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mercoledì, 5 Novembre, 2025
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il Mediterraneo rischia di diventare un cimitero a cielo aperto

di Andrea Cuccello segretario (confederale della Cisl) e Liliana Ocmin (responsabile coordinatrice nazionale donne, giovani ed immigrati)

Con la conversione del decreto sicurezza bis è sempre più difficile e rischioso il salvataggio dei naufraghi; il pericolo concreto è che il Mediterraneo rischia di diventare un cimitero a cielo aperto dove per scoraggiare i trafficanti di esseri umani si criminalizza l’opera di salvataggio dei naufraghi, rendendola più complicata e mettendo a rischio la vita di uomini, donne e bambini che cercano di lasciarsi alle spalle violenza, guerra e fame.

I trafficanti degli esseri umani sono dei criminali senza scrupolo e la disperazione di chi decide comunque di partire dalle coste libiche possono determinare un crollo della sicurezza in mare. Per la Cisl è prioritario combattere i trafficanti di esseri umani, ma provvedimenti estemporanei ed unilaterali sono destinati nel lungo periodo a fallire se non sono supportati da una politica organica condivisa all’interno dell’UE di gestione del fenomeno migratorio anche in risposta all’esplosiva questione libica.

Vorremmo sbagliarci, ma abbiamo il timore fondato che senza un combinato di azioni e provvedimenti condivisi a livello europeo non ci sarà più sicurezza nel Mar Mediterraneo. Non sarà questo provvedimento a scoraggiare criminali e migliaia di disperati che hanno vissuto il drammatico viaggio sino alle coste libiche o che sono bloccati nei Centri libici dove la violazione dei diritti umani è l’unica certezza.

Innanzitutto crediamo sia necessario a livello di tutte le nazioni dell’UE introdurre un sistema di ingressi legali per motivi di lavoro con sistemi di quote che presuppongano accordi bilaterali con i Paesi di origine, garantire il diritto di asilo a livello della comunità internazionale nei luoghi di raccolta nelle coste africane con l’azione di supporto delle preposte agenzie dell’Onu, attraverso corridoi umanitari con una equa e concordata ripartizione dei rifugiati tra tutti i Paesi dell’UE. Ciò significa riformare il Trattato di Dublino modificando la regola secondo cui il Paese di primo sbarco è l’unico responsabile della richiesta d’asilo.

Sono solo alcuni provvedimenti necessari che devono coinvolgere le Istituzioni europee in un sistema di responsabilità condivise. Il nostro Paese al suo interno può e deve fare qualcosa di più per dotarsi di una efficace politica organica di gestione virtuosa del fenomeno migratorio. Anche l’Italia al suo interno può e deve riformare una legislazione che crea irregolarità. Per questo ci vuole l’impegno e l’elaborazione di tutto il Parlamento perché si tratta di argomento di interesse nazionale che non può essere liquidato con tweet ed estemporanei ed unilaterali provvedimenti.

Un esempio concreto lo è stato il precedente decreto i cui effetti li stiamo monitorando in termini di minore integrazione e aumento di fenomeni di irregolarità e marginalità sociali.

Sin da subito, a legislazione vigente, si può ad esempio ridare vigore al Documento di programmazione dei flussi fermo al 2006 con il coinvolgimento, come previsto, insieme alle Istituzioni della società civile, del Sindacato e del mondo imprenditoriale.

E’ comunque nostro auspicio che l’Italia, insieme all’UE e dentro l’UE, si doti di una legislazione che realmente sappia promuovere una politica di gestione del fenomeno migratorio secondo i principi di solidarietà, umanità, integrazione e coesione sociale come unici elementi che danno opportunità di prosperità, sviluppo e sicurezza sociale.

Salvini ringrazi i grillini attaccati alla poltrona

Il Senato ha approvato, con voto di fiducia, il Decreto (In)sicurezza bis, nonostante gli appelli di tantissime realtà del mondo cattolico e laico e contro le forti perplessità di molti operatori del settore.

Il Ministro Salvini – con la cinica e blasfema impudicizia che lo connota – ha ringraziato “la Beata Vergine Maria”.

Avrebbe fatto meglio a ringraziare l’attaccamento alla poltrona dei senatori grillini.

Quelli che avevano messo Gino Strada tra i possibili candidati al Quirinale ed oggi votano una Legge di questo genere.

Riprendendo una espressione di Rino Formica, il senatore grillino Airola ha motivato il suo voto favorevole ricordando che la politica “è sangue e merda”. Più la seconda che il primo, vorrei dire, almeno per chi sta in Senato e non nei campi di concentramento libici o sui barconi nel Mediterraneo.

Mi è tornato in mente in questi frangenti un eccezionale testo, scritto nel cinquecento da Etienne de La Boétie, dal titolo emblematico: “Discorso sulla servitù volontaria”.

Egli parlava del popolo nel suo rapporto coi tiranni. Temo non sia però improprio citarlo a riguardo dei  senatori grillini nel loro rapporto con il Governo “Salvini-Salvini” (posto che il Governo “Salvini-Di Maio”, se mai esistito, è palesemente passato a miglior vita…).

Speriamo almeno che – nonostante i sondaggi e l’aria che tira – non sia ancor oggi pertinente citare La Boétie anche a riguardo del popolo.

A Strasburgo si riapre il tema della cooperazione

Dopo le elezioni e il nuovo volto che gli elettori hanno dato al Parlamento europeo, molti temi geopolitici aspettano un equilibrato esame sia per quanto riguarda la situazione interna allUnione, sia per i rapporti con il continente africano. In questo articolo il senatore Lucio DUbaldo ci aiuta a leggere i nuovi e vecchi orizzonti su cui si affaccia il neoeletto Parlamento.

(Popoli e Missione – n. 7 – 2019)

È tempo di sintesi dopo il profluvio di valutazioni a caldo, chiuse le urne, attorno ai vinti e ai vincitori di maggio. Dalle elezioni lEuropa esce rafforzata nel suo faticoso percorso verso una crescente ed equilibrataintegrazione. Intelligenza vuole che il modello di convivenza e collaborazione acquisisca caratteri più armonici, soprattutto grazie a un rinnovato primato della politica, per staccare dalleconomicismo e dal burocratismo lesperimento ultradecennale dellUnione. In questa competizione è emerso con chiarezza un dato macroscopico: il progetto audace, nientaffatto scontato, di cui furono interpreti i Padri fondatoriallindomani della seconda guerra mondiale, malgrado tutto resiste e va avanti. Limplosione dellEuropa è stata scongiurata.

I sondaggi, in realtà, fotografavano da mesi larresto dellondata anti-europeista. A conti fatti, pur dovendo registrare il declino dei gruppi storici delleuroparlamento, prende forma un assetto più articolato ma pur sempre saldo, quindi coerente e affidabile, come ieri o più di ieri, con lambizioso disegno di un potere sovranazionale a misura del ruolo di unEuropa ancora protagonista nel concerto della grande politica internazionale. Se Popolari e socialisti ora sono più deboli, Verdi e liberali escono invece irrobustiti dalle urne. C’è un nuovo equilibrio da inventare, immaginando che abbia comunque lenergia capace dimprimere la necessaria spinta alla futura attività dellAssemblea di Strasburgo.

La fiducia deriva da semplici constatazioni. A parte il dato dellItalia e della Gran Bretagnaalle prese, questultima, con linfinita e tormenta vicenda della Brexit la partecipazione elettorale ha toccato mediamente percentuali superiori al passato: un buon segnale, questo, a favore dello sviluppo di una democrazia radicata nella dimensione continentale. Vuol dire che la legittimazione dellEuropa a livello di pubblica opinione e corpo elettorale, avanza e progredisce nonostante tutto. La propaganda avversa, condensata nelle parole dordine di un nuovo nazionalismo, non ha raggiunto i suoi obiettivi.

