18.8 C
Roma
sabato, 12 Luglio, 2025
Home Blog Pagina 397

ALDO MORO E LA DEMOCRAZIA DIFFICILE. ORA COME ALLORA?

Colloquio con Gerardo Bianco
(video di 1 minuto e 30 secondi. Presto sarà pubblicato il video integrale). L’iniziativa è stata presa dal Circolo “I Liberi e forti” di Roma presieduto da Dante Monda.

Una missione storica per il centro

La politica è sempre una continua, precaria navigazione a vista, mossa per lo più dallo stato di necessità e dagli eventi imprevisti, nella quale si intersecano e aggrovigliano le ragioni di ordine contingente, la tattica, la strategia, le condizioni date, poste dalla geopolitica e la speranza e gli ideali legati a un progetto di lungo respiro.

Per questo conviene partire dalla contingenza politica per chiederci quale ruolo possa esercitare il centro politico nell’attuale fase storica. E la contingenza, come ci ricorda Giorgio Merlo, ci pone di fronte al fallimento del progetto del Partito Democratico come partito plurale e a vocazione maggioritaria, seguito, con l’avvento di Nicola Zingaretti alla segreteria, nella trasformazione del Pd in un partito “di sinistra”.

Rispetto a ciò si impone la creazione di un soggetto politico “di centro” nella cui definizione però non si possono eludere nodi cruciali come quelli indicati da Guido Bodrato nella recente intervista al Domani d’Italia.
In particolare Bodrato richiama l’attenzione alla solidità del progetto politico da cui dipende la credibilità del centro, la sua strategia di avanzamento sociale e democratico, e dunque la chiusura al moderatismo e alla destra. Tutto ciò nella consapevolezza che la situazione è radicalmente cambiata rispetto al passato, al punto che, a mio avviso, la stessa definizione degasperiana del centro che guarda a sinistra, evidenziata nell’articolo di Lorenzo Dellai, merita di essere aggiornata.

Se è vero che in questo secolo la sinistra, non solo in Italia, si è trasformata, sulle questioni fondamentali, in una variante libertaria del neoliberismo, metamorfosi che ha pagato con la perdita del consenso tra i ceti lavoratori e popolari, allora forse c’è bisogno più di un centro che guardi al popolo, senza per questo contaminarsi con la destra o con i movimenti populisti, anzi, al contrario, per sottrarre loro consensi che la sinistra storica non è in grado di intercettare, pur in presenza di una forte deideologizzazione dell’elettorato.

La definizione di una nuova strategia per il centro deve altresì confrontarsi con quella che Bodrato, nella suddetta intervista, ha definito la mortificazione della lezione degasperiana sull’integrazione economica e politica dell’Europa. Una visione, quella degasperiana e dei padri fondatori dell’Europa, subito mandata in frantumi dalla Germania non appena raggiunta la riunificazione, attraverso l’imposizione a tutti gli altri partners dei propri interessi economici e delle proprie mire geopolitiche.

A causa di ciò e di una saldatura d’interessi tra il neo-nazionalismo tedesco e le élites finanziarie globaliste, su cui sono stati strutturati i trattati istitutivi dell’Unione Europea, il livello di crisi raggiunto dalle istituzioni europee è tale che per una forza politica di centro si pone la scelta di fondo: stare dalla parte del popolo e dei principi fondamentali della democrazia oppure stare dalla parte delle politiche ordoliberiste e austeritarie imposte dalla Germania all’Unione Europea? Senza una risposta chiara a questa domanda ogni tentativo di recupero dell’elettorato popolare rischia di rivelarsi velleitario. Senza anteporre al rispetto dei parametri economici europei la necessità di politiche economiche espansive vitali per il Paese, a partire dalla prossima finanziaria 2020, difficilmente si potrà costruire un centro che guarda a sinistra, al massimo sarà un centro che, innaturalmente, guarda al primato della moneta sulla democrazia e che assiste, impotente, alle disastrose conseguenze economiche e sociali a cui conduce un tale primato.

Serve coraggio al centro. La disgregazione in corso si può ancora fermare, a condizione che attraverso un processo democratico si varino le inderogabili riforme, riconducendo l’economia e la finanza sotto il controllo della politica onde poter attuare politiche per il lavoro, lo sviluppo, la riduzione delle disuguaglianze. Traguardi a cui comunque si dovrà giungere, perché l’attuale sistema fondato sul turbocapitalismo finanziario è in decomposizione in tutto il mondo. Il centro – e la cultura politica cattolico, democratica e popolare al suo interno – è chiamato a svolgere una missione storica affinché tali cambiamenti siano decretati in modo democratico e non passando attraverso cruente guerre civili di cui già si manifestano i prodromi, e forse da una nuova guerra mondiale, di cui nel periodo attuale si possono scorgere i medesimi sintomi che hanno scatenato le precedenti: disuguaglianze inaudite, profonda stagnazione economica causata da politiche economiche sciagurate e ritorno dell’egemonia tedesca in Europa.

Europa dono di Dio

Articolo apparso sull’edizione odierna dell’Osservatore Romano 

«Non spetta alla Chiesa indicare soluzioni tecniche ma, come abbiamo ripetuto spesso, la Brexit non riuscirà a rompere la fraternità che esiste tra noi e i nostri fratelli britannici»: è quanto ha affermato l’arcivescovo di Lussemburgo, Jean-Claude Hollerich, presidente della Commissione degli episcopati dell’Unione europea (Comece), aprendo ieri a Bruxelles l’assemblea plenaria. Il presule, riferisce Agensir, non ha nascosto che l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea «continua a essere fonte di costante apprensione per il presente e il futuro», ma «non dobbiamo permettere che questo processo così difficoltoso possa impedire il nostro progredire in avanti».

L’incontro — a cui ha partecipato il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, con il quale i vescovi si confronteranno sulla necessità di riscoprire l’identità comune basata sui valori cristiani — si è aperto dopo che da Londra era giunta la notizia che il parlamento britannico ha detto no anche all’ultimo tentativo del primo ministro Theresa May di salvare l’accordo con l’Ue dopo alcune concessioni ottenute l’11 marzo da Bruxelles.

Altro tema al centro del dibattito della Comece sono naturalmente le elezioni parlamentari europee che si svolgeranno dal 23 al 26 maggio. «Siamo convenuti qui in un tempo che non può non essere importante per il futuro del nostro amato continente», ha detto al riguardo monsignor Hollerich. Ciò che preoccupa l’episcopato europeo è quanto alcuni sondaggi già fanno presagire e, cioè, «un aumento delle voci politiche più estreme. Il modo caotico in cui si sta discutendo sulla Brexit — ha aggiunto il presidente — sta aggiungendo enfasi e incertezza al cruciale momento che il nostro continente e la gente stanno vivendo».

La Chiesa non ha soluzioni tecniche da suggerire né tantomeno “soluzioni-miracolo”: «La Chiesa — ribadisce l’arcivescovo di Lussemburgo — vuole essere presente: presente a livello di Unione europea, presente a livello nazionale e accanto alle persone, il più possibile». In tale contesto, l’appello lanciato dai vescovi a tutti i cittadini è di andare a votare. La Commissione degli episcopati dell’Unione europea è molto impegnata infatti in una campagna di sensibilizzazione al voto europeo. «Alla Chiesa — ha dichiarato al Sir padre Olivier Poquillon, segretario generale della Comece — sta a cuore la costruzione di un’Europa più inclusiva, un’economia di mercato sociale e un nuovo umanesimo cristiano e vuole che l’Europa continui a svolgere il suo ruolo anche nel mondo. I social — ha aggiunto — ci hanno abituato a ricercare risposte semplici a situazioni complesse e questo può creare frustrazioni».

Poquillon si dice convinto che, «se non andiamo a votare, altri lo faranno al posto nostro e, allora, non possiamo lamentarci se l’Europa prende una direzione che non condividiamo. Abbiamo un’occasione per influenzare le politiche dei prossimi cinque anni e di scegliere le persone e i volti a cui vogliamo affidare la nostra fiducia. Non si tratta di essere per o contro l’Europa. Dio ci ha messo in Europa. L’Europa è un dono di Dio». Il segretario generale si è soffermato a parlare anche della questione Brexit: «Assistiamo a una grande confusione. Siamo come nel caos prima della creazione del mondo. Un momento che può essere distruttivo, ma anche un’occasione per entrare in una nuova dinamica. E la Chiesa cattolica — sottolinea il responsabile della Comece — spera che si trovi una nuova dinamica tra i popoli che costituiscono l’Europa. Anche nel caso in cui si raggiunga un accordo, che sia soft o duro, noi tutti siamo destinati a vivere e a lavorare insieme rispettando le scelte e la diversità di ciascuno».

I vescovi riuniti a Bruxelles guardano dunque a Londra perché la Brexit «non è una questione solo britannica. Quando una parte del corpo è ferita, soffre e vive un momento di difficoltà, tutto il corpo soffre. Sul piano economico, per esempio, vediamo che sono i più deboli a essere colpiti». Agli uomini e alle donne che in questo momento stanno lavorando per determinare le clausole e i tempi di uscita del Regno Unito dall’Ue, padre Poquillon chiede di essere coraggiosi: «Si trovano ad affrontare una situazione inedita. Spero che l’unità prevalga, spero che la preoccupazione per il bene comune guidi le loro scelte e, in ogni caso, vorremmo dire che questa fraternità che esiste tra noi e loro, rimarrà sempre. Spero, dunque, che usciremo da questa crisi senza aver causato ferite irrimediabili».

Donne in politica e lavoratrici digitali nella UE

Carissime, carissimi,

pochi lo sanno ma la prima programmatrice di computer al mondo si chiamava Ada Lovelace Byron.  Durante la prima metà dell’Ottocento, fu lei a rendere programmabile la “macchina analitica” e a prefigurare il concetto di intelligenza artificiale.

Purtroppo però poi la storia della tecnologia digitale è stata una storia essenzialmente di uomini, una tendenza che sta cambiando ma troppo lentamente, vista la centralità del mondo tecnologico.

Le tecnologie informatiche offrono enormi possibilità per le donne e per la parità di genere, ma insieme alle possibilità ci sono anche molti rischi. Si pensi ad esempio al cyberbullismo sessista.

Si tratta di tematiche molto importanti su cui al Parlamento europeo a Bruxelles abbiamo voluto confrontarci con le protagoniste e le esperte del mondo digitale italiano e europeo, per raccoglierne le idee, i suggerimenti e le critiche.

Da questo confronto, è nato insieme a Gianna Martinengo e molte altre, l’instant book “Women & Digital Jobs in Europe” 2018, che abbiamo presentato questa settimana agli Uffici del Parlamento europeo a Milano e che vi invito a leggere.

Di seguito il link dove scaricarlo:

Women & Digital Jobs in Europe (pdf)

Tuttavia, dalle numerose pubblicazioni curate dal Parlamento europeo si evince che le donne rimangono ancora largamente sottorappresentate nei Parlamenti e negli organismi governativi degli Stati membri.

Solo 6 dei 28 parlamenti nazionali nell’UE sono guidati da donne e sette parlamentari su dieci nei parlamenti nazionali dell’UE sono uomini.

La mancata partecipazione non è propria solo del mondo della politica, purtroppo.

Penso al fenomeno del “soffitto di cristallo”, una realtà nel mondo imprenditoriale, con solo il 6,3 % delle posizioni di amministratore delegato nelle principali società quotate dell’UE ricoperto da donne.

C’è anche qualche segnale positivo: il tasso di occupazione femminile nell’UE ha raggiunto il picco storico del 66,4 % nel 2017, ma la situazione varia da uno Stato membro all’altro e l’Italia non è certo un’eccellenza.

Anche se c’è ancora tanta strada da fare, il Parlamento europeo si è occupato costantemente negli ultimi anni del tema della parità di genere, promuovendo molte risoluzioni e direttive. Tra queste, di particolare importanza, è quella (mancano ancora pochi passaggi formali, ma a marzo sarà definitiva) sull’equilibrio tra vita lavorativa e vita familiare.

Naturalmente anche io, in prima persona, ho seguito tutti questi temi. In particolare, una battaglia che sto facendo ma che ancora non siamo riusciti a vincere, è quella per una vera e propria direttiva europea per contrastare la violenza contro le donne, perché in molti stati membri questo reato non è previsto.

Se volete approfondire queste tematiche, potete scrivermi e manderò i relativi testi su cui il Parlamento europeo sta lavorando.

Intanto, sperando sia di vostro interesse, vi mando il rapporto “Women in politics in the EU: State of play” e il riassunto grafico della situazione attuale delle Donne nei Parlamenti, oltre al link del libretto “Women & Digital Jobs in Europe”.

Un caro saluto,

Patrizia Toia (Parlamentare europeo)

 

Il gioco delle tre carte

Articolo già apparso sulle pagine di Servire l’Italia a firma di Alessandro Corneli

Il Gruppo Cassa depositi e prestiti e le sue società partecipate, Fincantieri, Italgas, Snam e Terna, hanno sottoscritto con il Comune di Napoli e con l’Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centrale (ADSP), un protocollo di intesa che prevede azioni integrate per lo sviluppo della città e dell’area metropolitana partenopea. Con la firma di ieri, le società del Gruppo s’impegnano ad affiancare le istituzioni e il tessuto produttivo attraverso attività supporto finanziario al Comune, implementazione delle infrastrutture, incremento immobiliare, azioni di sviluppo per le imprese.

Cassa depositi e prestiti s’impegna a valutare l’eventuale richiesta di rinegoziazione dei prestiti concessi in favore del Comune di Napoli per poter liberare rapidamente risorse finanziarie da destinare all’estinzione anticipata di contratti derivati e alla realizzazione di investimenti a supporto del territorio. Tra i diversi obiettivi dell’accordo vi è quello di mettere a disposizione del Comune e di ADSP il know-how tecnico e le capacità di progettazione di interventi infrastrutturali, finanziamenti a favore di soggetti privati per la realizzazione di operazioni di interesse pubblico, nonchè servizi di assistenza e consulenza nell’attuazione degli interventi infrastrutturali.

Gli ambiti d’intervento riguarderanno la mobilità sostenibile a gas naturale e biometano, la crescita delle aree portuali con il potenziamento delle infrastrutture navalmeccaniche in concessione nell’area di Castellammare di Stabia, le reti di connessione a sostegno di interventi per migliorare la qualità dei servizi di distribuzione gas e di trasmissione della rete elettrica, la transizione energetica volta alla riqualificazione energetica nell’ambito di progetti di recupero di quartieri o aree urbane.

Cassa depositi e prestiti Immobiliare supporterà il Comune di Napoli nella valorizzazione del patrimonio immobiliare dell’Amministrazione favorendo l’avvio di programmi di rigenerazione urbana. A questo proposito vi è l’impegno a sviluppare il progetto di riqualificazione dell’ex Manifattura Tabacchi con investimenti iniziali pari a circa 60 milioni di euro. Il progetto di valorizzazione teso a garantire un nuovo ambito urbano nella zona orientale di Napoli, comprende importanti opere di urbanizzazione, oltre alla realizzazione di una caserma dei Carabinieri, importante presidio di legalità in un contesto sensibile sotto il profilo della sicurezza pubblica.

Cdp Immobiliare, il Comune di Napoli e l’ADSP s’impegnano inoltre a collaborare all’elaborazione di studi e proposte progettuali relativi al complesso monumentale dell’Albergo dei Poveri, al complesso immobiliare storico termale “Parco delle Terme di Agnano” e agli ex Magazzini generali. Al fine di supportare il tessuto imprenditoriale e favorirne l’accesso al credito, Cdp si impegna a valutare l’attivazione di strumenti di garanzia anche di portafoglio a favore delle Pmi e a promuovere canali alternativi di finanziamento anche mediante operazioni di cartolarizzazioni, assistite da garanzie a valere su risorse pubbliche, sia nazionali che comunitarie. Per potenziare il supporto al tessuto imprenditoriale e rafforzare la collaborazione con le istituzioni locali, Cdp si impegna a valutare inoltre il potenziamento della propria sede già presente nel capoluogo campano.

Volt e la visione dell’Europa che piace ai giovani

Articolo già apparso sulle pagine della Rivista “Il Mulino” a firma di Sofia Francescutto

All’alba del voto inglese che nel 2016 ha fatto tremare l’Europa e che continua a tenerla con il fiato sospeso, un ragazzo italiano, una ragazza francese e un ragazzo tedesco reagiscono allo sgomento e al timore sondando il terreno con una pagina Facebook e un sito per capire se, davvero, gli europei hanno smesso di credere nell’Europa unita. Quello che doveva essere un appello rivolto a pochi comincia a echeggiare tra le maglie della Rete, raggiungendo un numero inaspettato di Paesi e sostenitori. Tre anni dopo, quell’appello ha un nome che compare in bianco su campo viola in tutta Europa.

È così che nasce Volt, il movimento politico oggi presente nei 28 Paesi dell’Unione (più Svizzera, Norvegia e Albania) e che ha statuto di partito in 12, compresa l’Italia, dove è presieduto dalla venticinquenne Federica Vinci. Oggi Volt si appoggia su crowdfunding e autofinanziamenti, conta 20 mila volontari attivi in Europa e ha un chiaro obiettivo: presentarsi alle elezioni europee di maggio in almeno sette Paesi con un unico programma.

La vera novità di Volt è infatti quella di aver realizzato, con la collaborazione di persone provenienti da tutta Europa, un programma che indica obiettivi e politiche in forma sufficientemente generica da essere condivisa da più Paesi, e sufficientemente specifica da essere poi declinata in programmi nazionali tra loro coerenti. Volt punta dunque alle europee non in qualità di coalizione di diversi partiti, ma come primo vero movimento europeo che condivide valori, obiettivi e proposte sistematiche.

Non è difficile vedere il potenziale a lungo termine di una simile alternativa. Oggi l’Europa si trova ad affrontare i problemi dei suoi membri attraverso soluzioni che devono essere discusse e supportate da altri Paesi interessati, con il rischio che questioni di portata europea finiscano per essere declassate a problematiche nazionali e, come insegna la nostra esperienza con i migranti, ignorate fino a scatenare crisi comunitarie. L’approccio Volt, al contrario, vorrebbe che questioni come l’immigrazione, il riscaldamento globale, la sicurezza o l’economia dell’Unione fossero già gestite a livello europeo, così che la soluzione delle emergenze nazionali non richieda quel continuo braccio di ferro che oggi assorbe energie e risorse, distogliendo l’attenzione da altre tematiche altrettanto urgenti.

Presentandosi come movimento paneuropeo, Volt sceglie di non usare le categorie di destra e sinistra perché troppo ampie e legate alle esperienze storico-politiche dei singoli Paesi. Né di destra né di sinistra, dunque, ma progressista. Volt si presenta sulla scena politica europea con un programma che punta su sostenibilità ambientale, rinascita economica dell’Unione, promozione dei diritti civili e sostegno all’innovazione e all’educazione. In particolare, dalla Dichiarazione di Amsterdam che raccoglie le politiche targate Volt, emerge una carbon tax europea per la riduzione delle emissioni di CO2, investimenti e incentivi per energie rinnovabili e l’avvio di un’economia circolare che azzeri gli sprechi. Al centro della proposta viola anche legislazioni che assicurino totale parità di genere nei luoghi di lavoro e nel settore pubblico, oltre all’implementazione dei diritti Lgbtiq+.

Più di tutto, però, Volt vuole un’Europa unita, seppur diversa da quella che conosciamo. Ecco che gli attivisti Volt si definiscono allora europeisti critici perché, se è vero che è necessario lottare contro il populismo e il sovranismo che dalla Francia all’Ungheria all’Italia si stanno diffondendo a macchia d’olio, è altrettanto vero che l’Europa non può rimanere così com’è. L’idea, come ha sottolineato il fondatore e presidente di Volt Europa Andrea Venzon, è «creare un sistema federalista più integrato», guidato da un governo europeo che garantisca all’Ue di intervenire in maniera più efficace sui problemi dei suoi membri e permetta all’Europa di competere con i colossi mondiali di Cina e Stati Uniti promuovendo crescita e lavoro. È proprio l’occupazione la chiave della proposta Volt, che oggi in Italia critica duramente il reddito di cittadinanza dell’attuale governo. Crescita economica non significa dunque puntare sull’assistenzialismo, ma, al contrario, convogliare i fondi Ue nelle regioni in difficoltà per creare posti di lavoro, aumentare la spesa pubblica per l’istruzione professionale e incentivare l’imprenditorialità facilitando la costituzione e il mantenimento di un’impresa.

L’idea di un’Europa più vicina, più partecipativa e capace di rispondere alle esigenze dei suoi cittadini allontana così lo spauracchio populista di un’Europa vista come un mostruoso Leviatano burocrate che tutto prende e niente dà. La risposta Volt a chi lamenta l’incursione a gamba tesa dell’Europa nelle politiche nazionali senza dare nulla in cambio è allora questa: costruiamo un’Europa migliore e più democratica, ma non abbandoniamola. È proprio per questa nuova concezione dell’Unione che la proposta Volt sta attirando un numero crescente di giovani che trovano nel partito viola la risposta alla loro visione del presente e del futuro.

In Italia, dove Volt è presente in oltre 60 centri, la tendenza è la stessa: i “volters” sono per la maggior parte (ma non solo) giovani, competenti e preparati, hanno esperienze all’estero o, quanto meno, ne hanno compreso il valore.

Costruito sul modello del Community Organizing che già affascinò Barack Obama, Volt si basa su un’idea di leadership diffusa che rispecchia la tendenza della democrazia contemporanea, ma è contraria alla teoria politica che, da Max Weber in poi, può essere riassunta con una frase del machiavellico Roger Stone, marionettista delle vittorie repubblicane da Nixon a Trump: “È da sciocchi pensare di vincere una corsa senza un buon cavallo”. I media questo lo sanno bene e, in Italia, hanno identificato il cavallo Volt nel fondatore Andrea Venzon, 27 anni, laurea in Economia, un master alla London Business School e uno alla Columbia University in Public Administration.

Per presentarsi alle europee anche nel nostro Paese, tuttavia, Volt si scontra con l’obbligo costituzionale delle 150 mila firme necessarie per correre. Uno scoglio democratico unico nel suo genere (in Germania sono sufficienti 4 mila online), al quale si aggiunge poi lo sbarramento del 4%. Volt sta provando a superare quest’ostacolo con una raccolta firme in tutta Italia, ma resta un obiettivo difficile da raggiungere.

L’alternativa per correre ugualmente c’è e si chiama coalizione. Alcuni giorni fa l’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda ha espresso pubblicamente il desiderio di incontrare Volt insieme a +Europa, Pd e Italia in Comune per valutare possibili alleanze. Come insegna l’attuale esperimento di governo, però, il rischio per un partito neonato è finire nella morsa di un gioco forza esercitato da chi ha più potere, esperienza o voti. Allo stesso tempo, sacrificare questa opportunità sarebbe un peccato per chi, come Volt, crede che sia necessario arrivare a Bruxelles per cominciare a cambiare le cose.

Indipendentemente da questa scelta, quello di Volt resta un progetto a lungo termine che non si ferma alle europee. L’obiettivo infatti è ora duplice: da un lato, continuare a progettare a livello europeo e, dall’altro, cominciare a radicarsi a livello locale. Per discutere anche di questo, il 23 e 24 marzo si terrà a Roma il primo Congresso europeo che ospiterà tutti i candidati. Non è un caso che la scelta cada proprio su Roma, centro oggi di quella parte dell’Europa che alza la voce per lamentarsene. E non è un caso – forse – che, proprio nella capitale, il 25 marzo di 62 anni fa sei Stati, tra cui l’Italia, firmavano il Trattato che ha dato vita alla Comunità economica europea e, poi, all’Unione. Chissà che all’Europa una simile coincidenza non porti fortuna.

Eurostat: Dal 2004 le esportazioni di rifiuti verso paesi non UE sono aumentate del + 69%

Dal 2004 le esportazioni di rifiuti verso paesi non UE sono aumentate del + 69%, raggiungendo 41,4 milioni di tonnellate nel 2018. Il valore delle esportazioni di rifiuti verso paesi non UE è stato pari a 16,6 miliardi di euro nel 2018.

Le importazioni di rifiuti da paesi non UE sono rimaste stabili e si attestano a 13,1 milioni di tonnellate nel 2018 (rispetto a 13,2 milioni di tonnellate nel 2004, ovvero -1%).

