a noi europei un incontestabile ruolo di pace. Ciò nondimeno, di fronte allo scatto imperialistico della Russia, non potevamo rifugiarci nell’indifferenza, ammantando di pacifismo, come amano fare i populisti, la rinuncia a far valere il rispetto del diritto internazionale come fondamento e garanzia di pacifiche relazioni tra tutte le nazioni. 

Abbiamo dato prova di grande vicinanza attiva, senza fornire alibi al bellicismo di Mosca. Per questo l’appoggio al popolo ucraino, dato fin dall’inizio della guerra, non può venire meno oggi, né d’altra parte verrà meno domani, quando a giugno eleggeremo il nuovo Parlamento di Strasburgo. Non intendiamo ammainare la bandiera della fedeltà ai valori della nostra Europa.

 

Cari amici,

è proprio sui valori che occorre accendere i riflettori della politica e della cultura. Vogliamo lasciarci alle spalle il lungo dibattito sulle radici giudeo-cristiane dell’Europa, preferendo a questo punto concentrarci sulla questione della laicità – ma quale laicità? – che s’intreccia con i grandi temi della bioetica e della biopolitica. Come europeisti di autentica matrice cristiana, condividiamo la preoccupazione circa il pericolo rappresentato dalla crescita dei fondamentalismi. Volteggiano sulle nostre teste le profezie a buon mercato sulla caduta dell’Europa in mano agli islamisti. I profeti di sventura non mancano mai. Erigere la barriera dei diritti è una risposta, in qualche modo preventiva, alla minaccia fondamentalista. 

Fin qui va bene, non ci sono obiezioni. Tuttavia scorgiamo segni di fondamentalismo anche nella politica che muove da premesse di laicità, quando in nome della neutralità delle istituzioni, posta a specchio dell’autonomia e libertà degli individui, si scivola verso una “laicità normativa” che desertifica il terreno dei valori. Scatta un tipo di radicalismo etico che fagocita e riproduce, in senso opposto, un motivo di estremizzazione: un altro tipo, se vogliamo, di fondamentalismo per il quale s’appiattisce ogni dubbio e si mortifica ogni dialettica, sicché l’aborto o il fine vita, la transizione di genere o la gravidanza per procura, l’equiparazione dei matrimoni o la condizione “liquida” delle convivenze, tutto rientra nella unilateralità di un pensiero distaccato dalla misura dell’umanesimo    

È il problema attuale dell’Occidente, ovvero il problema del cosiddetto transumanesimo. Alla libertà assoluta dell’individuo si associa l’astrazione di un diritto che non ha più l’umano come regola, ma il desiderio e la felicità, a qualunque costo. Adesso più che mai, l’Europa dei Lumi sperimenta l’effetto del presagio di Horkheimer e Adorno, quando scrissero lucidamente: “L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”. 

È questo il futuro dell’Europa? Noi abbiamo una riserva di ottimismo, pertanto guardiamo avanti con fiducia. Certo, il progresso non può deragliare in direzione del vuoto di principi e di valori. Abbiamo necessità di condividere un’orizzonte di morale, sia pure di una morale che operi lungo l’asse della tolleranza. Per questo, in parallelo, la politica deve ritrovare in sé o fuori di sé qualcosa che ne elevi la dignità e la funzione. Non possiamo fermarci al momento di spiritualità che aleggia sulle note dell’Inno alla gioia, per poi negarci, da quello stesso momento, a ogni suggestione che evochi una politica più ambiziosa, più fedele al servizio della comunità, e quindi semplicemente più umana.

 

Cari amici,

permettermi di concludere così: l’Europa che vogliamo deve farci appassionare. Fu un’emozione per chi ne gettò le basi, deve esserlo per noi che ci disponiamo a renderla più forte. De Gasperi diceva che l’Europa era il crogiolo di culture fondative, alcune di matrice cristiana, altre di matrice socialista e liberale: ognuna con la propria identità, ma tutte unite da una visione politica umanista. Questa unità deve essere preservata, altrimenti l’Europa avrà difficoltà a compiere l’impresa che ha davanti, per il bene delle nuove generazioni. Sarà importante scegliere le persone giuste, sarà decisivo avere persone preparate nel futuro Parlamento. Le elezioni di giugno rappresentano uno spartiacque. Nel 1948, in Italia, vinsero i democratici e un uomo intelligente, Attilio Piccioni, disse che non era stata una vittoria della paura ma sulla paura. Adesso tocca a noi: dovremo vincere, contro populismi e sovranismi, non agitando la paura ma offrendo una limpida alternativa alla paura. Così porteremo più in alto la speranza nell’Europa di domani.