LEuropa deve tornare a incidere sulle vicende del mondo. La pace e il progresso come beni universali dipendono in gran parte dal recupero di unideale storico-concreto, ovvero di una civiltà pluriforme e complessa, che si è sedimentata per secoli e secoli, entrando in crisi con la fine dello ius publicum europaeum. La guerra fredda ha reso subalterna lEuropa. Tuttavia, senza il contributo che essa può offrire, specialmente nellattuale confronto multipolare, con lemersione prepotente della Cina e linstabilità della funzione imperiale degli Stati Uniti, il nostro pianeta è destinato a misurarsi con il proliferare di logiche di scontro, ancor più pericolose per mancanza di quel bilanciamento che il confronto USA-URSS a suo modo garantiva.

La geopolitica, intanto, porta a ricostruire il ponte tra Europa e Africa. Sulle ceneri del colonialismo, dopo il lungo processo di conquista dellindipendenza nazionale, i popoli e gli Stati africani possono riporre fiducia nei rapporti con il Vecchio Continente. LUnione europea, daltronde, guadagna credito proprio nella prospettiva di questa feconda ipotesi di collaborazione. Non bisogna dimenticare che la presenza della Cina, oggi vista come una minaccia, è anchessa un prodotto della guerra fredda. Molti regimi africani ebbero gioco facile a motivare lapertura nei riguardi di Pechino con lesigenza di una terza viatra America e Unione sovietica. Anche lideologia dette man forte a questa strategia dei non allineati: il capitalismo si poteva combattere meglio con libretto rosso di Mao. Lintreccio di marxismo e confucianesimo conferiva alla formula del comunismo cinese un fascino particolare. Il maoismo ebbe fortuna nelle università europee e trovò accoglienza nei nuovi Stati indipendenti del Continente nero.

Altra si dimostra la condizione odierna. Quello che doveva essere un aiuto, nella realtà si è trasformato in un vincolo pesante. Gli investimenti cinesi hanno avuto ricadute impreviste, più che sgradevoli, sui bilanci degli Stati beneficiari. Il costo delle infrastrutture – porti, ferrovie, reti stradali – ha spinto in alto il debito di molti Paesi. Lo sviluppo locale è strangolato nella morsa di enormi problemi finanziari. Anche la qualità delle opere pubbliche lascia molto a desiderare. Si è assistito a un rapido deterioramento di strutture evidentemente costruite con materiali di scarsa qualitá. Il mito della Cina appartiene ormai al passato. Da ciò deriva lurgenza di rinsaldare la politica di cooperazione tra i due continenti affacciati sul Mar Mediterraneo.

Un tempo lAfrica era vuota, il suo deficit demografico cozzava con laumento massiccio tra 800 e 900 della popolazione europea. Le previsioni dicono viceversa che nel giro di qualche decennio le parti si saranno abbondantemente rovesciate: per ogni cittadino europeo, ne avremo cinque africani. Con due miliardi e mezzo di abitanti, prevedibilmente nel 2050, lAfrica si accinge ad essere il continente più popoloso della Terra. Si tratta di una vera e propria rivoluzione, con scenari evocativi di possibili turbolenze. Senza una correzione della curva demografica, a rischio è la tenuta sociale ed economica dellEuropa; senza un adeguato modello di sviluppo economico, in Africa è invece a rischio la stessa condizione di vita, già precaria e difficile oggi, di sempre più ampie masse di popolazione. In questa cornice si colloca, per quanto ci riguarda, lindebita e sconsiderata manipolazione in chiave xenofoba dei temi dellaccoglienza e dellaiuto, nel presupposto che la salvezza consista nel chiudere le frontiere, erigere muri, respingere i migranti.  Irrazionalità e disumanità avanzano di pari passo nella illusione che il benessere si conservi tale e quale, dove attualmente alligna, supponendo di trovare rifugio nellimprobabile paradiso  dellautarchia (di tutti contro tutti).

Non dobbiamo cadere nel pessimismo. In effetti, dalla nostra abbiamo un deposito di sensibilità politica e culturale, che nutre fin dalle origini il progetto europeista. Quando nasce infatti la Comunità, nel secondo dopoguerra, ben 50 Paesi africani su 53 erano sotto un regime di tipo coloniale. Si volle imboccare, per consapevolezza e responsabiltà, unaltra strada.  Per questo la quarta parte del Trattato di Roma (1957) individuò la formula dellassociazione dei paesi e territori doltremarealla Comunità economica europea in modo da condurli, così recita larticolo 131, allo sviluppo economico, sociale e culturale che essi attendono. È stato solo il primo mattone di una costruzione che ha visto sviluppi sempre più articolati e impegnativi, specialmente dopo listituzione nel 2000 dellUnione africana.

Altre tappe andrebbero ricordate, ma sarebbe troppo lungo soffermarsi su di esse. Lattenzione piuttosto va riposta sulla dichiarazione di volontà in ordine al rafforzamento del partenariato tra Europa e Africa. Gli scambi commerciali sono molto intensi. Il 36 per cento delle merci prodotte in Africa finiscono sui mercati del Vecchio Continente. Lo sviluppo dei popoli africani costituisce un grande obiettivo strategico dei Vertici europei. Sono stati adottati, fino al 2020, piani dinvestimenti comunitari pari a 32.5 miliardi. Nei documenti della Commissione di Bruxelles campeggia la definizione di regione prioritariaproprio a riguardo dello spazio geopolitico africano. A dicembre scorso, infine, si è tenuto a Vienna un vertice bilaterale che ha fornito ulteriori indicazioni sulle prospettive di sviluppo.

LEuropa, con il suo retaggio culturale e il suo potenziale economico, possiede gli strumenti per agganciare lAfrica al progresso del mondo. È nel suo interesse farlo.

*Larticolo, qui riproposto, appare sul numero di luglio-agosto della rivista Popoli e Missionediretta da don Giulio Albanese.

Comuni, parte l’Associazione “Rete comune. Sindaci al centro”

Si riparte dai comuni. Cioè si riparte dalle autonomie locali. Rete Bianca ha deciso di dar vita ad una Associazione nazionale dei Sindaci e degli amministratori locali. Si chiama “Rete comune. Sindaci al centro” e ha 3 obiettivi di fondo.
Innanzitutto e’ uno strumento politico che punta a coinvolgere una rete di sindaci, assessori e di consiglieri comunali che restano il nerbo centrale della democrazia italiana. Perché se è vero, com’è vero, che il comune resta “la palestra democratica” per eccellenza come ci ricordava già Luigi Struzo nel celebre intervento del 1905, e’ pur vero che solo partendo dal basso, cioè dai comuni, e’ possibile anche rilanciare la democrazia partecipativa, la democrazia solidale e la democrazia istituzionale. E “Rete comune. Sindaci al centro” ha come priorità anche la ripartenza dalla centralità delle autonomie locali. Che erano e restano il passaggio passaggio decisivo per ridare qualità alla democrazia e senso alle stesse istituzioni democratiche.
In secondo luogo l’Associazione punta ad essere protagonista in vista dell’ormai prossimo congresso nazionale dell’Anci. Una associazione, l’Anci, importante per il mondo delle autonomie locali purché non si riduca ad essere un luogo burocratico e larvatamente protocollare. Come, purtroppo, e’ capitato negli ultimi tempi. E la nostra Associazione punta ad essere un momento di confronto e di aggregazione del vasto mondo popolare, cattolico democratico e cattolico popolare – con altre esperienze ideali e culturali – che e’ fortemente presente nelle amministrazioni locali italiane. Soprattutto nei piccoli e nei medi comuni dove il dibattito e’ meno politicizzato ma più radicato sui bisogni e sulle istanze che provengono dai cittadini.
Infine con questa iniziativa si recupera uno dei capisaldi del popolarismo sturziano e uno degli elementi centrali della lunga e feconda esperienza democratico Cristiana e cattolico popolare. Del resto, e’ perfettamente inutile celebrare Sturzo, il centenario dei “liberi e forti”, il popolarismo di ispirazione cristiana e poi sostanzialmente snobbare il mondo – articolato e composito – delle autonomie locali. Senza ripartire dal basso qualsiasi altra ipotesi e’ destinata a restare nel campo delle enunciazioni e della politica politicante.
La scommessa di “Rete comune. Sindaci al centro” e’ ambiziosa ma del tutto realistica e soprattutto coerente. Non ci resta che lavorare per consolidarla. Ad oggi contiamo già un centinaio di sindaci e moltissimi assessori e consiglieri comunali. La strada e’ gusta. Tocca a noi radicarla e tracciarla in vista dei prossimi appuntamenti politici.
Giorgio Merlo