I rifiuti importati da paesi non UE sono stati valutati a 201,2 miliardi di euro nel 2018.

 

Scambi UE di rifiuti, milioni di tonnellate (2004-2018)

La Turchia e la Cina sono le principali destinazioni per i rifiuti dell’UE. Le esportazioni dell’UE di rifiuti verso la Turchia sono quasi triplicate dal 2004 e hanno raggiunto circa 13,0 milioni di tonnellate nel 2018 (-5% rispetto al 2017). D’altra parte, le esportazioni dell’UE verso la Cina sono diminuite di oltre la metà, rispetto al picco del 2009 di 14,1 milioni di tonnellate a 5,2 milioni di tonnellate nel 2018 (-46% rispetto al 2017).

Il terzo principale partner dell’UE per l’esportazione di rifiuti è l’India con 4,7 milioni di tonnellate nel 2018 (+ 67% rispetto al 2017).

Rispetto al 2017, le esportazioni di rifiuti dell’UE verso l’Indonesia sono aumentate significativamente (+ 97%, a 1,9 milioni di tonnellate nel 2018). Tra il 2004 e il 2018, sono stati registrati aumenti significativi in ​​Pakistan (+ 670%, ovvero 2,2 milioni di tonnellate nel 2018 ed Egitto (+ 225%, ovvero 1,7 milioni di tonnellate nel 2018).

Principali destinazioni per i rifiuti dell'UE (2004-2018)

La maggior parte degli arrivi di rifiuti nell’UE dalla Norvegia, dalla Svizzera e dagli Stati Uniti

L’UE riceve anche rifiuti da paesi non UE. La più grande quantità di rifiuti è stata importata dalla Norvegia (3,0 milioni di tonnellate nel 2018, + 5% rispetto al 2017), la Svizzera (2,5 milioni di tonnellate nel 2018, + 3% rispetto al 2017) e gli Stati Uniti (2,1 milioni di tonnellate nel 2018, in calo del -16% rispetto al 2017).

Per un periodo di tempo più lungo, il maggiore aumento delle importazioni di rifiuti è stato registrato dalla Norvegia: da 1,1 milioni di tonnellate nel 2004 a 3,0 milioni di tonnellate nel 2018 (+ 183%). I rifiuti provenienti dalla Russia sono diminuiti in modo significativo: da 4,6 milioni di tonnellate nel 2004 a 1,2 milioni di tonnellate nel 2018 (-73%).

Principali partner dell'UE per le importazioni di rifiuti 2004-2018

 

Spagna: il Partito popolare chiede a Vox di non cadidarsi

Il leader del Partito popolare (Pp), Pablo Casado, ha ammesso, che il suo piano per replicare il patto andaluso alle elezioni generali, ovvero siglare accordi post-voto con Ciudadanos e Vox per conquistare la maggioranza, potrebbe non funzionare.

Durante un comizio a Saragozza, Casado è arrivato addirittura a chiedere ai “nuovi partiti”, con chiaro riferimento a Vox, di non candidarsi nelle piccole circoscrizioni elettorali, in quanto un’eccessiva frammentazione del voto di destra potrebbe giovare ai socialisti.

Lo riferisce il quotidiano spagnolo “El Pais”, aggiungendo che il leader popolare ha poi plaudito alla decisione del Partito aragonese di non scendere in campo alle politiche del 28 aprile e ha incoraggiato le altre formazioni a fare lo stesso per “senso di responsabilità”

Ue, accordo per sostenere l’azione per il clima 2021-2027

Il finanziamento mette al centro l’ambiente, il contrasto ai cambiamenti climatici e il sostegno alla transizione verso l’energia pulita per migliorare l’efficienza energetica e aumentare la quota di energie rinnovabili. Tutti questi elementi consentiranno all’Ue di conseguire migliori obiettivi climatici mirando all’impatto zero entro il 2050. Per offrire una migliore qualità di vita ai cittadini investendo in un futuro sostenibile, la Commissione europea aumenterà i fondi del programma Life integrando l’azione per il clima in tutti i principali programmi di spesa dell’Ue. Questo aiuterà i diversi Paesi membri ad assolvere agli impegni assunti con l’accordo di Parigi e a conseguire gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, affrontando alcune delle sfide più importanti di questo secolo. L’accordo raggiunto ieri deve essere formalmente approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio.

Life è uno dei programmi di finanziamento dell’Ue per i quali la Commissione ha proposto il maggiore aumento proporzionale per il periodo 2021-2027. Per rendere il finanziamento a favore del clima una voce di spesa ancora più consistente, è stato inoltre proposto che almeno il 25 % della spesa di tutti i programmi dell’Unione sia destinato al conseguimento degli obiettivi climatici. Uno degli elementi principali del nuovo programma Life (2021-2027) riguarda la prosecuzione del sostegno alla transizione verso l’economia circolare e maggiore mitigazione dei cambiamenti climatici. A tale riguardo sono previsti fondi per conseguire gli obiettivi strategici fondamentali in linea con la visione strategica a lungo termine per un’economia moderna, competitiva e a impatto climatico zero entro il 2050. Gli interventi sosterranno la transizione completa verso un’economia circolare, la preservazione e il miglioramento della qualità dell’aria e dell’acqua nell’Ue, l’attuazione del quadro 2030 dell’Ue per il clima e l’energia , nonché l’assolvimento degli impegni assunti con l’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. E’ poi previsto un nuovo sottoprogramma specifico per stimolare gli investimenti e sostenere le attività finalizzate all’efficienza energetica per le regioni europee che sono in ritardo nella transizione verso l’energia pulita.

Nell’ambito tradizionale del programma Life, la tipologia specifica dei “progetti strategici di tutela della natura” destinata a tutti gli Stati membri concorrerà ad integrare gli obiettivi in materia di natura e biodiversità in altre politiche e programmi di finanziamento quali l’agricoltura e lo sviluppo rurale, per migliorare la coerenza d’impostazione trasversalmente ai settori. L’accordo provvisorio deve ora essere formalmente approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio. Gli aspetti di bilancio e le disposizioni orizzontali correlate inerenti al futuro programma Life sono soggetti all’accordo generale sul prossimo bilancio a lungo termine dell’Ue che la Commissione ha proposto nel maggio 2018.

Trasparenza sui prelievi dal Lago di Bracciano

Nei mesi scorsi l’Ente Parco, le Istituzioni del Lago, i Comitati e le Associazioni del territorio hanno richiesto alla Regione Lazio la possibilità di installare un misuratore di portata dei prelievi d’acqua di Acea Ato 2 dal Lago di Bracciano.
L’Ente Parco, incaricato dalla Regione delle attività di controllo, il prossimo 22 marzo nel corso di un’assemblea pubblica presenterà alla cittadinanza il nuovo misuratore installato nei mesi scorsi presso il Nuovo Acquedotto di Bracciano in loc. Marmotta e che sarà fruibile online sul sito del Parco, www.parcobracciano.it.

Questo importante risultato è stato possibile solo grazie al convinto e tempestivo intervento della Regione Lazio.

Ad un anno e mezzo dallo stop del prelievo (13 settembre 2017), il lago di Bracciano, trovandosi oggi a -146cm ha recuperato circa 35cm e continuerà a recuperare presumibilmente fino ad inizio giugno. Nel rispetto delle previsioni degli esperti, ci vorrà ancora qualche anno prima che ritorni al suo livello di equilibrio naturale, motivo per il quale le istituzioni del Lago ribadiscono con forza l’importanza di mantenere lo stop ai prelievi finché tale livello non verrà raggiunto.

 

 

Puglia: I nuovi regolamenti per il settore sociosanitario

Giovedì 21 marzo 2019 – con inizio alle ore 9.45 – si terrà presso la Fiera del Levante, nella sala convegni n. 2 del padiglione istituzionale della Regione Puglia (pad. n. 152), una giornata di approfondimento sul tema “I nuovi regolamenti regionali 4 e 5 del 2019 per il settore sociosanitario”.

L’incontro avrà ad oggetto l’illustrazione delle novità introdotte ed, in particolare, delle modalità attuative degli stessi dopo la loro entrata in vigore.
All’iniziativa parteciperanno l ‘Assessore Ruggeri,  i dirigenti e i funzionari del Dipartimento Promozione della Salute e del Benessere Sociale competenti della materia.
Sono invitati a partecipare tutti i responsabili delle strutture operanti nel settore sociosanitario che abbiano interesse a comprendere l’evoluzione della normativa regionale ed i futuri sviluppi dell’azione amministrativa regionale.

Si tratta di un’occasione importante di confronto per chiarire dubbi, interpretazioni, incomprensioni e per illustrare i tempi di attuazione previsti dalle due Delibere di Giunta regionale per l’approvazione definitiva dei regolamenti.

Alla ricerca di uno stadio più alto di civiltà

Articolo tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di  Francesco Malgeri

Ricordiamo a cento anni dalla nascita, una delle figure più rappresentative della storia dell’Italia repubblicana, espressione di una viva e intensa sensibilità sociale e politica. Questa sensibilità Carlo Donat-Cattin l’aveva maturata in seno alla sua famiglia, grazie all’esempio del padre che aveva militato nel popolarismo sturziano, e l’aveva consolidata alla scuola dell’Azione cattolica, durante gli anni del fascismo, entrando in contatto con ambienti culturali come il cenacolo domenicano torinese, animato da padre Marcolino Daffara e padre Enrico di Rovasenda. Non aveva mancato di dedicare la sua attenzione anche alla scuola economica dell’Università cattolica di Milano, che aveva in Francesco Vito e nel giovane Amintore Fanfani gli studiosi più accreditati. La Resistenza, che lo vide impegnato nella zona del Canavese, rappresentò per lui un’ulteriore scuola di libertà e democrazia.

Nell’immediato secondo dopoguerra il suo impegno si orientò prevalentemente sul versante sindacale. Militò nelle Acli, fu dirigente a Torino della Libera Cgil e dal 1950 della Cisl. Mai abbandonando, però, l’attenzione alla politica, con l’obiettivo di trasferire in seno al partito della Democrazia cristiana, una cultura, un pensiero, una scuola ispirata all’azione sociale e sindacale. Fu espressione e leader di quella Sinistra sociale che attraverso “Forze sociali”, poi “Rinnovamento” e infine dal 1964 “Forze Nuove”, riflettendo le istanze del pensiero sociale cristiano e l’esigenza di trasferire le attese del mondo del lavoro in seno a un partito interclassista, assumendo la funzione di gruppo propulsore di nuovi equilibri politici. Potremmo affermare che Donat-Cattin fu un sindacalista prestato alla politica, ma anche uomo di partito e di governo, che si distingueva per la sua straordinaria sensibilità sociale.

Il suo passaggio alla politica avviene all’inizio degli anni Cinquanta, quando la Democrazia cristiana conobbe il tramonto del dossettismo, l’emergere di Iniziativa democratica e di un ricambio generazionale alla guida del partito con il progressivo declino della leadership degasperiana.

Sono anni carichi di attese e di speranze. Gli anni che segnano l’avvio del miracolo economico, destinato non solo a favorire un balzo in avanti dell’economia italiana e una straordinaria accelerazione allo sviluppo industriale del paese, ma anche a incidere sul costume, sulla mentalità e i comportamenti degli italiani. Una crescita che conobbe anche alti costi sociali segnati, tra l’altro, dalle grandi migrazioni che dalle regioni meridionali hanno trasferito nel triangolo industriale una massa eccezionale di forza lavoro.

Matura in questi anni anche una delle più significative svolte politiche conosciute dalla storia della democrazia repubblicana, con un processo che porta al superamento del tradizionale quadro politico, ancorato ai partiti del centro democratico, e all’inserimento nell’area di governo del partito socialista che, superando lo schema frontista, si proponeva come forza politica disponibile all’incontro e alla collaborazione con le forze di democrazia laica e cattolica.

Siamo negli anni che, sul piano internazionale registrano importanti novità: dalla destalinizzazione in Unione sovietica, alle rivoluzioni polacche e ungheresi, al processo di distensione avviato da Kruscev, all’avvento di Kennedy alla Casa Bianca. Un processo che suscitò grandi speranze, animate anche dall’avvento di Giovanni XXIII al soglio pontificio e dal grande rinnovamento della Chiesa cattolica operato nella stagione del Concilio Vaticano II.

È in questo contesto storico e politico che Donat-Cattin entra a pieno titolo nella vita politica. Consigliere nazionale della Dc dal 1954, deputato dal 1958 e membro della direzione del partito dal 1959, dopo le elezioni del 1963, cominciò una lunga esperienza di governo, come sottosegretario alle partecipazioni statali nei primi tre governi di centro-sinistra, guidati da Moro, dal dicembre 1963 al giugno 1968.

L’impegno di governo era una esperienza nuova per Donat-Cattin. Una esperienza che gli offre l’occasione per cogliere le molte e significative realtà dell’economia italiana. Se scorriamo i suoi interventi parlamentari in quegli anni vediamo emergere i molti problemi dell’industria pubblica da lui affrontati: dall’Italsider, alla Rai, all’Ansaldo, all’Alfa Romeo, all’Eni, all’Agip, alle acciaierie di Bagnoli, alla Cogne, alla Tirrenia, all’Alitalia e così via.

Il suo impegno di governo gli consentì di affrontare, con una intensa partecipazione, piccoli e grandi problemi che attraversano la vita economica e industriale del nostro paese, spesso con ricadute che investono il mondo del lavoro.

Donat-Cattin coltivava la speranza e l’ambizione di favorire la crescita di un sistema economico in grado di offrire all’uomo, al lavoratore uno sviluppo non alienante, ma costruito sulla base di equilibri che tengano conto soprattutto del rispetto dei valori più profondi che devono animare la convivenza civile. A suo avviso, il centro-sinistra avrebbe dovuto costruire uno «stadio più alto di civiltà».

Prende corpo in questi anni la sua amicizia e collaborazione con Aldo Moro. Si trattò di un rapporto intenso e profondo. La formazione sociale e sindacale di Donat-Cattin, forgiatasi nella durezza degli scontri e delle rivendicazioni del movimento operaio torinese, sorretta dalla chiara idea di un partito che doveva farsi carico delle esigenze e dei bisogni del mondo del lavoro, forse mal si conciliava con l’elaborazione culturale e politica di un intellettuale del Mezzogiorno, che aveva maturato le sue scelte politiche sulla base di una fede profondissima, di una profonda formazione filosofica e giuridica. Probabilmente lo affascinò di Moro l’eccezionale capacità di lettura e interpretazione dei fenomeni sociali, a partire da quel discorso pronunciato nel novembre 1968, sui «tempi nuovi», sul «moto irresistibile della storia» e su una «nuova umanità che vuol farsi».

Attento osservatore della società italiana, a Donat-Cattin non sfuggirono, alla fine degli anni Sessanta, i segnali che provenivano dai mutamenti generazionali e dalle agitazioni studentesche, oltre che operaie. Egli cercò di coglierne il carattere e gli obiettivi, vi rintracciò prospettive «ancora confuse» e «non omogenee», ma anche la denuncia nei confronti degli aspetti autoritari dei sistemi politico-economici, che avevano «la disponibilità — affermò — dei mezzi di controllo e di manipolazione approntati dallo sviluppo tecnologico». Ebbe anche tentazioni scissionistiche, ben presto rientrate, nella convinzione che «senza radici storico-sociali l’avventura politica del cristiano si limita a testimonianza».

Momento significativo nella biografia politica di Donat-Cattin, fu la nomina, nell’agosto del 1969, a ministro del lavoro nel secondo governo Rumor, confermato nel terzo Rumor e nei successivi governi di Colombo e di Andreotti, sino al giugno 1972. Donat-Cattin assumeva la carica che era stata del socialista Giacomo Brodolini, morto nel luglio 1969.

Toccò proprio al vecchio sindacalista, al «ministro dei lavoratori» Donat-Cattin, gestire la drammatica situazione segnata dall’esplodere delle agitazioni sindacali del 1969, di quell’autunno caldo che fu soprattutto una risposta alla crisi determinatasi dalla conclusione del processo espansivo dell’economia italiana e dalla diminuzione degli investimenti industriali.

Il successo più significativo del ministro, grazie all’azione congiunta dei sindacati e della Dc, impegnati sul piano politico e sindacale, fu l’approvazione da parte del Parlamento nel 1970 dello Statuto dei lavoratori, che fissava precise norme a tutela del mondo del lavoro. Donat-Cattin ebbe a definirlo «un fondamento dello Stato democratico» e «il completamento del sistema di libertà» nel paese.

Alla fine degli anni Settanta, nel clima di emergenza economica, sociale e terroristica, Donat-Cattin, sia pure con qualche esitazione e riserve iniziali, aveva condiviso il progetto di Moro, tendente a coinvolgere il Pci nell’area di governo. Aveva giudicato un «capolavoro politico» il modo con cui Moro era riuscito a realizzare quel disegno, che doveva portare a un governo di «tregua» e di «transizione».

Seguirono i giorni drammatici del sequestro e dell’assassinio di Moro, che Donat-Cattin visse con passione e sgomento. Lo confermano le lettere ad Andreotti e la disperata ricerca di una via d’uscita per salvare la vita del suo amico.

Anche le lettere di Moro dal carcere lasciarono un segno nell’animo di Donat-Cattin. Quelle parole, a volte crude e pesanti, svelavano, a suo avviso, «pagine tristi di uno squallido mondo del potere». Quelle pagine, scriveva il vecchio sindacalista con la sua consueta franchezza, «scavano giudizi contro il sistema e contro di noi democratici cristiani». «Sapremo costituire — si chiedeva — quel senso che lasciano con una immagine più vicina a quella di una Dc che ha saputo risollevare l’Italia col sacrificio, la dedizione, il disinteresse di tante guide e di tanti militanti?». Il leader di Forze nuove tornò più volte a interrogarsi su quel difficile e drammatico momento, cercando di trovare nella propria coscienza le ragioni di una scelta difficile e penosa. «Se pure la scelta era difficile — scrisse nell’ottobre del ’90 — chi era amico di Moro la compì con libera e scrupolosa coscienza», precisando che «la coscienza è sempre in qualche misura condizionata dal costume, dagli influssi dominanti della cultura».

La tragica scomparsa di Moro, il venir meno della solidarietà nazionale con il progressivo disimpegno del Pci, e l’emergere della disponibilità socialista a far parte di un esecutivo basato sulla formula del pentapartito, convinse Donat-Cattin a escludere qualsiasi forma di collaborazione governativa con il Pci. Nel 1980 fu l’estensore del «preambolo» alla mozione della maggioranza al Congresso, che accoglieva una pregiudiziale contraria al coinvolgimento del Pci nell’area di governo.

Molti interpretarono questa sua linea se non un tradimento certo un radicale abbandono delle sue antiche battaglie. In realtà, rileggendo oggi, a circa quarant’anni di distanza quella vicenda, va ricordato che la sua posizione era riflesso di una diversa e contrapposta visione dello Stato. Donat-Cattin rifiutava l’idea dello Stato socialista inteso come «economia statizzata e burocratizzata», «liquidazione della libertà di un paese». Giudicava fatale per la democrazia, «una maggioranza pressoché unanimistica, con tutti e due i piedi dentro la “democrazia consociativa” senza controllo, slittante verso la strategia incontrollabile di piccoli gruppi dirigenti».

Ma egli intendeva anche evitare che la Dc venisse sospinta a destra, a interpretare un ruolo conservatore nel quadro politico nazionale. Aveva affermato, un anno prima, il 12 agosto 1979 alla Camera, per definire la fisionomia del suo partito: «Noi non siamo marxisti né siamo liberali. Siamo cresciuti nel solco tracciato per faticosi decenni nella gleba dell’Italia contadina, tra le minoranze cattoliche dei quartieri operai e degli opifici di vallata della prima e della seconda industrializzazione, nel popolo minuto dedito all’artigianato e al commercio, nella schiera interminabile di educatori, intellettuali, uomini di pensiero, nella più ristretta schiera di imprenditori, di scienziati, di ricercatori chiamati alla vita sociale dalla ispirazione cristiana (…) E siamo i continuatori della tradizione politica del popolarismo».

La drammatica vicenda di suo figlio Marco lo spinse ad abbandonare, il 31 maggio 1980, l’incarico di vicesegretario del partito e qualsiasi carica politica. Furono momenti durissimi, laceranti che lasciarono pesanti segni su un uomo forte e coraggioso come Donat-Cattin. Lo sorresse la sua fede. Scriveva a Cossiga il 4 luglio 1988, dopo la morte di Marco: «La fede è faticosa per la mia logorata umanità. Eppure “tutto è Grazia”».

Tornò alla politica tra il 1986 e il 1989 come ministro della Sanità e di nuovo ministro del Lavoro con Andreotti nel 1989. Sono gli anni in cui matura la crisi del sistema politico italiano. Donat-Cattin non credeva che la soluzione si dovesse trovare nel cambiamento del vecchio sistema, imperniato sul ruolo centrale dei partiti e sul sistema proporzionale. Temeva fortemente un cambiamento poco ponderato, che rischiava di incidere negativamente sulla vita democratica nazionale. Temeva soprattutto le avventure plebiscitarie, i partiti personali, il peso eccessivo e l’ingresso sempre più invadente del potere economico e finanziario nella vita politica italiana.

La sua morte, avvenuta il 17 marzo 1991, precede di poco le grandi trasformazioni destinate a modificare radicalmente quel sistema politico nel quale Donat-Cattin si era formato e aveva operato. Precedeva di poco anche la conclusione della lunga esperienza politica della Democrazia cristiana, di cui era stato una delle espressioni più vivaci e coerenti, avendone animato i dibattiti con l’obiettivo di rivendicare il “primato del sociale” e di riaffermare la natura popolare del suo partito.

 

All’Italia (e al Pd) serve un “centro”

Pubblicato in origine su “Il Foglio” il 12 marzo 2019 a firma di Umberto Minopoli

Il problema politico italiano è il centro. Il fatto che non esista, come formazione autonoma e visibile, è la fonte dei nostri problemi di governabilità. Ed è ciò che ingarbuglia la crisi politica latente.

Abbiamo quattro forze che si spartiscono lo spettro politico elettorale: Lega, Pd, Forza Italia, M5S. Non sono uguali tra loro. Non solo per pesi elettorali. Ma per capacità e possibilità di coalizione: la Lega ne ha sin troppa, il Pd non ne ha nessuna.

Forza Italia è un equivoco. Ha rinunciato ad una sua autonomia e si è consegnata a uno schema unico che consegna il suo destino ad un alleato desiderato (Salvini) che, al momento, lo vede più come fastidio che come partner. Nei fatti Forza Italia sta scomparendo dallo scacchiere.

Il tripolarismo è fonte di instabilità

Il problema di Lega, Pd e 5 Stelle è questo: non esiste composizione possibile o ipotizzabile tra loro che non riproduca il limite attuale del governo Lega-M5S: coalizioni estremiste, sbilanciate, radicali in economia, perennemente in fibrillazione, instabili.

Abbiamo una legge elettorale che impone coalizioni. Ma abbiamo uno scacchiere politico che non consente coalizioni stabili, equilibrate, moderate (come deve essere, obbligatoriamente, una maggioranza di governo in una democrazia parlamentare normale).

Questo è il problema italiano: l’attuale tripolarismo è solo fonte di instabilità. O si cambia la legge elettorale (di nuovo?) o si cerca di ristrutturare il sistema. E di creare quello che non c’è: una forza cuscinetto, per natura moderata, equilibratice, lagrangiana (in astronomia il punto equidistante tra i corpi massivi che annulla la reciproca gravità), equidistante e coalizzabile a destra e a sinistra. Qualcuno in passato aveva ipotizzato che i 5 Stelle potessero svolgere tale funzione. Una palese idiozia: un partito populista è il più distante e lontano da tale potenziale funzione.

Il ‘centro’ è deserto

Forza Italia, ripetiamo, avrebbe potuto astrattamente puntare ad essere questo. Avrebbe dovuto rinunciare a Berlusconi, compiere una rivoluzione liberale (che scongelasse perfino i rapporti a sinistra), evolvere in direzione di un’analogia con la Cdu. E allora la politica italiana sarebbe stata diversa. Insomma tra Lega e Pd esiste un deserto politico in senso di formazioni moderate.