 

Il testo qui riportato è la base dell’intervento che Fioroni ha tenuto a conclusione dell’evento.

 

I link per accedere alla registrazione su YouTube 

https://www.youtube.com/live/a4uM_KTqB9s?si=M1GqmGNBYD4EECjm

 

https://www.youtube.com/live/DebOPNcDIeM?si=Xdcwg8IA1hGJ8VlN

25 Aprile, l’appello dell’Associazione dei partigiani cristiani.

25 aprile 2024: mai avremmo pensato di celebrare gli 80 anni della Liberazione nel pieno di crisi internazionali di così grave pericolo per l’umanità. La guerra di aggressione della Russia all’Ucraina, l’attentato terroristico a Israele del 7 ottobre, la guerra a Gaza e l’incendio scatenato nel Medio Oriente dall’Iran e dalle milizie ad esso collegate, hanno modificato gli assetti geopolitici e violato le Convenzioni di protezione umanitaria internazionale e stanno portando il mondo sull’orlo della catastrofe.

Anpc, fortemente ancorata ai diritti dei popoli ad avere una propria Patria e dei cittadini a non essere usati come scudi umani nei conflitti, ma titolari del diritto alla libertà e al riconoscimento della propria inviolabile dignità, festeggia una ricorrenza che tutti gli Italiani hanno l’obbligo di ricordare per riconoscere il successo della lotta di liberazione che ci ha conquistato una patria libera, indipendente, repubblicana.

La Resistenza ha fondato la Costituzione, baluardo di diritti e di doveri per una nazione capace di autodeterminarsi e dedicare la propria sovranità per ripudiare la guerra e ogni discriminazione.

L’Associazione Nazionale Partigiani Cristiani è ancora qui e sempre ci sarà per continuare una battaglia pacifica a difesa dei valori della libertà e della democrazia e quindi contro ogni forma di razzismo, antisemitismo e apologia di regimi illiberali e criminali.

Esprimiamo solidarietà agli ebrei italiani e in particolare agli ebrei romani che continuano a essere offesi dopo le atrocità subite dal regime fascista delle leggi razziali.

La “Resistenza ora è sempre” è il manifesto di un impegno che non potrà mai venire meno e al quale educare le giovani generazioni che, lontane dai fatti storici, devono sentirsi protagoniste di un futuro costruito per dire mai più alla guerra.

Il 25 aprile 2024 è alla vigilia di una importante convocazione elettorale per eleggere il Parlamento europeo. I nostri martiri hanno combattuto e sognato patrie in pace in una Europa in pace: a loro forti del loro esempio e della loro eredità tocca il destino di essere non pacifisti ma operatori di pace.

L’appello a una forte partecipazione al voto potrà essere un importante messaggio a sostegno della Resistenza Ucraina contro nuove mire imperialistiche. Il popolo ucraino è l’avanposto per la difesa di tutti i liberi e democratici cittadini europei.

Come pure ANPC, sollecita ogni istanza – colpevolmente e per troppo tempo latitante – a costruire concrete vie pacifiche verso un assetto mediorientale che finalmente doni patria e Stato, sicuri, a Israele e Palestina

Il Pd tra Schlein e Prodi

Eta Beta è un personaggio dei fumetti che si esprime mettendo la lettera “p” davanti alle parole. Ha la capacità di fiutare i pericoli e di prevedere il futuro. Nel mondo dei cartoni, nei ballon, la nuvoletta dove sono scritti i pensieri dei personaggi, si legge di tanto in tanto un “pfui pfui”, un’espressione che indica disprezzo, scherno o derisione.

Tutto questo richiama il commento di Prodi all’annuncio di Elly Schlein di candidarsi alle prossime elezioni europee. Il Grande Vecchio del Pd ha detto con dispiacere o con irritazione che “non gli dà retta nessuno” aggiungendo che chiedere il voto, senza poi andare a scaldare effettivamente il seggio europeo, provoca ferite alla democrazia che scavano un fosso. 

Shemà Pd” è un grido caduto nel vuoto. Il suo popolo rischia di insabbiarsi nelle secche di una sconfitta dolorosa, forse buona per una eventuale futura purificazione. Così dicendo intuisce un futuro non roseo per il Pd e per la politica nazionale e, bofonchiando, è possibile gli sarà scappato anche qualche “pfui”, qui e là.