L’assalto alla diligenza non paga, e i conti non tornano. La versione di Becchetti

di Gianluca ZapponiniFormiche.net

Sognare non costa nulla, ma se ognuno poi quei sogni vuole vederli realizzati allora la musica cambia e i conti sballano. L’Italia che sia avvia alla sua seconda manovra gialloverde rischia di fare, più o meno, questa fine. Sempre che qualcuno non azioni il freno d’emergenza un minuto prima, qualcuno come il ministro dell’Economia, Giovanni Tria. Leonardo Becchetti, economista e docente a Tor Vergata, la mette giù molto semplice: non si può avere tutto, qualcuno nel governo, Lega o Movimento Cinque Stelle che sia, dovrà rinunciare a qualcosa.

I CONTI (NON) TORNANO

“Se nessuno farà un passo indietro il banco salterà inevitabilmente”, premette Becchetti. “Dobbiamo capire se c’è qualcuno che abbia voglia di rompere o meno. La Lega vuole una flat tax che costerà non meno di 15-20 miliardi, l’Europa invece chiede una riduzione del deficit e poi c’è un’Iva da disinnescare, per un valore di 23 miliardi: è evidente che i conti non tornano. Tria sta facendo i salti mortali per trovare le risorse, già qualcosa ha trovato riducendo per esempio i sussidi alle fonti fossili, però non bastano. Si parla di un riordino delle agevolazioni fiscali, ma nessun governo ci è mai riuscito. Francamente ho anche dei dubbi su questa operazione, per esempio togliere quelle sulle ristrutturazioni edilizie potrebbe aiutare il nero e dunque, paradossalmente diminuire il prelievo fiscale“.

LA PARTITA DI TRIA

Becchetti sa fin troppo bene che Tria dovrà ancora una volta fungere da mediatore tra il governo a trazione gialloverde e un’Europa che si aspetta il rispetto dei patti siglati nei giorni della procedura di infrazione. “Credo che innanzitutto dovrà essere abile a trovare più risorse possibili e questo per non aumentare la tensione nel governo. E poi capire fino a quando è possibile accettare dei compromessi. Uno di questi sarebbe l’aumento dell’Iva selettivo, ovvero non aumentare l’Iva alle filiere che si contraddistinguono per sostenibilità ambientale e sociale. Per esempio, quando si alzano le tasse sul fumo, nessuno dice niente. Il problema è che non si è arrivati a questa consapevolezza, diciamo industriale e fiscale”.

IL REBUS DEL SALARIO MINIMO

C’è un’altra questione sulla quale Becchetti si sofferma. E cioè il possibile scambio salario minimo-cuneo fiscale. Un’ipotesi che però, come raccontato da Formiche.net, non piace alle imprese. E che trova perplesso lo stesso economista. “Per le imprese si tratterebbe di un sostanziale pareggio, semmai ci sarebbe un vantaggio per i lavoratori. In realtà però il salario minimo ha parecchie controindicazioni perché per le imprese comporterebbe un aumento del costo del lavoro pari al 30% e poi non è detto che il gioco funzioni: in agricoltura abbiamo aziende efficienti che pagano dignitosamente il lavoro, altre no, ma queste seconde non si possono mica cancellare. Si tratta di una misura decisamente incerta, e poi non dimentichiamoci che se ci mettiamo salario minimo sommato a taglio del cuneo per lo Stato è comunque un costo e allora si torna al punto di partenza“.

RIPRESINA IN VISTA?

Volendo allargare lo spettro, che ne sarà della nostra economia? L’Istat oggi ha dato segni di speranza, ma è davvero così? “Non dobbiamo perdere questa grande occasione, la politica monetaria finora è stata accomodante, quello che dice l’Istat ci dice che abbiamo un’occasione per investire, è il momento di lanciare politiche per gli investimenti serie. L’errore più grande che poteva fare questa governo e che ha fatto è stato depotenziare Industria 4.0″.

Un vascello in avaria

E ora che Forza Italia nazionale si sta inesorabilmente avviando verso la dissoluzione, tanta gente volta le spalle a Silvio Berlusconi, fugge alla ricerca di nuovi protettori e benefattori inesistenti. Il leader massimo è stato tradito da chiunque e, Forza Italia, a furia di scossoni, è andata a puttane.

 

Il desolante scenario a cui assistiamo quotidianamente è deleterio, non passa giorno che la confusione regni sovrana, nessuno, neanche il capo supremo, è più nella condizione di dettare una seppur minima linea politica e una strategia per una impossibile ripresa del partito. C’è solo confusione legata alla disperazione assoluta per la consapevolezza che ormai non c’è più nulla da fare: Forza Italia è come fosse un malato terminale ricoverato all’hospice.

 

Tutto questo era prevedibile. Forza Italia è nel panorama nazionale una realtà anomala e non rinviabile alla classica dimensione dei partiti nei regimi democratici. Ci sono pochi casi nel mondo democratico simile a quello rappresentato da Forza Italia. In breve Forza Italia ha una struttura a carattere medioevale, potremo dire antecedente alla rivoluzione Francese.

 

Cè uno che comanda per opera divina – in questo caso ad opera del denaro – e a piramide, secondo il volere del monarca, sono stabilite le figure sottostanti. I coordinatori regionali sono nominati, i candidati al Parlamento sono designati dal capo, insomma una struttura rigida dove c’è il Duca, il valvassore, il valvassino, etc. etc..

 

Come abbiamo detto la differenza e sempre relativa ad un assoluto, che nel medio evo era Dio e che dal ’93 a oggi è il denaro.

 

Fino a quando il vento è soffiato a vantaggio, si tratta di 25-26 anni, il vascello andava, adesso che l’ammiraglio sembra aver perso la grinta e lo charme, i sottoposti avvertono un terribile smarrimento e puntano lo sguardo su altre opportunità. Questo processo era inevitabile, anche perché Berlusconi come tutti i santi uomini, anche lui invecchia e l’intero potere secondo quello schema cristallizzato, subisce una rapida trasformazione crollando come crollano tutti i cristalli non appena tocchi il loro punto debole.

 

La valanga non ha occhi e scende precipitosa su ogni valle. Da noi, in Friuli Venezia Giulia, sta capitando quello che capita in ogni parte del Paese. Lo spaesamento è palpabile e la paura corre frenetica tra i rappresentanti locali.

 

Ai tempi brillanti, seguono inevitabilmente, periodi opachi per poi giungere all’oscurità.

 

Se pensate ai gloriosi partiti che per quasi 50 anni hanno retto le sorti dell’Italia, strutturati secondo modalità democratiche: comandava chi vinceva il congresso, sono anche essi completamente spariti. La DC, il PCI, il PSI, il PRI, il MSI, il PLI e il PSDI, tutti ormai nel ventre della storia. Adesso, quel processo sta interessando qualcun altro.

 

Dove si collocheranno i tranfughi? Dove finiranno? Chi li ospiterà? È probabile che si direzionino in buona parte su FdI e Lega. Però, il partito di Berlusconi raccoglieva fette di moderati, quella borghesia collocabile al centro e si troveranno sicuramente a respirare un’aria non adatta ai propri polmoni, se dovessero approdare a quelle due sponde.

 

Più volte sono andato scrivendo che in questa Italia servirebbe un contenitore democratico in grado di collocarsi nel centro delle due ali estreme per offrire un panorama politico meno acerbo e più equilibrato.