Esistono Forza Italia e 5 Stelle che, oggettivamente, non sono formazioni moderate e adatte a fungere da contrappeso e asse di equilibrio del sistema. Lega e Pd, pur con fortune elettorali diverse, sono nel guado. Non possono ovviamente (allo stato attuale) allearsi tra loro. Ma hanno entrambe costrizioni di alleanze problematiche e, specie nel caso del Pd, illusorie.

Perfino la Lega. Essa ha a disposizione due risultati: fagocitare Forza Italia e puntare alla maggioranza di centrodestra; rendere stabile, al contrario, la maggioranza giallo verde. Questa seconda ipotesi è quella che oggi appare critica: dissesta i 5 Stelle che si radicalizzano e, per rassicurare l’alleato, costringe Salvini a conflitti col proprio elettorato. Che, la sinistra dovrebbe finalmente dirlo, è sovranista e nazionalista ma, oggettivamente, meno populista e respingente in economia. Molti (in primo luogo in Forza Italia ma anche a sinistra) ritengono, per questo, inevitabile e scontato (e solo questione di tempo) il ritorno di Salvini allo schema del centrodestra unito.

Se il M5s arretra si radicalizza

Anche nel Pd c’è chi considera questa una utile semplificazione e il ritorno ad un bipolarismo destra-sinistra che è, ancora, l’unico schema di gioco concepibile dal Pd. Controcorrente ritengo, invece, assai problematico lo schema bipolare. In primis per il Pd. Ma anche per Salvini.

Il Pd è eccitato all’idea che lo smottamento dei 5 Stelle li consegni facilmente ad un’azione di conquista e dominio da parte del Pd (lodo Paolo Mieli).

Questo schema sottovaluta un aspetto: il distanziamento dei 5S da Salvini avviene radicalizzando il Movimento. Che, al termine del tormento in corso, si ritroverà ancora più radicale ed estremista. Un bel problema per il Pd.

Forse a tutti i giocatori in campo, al Pd come a Salvini, converrebbe che allo smottamento dei 5 Stelle corrispondesse una trasformazione del sistema. Ed un nuovo tripolarismo. In cui tra Lega e Pd si interponga un centro alleabile e coalizzabile. E non il magma informe dei 5 Stelle. Per Salvini, a mio avviso, un vero partito competitivo, non inanimato ed esangue come FI, liberale, moderato, europeista e antisovranista, partner possibile ma autonomo e distinto, netto e intransigente in economia (il partito che Monti costruì e poi disfece) potrebbe risultare una prospettiva meno ostica e spericolata che il “potere in solitario”. E certo è così per gran parte del suo elettorato e della classe dirigente della Lega.

Per il Pd i voti possono venire da destra e dagli astenuti

Ma anche per il Pd questa è la prospettiva più intelligente. Io non credo che Zingaretti possa essere, più di tanto, interessato al “recupero a sinistra”. A sinistra del Pd stagna uno spazio, ormai vuoto, occupato da residui di ceto politico, senza popolo e con idee stagnanti.

Il Pd può elettoralmente crescere in due bacini: alla sua destra e tra l’astensionismo. Quel che può prendere dai 5 Stelle (poco) verrà di default. Ma anche così – crescendo in queste aree – il Pd non risolve il suo problema: avere in Parlamento una formazione coalizzabile, al centro del sistema, liberale e moderata (come ha riconosciuto Prodi al Foglio). Ma attenzione: il Pd non può illudersi che un nuovo partito, liberale moderato, nasca per decreto del Pd (come nascevano, negli anni 50, i partiti del Fronte Popolare all’est). Che nasca dichiarando che si allea soltanto col Pd. Che prenda vita da aree, gruppi, personalità che “guardano (da sempre) a sinistra”.

Serve un autentico partito liberale e moderato

Una forza di centro, per essere tale e utile al sistema, deve essere un effettivo terzo polo tra Lega e Pd. Altrimenti riprodurremmo, a sinistra, il fallimento di Forza Italia. E poi: un partito centrista octroyee, costola a destra di una coalizione del Pd non porterebbe via voti a destra e toglierebbe al Pd, magari, voti già suoi. Un non senso. Creare in Italia un vero, nuovo, autentico partito liberale e moderato (una En Marche nelle particolarità politiche italiane) è una necessità dell’Italia.

Istat: Rallenta la crescita degli occupati a tempo pieno

Il 2018, complessivamente, si caratterizza per un nuovo aumento dell’occupazione – sia nei valori assoluti sia nel tasso – che coinvolge anche i giovani di 15-34 anni. Inoltre, al calo della disoccupazione si associa la diminuzione del numero di inattivi.

Nel corso dell’anno il quadro occupazionale ha mostrato un lieve peggioramento: nel quarto trimestre 2018 si osserva una diminuzione dell’occupazione rispetto al trimestre precedente, in un contesto di aumento della disoccupazione e di calo dell’inattività. Queste dinamiche congiunturali del mercato del lavoro riflettono il calo dei livelli di attività economica rilevato nello stesso periodo, con una flessione del Pil (-0,1%) per il secondo trimestre consecutivo, dopo quattordici trimestri di espansione. Con riferimento all’input di lavoro, nel nostro Paese, alla flessione congiunturale del Pil si associa quella delle ore lavorate su base congiunturale (-0,3%) e un rallentamento della crescita in termini tendenziali (+0,4%).

Dal lato dell’offerta di lavoro, nel quarto trimestre del 2018, il numero di persone occupate diminuisce rispetto al trimestre precedente (-36 mila, -0,2%) a seguito di un modesto calo per i dipendenti, in particolare a termine, e di una riduzione più accentuata per gli indipendenti. Il tasso di occupazione rimane stabile al 58,6%. Nei dati mensili più recenti (gennaio 2019), al netto della stagionalità, il tasso di occupazione rimane invariato e il numero di occupati mostra una lieve crescita rispetto a dicembre 2018, sintesi del calo degli indipendenti e dei dipendenti a termine più che compensato dall’aumento dei dipendenti a tempo indeterminato.

Nell’andamento tendenziale si riscontra una crescita di 87 mila occupati (+0,4% in un anno), dovuta ai dipendenti a termine e agli indipendenti (+200 mila e +12 mila, rispettivamente) mentre calano i dipendenti a tempo indeterminato (-125 mila); l’incidenza dei dipendenti a termine sul totale dei dipendenti raggiunge nel 2018 il 17,1% (+1,1 punti). Rallenta la crescita degli occupati a tempo pieno mentre tornano ad aumentare i lavoratori a tempo parziale, a seguito dell’ulteriore incremento della componente involontaria che in termini di incidenza sale al 64,4% (+3,2 punti) dei lavoratori a tempo parziale e al 12,0% del totale degli occupati.

Nel confronto tendenziale, seppure a ritmi meno intensi, per il settimo trimestre consecutivo prosegue la diminuzione dei disoccupati (-105 mila in un anno, -3,6%) che interessa entrambi i generi, le diverse aree territoriali e tutte le classi di età, a eccezione degli over50. Dopo la crescita dello scorso trimestre, tornano a diminuire gli inattivi di 15-64 anni (-100 mila in un anno, -0,8%).

Il tasso di disoccupazione aumenta rispetto al trimestre precedente ma diminuisce in confronto a un anno prima; tale andamento si associa a un calo congiunturale e tendenziale del tasso di inattività delle persone con 15-64 anni. Diversamente, nei dati mensili di gennaio 2019 i tassi di disoccupazione e di inattività sono sostanzialmente stabili in confronto a dicembre 2018.

Analizzando i dati di flusso si stima una diminuzione della permanenza nell’occupazione, soprattutto per i giovani di 15-24 anni e per i diplomati. Dalla condizione di disoccupazione aumentano le transizioni verso l’inattività, soprattutto tra i giovani di 15-24 anni, gli uomini e nel Mezzogiorno.

Dal lato delle imprese, prosegue la crescita della domanda di lavoro, con un aumento delle posizioni lavorative dipendenti dello 0,3% sul trimestre precedente e dell’1,8% su base annua, sintesi della crescita sia dell’industria sia dei servizi. A fronte dell’aumento delle posizioni lavorative si registra un calo delle ore lavorate per dipendente pari allo 0,2% su base congiunturale e allo 0,8% su base annua. Il ricorso alla cassa integrazione registra una variazione ancora negativa ma di minore entità. Il tasso dei posti vacanti aumenta sia su base congiunturale sia su base annua, rispettivamente di 0,1 e 0,2 punti percentuali. Il costo del lavoro cresce dello 0,3% rispetto al trimestre precedente e dell’1,9% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, sintesi di un aumento degli oneri sociali (+0,3% su base congiunturale e +4,5% su base annua) e delle retribuzioni (+0,3% su base congiunturale e +1,0% su base annua).

Merkel: “Serve una portaerei europea”

Il cancelliere tedesco Angela Merkel sostiene la costruzione di una portaerei per l’Ue da parte di Germania e Francia, proposta avanzata nei giorni scorsi dal presidente dell’Unione cristiano-democratica, Annegret Kramp-Karrenbauer.

Qualora venisse realizzata, la portaerei sarebbe la componente navale che si aggiungerebbe ai progetti franco-tedeschi per la difesa europea già in corso di realizzazione: il carro armato Embt e il sistema da combattimento aereo del futuro.

Attualmente la Germania non dispone di alcun vettore di questo genere mentre la Francia che ha appena terminato la manutenzione straordinaria della sua unica portaerei a propulsione nucleare Charles de Gaulle, ha recentemente annunciato la necessità e l’intenzione di sviluppare una nuova portaerei per sostituire la De Gaulle, varata nel 2001.

Salario minimo: il 22% ha una retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi

Il 22% dei lavoratori dipendenti delle aziende private (sono esclusi gli operai agricoli e i domestici) ha una retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi, ovvero sotto la soglia individuata da uno dei disegni di legge sul salario minimo in discussione al Senato. Lo rivela l’Inps, sottolineando inoltre che il 9% dei lavoratori è al di sotto degli 8 euro orari lordi, mentre il 40% prende meno di 10 euro lordi l’ora. I dati sono contenuti in una memoria depositata in Commissione Lavoro al Senato.

Fissando la soglia del salario minimo a 9 euro lordi l’ora ci sarebbero 2,9 milioni di lavoratori che avrebbero un incremento medio annuo di retribuzione di 1.073 euro. La stima è dell’Istat: sarebbe coinvolto il 21% dei lavoratori dipendenti con un aumento stimato del monte salari complessivo – l’aggravio cioè del costo del lavoro per le imprese – di 3,2 miliardi di euro.

Lisa Vittozzi vince l’argento, grande impresa dell’atleta sappadina

La vita di Lisa Vittozzi si colora dell’argento  nella gara individuale 15 km dei Mondiali svedesi di biathlon in corso a Ostersund.

Infatti Lisa Vittozzi, 24 anni friulana di Sappada, già bronzo olimpico e mondiale in staffetta mista, bronzo mondiale in staffetta donne, conquista ad Oestersund in Svezia, l’argento dietro Hanna Oeberg

L’italiana non ha sbagliato un solo colpo. Ha mantenuto la tranquillità dal primo all’ultimo metro, andando avanti col suo passo, provando ad accelerare soltanto nella primissima parte dell’ultimo giro sugli sci..

Terza la francese Justine Braisaz. Grazie al podio odierno la Vittozzi vince anche la classifica di specialità in Coppa del Mondo. Ottava l’altra azzurra Dorothea

Un Comune sardo diventa la prima realtà onoraria del Veneto

Il 12 marzo, a Venezia l’assessore regionale ai flussi migratori Manuela Lanzarin, insieme al presidente del Consiglio regionale Roberto Ciambetti, premierà Arborea come primo comune onorario del Veneto. Un riconoscimento per le iniziative assunte a tutela della cultura e della civiltà veneta.

Nel 2017 la Regione Veneto ha istituito il registro dei Comuni onorari per valorizzare rapporti di reciprocità e di scambio con quelle comunità che sono state meta di emigrazione dei veneti e che hanno conservato, nella loro storia e nelle loro tradizioni, testimonianze significative dell’identità e della cultura locale. Con il registro è stato istituito anche un premio annuale da assegnare al Comune che meglio ha saputo conservare e promuovere il legame con le proprie radici valorizzandone l’apporto culturale.

La scelta è andata al Comune sardo, in provincia di Oristano, già gemellato con il Comune di Zevio (Verona) e Villorba (Treviso), proprio in forza della propria storia e composizione demografica e delle iniziative realizzate nel biennio 2017-18.

Arborea fu fondata come colonia agricola per la bonifica della piana di Marrubiu e il contrasto alla malaria. Grande fu l’apporto degli emigranti veneti che da Treviso, Rovigo, Vicenza, Padova e Venezia si trasferirono nella Piana del Campidano, sulla costa occidentale della Sardegna, per lavorare per la Società Bonifiche Sarde. Ancora oggi tra gli abitanti del piccolo comune sardo si parla il dialetto veneto, oltre all’italiano e al sardo campidanese. Tra le feste popolari di Arborea una delle più importanti è quella della Polenta, a fine settembre, in memoria delle tradizioni del secolo scorso.

La consegna del premio al Sindaco Manuela Pintus e alla comunità di Arborea avverrà in concomitanza con il varo del programma 2019 delle iniziative regionali a favore dei veneti nel mondo, appena approvato dalla Giunta regionale nell’ambito del piano triennale dedicato alla conservazione dei legami regionali di oggi gli emigranti di origine veneta presenti nelle diverse parti del mondo.

Tra le iniziative in corso, finanziate con un budget complessivo di 445.000 euro, vi è anche il piano per promuove manifestazioni ed eventi culturali che facciano conoscere ai giovani la storia dell’emigrazione veneta e favoriscano incontri e scambi tra le comunità. La Regione sosterrà master universitari di primo e di secondo livello per ragazzi e ragazze veneti e oriundi veneti (30.000 euro), stages in aziende venete (35.000 euro), gemellaggi tra comuni veneti e comuni esteri (10.000 euro), premi per tesi di laurea e concorsi scolastici (10.000 euro lo stanziamento complessivo).

Particolare attenzione viene riservata, infine, al rientro dei veneti nel mondo: il programma 2019 sosterrà con 40.000 euro l’organizzazione di soggiorni nel territorio regionale per over 65 che, emigrati in giovane età o figli di emigranti, non abbiano avuto modo di conoscere la loro terra di origine.

“La premiazione di una comunità che ancora parla veneto come Arborea e il sostegno a gemellaggi e scambi tra veneti e discendenti di veneti emigrati all’estero – ha detto l’assessore Lanzarin – rientrano in un disegno unitario di valorizzazione della presenza dei veneti nel mondo: c’è un ‘sistema Veneto’ che si dilata ben oltre i confini regionali e nazionali e arriva ad abbracciare tutti i continenti, grazie alla presenza radicata e operosa di tanti emigranti e dei loro discendenti. Per il Veneto è un ‘valore aggiunto’ sia in termini di identità sia per le ricadute sociali ed economiche. Un valore che non vogliamo disperdere e che anzi intendiamo promuovere e far apprezzare alle generazioni più giovani”.

Dalì a Matera

La Persistenza degli Opposti è un percorso museale pensato per rappresentare i principali dualismi concettuali dell’arte di Dalí. Dalí era un uomo di opposti, e tale fu la sua filosofia. La sua operazione, quella di fondere visualmente e concettualmente idee apparentemente contrarie, è l’espressione stessa del grande dualismo fra razionale e irrazionale che pervade la sua opera. I quattro temi scelti per il percorso museale sono il Tempo, gli Involucri, la Religione e le Metamorfosi.

La mostra è organizzata dalla Dalí Universe, società diretta da Beniamino Levi e specializzata in Salvador Dalí che gestisce una delle più grandi collezioni private di opere d’arte dell’artista al mondo, con l’affiancamento dell’associazione culturale Circolo La Scaletta e del Comune di Matera, impegnato nelle installazioni esterne sul territorio urbano.

Sono circa duecento le opere autentiche di Salvador Dalí in esposizione; tre monumentali, l’Elefante Spaziale, il Piano Surrealista e la Danza del Tempo II sono state montate nelle vie del centro storico di Matera; le altre, che comprendono sculture museali grandi e piccole, illustrazioni, opere in vetro, libri illustrati e arredi, sono state collocate nella cornice suggestiva del complesso rupestre di Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci nel cuore dei Sassi di Matera.

La Mostra si arricchisce di una serie di exhibit multimediali che rendono il percorso multisensoriale e ampliano la percezione emozionale del visitatore, rendendo La Persistenza degli Opposti un evento unico nel suo genere e fortemente innovativo rispetto a tutte le precedenti esposizioni dedicate a Dalí.

Ologrammi, realtà virtuale, proiezioni 3D, video mapping, sono fra gli exhibit di forte impatto sensoriale prodotti dalla società Phantasya srl, che completano la fruizione delle opere dell’artista e definiscono una esperienza completa e totalmente immersiva. La presenza di un’area cinema con la proiezione di un docufilm dedicato alla mostra e di un laboratorio multimediale a scopo didattico rendono la mostra fortemente interessante per un pubblico più ampio e anche più giovane.

Sindrome da fatica cronica. Che cos’è?

La sindrome da fatica cronica (in inglese Chronic Fatigue Syndrome, sigla CFS), anche detta encefalomielite mialgica o malattia da intolleranza sistemica allo sforzo (Systemic exertion intolerance disease – SEID) comunemente indicata come CFS/ME, è una malattia multifattoriale idiopatica che viene descritta da un rapporto dell’Institute of Medicine (IOM) pubblicato nel febbraio 2015 come una «malattia sistemica, complessa, cronica e grave», caratterizzata da una profonda stanchezza, disfunzioni cognitive, alterazioni del sonno, manifestazioni autonomiche, dolore e altri sintomi, che sono peggiorati da uno sforzo di qualsiasi tipo.

I sintomi sono ricondotti essenzialmente a severa fatica, disturbi del sonno e peggioramento dei sintomi a seguito di sforzi, a cui possono aggiungersi problemi cognitivi e di concentrazione, dolore e stordimento.

Essa colpisce in prevalenza le donne e può colpire anche bambini e adolescenti.

Come il già citato rapporto dello IOM, anche una ricerca europea ha dimostrato che i pazienti di CFS/ME patiscono una peggiore qualità della vita rispetto ai malati di molte gravi patologie più conosciute. Questo può spiegare perché, sebbene il tasso di mortalità naturale nella CFS non sia superiore rispetto a quello della popolazione sana, la malattia comporti un aumento di 7 volte nel rischio di suicidi.

Per quanto riguarda la cura non vi è una vera e propria terapia

Un approccio terapeutico che ha mostrato risultati apprezzabili è quello che riguarda la cura della permeabilità intestinale e della disbiosi.

Comunemente vengono molto usati farmaci anti-sintomatici per contrastare rispettivamente i sintomi più invalidanti, come gli antidolorifici, gli antidepressivi e gli antinfiammatori contro i dolori, e gli stimolanti contro la difficoltà di concentrazione e l’astenia.

Il web compie 30 anni: la rete ci ha reso più liberi e solidali? intervista a don Fabio Pasqualetti

Articolo già apparso sulle pagine di Vatican News a firma di Roberta Gisotti

30 anni fa, il 12 marzo 1989, la nascita del World Wide Web, così come era stato concepito dal suo ideatore, l’ingegnere informatico inglese, Tim Berners-Lee, giovane ricercatore del Cern di Ginevra; aveva 34 anni quando propose di organizzare in modo efficiente le innumerevoli informazioni che venivano raccolte durante gli studi nel più grande laboratorio al mondo di fisica nucleare, attraverso un sistema, basato su ‘ipertesti’ e ‘link’, che permetteva di collegare tra di loro diversi documenti contenuti nei computer.

Il mondo intero collegato in tempo reale

Due anni di lavoro e Berners Lee fu pronto, il 6 agosto del 1991, per rendere operativa l’idea: dopo avere scritto il codice del World Wide Web, aveva creato un nuovo linguaggio di programmazione chiamato Html (hypertext markup language), aveva dato ad ogni destinazione del web un nome specifico, chiamato Url (universal resource locator), e aveva progettato l’Http (hypertext transfer protocol): un insieme di regole che permettevano alle informazioni di essere scambiate in tempo reale su internet. I tempi erano maturi per estendere a tutti, gratuitamente, il protocollo del www, fatto storico che avvenne da parte del Cern il 30 aprile del 1993.

Condivisione, apertura, collaborazione

Cosa è rimasto oggi dei principi etici di condivisione, apertura e collaborazione che ispirarono Berners-Lee e tanti altri suoi colleghi che parteciparono a rendere reale un sogno che sapeva di magia? Il world wide web è stata un’innovazione non solo tecnologica ma culturale, che in tempo brevissimo ha globalizzato i saperi, invaso ogni ambito della vita individuale e collettiva, segnando l’inizio – secondo alcuni pensatori – di una nuova era antropologica. Nel frattempo lo scenario di riferimento è profondamente mutato e non offre garanzie adeguate di democrazia, di rispetto dei diritti umani, di sicurezza per gli utenti, come ha denunciato ieri lo stesso Berners-Lee, in un messaggio per l’anniversario. “Sarebbe disfattista – scrive – pensare che il web che conosciamo non possa eesere cambiato in meglio nei prossimi 30 anni. Se rinunciamo a costruire un web migliore ora non sarà il web ad averci deluso ma noi ad aver fallito”.

Un bene comune, senza regole, dominato da pochi soggetti

La rete nel terzo millennio è ormai abitata da oltre metà dell’umanità ma sono pochissimi i soggetti che la dominano e gestiscono, trattano tutti i dati sensibili delle persone e delle attività che vi si svolgono e ne traggono profitti. Ciò è avvenuto in assenza di regole che abbiano chiaramente definito e tutelato la natura di bene comune della rete, salvo poi tentare di legiferare in ritardo, quando i poteri già costituiti risultano un fortino inespugnabile per parlamenti e governi, attraversati da pressioni lobbistiche di interessi mediali, economici e politici collegati. Di questa identità sovranazionale fuori controllo degli Stati, si sono approfittate anche le organizzazioni criminali, insediatesi nel cosiddetto deep web, oltre 500 volte più esteso di quello emerso, dove si traffica di tutto protetti dall’anonimato, contrastati con grande difficoltà dalle Polizie postali, che stentano a collaborare e a trovare strategie comuni di lotta sul fronte informatico.

Dubbi, rischi e sfida da affrontare

La nascita del world wide web ha sollevato un’ondata di eccessivo ottimismo all’inizio che ha lasciato il posto ora ad interrogativi, dubbi e sfide da affrontare, come sottolinea don Fabio Pasqualetti, decano della Facoltà di Scienze della comunicazione alla Pontificia Università Salesiana, esperto di comunicazione e nuove tecnologie,

Ascolta l’intervista a Fabio Pasqualetti

R. – Il problema è che noi prima di tutto abbiamo creato una globalizzazione dei mercati, e la tecnologia l’ha altamente favorita, ma non abbiamo ancora una governance mondiale; si è poi sviluppata anche la globalizzazione dei servizi internet e verso gli anni 2000-2002, quando sono iniziati i blog prima e i social network dopo, abbiamo offerto l’autorialità, la possibilità a chiunque di esprimersi su tutto, ma ciò avveniva senza parametri di riferimento e senza troppi criteri di regolamento. Oggi ci troviamo con delle problematiche non indifferenti sulla privacy e sul controllo degli utenti. Certamente lo scandalo della Nca, sullo spionaggio dei cittadini americani e non, ci ha fatto ben capire quanto sia complessa la rete globale e quanti siano gli interessi in gioco da parte delle multinazionali, delle istituzioni, dei governi, degli eserciti. Quindi certamente è un bel groviglio su cui riflettere e pensare; in più stiamo vedendo che questa tecnologia di accesso al sapere e di grande raccolta di informazione tende a delegare un po’ tutte le funzioni che prima avevamo, come ad esempio quella di memorizzazione: oggi si sa – attraverso studi fatti – che tendiamo a memorizzare di meno perché confidiamo e ci affidiamo sempre di più ai dispositivi che ci danno accesso all’informazione. Poi ci sono tante altre problematiche a livello di apprendimento e di socialità, perché la promessa dei social network spesso è quella di fare incontrare gli altri ma i risultati a volte sono che la gente si sente più isolata e più frustrata di prima. Quindi bisognerebbe capire anche qui il perché. Non credo che sia semplicemente dovuto alla tecnologia; ci sono tanti fattori da analizzare a livello culturale, a livello anche sociale, a livello di quella che è l’onda lunga di una cultura anche molto individualista, che credo sia entrata in gioco e che la tecnologia ha poi potenziato attraverso forme di narcisismo.