Della antica locuzione “(ar)recta aure”, stare cioè con l’orecchio drizzato, a noi è restato solo il “recta” ed è così che Prodi si lamenta di non avere ascolti e di girare a vuoto nella speranza di trovare qualcuno che gli dia seguito. 

“Cercare Maria per Roma” è una espressione che trova origine alla difficoltà di trovare l’icona della Madonna della Provvidenza nella Chiesa di Santa Maria in Grottapinta, nella zona di Campo de Fiori, vicino peraltro ai palazzi del potere della Capitale.

La Chiesa oggi sconsacrata e abbandonata è il simbolo del disagio di Prodi a non intercettare interlocutori che gli prestino attenzione. L’ex Premier forse è stato anche lui sconsacrato e abbandonato dai suoi antichi sostenitori.  Vedremo che accadrà.

Non è mancata poi la polemica se mettere o no il nome della Elly nel simbolo di partito. Alla fine la segretaria ha rinunciato. Con la raffinatezza che gli è propria, Cuperlo aveva fatto ricorso alla tecnica di una definizione residuale negativa: “Elly…tu non sei Giorgia Meloni, non sei Matteo Salvini, non sei Tajani, non sei Renzi, non sei Calenda…” Con ciò invitandola a non cadere nella tentazione di ammirarsi in grande e grosso sui manifesti elettorali.

Comunque, Elly ha dichiarato che con la sua personale scesa in campo intende “dare una mano con spirito di servizio. Mi candido a dare una spinta a questa meravigliosa squadra e a un progetto di cambiamento del Pd e del Paese”. 

Un po’ di anni fa al Festival dello Zecchino d’Oro girava una simpatica canzoncina che nelle prime strofe recitava: “Il caro nonno Asdrubale lasciò un’eredità, a noi toccò una macchina di sessant’anni fa. Un tipo di automobile che ridere può far, ma ridere per ridere papà ci volle andar. E dopo dieci, venti, trenta scoppi del motor, la gente tutta intorno gli gridava con calor: dai, dai, dai, dagli una spinta, dagli una spinta vedrai che partirà!”.

Vedremo se la potente macchina da guerra del Pd terrà la strada arrivando magari prima in dirittura di arrivo. Ma prima ancora, occorre che intanto si accenda, senza ingolfarsi già in partenza.

India al voto in un clima di crescente nazionalismo

È iniziata la maratona che in poco meno di due mesi condurrà quasi un miliardo di elettori al voto per il rinnovo della Lok Sabha, la Camera bassa del Parlamento indiano, che consta di 543 seggi. L’esercizio di democrazia elettorale più vasto del pianeta.

Eppure anche lì pare spirare un sottile vento autocratico, se – come tutto lascia prevedere – il Bharatiya janata party (Bjp) del primo ministro Narendra Modi vincerà con buon margine assicurandosi così altri cinque anni di potere.

Le critiche e le preoccupazioni si fondano su alcuni dati di fatto che si sono consolidati nel tempo nel corso dei dieci anni di governo del carismatico e popolare leader induista. Giorno dopo giorno, costantemente, è andato consolidandosi un senso di identità nazionale imperniato sull’induismo (nel quale si riconosce l’80% della popolazione) che ha progressivamente superato l’eredità britannica laico-occidentale ancora ben percepibile nei lunghi anni del gandhismo e del Partito del Congresso (dal padre della nazione Nehru fino a Sonia Gandhi passando per Indira Gandhi) per approdare a una sorta di integralismo religioso che favorisce tratti illiberali nella gestione politico-sociale del potere.

Del resto il nazionalismo indù è un po’ la cifra del governo Modi, che ha proprio in esso il fulcro del suo consenso. Il simbolo di questa influenza è forse stata, poche settimane fa, l’inaugurazione di un nuovo tempio indù edificato sul sito – in località Ayodhya, nello stato nord orientale dell’Uttar Pradesh, famoso per la presenza sul suo territorio del mitico Taj Mahal – ove estremisti indù nel 1992 demolirono una moschea. Le varie confessioni religiose sono sempre più chiaramente emarginate e combattute, in India. Ma la più avversata è quella musulmana, che è praticata da circa il 15% della popolazione ed è maggioritaria negli stati himalayani di Jammu e Kashmir, non per nulla zone in perenne tensione interna.