 

La fine di Forza Italia dovrebbe pizzicare la fantasia di chi intenda non arrendersi al destino estremo che oggi regge le sorti del Paese.

Secondo la UIL le aliquote Imu già alzate in 215 Comuni, La tari in 1 su 4

Lapresse.com

Le aliquote dell’Imu sono state quest’anno riviste finora al rialzo in oltre 215 Comuni, tra cui 4 Città capoluogo, ovvero Torino, La Spezia, Pordenone e Avellino. È quanto emerge da un’analisi della Uil, che ricorda che dopo tre anni di blocco degli aumenti delle aliquote delle imposte e tasse locali, da quest’anno ritorna la facoltà di manovrare di nuovo la leva fiscale a livello locale. Non tutti i Comuni hanno ancora pubblicato le aliquote dell’Imu e delle addizionali comunali Irpef sul sito del Ministero dell’Economia.

 

Dalla rilevazione su una famiglia con abitazione di 80 metri quadri e quattro componenti emerge che, nel 2019 la Tari aumenta in 44 città capoluogo di Provincia (4 Città su 10), tra cui Catania, Torino, Genova, Trieste e Napoli; rimane stabile in 26 città, tra cui Milano, Roma, Bologna; diminuisce in 35 città, tra cui Cagliari, Firenze e Venezia. Per le addizionali comunali Irpef, esistono maggiori margini di aumento: sempre alla data del 26 Luglio, su 4.078 Comuni, che hanno comunicato le loro scelte sul sito del Ministero dell’Economia, 566 (il 14% del totale) ha scelto di aumentare le aliquote e di rimodulare le esenzioni abbassandone la soglia, tra questi 7 città capoluogo di provincia (Mantova, Rimini, Barletta, Avellino, Trapani, Lecce e Carrara)

 

Una nuova offerta politica, senza lamentele

Una nuova offerta politica, senza lamentele.
Una regola fondamentale nella politica e’ sempre stata quella di non lamentarsi se i tuoi avversari vincono – o stravincono – e tu nel frattempo stai fermo. Fuor di metafora, e’ perfettamente inutile lanciare strali quotidiani contro la Lega e il suo capo Salvini se poi, nel frattempo, ci si limita solo ad insultarlo e ad attaccarlo tutti i giorni e tutto il giorno come ormai ci ha abituato il Pd. Con l’aggravante che, essendo quel partito un soggetto politico strutturato per bande organizzate in perenne conflitto l’una contro l’altra, anche sul tema della richiesta delle dimissioni di Salvini abbiamo assistito ad una sceneggiata squallida e persin imbarazzante. Ma, al di là del Pd e delle sue ormai quotidiane goffaggini, quello che adesso e’ necessario mettere in campo – senza più rinvii inconcludenti, misteriosi ed inspiegabili – e’ una forza politica e culturale che sia in grado anche e soprattutto di intercettare quel consenso che sta veleggiando in forme sempre più impetuose proprio verso la Lega di Salvini.
E questo per almeno 3 ragioni di fondo.
Innanzitutto la fine politica di Forza Italia. Al di là delle piroette del suo padre fondatore, e’ indubbio che la sostanziale archiviazione politica di una esperienza politica che nel bene o nel male ha comunque sempre giocato un ruolo importante e significativo nel campo moderato e liberale del nostro paese, scongela un consenso che non può essere frettolosamente liquidato. E a nulla valgono, come quasi tutti sanno, i mille equilibrismi a cui assistiamo in questi giorni. Quando si chiude una esperienza politica, soprattutto se frutto di un partito personale/padronale, e’ del tutto evidente che qualsiasi replica è destinata a cadere nel vuoto.
In secondo luogo l’auspicata e desiderata deriva a sinistra del Pd di Zingaretti. Certo, come ricordavo poc’anzi, e’ persin imbarazzante commentare le performance quotidiane di un partito che riesce a dividersi e a lacerarsi anche su come chiedere le dimissioni, seppur grottesche e spuntate, da ministro del capo della Lega Salvini. Per non soffermarsi sulle gesta di Scalfarotto, di Orfini e dell’ineffabile Del Rio. Ma, al di là dei singoli, e’ del tutto evidente che un partito che ha come ragione sociale quella di rilanciare l’esperienza del Pds, e’ alquanto buffo che tutto ciò avvenga in un quadro di permanente e perenne conflittualità al suo interno dove persistono visioni e prospettive politiche diverse se non alternative. Comunque sia, l’avvento del Pd/Pds lascia nuovamente aperto un vuoto politico e un consenso crescente di un elettorato senza più rappresentanza alcuna.
In ultimo, senza una forza politica che sappia reinserire nella dialettica politica contemporanea una esigenza di vero confronto e di autentico riformismo senza scivolare nella sempre più insopportabile radicalizzazione della lotta politica, sarebbe la stessa democrazia italiana ad uscirne sempre più indebolita e vulnerabile. Uno scenario da “opposti estremismi” non può essere la cornice ideale per ridare slancio, credibilita’ ed autorevolezza alla politica, qualità alla nostra democrazia e forza al pensiero e all’approccio riformista.
Ecco perché si rende, adesso, necessaria la presenza di una forza politica riformista, democratica, plurale e che non assecondi il processo estremista e radicale dell’attuale lotta politica. Una forza politica che sappia, soprattutto, recuperare quei mondi vitali e quelle fette di elettorato che oggi sono sempre più sfiduciati e che non si riconoscono affatto nell’attuale geografia politica italiana. E che, quindi, o si rifugiano stancamente nell’astensionismo o votano altrettanto stancamente i partiti esistenti. Verrebbe da dire, recuperando un vecchio slogan del passato, “se non ora quando?”.
Giorgio Merlo

Il passato che non vuole andar via. La ricerca del centro perduto

Sulla scissione di Renzi ho sempre creduto poco. Forse sbagliandomi. Ora però che Berlusconi ha annunciato e deciso senza predellini, di fondare un nuovo partito con una identità di Centro Moderatoe aperto ai cattolici – Laltra Italiala faccenda si fa seria. Anche perché sono pronti a scendere in campo una decina, a dir poco, di liste, movimenti, reti, partiti,  partitini e  sigle, che dichiarano anche loro  una identità di Centro moderato, Centro cattolico, Centro Liberale,  ecc. Tanto che si parla anche di Federazione di centrodestra.                                                                                                                                        

Non capisco per niente cosa significhi oggi in politica essere moderati, e perché,  ammesso che ancora esista questo elettorato, si dovrebbe riconoscere solo nel Centro politico. Capisco poco la ricerca affannosa, oggi di moda, di identità: scatole statiche e senza storia, che offrono certezze e azzerano  le differenze (e le mediazioni fra le differenze). Quelle identità che hanno spinto Simone Weil a suggerire la soppressione del partito politico chiuso che asserviva le coscienze. Capisco infine solo un pochino, pur avendo molti dubbi, lesigenza  di un Grande partito di centro politico che tuttavia viene banalmente giustificato dal sistema proporzionale e da quel 50% di elettori che rimane a casa in pantofole. Se la nascita di un partito politico di centro,  che vuole essere Grande, viene spiegata e difesa da queste ragioni, allora vuol dire che la democrazia non vuole più pensare, e che Tocqueville, quando diceva che solo il  Grande Partitorovescia la società, mentre i piccoli la agitano soltanto, si sbagliava di grosso: sono i piccoli a rovesciarla!                                                                                                                                              

Sul nome del nuovo partito di Berlusconi, mi ero però totalmente ingannato. Sono stato per un momento convinto, e rallegrato, che Berlusconi, per fare la concorrenza ai 5 Stelle, avesse rispolverato la Questione Meridionale dellepoca giolittiana. E che  con quel nome volesse piantare le radici del suo nuovo partito in quel Sud Italia sofferente e dimenticato. Svuotato  di giovani o con le valigie in mano. Attento allesodo e allo spopolamento  di interi paesi, compensati appena una virgola da quel nobile uomo di Mimmo Lucano arrestato, che, esaltando laccoglienza, ha proposto una cura alle ubriacature crescenti sulle identità.