Prof. Pasqualetti, come è cambiata invece la comunicazione della Chiesa in questi decenni? Mi riferisco sia all’annuncio della Parola che proprio all’essere in rete.

R. – La Chiesa è stata innanzitutto sfidata principalmente a livello di struttura comunicativa. La Chiesa, potremmo facilmente riconoscere, ha sempre avuto una struttura comunicativa top down, cioè dai massimi vertici verso la base. Internet implica invece una modalità di comunicazione totalmente opposta: tutti a tutti, è orizzontale, non ha centro. Per cui la Chiesa ha dovuto accettare la sfida di entrare nella rete dovendo accogliere il fatto che è una delle voci fra tante voci. Credo che questa sia la sfida più grande, nel senso che effettivamente devi aver qualcosa di interessante da dire perché qualcuno venga a visitare i tuoi siti, faccia riferimento ai tuoi contenuti e quindi in un certo senso trovi anche uno spazio di confronto. Tuttavia non sono ancora molte le istituzioni e i siti ecclesiali che accolgono ancora un confronto diretto; molti accolgono magari dei contributi, ma sempre molto regolati; altri sono dei portali di informazione. Credo che però a lungo andare stia entrando l’idea che la modalità comunicativa – se si accetta di stare in questi ambienti digitali, nei social ad esempio – comporti inevitabilmente l’interazione diretta.

Sicuramente la Chiesa ha saputo, anche profeticamente, richiamare nei suoi documenti magisteriali il ruolo che deve avere la comunicazione internet.

R. – Il principio fondamentale della Chiesa che riguarda tutti i mezzi di comunicazione è che questi dovrebbero aiutarci ad umanizzarci sempre di più; questa è anche la grande sfida. La si può porre in un altro parametro simbolico tratto dal Vangelo: o il sabato è al servizio dell’uomo o l’uomo rischia di esser schiavo del sabato. Oggi, quali sono i nuovi sabati? Potremmo partire dall’economia, dallo sviluppo, dalla tecnologia che se orientate nelle nuove forme al servizio dell’uomo diventano davvero liberanti e si può progredire e crescere come umanità; nel momento in cui invece diventano strumenti di controllo, di potere, di sottomissione degli altri ovviamente schiavizzano. Allora, credo che anche qui la grande sfida è capire oggi in che direzione stiamo andando; capire, ad esempio, tutta la problematica degli algoritmi, del machine learning, di chi li usa, di chi li controlla, di che cosa si sta facendo, proprio per avere una maggiore conoscenza e coscienza di quale direzione stiamo prendendo come società e come umanità.

Le celebrazioni del trentennale

Le celebrazioni del trentennale del World Wide Web sono partite ieri dal Cern di Ginevra con l’evento Web@30, cui presiede Tim Berners-Lee, con la partecipazione di diversi altri esperti e pionieri della rete, che dibatteranno con il pubblico le loro visioni sul modo digitale di oggi e del futuro. Sul sito del Centro di ricerca nucleare è possibile seguire, in diretta streaming per 30 ore, gli incontri pubblici organizzati per l’anniversario in diverse città del mondo.

Centro, serve oggi. Senza nostalgie

Guido Bodrato con la consueta intelligenza e capacità di analisi, ci ha ammonito che un centro in Italia, oggi, può rinascere solo con la “cultura politica” e non sicuramente come una “categoria astratta tra la destra e la sinistra”. Una riflessione intelligente che non ci esime, però, dall’affrontare seriamente la concreta situazione italiana con cui dobbiamo fare i conti, oggi. Soprattutto dopo le primarie del Partito democratico che hanno dato una decisa, e del tutto giustificata, sterzata a sinistra.

Una sterzata politica e culturale interpretata con intelligenza ed autorevolezza dal neo segretario Nicola Zingaretti che, non a caso, proviene dalla antica e gloriosa tradizione del Pci/ Pds/Ds. Ma, al di là di questa filiera, e’ indubbio che se si vuol perseguire l’obiettivo, come ci ricorda appunto Guido Bodrato, di un “centro che guarda a sinistra” non si può fare a meno di ridare sostanza politica e caratura programmatica ad un movimento/partito/forza di centro.

Certo, un luogo politico che non può limitarsi ad essere un luogo puramente geografico o di semplice e banale posizionamento di potere. Ma un dato e’ certo, come ci ha ricordato l’Istituto Cattaneo dopo le primarie del Pd. E cioè, oltre il 60% di chi si è recato ai gazebo lo ha fatto perché rivuole un partito di sinistra. Chiaro, dichiarato, netto, palese e senza titubanze. Cioè, direbbe un commentatore non di parte, vuole una sorta di neo Pds 2.0. E’ del tutto evidente, di conseguenza, che questo partito non potrà non rideclinare un progetto di una forza politica dichiaratamente di sinistra.

E le prime avvisaglie le abbiamo già notate con il ritorno del caravanserraglio dei “testimonial progressisti”: i soliti noti milionari, elitari, aristocratici e alto borghesi. E, oltre a loro, la ricerca del nemico da abbattere, come è capitato per oltre 20 anni contro Berlusconi e il berlusconismo: adesso è il turno di Salvini e del cosiddetto “salvinismo”. Ossia, il progetto politico si basa più sulla demonizzazione politica e morale dell’avversario da distruggere che non sulla credibilità del proprio progetto. Ho voluto ricordare solo due aspetti, peraltro marginali ma significativi, per arrivare ad una conclusione politica.

E cioè, il ritorno della sinistra implica anche il ritorno di un partito di sinistra. Sarebbe inutile e anche un po’ ipocrita, sostenere il contrario o fingere che tutto ciò sia solo una invenzione giornalistica. Detto questo, e se si vuol perseguire il disegno di ricostruire una coalizione ampia e plurale, la questione del “centro” non potrà più essere banalmente elusa.

Certo, un centro anche plurale dove però la componente cattolico democratica e popolare deve essere sufficientemente visibile con un suo profilo politico, culturale e programmatico. Ne’ accessorio e ne’ marginale. Ecco, per arrivare alle “nuove sintesi” richiamata da Bodrato, non possiamo non partire però da queste considerazioni. Per questo motivo la questione di un centro moderato e riformista e’ attuale e pertinente oggi, pur senza nostalgie. E ritorna decisivo per l’agenda politica italiana.

Clima, Mattarella: “Siamo sullʼorlo di una crisi globale”

Rivolgo un saluto di grande cordialità al Presidente della Regione, al Presidente della Provincia, a tutte le autorità, al Vescovo, ai parlamentari, ai tanti sindaci presenti. Vorrei ringraziare in maniera particolare il Sindaco di Belluno per la sua accoglienza, per il suo saluto e confidargli che sono molto legato a questa provincia e alle sue montagne che ho frequentato di continuo durante la mia ormai lunga vita.

È una giornata particolare questa, in cui sottolineiamo eventi che hanno caratterizzato e contrassegnato queste montagne. Il Presidente della Regione e il Presidente della Provincia hanno evidenziato alcuni problemi. Vi sono problemi di cui si stanno occupando Governo e Parlamento, sui quali quindi non posso esprimermi. Ma posso farlo sulle olimpiadi – Presidente Zaia – che considero un’occasione di grande importanza, non soltanto per le Regioni e le città protagoniste ma per l’intera Italia. Le assicuro tutto il sostegno e l’appoggio possibile.

Poc’anzi, i due bambini – bravissimi – ci hanno introdotto con efficacia in quel che è avvenuto in ottobre, e mai come in quell’occasione – la tempesta Vaia – è stato chiaro all’opinione pubblica italiana che i mutamenti climatici in atto nel mondo comportano effetti pesanti anche sull’ambiente del nostro Paese e sulle condizioni di vita della nostra popolazione.

Sentir parlare della desertificazione di alcune regioni africane o dei violenti tifoni nei Caraibi, sulla costa occidentale degli Stati Uniti o in Asia, appariva descrizione di una realtà lontana, remota, che non ci riguardava.

Un evento straordinario – eccezionale, secondo gli esperti – ci costringe a fare i conti con la realtà della vita quotidiana, e a cercare – come ci ha esortato a fare il dottor Thyerry Luciani – di prendere atto dell’esigenza di “una maggiore comprensione dei fenomeni in atto”.

Perché è giusto osservare che limitarsi a evocare la straordinarietà di fatti che si affacciano prepotentemente, per giustificare noncuranza verso una visione e progetti di più lungo periodo, è un incauto esercizio da sprovveduti.

È a Belluno, oggi, che svolgiamo questa riflessione. È giusto farlo sulle Alpi. È giusto che sia la montagna, grande questione nazionale, assieme a quella di tutte le aree interne, a proporci, ancora una volta, il tema delle risorse naturali del nostro Paese, della loro tutela, della garanzia ai cittadini della “sicurezza dei territori”, come ha sottolineato il presidente della Provincia.

Qui in Veneto abbiamo avuto un positivo esempio di come la attivazione, in via preventiva, della rete di Protezione civile abbia potuto mitigare le conseguenze del disastro sulle persone, sulla base di accurate previsioni meteorologiche.

È la conferma di come il modello di collaborazione tra Regione, Prefetture, forze del volontariato, possa giocare un ruolo prezioso non solo nell’emergenza delle catastrofi una volta verificatesi ma, soprattutto, sul terreno della prevenzione per ridurne o evitarne le conseguenze.

È una lezione; che va fatta propria da tutte le istituzioni quando sono chiamate a compiere scelte che riguardano il futuro.

Io desidero – e avverto il dovere – di ringraziare ed elogiare intensamente quanti si sono prodigati in quei giorni con personale sacrificio, senso di solidarietà e abnegazione. Hanno elencato queste realtà, protagoniste di quei giorni, il Presidente della Regio ne e della Provincia e io ringrazio tutti con molto calore per quanto hanno fatto in quei giorni.

Tutto questo ci induce a riflettere che deve essere chiaro che il rapporto con la natura è fatto di rispetto degli equilibri dell’ecosistema, pur se l’umanità ha dimostrato una costante propensione a misurarsi quotidianamente con i limiti conosciuti.

La civiltà montana ha saputo confrontarsi con questi limiti e svilupparsi per millenni, in una competizione quotidiana con condizioni di vita non facili, ma ben inserita in questi ambienti, senza stravolgerli.

Dobbiamo sempre, nel nostro percorso verso il futuro, coltivare insieme innovazione e saggezza antica.

Devono andare di pari passo due atteggiamenti. Anzitutto la costruzione di una attenta regia e di solidarietà internazionali, per affrontare quei comportamenti che contribuiscono a cambiamenti climatici dalle gravi conseguenze.

Gli sforzi compiuti nelle diverse conferenze internazionali, che si sono succedute, hanno, sin qui, conseguito risultati significativi ma ancora parziali e insufficienti.

Siamo sull’orlo di una crisi climatica globale, per scongiurare la quale occorrono misure concordate a livello planetario. È il senso della sollecitazione pubblicamente sottoscritta, nell’autunno scorso, da alcuni Capi di Stato europei.

In secondo luogo – sul terreno delle concrete pratiche da parte delle istituzioni locali e nazionali – vanno respinte decisamente tentazioni dirette a riproporre soluzioni già ampiamente sperimentate in passato con esito negativo, talvolta premessa per futuri disastri.

Opere di contenimento e regimentazione, se non suffragate dall’apprendimento delle precedenti esperienze, talvolta ottengono risultati opposti a quelli prefissati, violando equilibri secolari da difendere.

Diversamente, rischiamo di ritrovarci altre volte a piangere vittime, frutto non della fatalità ma drammatica conseguenza di responsabilità umane.

L’amara e indimenticabile esperienza del Vajont ce lo insegna ogni momento.

Di fronte a tragedie come quella del Vajont la Repubblica è chiamata, anzitutto, a esprimere il proprio dolore a quanti, vittime e sopravvissuti, ne sono stati colpiti.

Ma non si può limitare al cordoglio. Come ho detto questa mattina, al Cimitero di Fortogna, ai rappresentanti delle associazioni che di quella tragedia custodiscono la memoria, la Repubblica è, in qualche modo, responsabile di quanto avviene sul suo territorio e quindi ha motivo di scusarsi con chi ha sofferto le conseguenze di disastri di questo genere.

Ma la Repubblica è anche, al contempo, vittima anch’essa delle scelte e dei comportamenti di coloro che hanno concorso causare immani sciagure come quella e io, rappresentando la Repubblica, nel porgere – come ho fatto questa mattina – le scuse a quei rappresentanti, mi colloco accanto a chi avverte il dolore di quei lutti immani e tra coloro che ne conservano la memoria.

Il territorio del nostro Paese è fragile e le conseguenze dell’abbandono dei territori, verificatosi sulle Alpi e sugli Appennini, vengono pagate, a caro prezzo, da queste zone ma anche dagli insediamenti urbani e produttivi in pianura.

Occorre proseguire sulla strada di iniziative per la salvaguardia degli assetti idro-geologici. Queste iniziative sono state ampiamente delineate dal Parlamento in questi decenni ed è necessario un impegno condiviso delle istituzioni ai vari livelli per svilupparli e attuarli concretamente.

La tutela ambientale e idro-geologica è amica delle persone, ne salvaguarda la vita e difende così il futuro delle nostre comunità, accompagnata, come deve essere, da un uso razionale e sostenibile delle risorse esistenti nell’area.

Il rilancio di una politica per la montagna e le popolazioni che la abitano va non solo nella direzione della effettiva affermazione della eguaglianza fra i cittadini della Repubblica, ma rappresenta una sfida per il recupero pieno di aree abbandonate o sottoutilizzate, preziose per il processo di crescita dell’Italia.

È una consapevolezza che trova diffusione anche a livello continentale, confermata dalla collaborazione nell’ambito di “Euregio senza confini”, della Regione Veneto, di quella del Friùli-Venezia Giulia, con il Land della Carinzia.

Quest’anno, inoltre, sarà esercitata dalla Lombardia la presidenza di Eusalp che costituisce, sin qui, l’ambito più ampio di cooperazione tra Regioni, Stati e Unione Europea in tema di montagna.

Rimane ancora molto strada da fare per un più incisivo impegno delle istituzioni comunitarie in argomento, né, sul tema della montagna, può essere considerato esaustivo il riferimento all’art.174 del Trattato sul funzionamento della Ue.

Ripristinare la buona salute di un territorio – come qui si sta provvedendo a fare – richiede laboriosità e tenacia, qualità che non difettano certo alle popolazioni di queste terre.

Esaurita rapidamente la fase dell’emergenza con il generoso contributo del mondo del volontariato, evocato qui da Ivo Gasperin, le ragioni del recupero, per non provocare alterazioni permanenti e gravi nel tessuto del bosco, si sono fatte imperiose, con il ritorno della buona stagione.

È bene ricordare che la Prima guerra mondiale aveva prodotto devastazioni immani nel Triveneto, anche sul piano ambientale.

Con impegno, in quel dopoguerra, misero radici importanti foreste e boschi divenuti “della memoria”. Sono quelli oggi duramente colpiti, così come quelli sull’altipiano tanto caro a Mario Rigoni Stern, che ha narrato le bellezze di queste montagne.

Appartiene alla vocazione del nostro popolo saper esprimere saggezza, fermezza e industriosità nei momenti più ardui, ed è una tradizione forte della gente di queste contrade.

Sono convinto che, ancora una volta, dalle “Terre alte” saprà venire un esempio di grande valore per tutta la nostra comunità nazionale, frutto del patrimonio di civiltà accumulato nei secoli dalle genti di montagna.

Rivolgo a tutti loro, attraverso i tanti sindaci qui presenti, un saluto cordialissimo e un grande augurio.

Disuguaglianze e postdemocrazia. Intervista a Colin Crouch

Articolo già apparso sulle pagine di www.pandorarivista.it a firma di  Eleonora Desiata

Seppur in declinazioni fra loro diverse, la questione sociale e il tema della disuguaglianze occupano posizioni di primo piano nelle piattaforme programmatiche della maggior parte delle forze politiche contemporanee, a cominciare da quelle che tendiamo a definire “populiste”. D’altra parte, il comportamento elettorale delle democrazie consolidate segnala ormai da qualche tempo un’insoddisfazione diffusa dei cittadini e la volontà di superare gli schemi del passato. In che cosa sono stati maggiormente manchevoli gli stati sociali dell’Europa occidentale, e in particolare quelli delle socialdemocrazie?

Colin Crouch: Il legame fra i cambiamenti che hanno interessato i sistemi di welfare europei e l’ascesa del populismo è molto complesso, di certo le socialdemocrazie ne hanno risentito immensamente. Questi stati sociali erano stati concepiti per rispondere alle problematiche delle società industriali e alle esigenze di famiglie strutturate secondo il modello della male breadwinner-family. Un esempio su tutti: oggi non abbiamo più un solo genere all’interno della forza lavoro. Purtroppo, quando le forze socialdemocratiche cominciarono ad occuparsi di queste trasformazioni sociali lo fecero sotto una forte influenza neoliberale. Ossia lo fecero attraverso riforme che introducevano più workfare, riducevano le tasse e tagliavano la spesa pubblica. Questo fu, a mio avviso, l’errore più grande. 

Nella lettura del conflitto sociale contemporaneo si parla spesso di vincitori e vinti della globalizzazione. Diversi studiosi concordano nel sostenere che la grande linea di demarcazione sia oggi da ricercarsi fra quei cittadini bisognosi di protezione sociale tradizionale (centrata su prestazioni di disoccupazione e pensioni) e coloro che invece necessitano di un welfare esteso ad aree vaste di assistenza, all’istruzione, alla conciliazione dei tempi di vita e lavoro. Che ruolo ha giocato il sistema capitalistico in questo senso?

Colin Crouch: Ritengo che la responsabilità sia soprattutto da attribuire all’interpretazione neoliberale del capitalismo. La risposta più sintetica a questa domanda è che entrambi i tipi di stato sociale sono fondamentali. Se guardiamo per esempio alla Danimarca, vediamo che accanto ad un welfare di natura più “moderna” c’è anche un solido stato sociale vecchio stampo, con sindacati forti in grado di giocare un ruolo preponderante. Al contrario, temendo un incremento complessivo della spesa pubblica, molti governi socialdemocratici riformisti hanno presentato il welfare nel dibattito pubblico come un gioco a somma zero, in cui era del tutto necessario scegliere fra il welfare del social investment e il vecchio stato sociale, l’uno o l’altro. A ciò si aggiunge che, nel momento in cui l’Unione Europea cominciò a promuovere la nozione di social investment welfare, i governi scelsero, sbagliando, di adottare la stessa retorica. È invece proprio la sicurezza del vecchio stato sociale a permettere alle persone di correre i rischi che il welfare del social investment richiede loro. L’ideologia neoliberale ha contribuito in maniera determinante a distorcere queste riforme.

Che lettura dà al fenomeno della disuguaglianza politica, esemplificato dalla porzione crescente di cittadini marginalizzati (disenfranchised) e dal successo delle forze anti-sistema? In che modo pensa che la crisi della rappresentanza sia legata alla frammentazione e al declino delle culture politiche occidentali?

Colin Crouch: C’è una connessione complessa fra le due cose. Partiamo dal presupposto che bassi livelli di disuguaglianza nella storia sono l’eccezione, non la norma. Quello che è strano è che la politica nel suo complesso si stia allontanando sempre di più dall’idea di welfare, che pure in origine era pensato proprio per risolvere questo problema. È successo che i socialdemocratici e alcuni neoliberali riformisti hanno cominciato a definire la disuguaglianza non in termini di classe, ma sulla basse di genere, etnia, orientamento sessuale, disabilità. Tutte questioni della massima importanza, ma così facendo si è lasciata indietro una parte altrettanto importante. Le forze populiste vi si sono interessate, e ne hanno raccolto i frutti. (Con ciò non voglio dire, ad esempio, che Donald Trump sia un egualitario: dichiara di voler proteggere i posti dei lavoratori americani, non parla di garantire loro salari migliori). E in un momento della storia come questo, in cui più che mai ce ne sarebbe bisogno, sembra non riuscire ad emergere un movimento egualitario.

Quali sfide si trovano ad affrontare le diverse forme di azione collettiva (e in modo particolare, le mobilitazioni contro la disuguaglianza) nelle società postdemocratiche?

Colin Crouch: Questa è un’unica questione, ma possiamo scomporla in due parti. Da un lato, c’è il tema della disuguaglianza di reddito. Un fenomeno in crescita, in parte a motivo della predominanza del settore finanziario e di quei settori che generano profitti elevati per pochi. La disuguaglianza è nettamente più alta nell’economia dei servizi di quanto non lo fosse nell’economia manifatturiera. La si può affrontare facendo ricorso alla regolamentazione fiscale. Uno dei problemi maggiori degli ultimi anni è la corsa degli stati a rendersi il più attrattivi possibile per gli investimenti esteri, con il conseguente crollo della tassazione sul capitale delle grandi aziende. Io penso che si possa correggere questa tendenza, ma con tutta probabilità sarà possibile solo attraverso l’internazionalizzazione delle strategie fiscali, sperando che i governi si rendano conto che la situazione attuale non è realmente nel loro interesse. Dall’altra parte occorre restituire forza agli stati sociali, facendo sì che servizi vitali come istruzione e sanità restino fuori dall’economia di mercato. Se sanità e istruzione sono fuori dall’economia di mercato, la disuguaglianza pesa un po’ meno. La seconda questione è il lavoro. L’aumento del lavoro temporaneo, il lavoro illegale o forzato, questi fenomeni generano disuguaglianza nelle condizioni di vita e nel grado di insicurezza, il che a sua volta tende a creare conflitto sociale fra lavoratori con status differenti. È essenziale che i sindacati trovino la maniera di risolvere questo problema, è cruciale trovare il modo di garantire alle persone che il loro reddito non varierà più in queste proporzioni enormi e a questo ritmo così rapido.

L’articolo completo lo si può leggere qui

Mercato residenziale in ripresa

Nel periodo ottobre-dicembre 2018 le compravendite di abitazioni sono state 167.068, con un salto in avanti del 9,3% rispetto allo stesso trimestre del 2017. Dopo la leggera flessione registrata negli ultimi novanta giorni del 2018 (-0,4%), è tornato ad espandersi anche il mercato del settore terziario commerciale, con un aumento delle compravendite (+5,8%) che sfiorano le 30.000 unità. Nel mercato delle abitazioni, tra le grandi città mostrano i risultati migliori Bologna (+20,9%) e Palermo (+18,5%) e continua il trend di crescita a Roma (+10,9%) e Milano (+9,5%). Sono solo alcuni dei dati rilevati dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle entrate, che ha pubblicato le Statistiche relative al quarto trimestre dello scorso anno.

Con gli ultimi tre mesi del 2018 è ormai rilevante il periodo di espansione del mercato delle abitazioni. Il tasso tendenziale di crescita, +9,3% rispetto allo stesso trimestre del 2017, è stato il più alto degli ultimi due anni ed è diffuso su tutto il territorio nazionale, con una crescita accentuata al Nord-est (+12,5%) e al Centro (+12,4%) e più contenuta al Sud (+4,3%). La dinamica positiva si conferma anche per i depositi pertinenziali, per lo più cantine e soffitte, con un volume di compravendite in crescita del 7%, e per i box o posti auto, +9,3%.

Nell’ultimo periodo dello scorso anno, inoltre, è tornato ad avere segno positivo il settore terziario-commerciale (+5,8%) e la dinamica di crescita coinvolge tutto il Paese, con tassi tendenziali di espansione che vanno dal 3% al Sud all’11,5% al Nord-est. La crescita non è comunque uniforme in tutte le tipologie analizzate dall’Osservatorio. In particolare, nelle compravendite di uffici e studi privati ai rialzi di Milano (+10,6%) e di Palermo (+22,7%) corrispondono, in controtendenza, le decise contrazioni di Genova (-16,8%) e di Bologna (-14,2%).

Per quanto riguarda i negozi e laboratori, invece, spicca proprio il notevole incremento del capoluogo emiliano (+75,8%) e l’espansione di Milano (+23%), mentre a Roma, Napoli e Torino i volumi di compravendita sono risultati in calo. La capitale rimane tuttavia, la città con il maggior volume di compravendite relative a depositi commerciali e autorimesse, con un tasso tendenziale di espansione del 12,9%. In questa tipologia, infine, i tassi di crescita maggiori sono stati registrati a Milano (+26,8%) e a Torino (+28,6%).