Ora il governo ha annunciato una nuova legge per la quale i fedeli di ogni religione tranne quella islamica potranno richiedere e ottenere la cittadinanza indiana se fuggiti dai paesi vicini a maggioranza musulmana (e per converso, anche se non è esplicitato, potrebbe accadere che i musulmani residenti nel paese possano venire deportati, quali immigrati illegali). Un ulteriore passo sulla via della radicalizzazione del potere indù, con la compressione degli spazi per chi appartiene alle minoranze, religiose e laiche.

Per quanto riguarda l’economia, invece, ovviamente uno dei temi più importanti in una campagna elettorale, la situazione è discreta, ma non esaltante. Sono ancora milioni i giovani disoccupati e i tassi di crescita roboanti, a due cifre, promessi dal Bjp sin dal 2014 non si sono mai concretizzati, anche se occorre riconoscere che negli ultimi anni l’India è comunque cresciuta più delle altre grandi nazioni con le quali ormai desidera confrontarsi, e non solo in ragione della sua enorme dimensione in termini di popolazione. La crescita avrebbe potuto essere maggiore – sostengono i critici del governo – se si fosse lasciato più spazio alla concorrenza internazionale invece di proteggere dalla medesima i grandi conglomerati nazionali, perdendo così opportunità di investimenti, soprattutto nella manifattura, che avrebbero potuto generare nuova occupazione. Ma al di là di queste giuste osservazioni l’opposizione, fragile e divisa, non ha saputo creare o individuare una reale alternativa a Modi.

L’India è destinata a divenire uno dei principali player mondiali e a tal fine Modi si è mosso con qualche ambiguità nel complicato ginepraio della nuova geopolitica. Anche qui la bussola è il nazionalismo, gli interessi dell’India prima di tutto. Le alleanze sono plurime e a rischio di contraddizione. Così quella con gli Stati Uniti viene confermata e allargata attraverso il QUAD, accordo che include anche Giappone e Australia e che è finalizzato a contrastare militarmente la crescente volontà di dominio sul Pacifico da parte della Cina.

Al tempo stesso vengono confermati i buoni rapporti con la Russia, dalla quale acquista petrolio e gas a prezzi divenuti più convenienti in seguito alla guerra in Ucraina e alle conseguenti sanzioni occidentali nei confronti di Mosca. Non solo. 

L’India è partecipe del BRICS, ora BRICS+, l’alleanza del Sud Globale, come viene definita. Qualcosa che si muove in un ambito sostanzialmente anti-occidentale. Ove la Cina punta a esercitare un ruolo preminente. Quella stessa Cina che storicamente è un avversario continentale dell’India. L’ambizione di Modi è di rappresentare in questo forum l’alternativa alla Cina o quantomeno il suo contrappeso. Un punto di contatto per l’occidente, probabilmente. Ma soprattutto l’obiettivo di Modi – se il suo partito vincerà le elezioni, come previsto – è di porre l’India al centro di un sistema di relazioni internazionali diversificate dal quale ottenere il massimo rendimento possibile.

Dobbiamo interrogarci sul lento declino dell’Occidente

Lo scorrere del tempo nasconde mutamenti e trasformazioni che percepiamo nella loro dimensione globale ma anche attraverso i segni che leggiamo nelle piccole cose. Ci sono – in questa epoca travagliata e sempre minacciata dall’incipiente pericolo del baratro – guerre devastanti e genocidi che coinvolgono gli Stati e i popoli, le etnie, le culture, le religioni: non c’è limite al peggio nè spazio per una civile resipiscenza. Sono fatti che ci raccontano l’inquietudine umana, la bramosia del potere, l’assenza della memoria, i pericoli del fondamentalismo, la messa al bando di ogni limite: è una minaccia continua che si espande a macchia d’olio e dimostra quanto sia insieme crudele e stupido il genere umano. 

Le buone notizie non si trovano più neanche nel mercatino dell’usato, mi aveva detto Maurizio Belpietro, e se da qualche parte narrano una dimensione umana che semina gesti di bontà e desiderio di pace, restano occultate nella vorticosa e mistificante narrazione dei social media. Ci sono anche- dicevo – segni che intercettiamo nella quotidianità e durano un battito di ciglia ma – sedimentandosi e ripetendosi – finiscono per lasciare traccia. Gli uni e gli altri fenomeni – quelli grandi e incontenibili come le guerre, i conflitti, la sostenibilità ambientale e quelli dentro o poco oltre l’uscio di casa – ci dicono che il mondo sta cambiando: tempora mutantur et nos mutamur in illis. 