Mi sono sbagliato!  Avverto che Laltra Italia”  è invece lItalia di chi sta bene. Di chi non ha grossi e molti problemi. Dei moderatiche ha in testa Berlusconi. E non solo lui. Ed è disinteressata completamente del giovane disoccupato calabrese. Guarda solo  alle imprese del Nord. Come il suo sodale Salvini. E a quel poco che rimane della borghesia liberale e conservatrice settentrionale, oggi un poco spaventata. Che ritrova coraggio solo nel delocalizzare imprese e società, e quindi nei licenziamenti. E guarda anche a chi dichiara di andare a Messa la domenica. Mi ero sbagliato.                                                                                                                                                      

                                                                                                                                                 Facciamoci caso. Compaiono sempre più frequentemente bisogni di essere diversi. Non solo nellofferta politica. Osserviamo per esempio quello che succede dentro il Pd, articolato in una decina di correnti ognuna con la propria identità.Dei frammenti. Emergono anche ricerche di  identità forti. Progetti di identità, proposte di identità, rimpianti di identità. Emerge insomma lo sforzo di capirsi e di esser uguali a qualcosa o qualcuno e di riconoscersi in qualcosa o qualcuno.  Intendiamoci bene: non si tratta di domande banali. Tuttaltro.  Nella  confusione imperante, sono domande serie che evitano il disorientamento e ci avvicinano agli altri. Il fatto è che spesso queste desiderate identità, sono ripescaggi e nostalgie di identità e categorie del passato. Un passato a volte anche  nobile e carico di valori, ma forse poco utile a farci capire lo spirito dei tempi  che viviamo. E soprattutto quello in cui vivranno i nostri figli e nipoti nel futuro dietro langolo già iniziato.

Sarà colpa delle grandi paure create dalla globalizzazione incipiente e della confusione in cui siamo immersi. Sarà colpa della caos  generato dai social virali senza auto-controllo. Sarà colpa del neo-populismo o del neo-nazionalismo. Ma dobbiamo mettere nel conto  che oggi preferiamo rivolgerci al passato anziché riflettere sul  futuro con quel pizzico di creatività di cui siamo capaci. Anche perché inconsciamente invochiamo ordine e  quiete. E il passato in questo ci aiuta.  Ci fa pensare meno. La ricerca sempre più ansiosa di identità che ci diano certezze, comprese quelle   politiche ed economiche, è dunque un tema che tiene ormai banco non solo in Italia.

Si pensi alla grande sciocchezza della Brexit! Ma è proprio su questa delicata questione che emergono degli interrogativi. Possibile che è sopraggiunta la voglia di cercare certezze e identità guardando solo indietro o rinchiudendoci nel passato? E siamo proprio sicuri che bloccando il fruttuoso sforzo di immaginare futuro, le identità del passato ci diano risposte adeguate? Da quello che notiamo, sembra possibile! Rimango però dellavviso che il passato è utile solo quando se ne prenda una punta e lo si declini ogni giorno in un progetto di futuro . Quando se ne prenda una fetta e la si incarni nei cambiamenti.

Come negli Usa. Eun vero paradosso, infatti, che gli Stati Uniti dAmerica immersi nel loro pragmatismo calvinista del giorno dopo giorno, ci diano lezioni di latino antico. Potrebbe infatti sorprendere ricordare che  sullo stemma statunitense compaia da sempre la scritta latina: E pluribus unum(Dai molti uno). Una scritta che ha fatto nascere gli Stati Uniti.  Un motto posto  alle radici del loro sviluppo culturale, sociale e politico. Nonché economico e finanziario. Un detto che ha fatto grande lAmerica e che ha addolcito  e resa ragionevole la nozione di quel pluralismo di identità forti che sta riemergendo sotto veste di Sovranismo, Neonazionalismo, First, Muri, Fili spinati, Polizia di frontiera, ecc. Oggi giocato stupidamente sulle razze, sui diversi, sugli altri da noi, sulle differenze. E sullautonomia: Autonomos. Che poi letteralmente vuol dire “…sullesigenza di farsi la legge da soli.

C’è solo da dire che lantico motto dello stemma Usa è stato costantemente adattato al movimento della loro storia. Perché mentre il rifiuto del passato è stupido, tentare di riproporlo è sciocco. E c’è solo da aggiungere che le tante identità, non significano per forza pluralismo. Anzi spesso sono il suo contrario e approdano nellatomismo insignificante e alle individualità che si guardano il proprio ombelico. Ed è  anche giusto infine ricordare che la locuzione latina degli Usa la troviamo come motto del sogno dellunità politica europea, proposto nel 2000 dagli studenti di tutta Europa: Unità nella Diversità”. Un sogno che esalta le differenze  e ridimensiona le identità, e che dobbiamo  costantemente alimentare, senza perdere la speranza di realizzarlo.                                                                                                                                  

                                                                                                                           Se lidentità di una persona, di un gruppo sociale, di una cultura, di un partito politico o di una associazione è il rapporto dinamico che la persona, il gruppo sociale, la cultura, il partito, ecc. ha con se stesso e  che si distingue da altri, allora gli sforzi, spesso banali, di individuare identità statiche del passatosono sforzi altrettanto spesso inutili. In alcuni casi addirittura pericolosi. Se si fosse puntato su queste identità statiche lItalia non sarebbe mai nata. E se si continua a puntare sulle identità e non sulle diversità, sarà purtroppo lEuropa a non nascere.  

Le diseguaglianze dei gruppi sociali, la perdita di una precisa nozione  di classe sociale, classe operaia, il discensore della classe media e bassa, la ricchezza e la povertà, riportano lidea astratta di identità con i piedi per terra. Ci fanno vivere sino in fondo la crisi di identità personali, sociali e politiche. E ci fanno capire che  lidentità non è data una volta per tutte come ci ha ricordato  Paolo di Tarso: ciò che unisce gli uomini è la Carità, perché per tutto il resto () quandero bambino, parlavo da bambino e ragionavo da bambino. Ma diventato uomo, ciò che era da bambino lho abbandonato. Se io dovessi pensare che  la mia identità si è mantenuta costante nel tempo, allora vuol dire che la mia idea didentità è una idea  sbagliata. Tutto ciò non significa affatto mettersi nelle braccia del relativismo: se sono un individuo unico e irripetibile, sono anche una persona in relazione, inserita in un contesto culturale, sociale e politico che è in  movimento.  

Ma significa, a mio avviso, essere coscienti dei processi storici e della loro influenza  sulla formazione delle identità culturali, sociali e politiche. Ci potrà solo essere un accordo su un obiettivo da raggiungere assieme ad altri, che non è identità: è una intesa momentanea. E non è neanche un contratto o una alleanza. Come fanno capire ogni giorno i giallo-verdi.  Insomma, ripeto, lidentità è una categoria  dinamica che si misura ogni giorno con la storia e con i cambiamenti della storia. Il ricorso alle mediazioni fra diversi, serve proprio a questo: a tener conto delle differenze utili e non delle inutili somiglianze fotocopie. Non credo dunque molto alle identità date per scontate e chiuse in una teca. Credo di più invece alle identità dinamiche, in formazione e in progress, che si confrontano con la storia e che vivono nella storia. Se questo sembra lelogio del relativismo, allora il relativismo è congenito alla storia delluomo. Ma se abbiamo bisogno di punti fermi di riferimento per non essere come isolate canne al vento, non è guardando soltanto al passato che li possiamo trovare. Ma semmai interrogando la nostra ragione e “…pensando, come ci ricorda Blaise Pascal.

Intanto prendiamo il sole

Sembra quasi che l’autunno sia già qui. Lo pregustiamo, trepidanti. Noi che, riconosco, siamo un po’ patiti di politica e abbiamo pertanto un appetito smodato circa il piacere degli eventi che la riempiono, siamo già nella condizione di visitare con la fantasia le cose che accadranno a fine settembre-ottobre.