Laziosound: Il bando scade il 15 marzo

Grande successo per LAZIOSoundil programma di sostegno ai giovani talenti musicali del Lazio. Oltre 450 gli iscritti al concorso lanciato nel mese di febbraio, tutti giovani di età compresa tra 15 e 35 anni che hanno deciso di cogliere questa straordinaria occasione per fare emergere il proprio talento musicale con l’ambizione, la voglia e la concreta possibilità di trasformare una grande passione in una vera e propria professione.

Il bando scade il 15 marzo e prevede la selezione delle proposte migliori su RadioRock e 5 eventi nei migliori locali di Roma. Saranno selezionate, attraverso una giuria di esperti, le migliori 16 band/artisti. Promozione, distribuzione, partecipazione ai migliori festival, anche di caratura internazionale: questi i premi messi a disposizione anche grazie alla collaborazione di realtà musicali ed etichette come Atcl, Meeting delle Etichette Indipendenti, Dominio Pubblico, Marte Live System, Arte2o, Smash, Blond Records e CinicoDisincanto. Ai finalisti sarà offerta anche la possibilità di partecipare a tour di livello internazionale nei migliori locali di Tokyo con la possibilità di esibirsi a Montreal, in occasione del Canadaday.

Molti i generi in cui si sono cimentate le band che stanno partecipando al concorso: duecento hanno scelto l’Indie, il Pop e ancora Country, Unplugged, quasi 90 hanno preferito Rock – Rock’Roll, Reggae, Punk Rock e Heavy Metal. Composizione, Classica, Jazz, Elettronica e ancora Hip-Hop, Rap, R&B, Soul, Funk, sono i settori che hanno catalizzato l’attenzione dei giovani artisti del Lazio.

Joe Petrosino, eroe italo-americano dell’antimafia

Si è svolta, alcuni giorni fa, a Roma, nella Sala Stampa di Montecitorio, la commemorazione della figura di Joe Petrosino a 110 anni dalla scomparsa. La manifestazione, promossa dall’on. Fitzgerald Nissoli (eletta nella Circoscrizione estera – Ripartizione Nord e Centro America) ed organizzata dall’Associazione Joe Petrosino di New York e di Padula (Salerno), con il supporto del responsabile media dell’Associazione Petrosino di New York , Stefano Santoro, è stata introdotta dall’on. Nissoli Fitzgerald e moderata dall’avv. Sabrina D’Elpidio.

L’on. Nissoli, introducendo la manifestazione, ha ricordato che “Joe Petrosino fu il precursore della lotta al crimine organizzato” e proprio grazie “anche a persone come lui, oggi gli italiani possono godere di una alta stima nella società americana”. “Petrosino con il suo impegno per la legalità ha mostrato il volto buono dell’Italia, di quell’Italia che era ed è maggioritaria e che lavora duramente per realizzare i propri obiettivi ed il bene comune – ha detto l’on. Nissoli sottolineando che –  se oggi la cultura italiana in USA è apprezzata ed amata, ed è ormai lontana dall’idea di mafia e mandolino, è anche grazie alla figura di un eroe come Petrosino che ha pagato con la vita il suo impegno per la legalità”.

“L’Italia – ha concluso Nissoli –  deve esserne orgogliosa e celebrarlo come uno dei suoi eroi e questo è possibile anche grazie al Vostro impegno che fate conoscere, a partire anche da questa sede, la figura di Petrosino: un italiano vero!”.

Per l’Associazione Petrosino è intervenuto il Vice Presidente della sede di New York, Jerry D’Amato, che ha evidenziato che “l’Associazione “Joseph Petrosino”, in America, ha come scopo e missione lo sviluppo della lingua italiana, del patrimonio e della cultura italianae, inoltre, di onorare e non dimenticare mai l’ultimo sacrificio fatto da quest’uomo coraggioso.” Poi, D’Amato, richiamando le attività dell’Associazione ha sottolineato l’impegno “per sviluppare immagini positive di italiani e italoamericani”.

Presenti all’incontro anche il luogotenente americano, Pizzo, il pronipote di Petrosino, Nino Melito Petrosino, e il Presidente dell’Associazione Petrosino di Padula, Vincenzo La Manna.

Tesori ritrovati. Restauri per Gubbio al tempo di Giotto

La mostra al Palazzo dei Consoli di Gubbio lancia un focus sui restauri e sui confronti possibili tra opere e maestri, tra materiali e tecniche esecutive, in un percorso che si dipana tra XIII e XIV secolo. L’iniziativa consente, inoltre, di approfondire gli sviluppi artistici nella cittadina umbra in rapporto con i grandi centri artistici del tempo

Fino al 1º maggio è aperta al pubblico la mostra “Tesori ritrovati. Restauri per Gubbio al tempo di Giotto”, allestita presso la Sala dell’Arengo di Palazzo dei Consoli di Gubbio (Perugia), dedicata ai restauri e ai recuperi e quindi ai confronti possibili tra opere e maestri, tra materiali e tecniche esecutive, tra forme e funzioni del prodotto artistico in un percorso che si dipana tra XIII e XIV secolo.

In esposizione molte delle opere recentemente restaurate: come le due grandi croci dipinte del Museo Civico di Gubbio, le opere del Maestro della Croce di Gubbio, del Maestro espressionista di Santa Chiara, di Pietro Lorenzetti, del cosiddetto “Guiducci Palmerucci” e di Mello da Gubbio.

Quanto conservato e a disposizione, infatti, consente soprattutto di rileggere l’evoluzione dell’arte eugubina tra Duecento e Trecento in rapporto con i grandi centri artistici del tempo. Prima di tutto con Assisi, vero e proprio cratere sismico da cui si propagano impulsi di cultura figurativa la cui intensità registriamo, prima che altrove, proprio a Gubbio.

Francesco Molinari firma una nuova impresa: vince l’Arnold Palmer in Florida

Ancora una fantastica impresa di Francesco Molinari. L’azzurro ha vinto il prestigioso Arnold Palmer Invitational con 276 (69 70 73 64, -12) colpi rimontando nel giro finale dalla 17ª posizione con uno straordinario 64 (-8, otto birdie), miglior score parziale in assoluto del torneo.

Sul percorso del Bay Hill Club & Lodge (par 72) di Orlando in Florida, nel torneo dedicato al grande campione scomparso nel 2016, Molinari ha firmato il suo secondo titolo sul circuito, dopo quello nel Quicken Loans National (2018), superando l’inglese Matthew Fitzpatrick, leader dopo tre turni e secondo con 278 (-10), il suo connazionale Tommy Fleetwood, lo spagnolo Rafa Cabrera Bello e il coreano Sungjae Im, terzi con 279 (-9). Ha ceduto Rory McIlroy, che difendeva il titolo, da secondo a sesto con 280 (-8), e non sono stati mai in partita Hideki Matsuyama, 33° con 286 (-2), Rickie Fowler, 40° con 287 (-1), Bryson DeChambeau, 46° con 288 (par), e Justin Rose, 63° con 293 (+5), al rientro alle gare e che ha mancato la chance di tornare numero uno mondiale.

Le dichiarazioni – “Non ci sono state particolari strategie – ha detto Molinari, che ha dedicato il successo alla moglie Valentina – o piani di gioco. Ieri mi sono reso conto che i green sarebbero diventati duri e veloci e che ci sarebbe voluto un putter caldo come quello che ho avuto io oggi. Ieri avevo accusato delle difficoltà, ma ero comunque riuscito a darmi delle opportunità e a non rimanere troppo indietro, ma mai avrei pensato di poter effettuare un giro simile. No, non sono in grado di indicare qualche parte del mio gioco che mi dia la possibilità di poter ottenere score così bassi: credo sia solo il frutto del gran lavoro fatto in inverno, sia sull’aspetto tecnico, che su quello mentale”.

Impiantata all’Humanitas la prima protesi di ginocchio stampata interamente in 3D

E’ stato realizzato all’Istituto Humanitas di Milano il primo impianto al mondo di una protesi totale al ginocchio personalizzata e interamente stampata in 3D.

L’intervento è stato reso possibile grazie allo studio dei medici e dei ricercatori del Centro per la ricostruzione articolare del ginocchio insieme agli ingegneri ed esperti di Intelligenza Artificiale di ‘Rejoint’, startup bolognese cresciuta all’interno di Almacube, l’incubatore di nuove esperienze imprenditoriali promosso dall’Università di Bologna e da Confindustria Emilia.

Grazie alla tecnologia 3D è stata realizzata una protesi totale di ginocchio in lega di cromo cobalto. Attraverso Tac e risonanza magnetica sono state rilevate le caratteristiche e i parametri anatomici del paziente, sulla base delle quali è stata disegnata la più̀corretta geometria, e in seguito è stata realizzata la protesi attraverso la stampa 3D, ricostruita fedelmente sulle dimensioni specifiche del suo ginocchio.

Inoltre, attraverso una visione computerizzata in 3D e un sistema intelligente di algoritmi è stato effettuato un planning preoperatorio interattivo, fondamentale per facilitare il posizionamento e la definizione della corretta dimensione della protesi. Il paziente è già stato dimesso e sta effettuando il normale decorso post-operatorio. A effettuare l’intervento il professor Maurilio Marcacci, responsabile del Centro per la ricostruzione articolare del ginocchio di Humanitas, il suo team, il dott. Francesco Iacono e il dott. Tommaso Bonanzinga, specialisti in ortopedia del Centro steso.

Se ne è andato un maestro, Sidney Verba

E’ morto nei giorni scorsi Sidney Verba, un maestro della ricerca sociale sui fenomeni politici che ha avuto la peculiarità di studiarli dal lato dei cittadini e non da quello delle istituzioni statuali, cosa tutt’altro che consueta.

Da lui tutti abbiamo imparato e, per quello che mi riguarda, sento un grande debito nei suoi confronti e sono contento di averlo conosciuto e di aver avuto diverse opportunità di discutere con lui.

Ricordo in particolare la sua conferenza a Roma nel 2004, organizzata da Fondaca nel quadro del programma “Colloqui euro-americani sulla cittadinanza”, nella quale Verba, con discussant Stefano Rodotà, ci parlò delle diseguaglianze nel “civic volunteerism” negli Stati Uniti e del modo di superarle.

Un tema non solo americano e della massima attualità che, grazie a lui, conosciamo nei suoi risvolti meno evidenti.

Grazie Sidney.

[Dal profilo Fb dell’autore]

Qui potete leggere l’articolo di “The Harvard Gazette”

Un nuovo centro con spirito degasperiano

L’intervista di Guido Bodrato a questo giornale non può certo lasciare indifferenti. Sia per l’autorevolezza morale e politica di chi l’ha rilasciata, sia per la lucida coerenza interna del messaggio che contiene.

Vi è – nel sottofondo – una architettura di pensiero che non nasconde le contraddizioni e i passi falsi degli ultimi due decenni e non disconosce le radicali novità di questo nostro tempo. Essa è basata su una idea chiara di ciò che necessariamente devono essere, in ogni fase storica, il “senso” del cattolicesimo democratico, la sua vocazione, la sua missione.

Bodrato ci ricorda che il cattolicesimo democratico non può che essere al servizio di una visione aperta, solidale e progressiva della democrazia. Riecheggiano le parole del giovane Aldo Moro: “Lo Stato è – nella sua essenza – il divenire della società nella storia, secondo il suo ideale di giustizia”.

Deriva da questa radice profonda il “posizionamento politico” dei cattolici democratici, che Alcide Degasperi ben riassunse nell’espressione del “centro che guarda a sinistra” e pone un confine invalicabile a destra.

Durante tutta la lunga vicenda della DC, i cattolici democratici italiani hanno trovato in questo partito la loro casa ed hanno concorso in modo determinante, assieme ad altri filoni culturali affini, a dare vita e forza al Centro Politico della Nazione.

Ne sono conseguite la ricostruzione democratica, sociale ed economica del Paese, attraverso una stagione straordinaria di riformismo a tutti i livelli e l’opzione atlantica ed europeista.

Avere piena consapevolezza, oggi, di questa storia dà la cifra del messaggio di Guido Bodrato: il “Centro” non è una astratta costruzione di natura “topografica”. E, dunque, la sua rigenerazione non può essere né frutto di improbabili nostalgie né il portato di convenzioni di tipo tattico.

Deve corrispondere ad una nuova progettazione sociale e politica, coerente con i valori di fondo e con il posizionamento ideale prima ricordato e finalizzata a dare risposte alle impellenti, drammatiche necessità della democrazia italiana ed europea.

Bodrato analizza, da questa angolatura, le contraddizioni e i limiti della fase “post DC” in Italia (oltre che la deriva subita dal PPE a livello europeo). Lo fa senza anatemi ma con il doveroso atteggiamento di chi sa bene che la storia non si fa con i “se” e con i “ma” postumi.

Si fa piuttosto con la faticosa e paziente opera di riflessione e di costante ripartenza dai dati di fatto.

È un dato di fatto che il PD non può, da solo, dare rappresentanza a tutta la domanda politica potenzialmente alternativa alla destra. È inoltre un dato di fatto che oggi, all’appello delle presenze per l’alternativa democratica, manca una voce: quella di un “centro” inteso come lo ha descritto Bodrato.  Con i suoi valori, il suo sguardo degasperiano a sinistra, con il suo confine a destra.

E sopratutto, con la sua vocazione a costruire inclusione sociale e democratica e con la sua opzione europeista. Inutile e fuori luogo pretendere che sia il PD – i suoi dirigenti o i suoi Padri Fondatori – a colmare questo vuoto o a “tenere a battesimo” una nuova formazione politica così fatta. Essi hanno un compito importante – che riguarda tutti – nella loro parte del campo di battaglia. E neppure spetta a loro definire il profilo identitario del “partito” che non c’è.

Tutto questo è compito di chi crede in questo progetto. Di chi crede che esso sia utile alla democrazia italiana. Di chi è disposto ad un lungo cammino, tutto in salita, senza ambiguità e senza scorciatoie. Ci sono in giro tanti fermenti e tante iniziative in questo senso.

Affinché tutto ciò diventi progetto politico, serve tempo, costanza, determinazione. Serve mettere a fattor comune le singole esperienze, con generosità e reciproca esigente disponibilità. Vale la pena di provarci, senza ansie da prestazione, con la consapevolezza che questo progetto richiede tempo, formazione, elaborazione di nuove idee e di nuovi linguaggi, nuova classe dirigente.

 

Ad Alessandria Impegno Liberi e Forti parte dall’immigrazione

Prosegue il percorso del gruppo Impegno Liberi e forti, costituitosi ad Alessandria nel gennaio scorso, proprio in corrispondenza del centenario dell’appello lanciato da don Sturzo nel 1919. Del gruppo fanno parte cittadini impegnati sul territorio interessati a condividere un percorso di partecipazione ed elaborazione politica ispirato ai principi e ai valori del cattolicesimo democratico, una rete che si sta allargando progressivamente, coinvolgendo rappresentanti di vari mondi del volontariato, della cultura e delle istituzioni di tutta la provincia. Il terzo incontro si è svolto la sera di Martedì grasso, il 5 marzo.

I primi due appuntamenti hanno reso evidente la necessità di mettere in campo percorsi in grado di superare l’attuale frammentazione e debolezza che vede una ricca e variegata presenza che testimonia l’impegno di individui e piccoli gruppi, che faticano a costruire un percorso inclusivo, capace di valorizzare la pluralità delle singole esperienze, praticare un dialogo costruttivo ed esprimere una posizione chiara e proposte puntuali sui temi centrali nello scenario politico nazionale e locale.

Su questa analisi condivisa si fonda Impegno Liberi e Forti, che non si è dato finalità partitiche o elettorali, ma si pone l’obiettivo di maturare una presenza incisiva nello spazio pubblico, grazie a un lavoro di studio ed elaborazione politica capace di fare sintesi di diverse proposte e tradurle in azione collettiva per il bene comune.

L’urgenza di un rinnovato impegno ispirato ai valori che fanno parte della tradizione dei cattolici democratici proviene soprattutto dall’analisi condivisa secondo la quale l’attuale crisi economica, sociale, culturale e politica sta conducendo a derive preoccupanti, conducendo il paese a una regressione e alla perdita di valori condivisi. Tale impoverimento costituisce una sicura minaccia alla convivenza civile e democratica.

Tra i temi rispetto ai quali si avverte la necessità di approfondire, condividere sintesi e soluzioni per poi esprimere posizioni chiare e proposte puntuali è emerso come prioritario quello dell’immigrazione. Da qui, dunque, si partirà in un prossimo incontro (data e altri dettagli organizzativi sono in fase di definizione e saranno comunicati in seguito, NdR), in occasione del quale saranno interpellati testimoni ed esperti che, a diverso titolo, sono coinvolti direttamente dal fenomeno, al fine di fondare la riflessione collettiva su dati di fatto e punti di vista fondati su esperienze dirette e significative.

“Su questo tema – ha affermato nel corso della serata Renato Balduzzi – sperimenteremo un metodo di lavoro che potrà essere poi replicato su altri temi. E’ proprio anche grazie un rinnovamento dello stile e del modo di partecipare alla vita della polis che le persone libere e forti potranno contribuire a un salto di qualità nella vita politica italiana, promuovendo la partecipazione democratica, la coesione sociale, politiche che mettano al primo posto il bene comune rispetto agli interessi di parte”.

“Camminando si traccia il cammino – prosegue Agostino Pietrasanta, un altro tra i promotori di Impegno Liberi e Forti di Alessandria – sono certo che proseguendo con fiducia il percorso iniziato sarà possibile acquisire maggiore chiarezza e consapevolezza circa i possibili sviluppi e le direzioni future di questo impegno; il gruppo capirà strada facendo quale potrà essere il suo ruolo se saprà essere coerente con l’obiettivo condiviso in partenza: rinnovare un impegno ispirato ai valori di laicità, partecipazione democratica, sussidiarietà e giustizia sociale del manifesto di Luigi Sturzo”.

Il Presidente Mattarella all’inaugurazione dell’anno accademico 2018/2019 dell’Università di Cassino

Ringrazio il Magnifico Rettore per l’invito ad essere presente a questa inaugurazione, nel 40º anno accademico dell’Ateneo. Un saluto molto cordiale a tutti i presenti e ai Rettori di altri atenei.

Un saluto particolare al corpo accademico di questa Università, al personale tecnico-amministrativo e, in maniera particolarmente intensa, alle studentesse e agli studenti.

Un saluto, attraverso il commissario al Comune di Cassino, il Sindaco di Frosinone e gli altri sindaci presenti, a tutti cittadini di Cassino, di Frosinone e di quest’area del Lazio Meridionale.

Quarant’anni sono un periodo gemello a quello dell’Ateneo della Tuscia, come ha ricordato il Magnifico Rettore. Due settimane fa ho partecipato alla cerimonia di quella università.

Quella scelta, quarant’anni fa, di far sorgere nel Lazio meridionale e Lazio settentrionale due università è stata il frutto della consapevolezza che gli studi universitari non possono essere un fenomeno di élite, ma devono essere il più diffusamente possibile distribuite nel nostro Paese e devono avere un contatto ampio e profondo con il suo territorio.

È un percorso tutt’altro che compiuto. Il nostro Paese è ancora in ritardo nel numero dei laureati rispetto alla media europea e ha bisogno di intensificare questo percorso che non può mai dirsi raggiunto compiutamente ma che ha ancora bisogno di una forte spinta da parte delle istituzioni.

Il Magnifico Rettore poc’anzi ha parlato – non a caso, immagino – del valore della connessione tra le discipline, tra i vari comparti del sapere, ma anche della connessione tra università e territorio, quella che sia qui che nel Nord del Lazio fa toccare con mano quanto la presenza universitaria e la sua attività abbia contribuito allo sviluppo culturale delle aree di riferimento. Ma connessione anche – e del resto è dimostrata dalla presenza del vice Presidente della Regione, del Presidente della provincia, di tanti sindaci in questa occasione – tra la comunità scientifica che supera i confini nazionali. E il richiamo che ha fatto il Rettore alle numerose collaborazioni internazionale con atenei europei ed extraeuropei è di grande significato.

Ringrazio il Rettore: ci ha illustrato con compiutezza e chiarezza lo stato, le intenzioni e le molteplici attività che questa università svolge.

Ringrazio Francesco Cuzzi, rappresentante del personale tecnico-amministrativo, che ha portato qui la voce di questo personale. È importante, anzi decisivo, nella vita degli atenei.

Anche per personale esperienza – peraltro ormai lontana nel tempo – so bene quanto sia decisivo il ruolo del personale tecnico-amministrativo senza il quale i docenti si sentirebbero in mare aperto senza bussola nella vita universitaria.

Ringrazio molto Elena Di Palma, eccellentissima rappresentante degli studenti. Le sue parole mi hanno fatto venire in mente un episodio drammatico: quello di un ragazzino quattordicenne – poco più di un bambino –annegato nel Mediterraneo, e recuperandone il corpo hanno trovato cucito nella giacca del suo vestito la pagella scolastica con i suoi voti.

Questi casi – quelli che conosciamo ma chissà quanti non ne conosciamo, né conosceremo mai – di giovanissimi che attribuiscono alla loro pagella, ai loro risultati scolastici, il valore di un passaporto, o anche più di un passaporto, di un accreditamento di serietà e di impegno verso Paesi in cui speravano di poter sviluppare la loro vita, la loro cultura, il loro benessere, certamente interroga fortemente la nostra coscienza.

L’ho voluto ricordare perché ha un altro significato, ulteriore: quello che lo studio costituisce insieme la spinta e lo strumento per la cultura, per l’interesse e il rispetto verso le culture diverse, verso le altrui opinioni, verso l’esperienza di altri. Lo studio costituisce la spinta e lo strumento per l’apertura, per il dialogo, per l’amicizia.

Elena Di Palma ha collegato il ruolo dello studio alla storia dell’Abbazia che ha definito ‘simbolo di speranza’.

Non c’è dubbio. L’Abbazia è un punto alto della storia e della cultura d’Europa. Insieme ad altre abbazie, con quella rete di riflessione, analisi e grande di studio che si è creata allora, ha consentito il traghettamento della cultura antica verso i nostri secoli.

Nel mese scorso sono ricorsi i settacinque anni dai bombardamenti sull’Abbazia, che è risorta in pieno, ribadendo il senso di speranza. Dal senso di speranza dello studio che l’Abbazia raffigura con tanta efficacia nasce l’evocazione del dovere di generosità, di impegno, di apertura, di dialogo, di preparazione e di competenza.

Questa vocazione si lega al contenuto della lectio magistralis del Professor Recinto che ringrazio molto. Il dibattito sul rapporto tra diritto e realtà è antico. Ce l’ha presentato, con molta efficacia, come scienza pratica che regola la convivenza e, del resto, l’antico brocardo recita che il diritto nasce dal fatto, nasce dalla realtà della vita sociale; traduce fenomeni della vita sociale in regole, le elabora e le ritrasmette alla società.

Questo è un percorso costante che non si interrompe. Il Professor Recinto ha detto di non pensare al diritto come ad una serie di definizioni inerti e ha messo in guardia dal pericolo di generalizzazioni immobili e pericolose, perché il percorso del diritto che raccoglie dalla società e riversa i suoi risultati sulla società è un lavoro costante, a volte lento ma mai interrotto.

Questo compito è affidato alle università. Naturalmente definire le regole è compito del Parlamento, del legislatore. Una parte rilevante è affidata alla giurisprudenza, all’ordine giudiziario, alla magistratura che interpreta e applica, dando anche indicazioni; ma la sistemazione completa, l’elaborazione teorica – non astratta, ma teorica – del diritto è affidata alle università, agli studiosi, agli atenei, come in ogni branca della scienza.

Questo compito, fondamentale per il nostro Paese, è quello che motiva la riconoscenza – che non mi stanco di ripetere – nei confronti delle nostre università. La presenza di tanti Rettori sottolinea quanto sia rilevante questo collegamento tra atenei per questo ruolo fondamentale, più che prezioso, indispensabile per il nostro Paese.

Buon anno accademico!