La Storia dell’umanità è sempre stata caratterizzata da un ora lento ora accelerato processo di trasformazione. Leggendo e recensendo in questi giorni un saggio di Giuseppe De Rita sul concetto di sviluppo legato all’autopropulsione sociale, ho radicato il convincimento che i cambiamenti intorno a noi non sempre si sostanziano nell’idea di progresso. Ci sono state epoche talmente caratterizzate da radicamenti culturali identitari da esserne denominati: pensiamo al Rinascimento, all’Illuminismo, al Romanticismo. L’avvento del dominio tecnologico ha impresso una forte dinamica evolutiva che non siamo riusciti a connotare oltre il concetto di complessità: rileggere Heidegger, Habermas, Benjamin e Bauman. Trovo che da alcuni decenni si sia acuìto il tema della sostenibilità generazionale, in ambito culturale, nel contesto lavorativo, nella comunicazione e nelle relazioni umane. 

La democrazia resta una chimera inagibile, il relativismo etico e culturale la sovvertono e la mettono continuamente in discussione. Siamo circondati da feticci che diventano orpelli e luoghi comuni: privacy e trasparenza anziché emancipare, facilitare e semplificare mettono le manette ai polsi delle relazioni umane. Si parla tanto ma non ci si comprende, il soggettivismo radicato nei comportamenti umani – ammantato da nobili ideali come la libertà di espressione e la dignità del singolo crea situazioni di incomprensione e monadi vaganti e incomunicabili. Ci si affida allora ai luoghi comuni, alle opinioni degli influencer, alle derive miste tra minimalismo e nichilismo, delirio parossistico, effetti speciali e rigurgiti di volontà di potenza. La conflittualità sociale dilagante ne è prova tangibile.

Paradossalmente le culture tradizionali si conservano nei contesti istituzionali e sociali delle tirannie e delle dittature. Ancor più eclatante il fatto che ciò avvenga laddove il fondamentalismo religioso si mescola alla secolarizzazione delle sue regole: si taglia la testa alle donne che non indossano il velo, si lapidano quelle che hanno abbassato il copricapo mostrando gli occhi. Incredibile che l’Occidente che fa una bandiera dell’emancipazione femminile si presti ad essere così benevolo e indulgente verso coloro che trovano accoglienza e rivendicano diritti umani senza accettare le regole che la tradizione culturale del Paese che li ospita impone. 

Dobbiamo fare quadrato attorno alle nostre democrazie, come mi ha detto Vittorio E. Parsi “la difesa della democrazia domestica passa attraverso la leadership delle democrazie nel mondo”. È in atto da anni in Occidente una deriva minimalista (v. cancel culture), ciò che non accade dove le tradizioni e le radici identitarie sono inamovibili e rafforzano la sedimentazione del potere. In Russia il Patriarca Kirill parla di guerra santa in nome della nazione, da noi Papa Francesco si rivolge al mondo intero e invoca la pace universale: non sono la stessa cosa. Lo stesso dicasi per ciò che predica l’islamismo: shari’a, fondamentalismo, sottomissione della donna, distruzione di tutto ciò che l’occidente rappresenta.  

Nel caravanserraglio sociale in cui viviamo c’è di tutto e di più: salvaguardare le identità nazionali, conservare e custodire la cultura tramandata sono diventati peccati di lesa maestà. Non credo che scegliere la democrazia come modello di convivenza sociale imponga di assumere una sorta di ‘pensiero debole’ e acefalo, egualitario, rinunciando ai valori ereditati. 

Eppure da tempo stiamo rinunciando alla nostra identità e rinneghiamo la storia, i valori fondativi dell’essere italiani o europei, in nome di un’intercultura che non esiste perché troppo profonde sono adesso le radici che ci caratterizzano. Dio, Patria e famiglia hanno costruito un modello sociale perfettibile e con declinazioni magari non condivisibili e forse ora obsolete ma la loro rimozione in tutti i gangli e i meandri del vivere sociale non è stata sostituita da riferimenti più convincenti. Non erano e non sono una bestemmia.  

Il pensiero debole dilaga e non dobbiamo confondere il senso di appartenenza all’idea di un ‘continuismo’ identitario (come lo chiamerebbe De Rita) con le derive negative dei nazionalismi e dei populismi. In una società aperta c’è spazio per l’inclusione, la convivenza pacifica, il dialogo: ma sempre nel rispetto delle regole.