Siamo costretti a una stagnazione del pensiero in questa estate ormai predefinita, circa le vicende delle dialettiche all’interno della maggioranza, sia dentro il ventre delle opposizioni, che ci fiondiamo, con molto arbitrio, dentro i quadri, per la stragrande maggioranza ancora sfumati, delle alchimie politiche dell’autunno che, come sappiamo, è il ventre che partorirà la legge di bilancio del 2010.

La madre di tutte le vicende trova la sua condizione di esistenza in quel difficile vagito.

Vado velocemente, perché meriterà una newsletter a se stante, la vicenda che si consumerà al rientro delle ferie. Ossia, alla legge taglia Parlamentari. Anche questo non è uno scoglietto.

La legge di bilancio dovrà pareggiare diverse voragini, colmare vuoti che spuntano da tutte le parti.

I proclami dei due leader sono sempre altisonanti, ma come è capitato l’anno scorso, la mannaia sarà, quella più grossa nelle mani della commissione europea e quella a raggio più ridotto tra le dita del Ministro Tra, di Conte e del Presidente della Repubblica. Immagino che le giravolte vissute nel 2018, da settembre a dicembre, abbiamo visto giri di valzer a non finire, siano anche quest’anno ad intensità memorabile. Anzi, oso dire che sarà ancora più elettrico il movimento dei ballerini.

Premessa principale, il PIL è stecchito: da lì non ricaveremo nulla. Manovre che riescano a spremere denaro dai nostri  contribuenti non potranno più essere presentate. Quel che c’è, c’è. Ora, il Ragioniere Capo che dovrà distribuire i denari secondo gli indirizzi dei politici che governano il Paese, suonerà la musica che le casse consentiranno di offrire: “cari vice Ministri, io faccio tutto quello che voi mi dite, ma sappiate che non sono ancora attrezzato per creare denaro. O me lo date o si fa con quel che c’è”.

Se i proclami sono attuare la flat-tax, mettere in campo il salario minimo, e, certo, anche ridurre il cuneo fiscale; non aumentare l’IVA, ricordiamo che quel masso lì, valge 23,5 miliardi di euro, dove trovarli solo Dio lo sa. In aggiunta a questo, che è la massa critica su cui fondare ogni ragionamento, ci saranno anche quest’anno i problemi che solo apparentemente sembrano minori ma hanno il vizio di mettere in difficoltà i due maestri di cerimonia: l’autonomia regionale, la TAV e il mantenimento delle misure relative a quota 100 e reddito di cittadinanza.

La prima ipotesi di lavoro è che non trovino inciampi prima di mettersi al tavolo per orchestrare quella manovra; la seconda cosa è misurare la tenuta politica del tessuto penta stellare: ho sempre il sospetto che dentro quelle fila possa sempre capitare di punto in bianco, qualche strana implosione; terzo aspetto, è che l’orizzonte economico non subisca ulteriori rallentamenti.

Dentro questo panorama, per quel che mi è dato intuire, a farla da padrone sarà sempre Salvini. Lo spartito musicale e il direttore d’orchestra saranno sempre da lui, almeno fino ad autunno, definiti. Il gioco ormai è, direi, quasi cristallino.

Per finire e mettere ancora qualche elemento sulla scacchiera anche quest’anno, a differenza di quello che pensava Salvini, la Commissione Europea sarà intransigente, vale a dire non permetterà un tasso di debito superiore al 2%. Dentro questa ristrettezza quelle prospettive elencate prima, non troveranno né agibilità, né via d’uscita e saranno costrette a restare al palo di partenza e, per non rendere troppo complicato il terreno, togliamo, le stranezze che potrebbero essere messe in campo dai mercati internazionali.

Anche quest’anno, quindi, prepariamoci a vivere una pagina particolarmente tormentata.

Intanto, però, prendiamoci il sole.

Così la classe media americana si sta indebitando per mantenere il proprio status

di Alessandro Galiani ( Agi.it)

La classe media Usa si sta indebitando sempre di più per mantenere il suo status. Lo rileva il Wall Street Journal, secondo il quale l’indebitamento crescente della middle class è il frutto di duplice trend: i costi di sanità, università e auto sono in forte aumento, mentre i redditi sono stagnanti. Risultato: l’indebitamento degli americani, mutui esclusi, è salito a 4.000 miliardi di dollari, un livello record se depurato dell’inflazione. E anche il debito ipotecario, sebbene in calo rispetto alla crisi del 2008, è in rialzo. L’anno scorso è stato comunque il debito studentesco a volare, toccando i 1.500 miliardi di dollari e superando tutte le altre forme di debito al consumo ad eccezione dei mutui. Il debito per l’auto è cresciuto quasi del 40% (depurato dell’inflazione) arrivando a 1.300 miliardi di dollari.

A far lievitare il debito ha anche contribuito il basso costo del denaro assicurato dalla politica monetaria della Fed. Inoltre, secondo il Wsj, l’indebitamento degli americani è una sorta di voto di fiducia nel futuro: si indebitano perché la disoccupazione è bassa e loro si sentono sicuri di poter trovare un posto di lavoro. Tuttavia questo clima potrebbe subire una netta inversione di tendenza se la disoccupazione Usa dovesse riprendere a crescere e la Fed mercoledì scorso ha abbassato i tassi perché vede aumentare i rischi di un rallentamento dell’economia che potrebbe far aumentare la disoccupazione.

Il calo del reddito medio degli americani

I redditi medi degli americani nel 2017, secondo il Census Bureau, si sono attestati a 61.372 dollari l’anno, lo stesso livello del 1999, se depurati dell’inflazione. Le spese per consumi invece sono cresciute fortemente. I prezzi delle case, a parità di inflazione, sono cresciti del 290% negli ultimi 30 anni. I costi delle lezioni universitarie sono saliti del 311%. E le spese medico-sanitarie, dal 1990 al 2017 sono aumentate del 51%. Insomma, come nota l’economista Oleg Levitin – i costi per restare a far parte della classe media stanno crescendo”. L’economia Usa negli ultimi tre decenni ha raddoppiato di dimensione e, in teoria gli americani sono quindi diventati tutti più ricchi, ma, come nota il Wsj, le cose stanno diversamente e le fasce più ricche hanno guadagnato e risparmiato molto più di quelle meno abbienti.

Secondo il Cansus Bureauu, il patrimonio netto del 20% degli americani che percepisce un reddito medio tra il 1989 e il 2016 ha registrato un aumento medio del 4%, mentre il 20% di quelli con che hanno un reddito di fascia alta hanno raddoppiato la loro ricchezza e l’1% più ricco, quelli milionari, hanno visto il loro patrimonio crescere del 198%. Detto in altre parole, dal 1989 al 2016, il valore complessivo delle attività di tutte le famiglie americane è aumentato di 58.000 miliardi di dollari, depurati dell’inflazione, di cui 19.000 miliardi sono finiti all’1% più ricco e 39.000 miliardi al restante 99%.

Più nel dettaglio, il Wall Street Journal nota che le famiglie della classe media americana di fascia bassa, con il reddito che hanno a disposizione, non riescono più a comprarsi una casa, né a tenere il passo con un livello di vita agiato, che prevede una casa in un solido quartiere della classe media, con buone scuole e una bella auto per gli spostamenti. Il problema non è tanto l’entità dell’indebitamento.

Il vero problema è l’aumento delle spese

Contando tutti i tipi di debito, compresi i mutui, i consumatori americani non sono così gravati dal debito come una volta. Nel quarto trimestre del 2007, l’ultimo anno prima della crisi finanziaria, le famiglie hanno impiegato il 13,2% del loro reddito disponibile al servizio del debito. Nel primo trimestre del 2019, questa cifra è scesa al 9,9%, principalmente a causa dei bassi tassi di interesse. Il vero problema è l’aumento delle spese, in particolare quelle per l’acquisto di una casa.