L’esilio del “Re bambino” e la nascita della monarchia parlamentare italiana

Francesco d’Assisi Maria Leopoldo di Borbone, quando ereditò la corona dal padre Ferdinando II, era poco più di un ragazzino. Lo era caratterialmente, non troppo sotto l’aspetto anagrafico (aveva 23 anni), anche se il suo viso pulito sembrava quello di un adolescente trovatosi d’un tratto catapultato verso una missione difficilissima, quasi oltre le sue possibilità: esercitare un potere ormai barcollante, forse desueto, contestato, accerchiato. Lo era soprattutto per l’avidità di Londra, Parigi e degli altri stati autonomi che componevano il “puzzle” Italia, i quali non disdegnavano affatto l’idea di svuotare delle sue ricchezze e della gestione delle sue strutture un sistema geopolitico secolare, che – pur commettendo molti errori – qualcosa di buono aveva comunque realizzato.

Il 22 maggio 1859, quando ascese al trono, il fragile Francesco II trovò nel suo stesso ambiente familiare un clima ostile, irrispettoso della sua persona e scettico sulle sue capacità di portare avanti un governo che veniva progressivamente abbandonato anche da molti dei suoi più stretti collaboratori. A un ragazzo cresciuto con un’educazione rigorosamente cattolica, fatta di studi, raccoglimento, una scarsissima frequentazione di donne e della mondanità nobiliare, tutto ciò suscitò un senso di estraneità terribilmente avverso. Trame, congiure, diserzioni, contrattazioni tra ambienti militari perché i vecchi ufficiali borbonici entrassero per via breve a far parte dell’esercito piemontese; erano una minima parte di quello che le più importanti stanze del potere della diplomazia europea stavano pianificando da tempo.

Ma quel timido giovane non era uno stupido, non lo era affatto; a dispetto di coloro che gli consigliarono di rinunciare alla corona, preparò invece i lavori perché la resa fosse quanto più onorevole possibile. Allertò l’esercito (o ciò che ne rimaneva) e abbatté l’imposta sul macinato per dare sollievo alle fasce più deboli, e benché sapesse che il regno napoletano stesse avviandosi verso il malaugurato tramonto (sembrava fosse un soggetto fortemente fatalista), trovò il tempo e la forza di varare una serie di riforme di ispirazione liberale: tra queste, il rafforzamento delle autonomie comunali, l’istituzione di apposite commissioni per migliorare le condizioni carcerarie e la riduzione delle tasse doganali. Considerati gli appena 22 mesi di mandato, non era poco.

La resa di Gaeta – avvenuta il 13 febbraio 1860 dopo molto spargimento di sangue e uno scontro impari contro i sabaudi – rappresentò solo l’appendice dei tentativi di destituire la corona di Napoli che contraddistinsero alcune fasi della politica internazionale nel corso della prima metà del XIX secolo. La mattina del 13 febbraio Francesco II si accingeva a lasciare il suo vecchio regno per raggiungere Papa Pio IX, il quale restituì “la cortesia” dopo il suo esilio a Gaeta dell’autunno 1848, quando fu accolto con devozione da Ferdinando II. Il giovane re ricevette ospitalità nell’esilio dorato di Palazzo Farnese, ma la sua Napoli, benché a neanche 200 km da Roma, gli sembrò molto più lontana di quanto fosse. Neanche la Chiesa, forte del suo millenario potere, così vicino (non solo geograficamente) alla dinastia borbonica, riuscì a mediare per impedirne la deposizione e l’espulsione forzata dalla sua terra.

Quel giorno, mentre Franceschiello (soprannominato tale sia dal punto di vista affettivo che in senso irrisorio) e la sua consorte Maria Sofia, detta “Spatz”, sorella della più celebre Sissi, si imbarcavano sul piroscafo francese che li avrebbe condotti a Roma, molti dei suoi soldati e dei suoi sudditi piansero. E tra la commozione dei gaetani, nel momento in cui i cannoni tiravano a salve rendendo gli onori al re deposto, quasi mille chilometri più a nord fervevano i preparativi per dare luogo alla istituzione della prima Monarchia Parlamentare del Regno d’Italia, forma di governo che sancì la transizione dall’assolutismo a uno Stato liberale. Nella fredda Torino, il 41enne Vittorio Emanuele II, cugino di sangue di Franceschiello (la madre del Borbone era una Savoia), pianificato ante litteram con le diplomazie anglo-francesi il programma che avrebbe condotto all’istituzione del Regno, il 17 marzo 1861 fu proclamato “re d’Italia per grazia di Dio e volontà della nazione”. Camillo Benso di Cavour, di Cellarengo e di Isola Bella divenne il primo Presidente del Consiglio dopo l’Unità. Il Parlamento, di tipo bicamerale, fu guidato da una maggioranza legata alla Destra Storica, la quale costituì dieci ministeri, di cui uno senza portafoglio e due a interim (Cavour agli Esteri e alla Marina).

La prima fase del processo risorgimentale si era compiuta.

Unicef: Solo nel 2018, in Siria, 1.106 bambini sono stati uccisi

“Solo nel 2018, in Siria, 1.106 bambini sono stati uccisi nei combattimenti, il più alto numero di bambini uccisi in un solo anno dall’inizio della guerra. Questi sono solo i numeri che l’Onu è stato in grado di verificare, ma le cifre reali sono probabilmente molto più alte”. È quanto dichiara oggi Henrietta Fore, direttore generale dell’Unicef.

“Oggi – denuncia Fore – c’è un allarmante equivoco che il conflitto in Siria stia rapidamente per concludersi: non è così. I bambini in alcune parti del Paese rimangono in pericolo come in qualsiasi altro momento durante gli otto anni di conflitto. Sono particolarmente preoccupata per la situazione nella Siria nordoccidentale di Idlibin, dove un’intensificazione della violenza ha ucciso 59 bambini solo nelle ultime settimane”.
“La situazione delle famiglie di Rukban, vicino al confine giordano, continua ad essere disperata – aggiunge il direttore generale dell’Unicef – con accesso limitato a cibo, acqua, riparo, assistenza sanitaria e istruzione. Sono anche allarmata dal peggioramento delle condizioni del campo di Al Hol, nel nord-est del Paese, dove vivono più di 65.000 persone, tra cui si stima che ci siano 240 bambini non accompagnati o separati. Da gennaio di quest’anno, quasi 60 bambini sono morti lungo i 300 chilometri di cammino da Baghouz al campo”.

Inoltre, “il destino dei bambini dei ‘foreign fighters’ in Siria rimane poco chiaro”, per cui “l’Unicef esorta gli Stati membri ad assumersi la responsabilità per i bambini che sono loro cittadini o nati da loro cittadini, e ad adottare misure per evitare che i bambini diventino apolidi”.

Riunita in Kenia l’Assemblea Onu per la salvaguardia dell’ambiente

La kermesse ambientale più importante del mondo ha come obiettivo la resilienza pianeta di fronte al cambiamento climatico e al sovra sfruttamento. Il 15 marzo, poi, i capi di Stato e ministri dell’Ambiente, insieme alle Ong, agli attivisti e agli amministratori di multinazionali si incontreranno per discutere e assumere impegni, nella prospettiva di un patto globale per la salvaguardia ambientale. Tra i temi in agenda: le innovazioni geoingegneristiche per rispondere alle sfide climatiche; l’economia circolare legata alla crescita produttiva sostenibile; il contrasto allo spreco alimentare; il sostegno alla decarbonizzazione abbandonando i combustibili fossili per puntare invece su energie da fonti rinnovabili, efficienza e risparmio energetico; la riduzione dei rifiuti plastici in mare. Un altro tema importante è infine quello delle nuove tecnologie, dalle soluzioni per rimuovere la CO2 dall’atmosfera ai nebulizzatori iniettati nella stratosfera per bloccare i raggi solari.

All’Assemblea di Nairobi verrà proposta una risoluzione giuridicamente vincolante per fermare l’inquinamento plastico. Il WWF ha infine lanciato una mobilitazione per chiedere un Trattato che comprenda tutti i Paesi del mondo finalizzato ad un’azione collettiva in difesa dei beni comuni. La stessa Associazione ambientalista ha pubblicato la scorsa settimana il report intitolato “Inquinamento plastico: di chi è la colpa?” dove viene tracciato un percorso per proteggere il Pianeta. Le cifre contenute nel documento danno triste conferma in riferimento al problema e impongono un’attenta riflessione. Basti pensare che dal 1950 ad oggi è andato perso il 75% di tutti i polimeri plastici fossili prodotti a livello globale contaminando flora e fauna. Nel 2016 poi, la produzione di plastica ha raggiunto 396 milioni di tonnellate, l’equivalente di 53 chili per ogni persona, traducendosi in circa due miliardi di tonnellate di anidride carbonica (quasi il 6% delle emissioni complessive di CO2 l’anno). La Strategia sulla plastica della Commissione europea, adottata il 16 gennaio 2018, si è inserita nel processo di transizione verso un’economia circolare, con lo scopo di proteggere l’ambiente dall’inquinamento da materiali polimerici, promuovendo crescita e innovazione. Con la strategia sulla plastica, la Commissione ha adottato un quadro di monitoraggio, costituito da una serie di dieci indicatori chiave che coprono le varie fasi del ciclo per misurare i progressi compiuti nella transizione verso un’economia circolare a livello nazionale ed europeo.

Rendere il riciclo redditizio per le imprese, ridurre i rifiuti di plastica, fermare la dispersione dei rifiuti in mare, orientare gli investimenti e l’innovazione, stimolare il cambiamento in tutto il mondo sono gli obiettivi chiave di questa strategia a lungo termine. Con lo scopo di fornire contributi, pareri e dati per gli sviluppi futuri della strategia sulla plastica in relazione ai rifiuti marini, in particolare quelli costituiti da plastica monouso e attrezzature da pesca.

Sui lavori dell’Assemblea grava il lutto per le 157 vittime dell’incidente aereo di ieri, in cui hanno perso la vita anche diversi delegati.

Cannabis light: Al Senato due mozioni contrapposte

Proponiamo le due mozioni che il Senato dovrà affrontare

La mozione di FI impegnava il Governo su 5 punti: emanare urgentemente un provvedimento per la sospensione della commercializzazione di tutti i prodotti della cannabis light; attivarsi con urgenza prevedendo una regolamentazione più stringente delle modalità di coltivazione e commercializzazione della canapa; alutare l’opportunità di destinare in altro modo le risorse economiche di cui al comma 1 dell’articolo 6 della legge n. 242 del 2016 (aiuti di Stato fino ad un massimo di 700.000 euro, per favorire il miglioramento delle condizioni di produzione e trasformazione nel settore della canapa); emanare urgentemente il decreto ministeriale per definire i livelli massimi di residui di Thc ammessi negli alimenti; e verificare se le condotte della “Cannabis businnes school” siano conformi alle prescrizioni di legge.

La mozione del Pd impegnava il Governo su 4 punti: provvedere alla riorganizzazione organica della materia relativa alla filiera agroindustriale della canapa per garantire a tutti gli operatori del settore una normativa certa cui attenersi, nonché confutare falsi timori in materia, derivanti da pregiudizi senza alcun fondamento scientifico; definire, con decreto del Ministero della salute, i livelli massimi di residui di Thc ammessi negli alimenti; favorire il reale sviluppo di intese sia per quanto riguarda le produzioni alimentari, sia quelle tessili, sia quelle impiegate nel settore della bioingegneria; e adottare ogni iniziativa finalizzata all’assegnazione delle risorse individuate dalla legge n. 242 del 2016 (aiuti di Stato fino ad un massimo di 700.000 euro, per favorire il miglioramento delle condizioni di produzione e trasformazione nel settore della canapa) alle finalità dalla stessa indicate.

Pio Cerocchi: “Non mi convince il metodo di Zingaretti. Dovrebbe dimettersi, per altro, da Presidente del Lazio”

“Le dichiarazioni di Zingaretti sulla opportunità di “sbaraccare” il Nazareno, rese nel corso della trasmissione domenicale di Fabio Fazio, mi confermano nelle mie convinzioni sul metodo della democrazia rappresentativa, che può essere interpretata solo dai partiti costituiti su basi ideali e programmi condivisi con metodo democratico come raccomanda la Costituzione”.

Queste le parole con cui Pio Cerocchi parla dell’intervista al presidente del PD.

“Così gli iscritti attraverso lo strumento della delega attraverso i diversi livelli di rappresentanza – continua Cerocchi -si riuniranno a congresso per determinare i contenuti della linea politica e il gruppo dirigente, Segretario, compreso scelto per realizzarla.

Nel Pd, invece, continua ad avvenire il contrario: una base elettorale indefinita, soprattutto non iscritta, elegge un Segretario senza definiti impegni programmatici discussi e condivisi con il diritto di fare del partito quello che vuole.

Per questo non ho votato e ancora per questo penso che Zingaretti abbia l’obbligo di moralità politica di dimettersi da Presidente della Regione Lazio”

Essere al centro o dare centralità a una nuova proposta politica?

Ho letto con interesse l’intervista (Il Domani d’Italia, 10 marzo) a Guido Bodrato e seguo con eguale interesse il dibattito sulla ipotetica costruzione di un centro politico.

Sono d’accordissimo con Bodrato sulla esigenza che un possibile nuovo centro abbia bisogno prima di una cultura politica. Perché, come afferma lo stesso intervistato, “il Centro non è una categoria astratta tra dx e sx”.

Bene, mi pare però che qui ci sia la debolezza del dibattito giacché, al di là dei retorici – mi scuso col termine che non vuole offendere i soggetti interessati – richiami ai valori cristiani di solidarietà e del bene comune, non si va. Contenuti programmatici e politici non ne vedo, proposte di rinnovamento istituzionale o sociale neppure.

Quindi questo centro, per evitare che si riduca ad un centrino, che spazio deve occupare? Lo spazio tra destra e sinistra (che, si sa, è evaporato rispetto ai cliché del Novecento)? No, pure Bodrato lo ha bocciato. Oppure lo spazio che si richiama ai valori cristiani? Io non lo credo sufficiente, anzi ritengo sia velleitario, perché la secolarizzazione in atto e le spinte populiste offrono altri esempi per intendere i valori cristiani: Salvini se ne fa portavoce a modo suo! E Di Maio, col reddito di cittadinanza ai poveri, ne dà un altra versione.

Insomma, pure i cristiani non hanno più il monopolio dei valori solidali, che si offrono a vari soggetti. Quindi? Bella domanda. Insomma, gli elettori oggi non votano per i cristiani o per gli atei o per gli agnostici (e meno male!), ma, giustamente, votano per una politica. Ecco perché io insisto nel ritenere che il centro, per essere attraente, deve avere una politica “centrale”, utile al Paese, per cambiarne il vestito istituzionale e di governance.

Cristiani o no.

Esercizi spirituali all’insegna di Mario Luzi e Giorgio La Pira

Articolo già apparso sulle pagine di http://www.frammentidipace.it  a firma di Antonio Gaspari
Per predicare gli Esercizi Spirituali della Quaresima alla Curia, Papa Francesco ha chiamato don Bernardo Francesco Maria Gianni, abate di San Miniato al Monte a Firenze.
In una intervista pubblicata su “L’Osservatore Romano” del 9-10 marzo, il benedettino don Bernardo ha raccontato di aver accolto la decisione del Pontefice “con immensa trepidazione, una buona dose di incredulità e con grande gratitudine al Signore e al Papa. Mi ha colto un profondissimo senso di inadeguatezza che Francesco ha apprezzato, quando mi ha chiamato. Mi sono reso disponibile alla sua offerta, perché mi sono sentito chiamato, ma ho fatto presente di sentirmi molto inadeguato. E il Papa mi ha risposto che questa è un’ottima premessa per far bene gli Esercizi”.
Alla domanda sul perché la scelta di ispirarsi a Mario Luzi per gli Esercizi Spirituali, don Bernardo ha spiegato di averlo scelto “perché con la poesia esprimeva molto bene il tema sul quale potevo mettere a disposizione al meglio la mia anima e la competenza della mia vita monastica, cioè lo sguardo sulla città che la basilica di San Miniato al Monte permette. È assimilabile allo sguardo con cui Gesù guarda Gerusalemme. Non a caso sulla facciata della basilica c’è il volto di Cristo che benedice tutta Firenze. Siamo convinti che da mille anni la nostra presenza benedettina serva a rendere quello sguardo vivo riconoscibile, percepibile, desiderabile. La poesia di Luzi ha il grande pregio di aver interpretato tutto questo, parlando di memoria, di speranza, di fuoco degli antichi santi. Certamente, c’è il rischio che il fuoco si attenui nel tempo, ma con la forza dello spirito si può riattizzare”.
È a questo punto che subentra il riferimento a Giorgio La Pira. Secondo l’Abate, “questo è il senso dell’immagine degli ardenti desideri: cercare di dare continuità al grande sogno di La Pira. Che era il sogno con cui immaginava Firenze una nuova Gerusalemme, una città piena di bellezze teologali, capace di attirare tutte le nazioni per un progetto di pace e di giustizia”.
Una delle prime meditazioni è intitolata “Il sogno di La Pira” e don Bernardo ha precisato: “Si comprende bene come il riferimento alla città non è politico, sociologico, cioè meramente civile, ma teologale, biblico, spirituale. Bisogna cercare di testimoniare, interpretare dal punto di vista mistico come quello di La Pira. Nelle meditazioni vi aggiungo anche quei numeri di ‘Evangelii gaudium’ in cui il Papa invita a cercare Dio nella città. Questa è una prospettiva che per noi è estremamente eloquente e significativa, perché da San Miniato contempliamo la città e dalla città siamo invitati a cercare il suo mistero, la sua vocazione”.
Ma chi è don Bernardo?
L’Abate di San Miniato ha raccontato di aver passato gli anni liceali e universitari lontano dalla Chiesa. “Poi, nella notte di Natale del 1992, ho avuto la grazia di una vera e propria conversione e vocazione nella chiesa delle benedettine di Rosano. Essa resta per me come il santuario del mio incontro con il Signore. Proprio lì sono stato fortemente invitato dalla bellezza, dalla profondità e dall’intensità della liturgia del mistero del Natale, a entrare in una dimensione tutta per me: essere desiderato e cercato da un Dio che ti conquista con la sua piccolezza, con la sua infanzia, che in qualche modo si arrende alla sua forza per venirti incontro, sperando che a tua volta anche tu ti arrendi alla sua potenza di amore”.
“Quella celebrazione ha cambiato radicalmente la mia vita – ha continuato – tanto da farmi immediatamente pensare alla possibilità di diventare monaco, cioè di dedicare tutta la vita a cercare quelle orme, quelle tracce del Signore che quella notte ho trovato: finalmente le avevo ritrovate sul mio cammino”.

Doping e corruzione inquinano lo sport

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

sono lieto di accogliere i partecipanti al Congresso Annuale dell’Unione Ciclistica Europea, che, in questa occasione, ospita anche l’Assemblea della Confederazione Africana di Ciclismo. Saluto, in particolare, il Presidente dell’Unione Ciclistica Internazionale, il Sig. David Lappartient, e lo ringrazio per le parole che ha voluto rivolgermi.

Il rapporto tra Chiesa e sport ha una lunga storia e, nel tempo, si è sempre più consolidato. Lo sport può rivelarsi di grande aiuto per la crescita umana di ogni persona perché stimola a dare il meglio di sé, in vista del raggiungimento di una determinata meta; perché educa alla costanza, al sacrificio e alla rinuncia. Pensiamo, ad esempio, ai lunghi e impegnativi allenamenti o all’osservanza di una esigente disciplina di vita. La pratica di uno sport poi insegna a non scoraggiarsi e a ricominciare con determinazione, dopo una sconfitta o dopo un infortunio. Non di rado diventa l’occasione per esprimere con entusiasmo la gioia di vivere e la giusta soddisfazione per aver raggiunto un traguardo.

Il ciclismo, in particolare, è uno degli sport, che mette maggiormente in risalto alcune virtù come la sopportazione della fatica — nelle lunghe e difficili salite —, il coraggio — nel tentare una fuga o nell’affrontare una volata —, l’integrità nel rispettare le regole, l’altruismo e il senso di squadra. Se, infatti, pensiamo a una delle discipline più diffuse, il ciclismo su strada, vediamo come durante le gare tutta la squadra lavora unita — gregari, velocisti, scalatori — e spesso deve sacrificarsi per il capitano. E quando un compagno attraversa un momento di difficoltà, sono i suoi compagni di squadra a sostenerlo e ad accompagnarlo. Così anche nella vita è necessario coltivare uno spirito di altruismo, di generosità e di comunità per aiutare chi è rimasto indietro e ha bisogno di aiuto per raggiungere un determinato obiettivo.

Tanti ciclisti sono stati di esempio, nello sport e nella vita, per la loro integrità e coerenza, dando il meglio di sé in bicicletta. Nella loro carriera hanno saputo coniugare fortezza d’animo e determinazione nel raggiungere la vittoria, ma anche solidarietà e gioia di vivere, a testimonianza di aver scoperto quelle potenzialità dell’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, e la bellezza di vivere in comunione con gli altri e con il creato. Gli atleti hanno questa straordinaria possibilità di trasmettere a tutti, soprattutto ai giovani, i valori positivi della vita e il desiderio di spenderla per obiettivi alti e nobili.

Questo ci fa capire l’importanza, per chiunque pratica uno sport — dai praticanti occasionali, agli amatori, ai professionisti — di saper vivere sempre l’attività sportiva a servizio della crescita e della realizzazione integrale della persona. Quando, al contrario, lo sport diventa un fine in sé e la persona uno strumento al servizio di altri interessi, ad esempio il prestigio e il profitto, allora compaiono disordini che inquinano lo sport. Penso al doping, alla disonestà, alla mancanza di rispetto per sé e per gli avversari, alla corruzione.

Vorrei anche dire una parola sulle nuove specialità, nell’ambito del ciclismo, che si diffondono fra le nuove generazioni e che, come tutte le novità, possono suscitare resistenze e rappresentare una sfida per le discipline più tradizionali. Anche per voi vale l’impegno che la Chiesa ha assunto di volere ascoltare i giovani, di prendere a cuore le loro attese, i loro modi di esprimere il desiderio di vivere e di realizzarsi. È necessario accompagnare le nuove generazioni senza perdere di vista le sane tradizioni e la cultura popolare che, in tanti paesi del mondo, accompagnano il ciclismo e i suoi campioni.

Vi auguro, in questi giorni di incontro, un proficuo lavoro e, mentre vi chiedo di pregare per me, di cuore vi benedico. Grazie.

Papa all’Angelus: con il diavolo non si dialoga, si risponde con la Parola di Dio

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo di questa prima domenica di Quaresima (cfr Lc 4,1-13) narra l’esperienza delle tentazioni di Gesù nel deserto. Dopo aver digiunato per quaranta giorni, Gesù è tentato tre volte dal diavolo. Costui prima lo invita a trasformare una pietra in pane (v. 3); poi gli mostra dall’alto i regni della terra e gli prospetta di diventare un messia potente e glorioso (vv. 5-6); infine lo conduce sul punto più alto del tempio di Gerusalemme e lo invita a buttarsi giù, per manifestare in maniera spettacolare la sua potenza divina (vv. 9-11). Le tre tentazioni indicano tre strade che il mondo sempre propone promettendo grandi successi, tre strade per ingannarci: l’avidità di possesso – avere, avere, avere –, la gloria umana e la strumentalizzazione di Dio. Sono tre strade che ci porteranno alla rovina.

La prima, la strada dell’avidità di possesso. È sempre questa la logica insidiosa del diavolo. Egli parte dal naturale e legittimo bisogno di nutrirsi, di vivere, di realizzarsi, di essere felici, per spingerci a credere che tutto ciò è possibile senza Dio, anzi, persino contro di Lui. Ma Gesù si oppone dicendo: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”» (v. 4). Ricordando il lungo cammino del popolo eletto attraverso il deserto, Gesù afferma di volersi abbandonare con piena fiducia alla provvidenza del Padre, che sempre si prende cura dei suoi figli.

La seconda tentazione: la strada della gloria umana. Il diavolo dice: «Se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo» (v. 7). Si può perdere ogni dignità personale, ci si lascia corrompere dagli idoli del denaro, del successo e del potere, pur di raggiungere la propria autoaffermazione. E si gusta l’ebbrezza di una gioia vuota che ben presto svanisce. E questo ci porta anche a fare “i pavoni”, la vanità, ma questo svanisce. Per questo Gesù risponde: «Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai» (v. 8).