In questi giorni Sunak ha stabilito che gli stranieri per abitare nel Regno Unito devono possedere un reddito di 45 mila euro, noi non siamo arrivati a tanto ma ad esempio le banlieue francesi sono un grattacapo non da poco per Macron: un mix etnico ormai radicato e potenzialmente esplosivo. Ora, ascoltare in TV che la statua di Vera Amodeo dedicata alla maternità (una donna che allatta un neonato) non trova né pace di critica né sistemazione logistica in una via o piazza di Milano, perché giudicata anacronistica e non espressione di valori universalmente condivisi, lascia di stucco. È una delle tante negazioni che stanno smantellando pezzo a pezzo la nostra Storia e la nostra cultura mentre hanno ancora diritto di cittadinanza in tutto il pianeta. Ci sono Paesi modelli di democrazia dove queste cose non succedono: tutto il mondo ci guarda e ride delle nostre stupide malinconie, dei nostri crucci, delle nostre remore, del nostro – mi sia consentito – paraculismo salottiero.  

Così come la vicenda dei presepi che “offenderebbero” le altrui sensibilità, le scuole chiuse nei giorni del Ramadan, la rimozione dei Crocifissi dalle aule. Ha fatto bene Valditara a mettere paletti che spettano a un Ministro. Chi visita un Paese del Nord Africa non riceve uguale trattamento: perché allora il pensiero debole, quel senso di colpa atavica di essere gli eredi di una civiltà che ha espresso valori positivi si insinuano nel pensiero condiviso fino a dover chiedere scusa e vergognarci di ciò che siamo e siamo stati?

Non esiste una civiltà senza radici: tutte vanno rispettate ma questa dilagante abdicazione ai nostri riferimenti culturali e identitari può portare solo ad una società amorfa e defedata. Aspettiamo ora l’intelligenza artificiale per rimuovere il resto che rimane.

Schlein candidata, Prodi dice no e Borghi alza il tiro.

È stata la condanna di Prodi a suscitare maggiore scalpore. In via di principio, secondo il Professore, la candidatura alle europee deve corrispondere a un preciso impegno, essendo un gesto inammissibile entrare in lista con la prospettiva di una rinuncia subito dopo all’esercizio del mandato. Anche Elly Schlein, dunque, ha ceduto alle lusinghe di un leaderismo che mette a dura prova la trasparenza e la qualità della proposta politica. La conclusione è semplice, anche al di là della reazione prodiana: a sinistra, dove poggia il baricentro dell’opposizione, si consuma una manovra di deteriore opportunismo.    

C’è però da osservare che il vulnus alla democrazia – perché di questo si tratta in ragione dell’inganno verso gli elettori – va di pari passo con l’ennesima torsione del profilo identitario del Partito democratico. È stato Enrico Borghi, capogruppo di Italia Viva al Senato, a mettere in rilievo il carattere politicamente scorretto di una decisione che  fuoriesce dal canone della battaglia, senza se e senza ma, contro la destra populista e autoritaria. Il motivo è presto detto.    

“Non so se le teste d’uovo del Nazareno – ha scritto Borghi sui social – lo abbiano realizzato, ma la decisione di mettere il nome di Schlein nel simbolo e sulla scheda elettorale sposa nei fatti l`idea dell’elezione diretta del premier, e archivia di un botto tutta la retorica sulla deriva bonapartista del premierato. Perché se mette il suo nome per elezioni europee (dove ha già annunciato di desistere dall’elezione), Elly Schlein non potrà che confermare questa impostazione alle prossime elezioni politiche. E quindi come la mettiamo con la melassa sulla deriva antidemocratica del premierato? O forse, ora che sta realizzando il nuovo PDS (Partito di Schlein), Elly recupera il programma istituzionale del PDS originale e della tesi numero 1 dell`Ulivo? In ogni caso portate i sali alla sinistra Dem, e gli ex di Articolo 1, che pensavano di tornare alla Ditta e si ritrovano nel wokismo individualista”.

Dunque, l’appello a una dialettica – Schlein vs Meloni – fortemente radicalizzata, con la conseguente riduzione di spazio per i partiti intermedi, avanza nelle nebbie dell’ambivalenza. Arriva a un punto in cui lo scontro non è più sul “modello” di democrazia, bensì su chi e come lo gestisce, quel modello; come quando, per l’appunto, si punta ad assumere l’identifica postura leaderistica in funzione dell’alternativa (di potere). 

Ecco spiegata allora la diffidenza di una vasta area dell’elettorato, priva al momento di adeguata rappresentanza: il gioco degli specchi tra sinistra e destra non convince perché ripropone l’immagine di una scambievole applicazione “ad usum Delphini” della democrazia. In definitiva l’antagonismo riguarda le persone, non il metodo. E questo, per molti, non va bene.