Nel primo trimestre del 2019, in base ai dati della Fed, l’insieme dei presiti per l’auto, l’università e per la carta di credito, che a differenza dei mutui è diretta ai consumi, ha assorbito il 5,7% del reddito disponibile al servizio del debito, lo stesso livello del 2009. Si tratta di una quota di reddito comunque gestibile, il problema dunque è un altro ed è rappresentato dai costi degli immobili.

Il caso della giovane coppia Bauerle

Il Wsj cita il caso di Elizabeth e Andy Bauerle, una coppia di 34enni, benestanti, che vivono a Seattle e guadagnano in due 155.000 dollari l’anno, cioè rientrano nel 20% di fascia alta della classe medie. Ebbene, i Bauerle hanno cercato di acquistare una casa per sette anni di seguito senza successo, nonostante abbiano un reddito più che dignitoso. Il problema è che entrambi lavorano nell’area metropolitana di Seattle, cioè in una città con una forte crescita occupazionale e salariale, in cui l’aumento dei prezzi degli immobili può rendere la proprietà di una casa al di fuori dalla portata di famiglie come i Bauerle, che pure si giudicano benestanti rispetto agli standard nazionali.

I Bauerle possono disporre di 30.000 dollari di acconto ritirabili dai loro fondi, ma il tipo di casa che vogliono – una due camere da letto, due bagni e un cortile – costa a partire da 600.000 dollari a Seattle e dintorni. Avrebbero bisogno di un acconto di almeno 70.000 dollari per gestire il pagamento del mutuo, visti i loro altri obblighi. Questi includono un debito per studenti di circa 88.000 dollari, che assorbe 1.000 dollari di reddito ogni mese. Inoltre devono pagare oltre 1.750 dollari al mese di affitto e 1.200 dollari al mese in assistenza all’infanzia per il figlio. “Si parla immediatamente di quattromila dollari del nostro reddito”, spiegano al Wsj.

Come molte altre famiglie, i Bauerle hanno allungato i pagamenti mensili del prestito della loro auto, una Subaru del 2013, acquistata usata tre anni fa, che ammontano a 240 dollari al mese per 9 anni. Ricapitolando, secondo il Wsj, una famiglia come i Bauerle, che pure è benestante, non può permettersi di vivere come in una casa propria, in un quartiere di fascia alta, e deve accontarsi di affittare una casa unifamiliare. E la maggior parte delle famiglie americane della classe media è nella loro stessa situazione, il che significa che questa è una questa tendenza, come dimostra il fatto che la società di private equity Blackstone, il più importante fondo immobiliare del mondo, è ormai diventato, insieme ad altri investitori, il più grande affittuario di case unifamiliari della nazione.

Secondo il Joint Center for Housing Studies dell’Università di Harvard, il numero di famiglie che dispongono di un reddito annuo corretto dall’inflazione di 100.000 dollaro o superiore ma che sono affittuari è quasi raddoppiato dal 2006 al 2016. “Questo è un cambiamento radicale nella struttura del mercato – ha dichiarato Dominic Purviance, specialista finanziario senior presso la Federal Reserve Bank di Atlanta Purviance – ciò significa che in futuro l’acquisto di una nuova casa, e in alcuni mercati anche l’acquisto di una casa esistente, può diventare un lusso”.

Cosa insegna il caso del Maresciallo Rega

Come sempre accade, in questi giorni di calura estiva, deflagrano numerosi casi di cronaca nera che appassionano la stampa e l’opinione pubblica, come non avviene in altri periodi dell’anno. Se uno seguisse i pensieri popolari, il tutto è dovuto al fatto che con il caldo emergono tante di quelle negatività…ma lasciamo da parte le diavolerie metropolitane, quelle sono di attinenza degli sciamani della nostra società; in questi giorni, vi è un fatto di cronaca che si rivela di una emotività senza eguali. Una emotività gonfia, assai più grande di un fiume in piena, di rabbia, pianto e rancore. La morte del vicemaresciallo Mario Cerciello Rega è una di queste.

Il barbaro omicidio di un uomo, prima ancora di un carabiniere, avvenuto per mano di due sciacalli per mezzo di undici coltellate, inferte in una calda e quasi rovente estate romana, rende tutti “sul pezzo”, dai professionisti del mestiere giornalistico, ovviamente, al lettore più lontano, normalmente, dai casi di nera giudiziaria. Uniti dal sensazionalismo più spregiudicato.
Alcuni caratteristiche degli “attori” del tragico evento, come quelle che i presunti assassini siano studenti americani, a “ruota di droga”, e che il deceduto si era appena sposato, e per di più benvoluto da tutti, non fanno altro che aumentare il fuoco la dove non dovrebbe essere presente nessuna miccia. Come se non  bastasse l’odio sociale che attanaglia da diversi anni la nostra società. Ma tant’è che la giostra mediatica è partita. Come l’avventura della navicella spaziale Soyuz, che annovera tra gli altri il nostro astronauta Luca Parmitano, nel suo viaggio eccezionale alla conquista dei circa duecento esperimenti sulla microgravità; con la differenza che la missione Beyond è tutta scienza ed innovazione, la centrifuga umana del carabiniere ucciso è pura malvagità umana, il peggio di ciò che riusciamo a produrre nella nostra malata società. Un società liquida che si preoccupa del  bendaggio di uno dei due indagati, del fatto che il deceduto è un carabiniere e per assioma intravede, forse, un sollievo che questo sia un rappresentante delle forze di polizia. Il riferimento è alla prof di Novara la quale sostiene, nei momenti concitati dell’uscita della news, che sia meglio un carabiniere in meno, salvo, successivamente, ritrattare.  Pensateci, il peggio del trash nostrano, neanche fossimo a “Uomini e Donne”; o forse sì, si è dentro un tritacarne come la peggiore televisione mai vista fino ad ora. Ma in realtà è morto un uomo, prima ancora di un servitore dello stato, fresco sposo di una giovane donna che si è trovata, obtorto collo, a vivere una storia tragica e triste allo stesso tempo; dove l’umanità quasi non affiora sopraffatta dal gossip più sfrenato, quello delle domande più astruse che, al di là della propria astrusaggine, tende al complottismo e dimentica l’elemento più evidente, il più importante: un uomo è morto. Punto. Quest’uomo vuole una giustizia che riporti ordine dove oggi c’è una nebulosa di cose dette e non dette, dove la menzogna si alimenta, sorridente, vicino alla falsità. Il maresciallo Rega vorrebbe che non vi sia odio. Senza demagogia e moralità spiccia. Trarremo lezione da tutto questo? sapremo essere di esempio per le future generazioni?  Cosa sapremo fare, noi?

Bel quesito, la storia insegna che ci vuole più umanità, più senso civico e meno complottismo.

Di Maio balbetta sulla nomina del commissario Ue

Può sembrare a prima vista un ragionamento corretto. In effetti, vinte le elezioni europee, spetterebbe alla Lega indicare il candidato alla carica di commissario europeo. Secondo Di Maio, intervistato ieri dal Corriere della Sera, la soluzione più corretta non può che essere questa. Come dargli torto?

Sta di fatto che la Lega ha votato però contro la nomina di Ursula von der Leyen (Presidente della Commissione) e David Sassoli (Presidente del Parlamento). Un doppio no che isola il partito di Salvini e con esso il governo italiano. Si vede chiaramente, anche alla luce del recente colloquio a Roma della neo-Presidente con il nostro capo del Governo, come fatichi a profilarsi linterlocuzione dellItalia nel concerto europeo. La citazione di De Gasperi, solo in apparenza riconducibile a cortesia protocollare, può essere letta in funzione di un richiamo della Von der Leyen alla serietà mostrata in altre epoche dalla classe dirigente italiana.

Oggi, insomma, nulla è come ai tempi di De Gasperi. Il partito cardine dello schieramento giallo-verde mantiene una posizione aggressiva nei confronti dellEuropa. Salvini si colloca oramai alla destra del pur sovranista e illiberale Orbán. Del pari, lasse di governo tra popolari, socialisti e liberal-democratici si dispone a fronteggiare loffensiva smodata e velleitaria del leader leghista. Non è detto, in questo quadro, che un commissario designato da Salvini ottenga lapprovazione del Parlamento di Strasburgo. Anzi, il rischio della bocciatura incombe su una vicenda gestita con tanta superficialità e arroganza.