E poi la terza tentazione: strumentalizzare Dio a proprio vantaggio. Al diavolo che, citando le Scritture, lo invita a cercare da Dio un miracolo eclatante, Gesù oppone di nuovo la ferma decisione di rimanere umile, rimanere fiducioso di fronte al Padre: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore tuo Dio”» (v. 12). E così respinge la tentazione forse più sottile: quella di voler “tirare Dio dalla nostra parte”, chiedendogli grazie che in realtà servono e serviranno a soddisfare il nostro orgoglio.

Sono queste le strade che ci vengono messe davanti, con l’illusione di poter così ottenere il successo e la felicità. Ma, in realtà, esse sono del tutto estranee al modo di agire di Dio; anzi, di fatto ci separano da Dio, perché sono opera di Satana. Gesù, affrontando in prima persona queste prove, vince per tre volte la tentazione per aderire pienamente al progetto del Padre. E ci indica i rimedi: la vita interiore, la fede in Dio, la certezza del suo amore, la certezza che Dio ci ama, che è Padre, e con questa certezza vinceremo ogni tentazione.

Ma c’è una cosa, su cui vorrei attirare l’attenzione, una cosa interessante. Gesù nel rispondere al tentatore non entra in dialogo, ma risponde alle tre sfide soltanto con la Parola di Dio. Questo ci insegna che con il diavolo non si dialoga, non si deve dialogare, soltanto gli si risponde con la Parola di Dio.

Approfittiamo dunque della Quaresima, come di un tempo privilegiato per purificarci, per sperimentare la consolante presenza di Dio nella nostra vita.

La materna intercessione della Vergine Maria, icona di fedeltà a Dio, ci sostenga nel nostro cammino, aiutandoci a rigettare sempre il male e ad accogliere il bene.


Dopo l’Angelus

Cari fratelli e sorelle,

ieri a Oviedo, in Spagna, sono stati proclamati beati i seminaristi Angelo Cuartas e otto compagni martiri, uccisi in odio alla fede in un tempo di persecuzione religiosa. Questi giovani aspiranti al sacerdozio hanno amato così tanto il Signore, da seguirlo sulla via della Croce. La loro eroica testimonianza aiuti i seminaristi, i sacerdoti e i vescovi a mantenersi limpidi e generosi, per servire fedelmente il Signore e il popolo santo di Dio.

Rivolgo un cordiale saluto alle famiglie, ai gruppi parrocchiali, alle associazioni e a tutti i pellegrini venuti dall’Italia e da diversi Paesi. Saluto gli studenti di Castro Urdiales (Spagna) e i fedeli provenienti da Varsavia; come quelli di Castellammare di Stabia e Porcia. Saluto i Piccoli cantori di Pura (Svizzera), i ragazzi del decanato di Baggio (Milano), quelli della professione di fede di Samarate, i cresimandi di Bondone e di Paullo, i giovani di Verona e gli alunni della scuola “Emiliani” dei Padri Somaschi di Genova.

Auguro a tutti che il cammino quaresimale, da poco iniziato, sia ricco di frutti; e vi chiedo un ricordo nella preghiera per me e per i collaboratori della Curia Romana, che questa sera inizieremo la settimana di Esercizi Spirituali.

Buona domenica! Buon pranzo! E arrivederci!

World Kidney Day: la giornata di sensibilizzazione che si celebra il 14 marzo

World Kidney Day è una  campagna di sensibilizzazione globale  finalizzata a sensibilizzare sull’importanza dei nostri reni.

Il World Kidney Day ritorna ogni anno. In tutto il mondo si svolgono centinaia di eventi dalle proiezioni pubbliche in Argentina alle maratone di Zumba in Malesia. 

Consapevolezza dei comportamenti preventivi, consapevolezza dei fattori di rischio e consapevolezza su come convivere con una malattia renale. 

Gli obbiettivi sono:

  • Aumentare la consapevolezza dei nostri “reni” il diabete e l’ipertensione sono fattori chiave di rischio per la malattia renale cronica (CKD).
  • Incoraggiare lo screening sistematico di tutti i pazienti con diabete e ipertensione per CKD.
  • Incoraggiare comportamenti preventivi.
  • Educare tutti i  medici sul loro ruolo chiave nel rilevare e ridurre il rischio di insufficienza renale cronica, in particolare nelle popolazioni ad alto rischio.
  • Sottolineare il ruolo importante delle autorità sanitarie locali e nazionali nel controllo dell’epidemia di CKD. 
  • Incoraggia il trapianto come opzione ottimale per l’insufficienza renale e l’atto della donazione di organi come iniziativa salvavita.

Suor Alessandra Smerilli: «L’economia ripensi se stessa per ritrovare la sua anima»

Articolo già apparso sulle pagine del “Il sole 24 ore” a firma di Paolo Bricco

L’Occidente ha ridotto la povertà. La globalizzazione trainata dall’Europa e dagli Stati Uniti ha creato le condizioni per la crescita economica di pezzi interi del mondo. Ora, però, l’Occidente deve diminuire le disuguaglianze. Gli oligopoli economici e reddituali, tecnologici e culturali hanno aumentato la concentrazione di risorse, di potere e di influenza nelle mani di poche strutture e di poche persone».

Suor Alessandra Smerilli è una delle economiste più ascoltate dalla Cei – i vescovi italiani, radunati nella Conferenza episcopale italiana – e dal Vaticano al tempo di Bergoglio. Siamo al ristorante Sanacafé, quartiere Prati, a un quarto d’ora a piedi dalla Via Conciliazione in cui si trova il Pontificio Consiglio della Cultura (Suor Alessandra fa parte della consulta femminile) e a cinque minuti dalla Lumsa, dove dopo il nostro pranzo lei andrà a condurre un esperimento basato sulla teoria dei giochi finalizzato a comprendere se esistono diversità sostanziali nei comportamenti economici fra i religiosi e i laici.

Oggi Suor Alessandra non ha il velo, indossa un maglioncino blu e ha una camicia bianca con una costina centrale azzurra con sopra il rosario. Ha i capelli corti e il viso tondo, gli occhiali e uno Swatch verde e marrone al polso («Me lo hanno regalato degli amici svizzeri»). Ha una simpatia naturale e una naturale propensione a trasformare il sorriso in riso. Vive i normali affanni di tutti, «Chi ritiene che essere suora sia riposante pensando alla vita contemplativa, non sa quanto invece possa essere faticoso e impegnativo nella vita attiva». Su questo, nel 2013, ha scritto un libretto non privo di autoironia per le edizioni di Città Nuova intitolato appunto Suore.

«Papa Bergoglio – dice – nella sua enciclica Laudato Si’ ha espresso il messaggio profetico secondo cui tutto è connesso: l’ecologia e l’economia, il lavoro e la spiritualità. Esiste una continuità con la Caritas in Veritate di Papa Ratzinger. La questione non è avere più o meno mercato. Il nodo è la natura del mercato e anche la sua declinazione reale, nelle diverse fasi storiche. Papa Ratzinger si è soffermato sul tema cruciale della vocazione del mercato, definendolo come istituzione, se c’è fiducia generalizzata, che permette l’incontro tra le persone. I pontefici non sono economisti. I pontefici sono pastori che dichiarano la loro visione del mondo e manifestano le loro preoccupazioni. Come, di fronte ad alcune forme inaccettabili di realizzazione del mercato, ha fatto nella Evangelii Gaudium Papa Bergoglio, con il concetto molto forte del no all’economia che uccide, l’economia delle diseguaglianze, e del sì, per citare le sue parole “all’economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione”».

Al Sanacafé, un locale di gusto internazionale senza il timbro da osteria e senza la cifra anni Ottanta che ancora oggi perdura a Roma nei locali più pretenziosi e ben frequentati, la cucina è biologica, i tavoli sono delle tavolate in cui si consuma il pasto con i propri commensali a fianco di sconosciuti, il marketing e la comunicazione si fondono con un’idea comunitaria del desinare e con una prospettiva ultrasalutista ma non penitenziale del cibo.

Suor Alessandra, prima di scorrere il menù, si sofferma diverse volte sulle differenti declinazioni della diseguaglianza. Diseguaglianze economiche. Ma anche diseguaglianza fra uomo e donna. Pure nella Chiesa. «Nella Chiesa c’è poco spazio per le donne a livello di struttura e di gerarchia. Papa Francesco sta facendo molto per aumentare questo spazio. La diversità dello sguardo garantisce scelte più universali». Il tema delle diseguaglianze è il perno del pensiero e delle attività di questa suora dell’Istituto Figlie di Maria Ausiliatrice Salesiane di Don Bosco che è cresciuta in Abruzzo, ha un diploma di maturità al liceo scientifico Raffaele Mattioli di Vasto, è figlia di una parrucchiera (Lucia) e di un operaio della Magneti Marelli (Nicola) oggi in pensione e ha un fratello di nome Giuseppe, chef a Ningbo, a 300 chilometri da Shanghai, che è spesso ospite della televisione cinese dove insegna come si fanno il pane e la pasta.

Dal 13 al 16 marzo, Suor Alessandra sarà al seminario di Treviso della pastorale sociale della Cei su “Giovani, lavoro, sostenibilità”, dove avrà l’incarico di coordinare appunto il laboratorio su giovani e lavoro. Lo scorso ottobre, Papa Francesco l’ha nominata uditrice al sinodo dei vescovi sui giovani, dove ha tenuto un intervento. In quella occasione, Suor Alessandra aveva appena detto in sala stampa «economia ed ecologia hanno la stessa radice. Non si può ascoltare il grido dei poveri, e dei giovani fra i poveri, senza ascoltare il grido della terra, perché sono lo stesso grido», quando il suo account twitter è stato preso di mira da dei troll: «È stata una cosa pesante. Ma si è trattato di un episodio».

Suor Alessandra a fine febbraio ha svolto in Vaticano una relazione su ecologia, economia e politica in un seminario in preparazione del sinodo sull’Amazzonia, che si terrà a ottobre. L’Amazzonia, il Sud America. Uno dei cuori emotivi e culturali del pontificato di Bergoglio. Ma, anche, una delle metafore – fra propositi e azione, politica e scelte individuali – del pensiero economico del Santo Padre, «che è stato accolto molto bene dagli studiosi, per esempio Jeffrey Sachs e Paul Krugman, Joseph Stiglitz e Partha Dasgupta, ma che stenta a essere fatto proprio in maniera convinta e profonda dai cattolici: basta pensare alla poca attuazione, nei comportamenti di tutti i giorni, della ecologia integrale. È importante, per esempio, ricordare le parole di Papa Francesco nella Laudato Si’ sulla responsabilità sociale dei consumatori: “Acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico”. Per questo “il tema del degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi”». Suor Alessandra lo dice mentre iniziamo a mangiare come antipasto lei una insalata verde con spinacini e finocchi e io delle polpettine di melanzane.

Il tema evangelico della visione dell’economia all’interno della missione della Chiesa si incrocia con il profilo culturale della ricerca economica. C’è una relazione fra il magistero ecclesiale e la critica ai metodi classici della costruzione del pensiero della e sulla economia. Suor Alessandra ha due dottorati di ricerca (il primo alla Sapienza di Roma e il secondo alla University of East Anglia di Norwich), è professore ordinario all’Auxilium (l’unica università pontificia affidata alle donne) e visiting professor alla University of Pennsylvania. «Ci sono alcuni fondamenti culturali dell’economia che non persuadono. Penso innanzitutto all’idea che l’economia sia come la fisica, regolata da leggi naturali, quasi che sia una scienza esatta. Quindi, al principio di razionalità, secondo cui gli operatori economici assumono le proprie decisioni sempre in maniera razionale. Oppure, al concetto di equilibrio ottimale dell’allocazione delle risorse che ne discende. È interessante notare che l’idea secondo cui il soggetto non è una persona, ma il soggetto è una monade che pensa a sé ed è opportunista non è soltanto alla base della teoria economica classica, ma viene anche trasmessa agli studenti, condizionando la loro cultura e plasmando la loro visione del mondo».

Il dubbio di fondo sulla costruzione del pensiero economico nasce in Suor Alessandra al terzo anno di università. Ne parla come di una vera e propria illuminazione culturale, mentre passiamo al secondo: lei dei calamari croccanti e io un rollè di branzino. «Allora ho conosciuto l’economia di comunione di Chiara Lubich, la fondatrice del Movimento dei Focolari, e l’economia civile, studiata da Stefano Zamagni e da Luigino Bruni. Il dottorato italiano è stato sulla we rationality, la razionalità del noi. Il dottorato inglese sulla community of advantage, il vantaggio della dimensione comunitaria. Ho lavorato a Norwich con Robert Sugden, che nel solco della tradizione di Hume, Mill e Hayek ha sviluppato una nuova concezione dell’economia comportamentale, unendo esperimenti e teoria dei giochi, con la prospettiva di fare dialogare la scienza economica e la filosofia morale. La ricerca di una alternativa culturale o, meglio, di una critica nel metodo prima che nei contenuti, è oggi meno minoritaria di una volta. Anche se il mainstream, la corrente principale e dominante, è sempre il mainstream. Il grande blocco inscalfibile, nella diffusione di una concezione provvidenzialistica del mercato, è stato a lungo la Scuola di Chicago».

Sarà forse un caso, ma la prima – e l’unica – donna a vincere il Nobel per l’Economia – Elinor Ostrom – si è occupata di beni comuni. Mentre cediamo alla tentazione e dividiamo in due un tortino di cioccolata, Suor Alessandra racconta come tutto ebbe inizio: «La mia vocazione all’economia nasce all’interno del percorso di obbedienza. Io pensavo di iscrivermi a psicologia o a scienze dell’educazione, per lavorare con i ragazzi delle periferie. La mia madre superiora Vera Vorlova, una ceca molto lungimirante, mi chiese di pensare alla facoltà di economia perché, a suo avviso, l’economia sarebbe stata sempre più centrale. Non mi era mai venuto in mente. Di primo acchito mi sentii persa. Poi, però mi fidai e mi affidai. Dissi di sì, facendo notare che se si pensava a compiti gestionali non avrei garantito nulla, dato che non ho spirito pratico. E, così, eccomi qui».

Eccola qui, dunque: «Sono donna, sono suora e mi occupo di economia. Più fuori dal mainstream di così», sorride.

Il centro ha bisogno di cultura politica, non può essere un’invenzione di comodo

La sobrietà non va confusa con la negligenza. Guido Bodrato, parlamentare e ministro negli anni ‘80, figura eminente della sinistra democristiana e tenace assertore dell’autonomia del cattolicesimo democratico e popolare, interviene nel dibattito politico a cadenza regolare, ma con un giusto distacco intellettuale. Il suo ragionare conserva la severa essenzialità dei tempi lungamente spesi nelle lotte in prima linea.  Certo, il principio di sobrietà non si traduce, da parte sua, in un’analisi improvvisata. “Mi piace andare all’essenziale – dice – non mi piacciono i giri di parole. Per me il “centro” non è una categoria astratta tra la destra e la sinistra. Queste categorie debbono calarsi nella storia e nelle sue contraddizioni”.

Prodi è intervenuto, a riguardo, riconoscendo la necessità di una nuova formazione politica di centro. Ha parlato di un soggetto liberal moderato. 

Conosco Prodi, lo considero un amico. Quindi conosco il suo modo di pensare. Una volta mi interruppe affermando di non essere “un’anima bella,  essendo in politica per vincere”. Voleva andare oltre la Dc. Ora, nella vecchia Dc rimproveravamo ai dorotei l’inclinazione a stare comunque dalla parte del potere, pensando che il potere logora chi non ce l’ha. Comunque Prodi ha un’idea precisa di Europa e quindi è un interlocutore obbligato.

Secondo te non crede – o almeno non crede fino in fondo – a ciò che pure ha dichiarato?  Prodi non scommette sinceramente sul centro? 

Devo ricordare che fu la lista dell’Asinello alle europee del 1999 a dare il colpo di grazia a quel centro rappresentato dal Ppi, generosa formula di prosecuzione, dopo la caduta della Prima Repubblica, del  cattolicesimo popolare e democratico. Tuttavia non ci sono motivi per irrigidirsi sul dissenso maturato in anni ormai lontani; nei quali, tuttavia, cercavamo di rinnovare la tradizione del “partito di ispirazione cristiana”.

Beh…morì il Partito popolare ma nacque la Margherita. Non fu una risposta, in circostanze sempre più difficili, alla crisi di un partito ridotto al lumicino?

Non mi convinse l’idea di una democrazia caratterizzata dal rapporto diretto del leader con l’opinione pubblica, la polemica implicita con la forma partit. Arturo Parisi, interprete della linea post-referendaria “alla Segni”, era convinto che si trattasse di seguire un elettorato che aveva già scelto il bipolarismo. Io invece pensavo che in quella fase, di svolta storica, una nomenclatura – ovvero ciò che restava della Prima Repubblica –  stava perdendo il radicamento con il suo elettorato, al centro come a sinistra. Di fatto l’esperimento della Margherita non ha retto e dovette riproporsi, con altro indirizzo strategico, sotto il mantello del Partito democratico.

Non ti convince neppure il Partito democratico? 

“Ero assolutamente favorevole all’alleanza con la sinistra, non al “partito unico” (poco più che una scorciatoia). Oggi quell’idea riprende a circolare, ma in una situazione radicalmente cambiata. Non penso si possa semplicemente tornare indietro. Molti pensano – almeno così pare – di affiancare un centro democratico a una sinistra riformista. Da sola, infatti, dove va la sinistra? E dove andrebbe il centro? Nessuna forza politica può ambire in solitudine alla piena difesa dell’europeismo. La situazione è degenerata, basti osservare come sia stata mortificata la lezione degasperiana – sempre più valida – sull’integrazione economica e politica del Vecchio Continente. Giocare sulla semplificazione del messaggio politico, portando il Partito democratico nel campo del socialismo europeo, non ha sciolto i nodi, li ha semplicemente ignorati.

Tuttavia i Popolari europei sono collocati irrimediabilmente a destra. È un problema non da poco.

Tant’è che sono stato tra i propugnatori dell’uscita dei popolari italiani dal Ppe, quando la maggioranza degli europarlamentari Popolari, guidata dai tedeschi, ha scelto di archiviare la propria radice “democratica e cristiana” per far posto ai Conservatori europei e a Forza Italia. E ciò con il solo obiettivo di conquistare la pole position nel parlamento di Strasburgo. Ma l’idea di dare vita, nel 2004, al Partito Democratico Europeo, è stata abbandonata. Poi c’è stata la Brexit e ora è arrivato Orbán, il sovranista ungherese, di cui il Ppe si vorrebbe liberare, poiché in questa nuova fase storica, lo scoglio contro cui l’Unione europea potrebbe naufragare è esattamente il sovranismo, una drammatica regressione al nazionalismo

Sì, ma nel frattempo manca in Italia il partito di radice autenticamente popolare su cui far leva ai fini di questa nuova costruzione politica europea. Da noi, appunto, manca il centro. Che fare?

“Il centro ci sarà o non ci sarà a seconda della ricchezza di contenuto ad esso attribuibile. Senza cultura politica, non prenderà forma alcun centro credibile. De Gasperi ci ha obbligato a riflettere sul “centro che guarda a sinistra”. Lo statista trentino era intransigente nel chiudere il varco a una declinazione in senso conservatore e moderato del cattolicesimo politico. Storicamente, infatti, il centro alleato della destra ha finito ben presto per essere assorbito dalla destra. Ricordo che Jaime Valdés, leader cileno della Dc, diceva: “Se vai con la destra, è la destra che vince”.

E quando il centro guarda a sinistra? Alcuni rovesciano l’accusa, perché contestano la cedevolezza alle forze di sinistra.

Fino a quando è durata l’esperienza del Ppi siamo riusciti a preservare una identità, che tuttavia doveva e deve misurarsi con vari mutamenti radicali. Ralf Dahrendorf invitava a riflettere, sin dagli ultimi anni del ‘900, sul fatto che la globalizzazione avrebbe favorito la competitività a danno della solidarietà, l’autoritarismo a danno della democrazia. Poi è venuta la rivoluzione digitale e tutto è diventato più difficile. E sembra anche riemergere, dalle ceneri del ‘900, la suggestione che sia la violenza la matrice della storia.

La sinistra vuole fare la sinistra. Soffre di solipsismo….

Eppure la sinistra, nei momenti migliori, ha tratto giovamento dal confronto con il cattolicesimo democratico. È la ragione che induce a rinverdire questa attitudine al dialogo, sale della democrazia,  provando a illuminare i molti risvolti positivi di una storia che comincia con i “liberi e forti” di Luigi Sturzo e arriva fino alla “democrazia difficile” di Aldo Moro.

E dunque, come ricominciare? A quali condizioni e per quali sentieri?

Non ci sono scorciatoie. Un polo liberal moderato, così come lo definisce Prodi, non è il nostro destino. La moderazione fa parte dello stile di governo, non segna la figura del cattolicesimo democratico. Dei liberali, infine, abbiamo l’idem sentire di un discorso sulla società, benché l’ispirazione cristiana ci sproni a cogliere sempre l’ansia di giustizia e il vincolo della solidarietà. Si può ricominciare – non lo escludo – a patto però che la fatica di “nuove sintesi” accompagni costantemente il duro lavoro di ricostruzione. Da un piccolo seme spunta e cresce una pianta: questa è la fiducia che ci deve sostenere. In seguito, per trascinamento, verrà anche il tempo dell’organizzazione.

Dalla A (Abruzzo) alla Z (Zingaretti)

Le elezioni prima in Abruzzo e poi in Sardegna, e le successive primarie del PD hanno fornito elementi concreti per un’analisi dell’evoluzione politica nel nostro Paese.

Le due consultazioni regionali hanno dato in sostanza gli stessi responsi.

L’affluenza dei votanti è calata sensibilmente in Abruzzo (53% contro 63% regionali 2014 e 75% politiche 2018) e ha tenuto meglio in Sardegna (54% contro 52% regionali 2014 e 63% politiche 2018). La disaffezione alle urne rimane preoccupante, con un astensionismo al di sopra del 40%.

Vince il centrodestra a trazione leghista. Da notare la capacità di intendersi sul piano locale tra forze sui fronti opposti in Parlamento. Il richiamo del potere nei territori rimane molto forte ed è un collante che unisce la nuova destra sovranista (Salvini-Meloni) con i vecchi “berluscones”.

Tracollo del Movimento 5 Stelle. In Sardegna da 370.000 voti a 85.000: in soli 12 mesi 285.000 sardi sono fuggiti dal M5S. Meno 77%, cioè più di tre elettori su quattro hanno abbandonato Di Maio & C. Gli elettori delle due regioni hanno dimostrato di aver ben compreso l’inconsistenza dei grillini impietosamente dimostrata nei pochi mesi di governo. Chi li aveva votati con spirito qualunquista di destra ha fatto in fretta a preferire Salvini, dimenticandone in fretta i toni antimeridionali. Chi invece li aveva eletti a paladini della giustizia sociale, della trasparenza, dell’onestà contro la corruzione delle caste, li ha pesati, oltre che sull’imbarazzante incompetenza, anche su scivoloni familiari e politici, come il salvataggio dell’alleato Salvini dal processo. E la conclamata debolezza elettorale dei pentastellati li consegna ancor più nelle mani del furbo alleato, visto che la prospettiva di elezioni anticipate in caso di rottura significherebbero il probabile dimezzamento dei voti e degli eletti. Prospettiva che fa inorridire sia i peones sia i capataz del Movimento: “E quando mai ci ricapita?”, potrebbero dire in coro da Di Maio e Toninelli in giù.

Il centrosinistra rialza la testa. Resta lontano dai vincitori, ma ottiene risultati nettamente migliori delle pessimistiche previsioni della vigilia, grazie a candidati presidenti di Regione stimati e inclusivi, con un PD a basso profilo e la proliferazione di liste civiche a varie sfumature, di orientamenti culturali diversi e capaci di dare spazio alla corsa di molti candidati stimolati a ben figurare.

La vitalità a sinistra è poi stata anche confermata dalle primarie del PD. Le basse aspettative della vigilia (tutti e tre i candidati si auguravano un milione di votanti) hanno fatto ritenere un successo l’affluenza di circa 1.600.000 persone (fonte www.partitodemocratico.it): si tratta comunque di un risultato inferiore di circa 250.000 unità rispetto alle ultime primarie del 2017 che avevano incoronato Renzi per la seconda volta (e lì si erano persi un milione di votanti rispetto al 2013).

Più che nell’affluenza, il dato significativo sta nelle proporzioni del successo di Nicola Zingaretti, con i due terzi dei consensi. Non è un mistero per nessuno che l’ultimo PD era una creatura di Renzi, il partito del capo. Da domenica 3 marzo i gruppi dirigenti cambieranno per effetto delle primarie, e il partito inizierà una nuova fase. Ma i gruppi parlamentari restano gli stessi, formati in larghissima parte dai nominati del fiorentino, prima docili esecutori e oggi orfani in cerca di riferimenti. Renzi, ulteriormente indebolito dalle vicende familiari, si sta ritagliando un ruolo extra PD – presentatore televisivo, scrittore, conferenziere – ma pare al momento avere accantonato l’idea di farsi un suo partito (“In cammino”, stile Macron) per i deludenti sondaggi commissionati. È destinato comunque a rimanere un ingombrante convitato di pietra nel PD, anche se le urne dem hanno dato una indicazione netta.

Nelle primarie si sono misurati i renziani duri e puri (con il duo Giachetti/Ascani) i renziani pentiti (sostenitori di Martina) e i non-renziani che hanno puntato su Zingaretti. Il popolo delle primarie è riuscito a compiere la necessaria svolta che la classe dirigente dem ha evitato accuratamente per un anno: la resa dei conti con il renzismo. Il governatore del Lazio si è formato negli enti locali, si è conquistato credibilità vincendo elezioni amministrative dall’esito non scontato, ha tenuto un profilo distaccato negli anni di Renzi superstar e non si è cimentato nel salto sul carro del vincitore. Tutti meriti che giustificano ampiamente l’ottimo risultato ottenuto.

Intravediamo però due debolezze nella sua leadership.

Anche lui non si potuto sottrarre dall’abbraccio dei “renziani di comodo”, quei leader che, pur lontani per indole e cultura dal rottamatore, sono saliti opportunisticamente sul suo carro permettendogli di fare tutti i danni poi evidenziati dal tempo galantuomo. Giorgio Merlo ha già fatto il nome di Piero Fassino, cui possiamo aggiungere quelli di Dario Franceschini, forse il miglior “governativo” di estrazione cattolica, e Cesare Damiano, altro esempio di “governativo” con radici a sinistra.

Con appoggi di tal sorta, la “svolta” rappresentata da Zingaretti si scolorisce in partenza.

Il secondo limite sta nella sua proposta politica mirata al ricompattamento della sinistra. Se è certamente vero ciò che scrive Ilvo Diamanti sul fatto che non si passerà dal PdR (Partito di Renzi) al PdZ (Partito di Zingaretti), con altrettanta convinzione possiamo dire che si prospetta un ritorno dal PdR non al PD ma a un nuovo PdS, il Partito della Sinistra. Il limite che ha avuto il PD prima della deriva renziana, è stato proprio quello di non riuscire a superare le tentazioni egemoniche dei post-comunisti. Come fatto emblematico, ricordo la foto sul palco di Bersani con tre giovani da lui arruolati per arginare la novità Renzi nel 2012, Speranza, Giuntella e la Moretti: nell’euforia per la vittoria era ricomparso il saluto a pugno chiuso. Un gesto caduto in disuso persino tra i militanti di rifondazione comunista ma uscito dal cuore ai giovani dirigenti PD.

Il “partito del capo” ha fatto una brutta fine, ma anche il “partito plurale” ha avuto i suoi bravi limiti. Riuscirà Zingaretti dove hanno fallito l’americano Veltroni e l’ecumenico Bersani? È lecito dubitarne. Dopo tutto, con una legge elettorale d’impianto proporzionale che porta a un ritorno delle identità per trovare successive intese e alleanze di governo, lo stesso Zingaretti si è dato il compito di ricompattare la sinistra, rinunciando a vocazioni maggioritarie.

In questo scenario, cosa possono fare i democratici popolari di ispirazione cristiana?

Ci sarà chi cercherà di conservare uno spazio nel partito del nuovo vincitore: un Delrio, tanto per fare un nome, da colonnello di Renzi, poi sponsor di Martina alle primarie, dopo neppure 48 ore si è già detto convinto sostenitore di Zingaretti…

Uscendo dalle umane miserie e parlando di politica, appare evidente che esiste lo spazio per una nuova forza di centrosinistra, per un nuovo partito dei “liberi e forti”, ancorato ad un programma concreto di riforme, laico nell’agire ed evangelicamente ispirato.

Il difficile sarà passare dalle parole ai fatti, in un’epoca caratterizzata dal leaderismo mediatico. Dato che di Sturzo e De Gasperi non se ne vedono in giro, bisogna rimboccarsi le maniche e partire dal basso.

Fonte http://www.associazionepopolari.it/

Se la sinistra guarda l’elefante sbagliato

Articolo già apparso sulle pagine di http://www.libertaeguale.it a firma di di Giorgio Armillei e Stefano Ceccanti

Trump, Brexit, le elezioni italiane del 4 marzo 2018 hanno squassato gli equilibri tra elettori e partiti della sinistra euroatlantica e messo in moto un vasto processo di ripensamento. Un ripensamento cha va delineando un mainstream fatto da alcuni leader della sinistra “della grande recessione”: Corbyn, Sanders, Ocasio-Cortez. Collocarsi nel mainstream non significa ovviamente andare d’accordo su tutto.

Il neoliberismo è la causa della marea populista?

Tuttavia, un’aria di famiglia si respira, qualcuno lo chiama il millennial socialism.

La diagnosi ridotta all’osso è semplice: il neoliberismo sponsorizzato dalla “terza via” dei Clinton, dei Blair, degli Schroeder e, in quota, dei Renzi, è la causa della crisi della sinistra, prima ancora è la causa dei danni della globalizzazione, e in conclusione è la causa della marea populista.

Anche la terapia è semplice: più stato contro il mercato e la globalizzazione, più sovranità politica contro i processi incontrollabili dell’economia, più tasse sui redditi dei ricchi, più pianificazione dirigista per proteggere l’ambiente: nel linguaggio dei socialist democrats il green new deal. Insomma, stato e slowbalisation al posto di mercato, società e globalizzazione.

Anche l’Unione europea non se la passa tanto bene dentro questo schema: troppo ordoliberale.

Il millennial socialism assomiglia troppo al populismo

Anche se i millennial socialist si pongono all’opposizione delle tendenze populiste e sovraniste, è francamente difficile distinguere le loro diagnosi e le loro ricette da quelle dei partiti populisti e sovranisti. Provate a distinguere le ricette di Corbyn da quelle di Wauquiez. Lo stesso Zingaretti ha detto no al CETA come tutti i partiti populisti e nazionalisti. Ovviamente la sovrapposizione non è totale ma il mood è il medesimo.

Non tutti vanno in questa direzione che potremmo definire di polarizzazione populista: un populismo con matrici di sinistra accanto a un populismo con matrici di destra.

Macron, l’area liberale intermedia di CDU e SPD, alcuni tra i partiti Verdi, la sparuta (ancora?) truppa di The Indipendent Group nel parlamento UK. E se vogliamo dilettarci in letture “elitarie” i pochi economisti liberali che nel Boston Review Forum smontano le tesi ortodosse di Rodrik o Alberto Mingardi che prova a spiegare come della dittatura neoliberista non si riesca a trovare traccia nel nostro paese. Gli avversari dei nazionalpopulisti sono dunque in campo ma certo non sanno cosa farsene della vecchia distinzione tra destra e sinistra. Se usano quella mappa i loro localizzatori rischiano di non vedere nulla.

Oltre l’asse destra-sinistra

Anche il dibattito teorico internazionale nella sinistra sembra un pochino più articolato e complesso delle semplificazioni del millennial socialism.

Andrew Gamble in UK, che pure non è tenero nei confronti delle politiche degli anni Novanta, fa propria l’idea per la quale il conflitto politico si è oggi ridisegnato abbandonando l’asse destra sinistra e collocandosi lungo quello che vede contrapposti populisti e progressisti, tra i quali ultimi con certezza si possono annoverare parti del cosiddetto centrodestra.

E l’australiano Rob Manwaring, in una sorta di istantanea comparativa tra anglosfera ed Europa continentale, pur richiamando la sinistra al dovere di mettere a fuoco con lucidità la minaccia che grava sul sistema delle politiche sanitarie e sociali del welfare, non manca di notare come la via corbyniana sia tutt’altro che chiaramente identificabile come il nuovo brand della sinistra.

La scintilla di Provenzano

Tra gli analisti italiani non sembra invece avere dubbi Giuseppe Provenzano con il suo “La sinistra e la scintilla” da poco uscito per Donzelli. Il libro si distende su un’ampia quantità di temi ma anche in questo caso lo schema principale è abbastanza semplice. Parte con una dichiarazione manifesto: il governo gialloverde è il più a destra della storia della Repubblica. Da questa convinzione deve ripartire la sinistra in Italia. Nessun dubbio per Provenzano, nessun sospetto “album di famiglia”: il reddito di cittadinanza è di destra, anticipare la pensione è di destra, ridurre la flessibilità in entrata del mercato del lavoro è di destra.

Provenzano sembra non cogliere le radici a sinistra di gran parte di queste politiche e finisce curiosamente con il rovesciare e confondere i piani. Il governo gialloverde è di destra, la sinistra deve tornare a fare la sinistra, i moderati debbono pensare a riorganizzarsi per puntare ad un’alleanza a sinistra.

Ma il crinale su cui colloca la sua sinistra, finalmente liberata dai complessi di inferiorità verso l’egemonia neoliberale, è esattamente quello su cui si collocano i governi e i partiti nazionalpopulisti. Con le connesse ricette: sovranità politica e democrazia economica, interesse nazionale, interventismo per combattere i monopoli e orientare l’innovazione.

Per dare gambe alla sua proposta Provenzano ha bisogno così di due antiche ricette togliattiane: annullare la distinzione tra riformisti e radicali e stringere un patto con i moderati per far fronte al comune avversario di destra. Ma al di là della implicita e complessa eredità togliattiana, quello che appare difficilmente riproducibile è l’intreccio tra stratificazione sociale e sistema politico che innervava lo schema togliattiano. Come se il tramonto della “sinistra di centro” del trio Clinton, Blair, Schroeder potesse significare il ritorno puro e semplice allo schema dei gloriosi trenta.

La vecchia moneta socialista

Provenzano è per altro coerente: il suo obiettivo, in perfetto allineamento con il mainstream internazionale, è rimettere in circolazione la moneta del socialismo. Cos’è per lui socialismo, oltre all’interventismo e alla sovranità economica? Nulla di nuovo. Eguaglianza, lavoro, valore della cosa pubblica, redistribuzione di risorse economiche e di potere politico, progressività fiscale e welfare state.

E come può il PD tornare a queste nobili radici? Non certo costruendo o peggio ancora sciogliendosi dentro indistinti fronti comuni di tutte le forze che si oppongono al nazionalpopulismo, superando quindi la distinzione tra destra e sinistra. Può farlo se diventa la casa di una sinistra plurale, superando non la sinistra ma la distinzione tra riformisti e radicali, lavorando per definire una nuova idea di socialismo.

L’elefante di Milanovic o quello di Lakoff?

A suggello della sua ricostruzione Provenzano chiama, come era facile prevedere, l’elefante di Milanovic, il mantra di ogni rifondatore della sinistra che si rispetti. Qui Provenzano fa largo uso del pregiudizio sociologico: la scomparsa del centro moderato nel sistema politico è la conseguenza della ritirata del ceto medio nella stratificazione sociale. Attenzione però a non sbagliare bersaglio, dice Provenzano: l’avversario della classe media occidentale non sono le classi povere dei paesi emergenti ma i «plutocrati globali», del mondo ricco e di quello emergente. Ancora una volta è difficile non sorprendersi di fronte a tanta obiettiva convergenza tra le posizioni di questi rifondatori della sinistra e quelle dei nazionalpopulisti.

Potremmo dire che Provenzano, come molti rifondatori, sbaglia elefante. L’elefante da osservare con attenzione non è quello dei grafici di Milanovic ma quello delle analisi linguistiche di Lakoff: don’t think of an elephant.

Milanovic ci racconta come la globalizzazione incida sulla distrribuzione dei redditi. E racconta tutta la storia della globalizzazione, i costi come i benefici. Non ne racconta solo una parte: le difficoltà del ceto medio nei paesi avanzati, difficoltà che per altro molti studi (Norris Inglehart tra gli altri) negano connessa all’emergere del populismo.

Lakoff ci racconta invece come andare sul terreno dell’avversario per negarne la plausibilità delle posizioni sia in realtà concedergli un vantaggio formidabile. Don’t think of an elephant ci invita a rimuovere l’elefante: ma negare un frame in realtà attiva il frame.

In breve, la sinistra non può pensare di rifondarsi usando lo stesso frame dei nazionalpopulisti, come finisce per fare Provenzano, immaginando ingenuamente di negarne la fondatezza e di dare risposte diverse agli stessi problemi. La sinistra deve imparare a ragionare in uno schema nuovo che rompa l’egemonia del racconto nazionalpopulista. Altrimenti il voltare pagina sarà solo e sempre un guardare indietro.

Dovere

Dopo l’Abruzzo anche in Sardegna, nonostante sia migliorata la partecipazione al voto, si segnala l’astensione come primo partito; dovrebbe preoccupare di più dei voti di protesta. Non è pigrizia, ma una scelta di elettori che non sanno nè come nè perché scegliere. Mi sembra che tutte le forze politiche da tempo si concentrino sul loro ombelico anziché sul Paese, se non per parlare alla sua ‘pancia’ con risultati effimeri di successo. L’elettorato è volubile; è finita la stagione delle appartenenze e delle fidelizzazioni. I clic non sostituiscono le persone. Il popolo è un sostantivo generico. E’ vero che gli Italiani sono 60 milioni e che le Istituzioni nazionali sono rappresentative di tutti; tuttavia non vale quando si pretende di attribuire a tutti i 60 milioni i programmi dei propri partiti, addirittura i punti del ‘contratto’ di Governo. Il voto è un diritto ma anche un impegnativo e responsabilizzante dovere. Evidentemente da qualche anno gli Italiani non sono persuasi da promesse che si capiscono inattuabili.

Si sentono ripetere che il Governo si interessa di quello che serve a L’Aquila o a Cagliari, non di quello che dice Bruxelles. Purtroppo gli Italiani, col loro Paese, sono inseriti nell’ampio mondo delle relazioni internazionali, del mercato globale e non meritano di “essere tagliati fuori “per il neonazionalismo che chiamano sovranismo, come fosse una grande opportunità. La politica estera puntella la politica interna, perché gli scambi commerciali, e non solo, sono saldamente ancorati alle alleanze come accade con la Francia, con la quale gli scambi valgono 10 miliardi; non è il caso di offendere i ‘cugini’ di Oltralpe. La politica estera, buona, si sostanzia anche con accorgimenti di galateo istituzionale come è accaduto per l’intervista rilasciata dal Presidente Macron ad una rete TV italiana, un appello a tutti i popoli dei 28 Paesi in vista delle elezioni europee, come i messaggi sempre pacati ma precisi del Presidente Mattarella quando parla anche ai giovani studenti e non solo nelle sedi più formali.

Il Paese ha bisogno di serenità ma le difficoltà economiche che anche i dati statistici, purtroppo, confermano, non inducono i vice presidenti del Consiglio – “fratelli coltelli” – ad evitare trionfalismi e, anzi, continuano a cercare diversivi per non entrare nel merito delle situazioni urgenti da risolvere. Le infrastrutture – e non solo la TAV – sono fonte di modernizzazione del Paese e di lavoro. Ci soni i fondi accantonati, ma occorre capacità decisionale lungimirante che, oltre a modificare il codice degli appalti, attivi modalità procedurali per cui i lavori non durino decenni.

Si comprende poi la critica di chi può affermare che molte opere si completano quando oramai sono superate. Mi piace ricordare un ritornello che mi sta a cuore: l’autostrada del Sole, Milano Napoli, fu ultimata in 6 anni, 1958-1964! Magnifici cavalcavia e gallerie, che non sono crollati. Imparate! Forse erano onesti, incorruttibili e coraggiosi i decisori, i tecnici e le imprese di allora. Non si spiega perché oggi non può essere così e si rinuncia alle Olimpiadi. La lungimiranza dei politici riguarda anche come dare significato alla frase corretta, quando non è pronunciata con sufficienza, “aiutarli nei loro Paesi”. Ciò comporta una ampia azione di politica estera, conoscenza delle situazioni geopolitiche e assunzioni di gravi responsabilità. Potremmo citare solo due esempi, Nigeria e Congo. Due colossi africani ricchi di ogni materia prima, eppure sono all’origine di migrazioni vergognose. La maggior parte dell’opinione pubblica forse non conosce il Coltan ma è il materiale prezioso che dal Congo fornisce tutte le grandi imprese produttrici di strumenti informatici. Aiutarli là, significa non rapinare i loro beni ma insegnare a lavorarli là e a costruire fabbriche là!

C’è questa consapevolezza e, soprattutto, un grande lavorio internazionale per ottenere questi risultati? Una grande Europa – gli Stati Uniti d’Europa – sarebbe una grande potenza mondiale economica, ma anche di diritti di libertà e di democrazia, e potrebbe attivare Piani strategici per migliorare i rapporti del nord del mondo con l’Africa e valorizzare i Paesi a sud del Mediterraneo, annullando le migrazioni economiche e impedendo una neocolonizzazione cinese di quel continente, che è stato la culla dell’umanità. Una politica di vedute alte e lunghe appartiene anche all’elaborazione delle forze di opposizione all’attuale maggioranza di governo. Gli oltre 1.700.000 cittadini italiani che si sono presentati alle primarie, si sono sentiti chiamati a dare un segnale al Partito Democratico, impegnando, con un grande consenso, il nuovo segretario, Nicola Zingaretti, a far vivere una attiva opposizione in Parlamento e nel Paese, per offrire ai cittadini proposte alternative e il gusto della partecipazione civile. Quando si offre una vera occasione di partecipazione, la reazione arriva. A Milano il 2 marzo centinaia di migliaia di cittadini si sono espressi a favore di una visione di società solidale, coesa e fiduciosa nelle proprie capacità.

Vale forse la pena di sottolineare che è un popolo più numeroso dei 52.000 clic per decidere sì o no ad un’opera importante per 60.000.000 di Italiani, e sono molte centinaia di migliaia di più delle decine che hanno incoronato i capi dei due partiti di governo. Tuttavia il PD non si illuda che gli elettori di domenica 3 marzo siano il lavacro del drammatico 4 marzo 2018. Chi si è pentito e chi non aveva votato, ora si aspetta molto. Innanzitutto l’unità del partito; basta divisioni interne. Gli iscritti non ne possono più e gli elettori si aspettano di essere loro ad avere diritto di essere i destinatari di una politica che offra una visione, un programma di governo, una classe dirigente idonea.

Perso un anno con dibattiti tutti interni, ora si attivi una struttura riconoscibile (ottimo sarebbe un governo ombra), e si recuperi rappresentanza vera e non virtuale della società: competenza, cultura (i danni dell’ignoranza sono sotto gli occhi di tutti ), intergenerazionalita’ (siamo un paese di anziani) per non confondere attenzione e speranza per i giovani con giovanilismo. Valorizzare la presenza femminile a tutti i livelli e non solo per motivi statutari, ma perché rappresentano il nuovo, sempre rinnovantesi della società (sono ‘care giver‘ per tutto). Nelle code di domenica sembravano essere la maggioranza. Non tradire quel popolo. Gli iscritti al PD sono 400.000, tutti gli altri erano elettori che hanno riposto fiducia in un partito che sperano sia all’altezza delle sfide che la comunità italiana affronta.

Priorità esplicite: riempire le culle, definire chiaramente gli aiuti contro la povertà (favorevoli al reddito e al salario minimo, ma razionali e non bandiere), welfare che consenta l’accesso ai servizi perché nessuno rinunci alle cure; ambiente e infrastrutture (grandi e manutenzioni) che siano regolate con procedure facili, trasparenti, veloci (esistono anche le penali pesanti). Si può lavorare anche di notte e giorni festivi: avviene in altri settori, perché no quando occorre servire. con minori disagi possibili, i cittadini? Soprattutto Europa! Ogni programma sia nel quadro di un’Europa che unisce i popoli e faciliti la posizione dell’Italia tra le potenze mondiali come protagonista e non subalterna. Il risultato di domenica non è un arrivo; è il primo passo per una scalata dell’Everest, per cui se non si sta in cordata si muore.

Aspirare ad essere esemplari. Urge una classe dirigente consapevole che servire il popolo significa avere più oneri e più doveri dei singoli cittadini. Chi fa politica smetta la civetteria di ‘essere prestati alla politica’. Chi si fa eleggere, fa politica! e ha il dovere di comportarsi di conseguenza: con linguaggio consono e in buon italiano (la lingua ci fa ‘uni di patria’), lingua ricchissima che non ha bisogno di inglesismi; atteggiamenti e
vestiti adeguati, non servono griffe, basta essere “ad onor del mondo“ (per tradurre una espressione milanese, dopo quella “scappati di casa”). “A me, me ne frega” è una volgare espressione e pure sintatticamente sbagliata.

Ai politici è chiesto di guardare avanti e il PD lo dimostri senza rivangare continuamente il passato. Registrati i successi e ‘imparati’ gli i successi per non cadere negli stessi errori, serve rammendare sia il Partito che il Paese. I ministri del Governo Gentiloni siano pure orgogliosi del passato ma ora si mettano al servizio del futuro. Rimpiangere o rinfacciare non costruisce niente ed anzi rafforza la cultura rancorosa che viene distribuita a piene mani dalla maggioranza: a lei bisogna contrapporre idee e atteggiamenti opposti, da opposizione! E’ dovere di governare da parte della maggioranza ma, con diversa modalità, anche delle opposizioni. Chi governa, chi parla in pubblico, faccia lo sforzo di ricordarsi che ci sarà chi imparerà e copierà esempi non esaltanti. Gli altri sono quelli che vanno all’estero! Un grande uomo, maestro di giovani, un politico esemplare e uno statista martire non poteva lasciarci un’esortazione più forte ed incisiva: “Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti si rivelerà effimera se in Italia non rinascerà il senso del dovere”.

(Aldo Moro, 28 febbraio 1978, ultimo discorso ai Gruppi Parlamentari della DC)

Pastori, ora occorre vigilare sul rispetto dell’accordo

Serve ora vigilare attentamente sul rispetto dell’accordo per fare in modo che si trasferiscano ai pastori gli effetti positivi sul mercato del pecorino determinati dall’intervento pubblico e dall’aumento delle vendite stimato pari al 30% dalla grande grande distribuzione, per effetto delle campagne promozionali. E’ quanto afferma la Coldiretti nel commentare l’accordo sul prezzo del latte ovino raggiunto a Sassari dopo quasi un mese di negoziati iniziati al Viminale con il Vicepremier Matteo Salvini dopo la manifestazione della Coldiretti guidata dal presidente Ettore Prandini in piazza Montecitorio.

Da allora circa tre milioni di litri di latte sono stati lavorati per essere dati in beneficienza, dati in pasto agli animali o gettati in strada per colpa di una situazione insostenibile che – ricorda la Coldiretti – ha portato i pastori all’esasperazione. Abbiamo firmato per ultimi con senso di responsabilità un accordo che – sottolinea la Coldiretti – aumenta del 20% l’acconto sul prezzo del latte consegnato dai pastori rispetto all’inizio del negoziato, con l’obiettivo però di arrivare a quotazioni finali di un euro per effetto della griglia di indicizzazione che è stata impostata.

Restiamo impegnati per ottenere nuove regole che valorizzino il lavoro dei pastori nella formazione del prezzo e vigileremo affinché, dopo le evidenti disfunzioni,  si arrivi al piu’ presto una corretta gestione del Consorzio di tutela del pecorino Romano che veda protagonisti i pastori, ai quali devono essere assegnate le quote di produzione. In gioco – conclude la Coldiretti – ci sono 12mila allevamenti della Sardegna dove pascolano 2,6 milioni di pecore, il 40% di quelle allevate in Italia, che producono quasi 3 milioni di quintali di latte destinato per il 60% alla produzione di pecorino romano (Dop)”.