Che Di Maio, allora, si limiti a certificare le prerogative della Lega, lasciando ad essa il diritto alla nomina del commissario europeo, conferma ancora una volta la sua inadeguatezza politica. Questa maggioranza è divisa (anche) sullEuropa, dal momento che i parlamentari  del M5S, a differenza dei colleghi leghisti, hanno votato per i due Presidenti (Von der Leyen e Sassoli). Come fa, dunque, Di Maio a ignorare che lindicazione di un commissario recante il sigillo di Salvini rappresenterebbe un segnale a dir poco equivoco agli occhi delle forze europeiste, in ogni caso maggioritarie e quindi decisive nel contesto degli equilibri sovranazionali?

Di Maio sbaglia a coprire lalleato in questa politica dannosa per lItalia. La scelta del commissario europeo non può rientrare in una logica di mera spartizione di potere allinterno della maggioranza. Semmai la nomina dovrebbe incrociare, nelle forme possibili e senza pretesa dingerenze, anche il consenso delle opposizioni. In questo modo, evitando fratture radicali, limmagine del Paese ne uscirebbe rafforzata. Ciò potrebbe contribuire, infine, a liberare il candidato prescelto dallipoteca rappresentata dallala antieuropeista dellimprovvisato blocco giallo-verde.

Il dubbio è se permanga un aliquota dinfantismo nella politica grillina o se lopportunismo del suo Capo condizioni ogni larvato processo di maturazione. Prima o poi il Paese si dovrà interrogare seriamente sulla qualità di questa classe dirigente. La caduta di consensi attesta con ogni probabilità che il sonno della ragione, oltre che generare mostri, produce in modo inesorabile la faticosa consapevolezza dellerrore legato a una delega pregna di rabbia sociale e avversione vagamente anarchica.

Investire sui giovani

di Andrea Monda

Pubblichiamo l’intervista al giurista Franco Anelli che appare nel numero odierno de L’Osservatore Romano 

Alle molte voci che in queste settimane si sono alternate ragionando sul tema della crisi della società italiana e del ruolo che la Chiesa è chiamata ad assumersi si aggiunge oggi quella di Franco Anelli, illustre giurista e dal 2013 rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Il suo contributo punta in particolare l’attenzione sui giovani e sulla loro formazione.

Giuseppe De Rita su queste pagine ha affermato che per il buon governo c’è bisogno di due autorità: una civile e una spirituale-religiosa. Quella civile garantisce la sicurezza, quella spirituale offre un orizzonte di senso. L’uomo ha bisogno di tutte e due le cose. Se invece si esclude una delle due, la società soffre, diventa schizofrenica. In questo sarebbe il ruolo della Chiesa nell’attuale situazione italiana.

Il professor De Rita richiama l’attenzione su un’esigenza antropologica ineludibile se si vuole promuovere una società libera e governarla in modo equilibrato. Il suo è un richiamo importante per immaginare una via d’uscita dallo stato di crisi in cui versano, in tempo di disintermediazione, l’esperienza della democrazia rappresentativa e la stessa idea di politica. Con una comunicazione che si ferma alla superficie dei fenomeni e si rivolge quasi esclusivamente all’emotività individuale e collettiva, aumenta il rischio di perdere di vista i “fondamentali”, come la ricerca di un rapporto reciprocamente rispettoso e collaborativo tra le due differenti e complementari auctoritates. Ognuno, a cominciare dai cattolici, è dunque invitato a esercitare creativamente la propria coscienza storica per ridare visione e slancio al nostro Paese e al progetto europeo. In questo senso l’appello del prof. De Rita ci riconnette a una tradizione culturale e istituzionale nata proprio in Europa dall’incontro fra il cristianesimo e l’imponente lascito della civiltà greco-romana. Il cristianesimo ha infatti saputo accogliere e rielaborare l’eredità greco-romana fino a maturare la fondamentale distinzione tra le sfere del regnum e del sacerdotium: così, facendo riferimento alla risposta data da Gesù sul tributo da riconoscere o no a Cesare (Mc 12, 13-17) e alle parole indirizzate da san Paolo ai Romani sull’atteggiamento da tenere nei confronti delle autorità costituite (Rm 13, 1-2), questa visione ha sempre tenuto in alta considerazione l’esercizio del potere civile, pur ponendo le premesse, secondo le parole di Max Weber, della sua progressiva de-sacralizzazione e laicizzazione. E se anche lo sviluppo di queste intuizioni non è stato lineare — spesso si è cercato di subordinare strumentalmente la politica alla realizzazione di fini sovratemporali o di utilizzare la religione per scopi tutt’altro che spirituali — non si può rimuoverne la matrice cristiana, con buona pace delle forme superstiti di tradizionalismo cattolico antimodernista o, all’opposto, di radicalismo laicista. Ma la distinzione di ruoli e competenze tra l’autorità civile e quella religiosa non comporta l’impossibilità o il divieto di un dialogo sincero e reciprocamente rispettoso, e tanto meno coincide con un’artificiosa separazione tra una “sfera pubblica” e una “sfera intima e privata” nella quale circoscrivere devozione e pratica religiosa. L’orizzonte del senso e l’esercizio della cura della convivenza civile s’incontrano infatti nell’unità della persona ed entrambi agiscono nel mondo e nella storia. Non è solo lecito, ma anzi è auspicabile che i due ambiti “interagiscano” nella realtà e attraverso le persone, perché se si ha sensibilità soltanto per le esigenze materiali spesso non si riesce a soddisfare neppure quelle; al contrario, la valorizzazione delle istanze più vicine alla persona e alla qualità della relazione sociale può metterci in una prospettiva nuova e aiutarci a individuare soluzioni originali alle crisi contingenti, come ha scritto Robert Dodaro, evocando l’immagine agostiniana dello «statista… in grado di giungere a giudizi moralmente retti perché egli governa la città terrena con lo sguardo saldamente fisso ai beni della città celeste».

Quanto al ruolo della Chiesa, Papa Francesco non si stanca di riaffermare con forza che Essa nasce essenzialmente per «annunciare il Vangelo a tutte le genti», pur ricordando l’insegnamento montiniano per cui «l’evangelizzazione non sarebbe completa se non tenesse conto del reciproco appello che si fanno continuamente il Vangelo e la vita concreta, personale e sociale, dell’uomo». Nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium il Papa infatti aggiunge che «nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini».

Si apre qui un grande spazio per l’impegno pre-politico — cioè educativo, culturale e sociale — dei cristiani, nel quale si inscrive anche la missione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Questo impegno, impostato in modo corretto, deve poi stimolare a “pensare politicamente”, come diceva Giuseppe Lazzati. Nel caso di una realtà come la nostra, si tratta innanzitutto di rafforzare la capacità di andare incontro ai giovani, per comunicare loro con modalità nuove ciò per cui vale la pena studiare e impegnarsi, e ciò che rende affascinanti, oltre allo studio, il rapporto con il prossimo e l’interesse per la cosa pubblica e il bene comune, intesi entrambi non più solo in ottica nazionale, ma globale. Va inoltre fatto ogni sforzo per includere e valorizzare chi nelle nuove generazioni rischia di essere lasciato ai margini. Con questi obiettivi dobbiamo infine interagire di più con le Chiese locali e sparse nel mondo, e con le molte realtà del terzo settore, del volontariato, delle imprese socialmente responsabili e delle istituzioni. Perché soprattutto con l’esempio, cercando di essere fino in fondo una “università cattolica”, possiamo trasmettere un’idea alta e non strumentale della politica, intesa come la più nobile attività degli uomini — di tutti gli uomini — perché capace di realizzare il bene comune, cioè la condizione per il massimo sviluppo di ogni persona.

La società italiana oggi sembra dominata dal rancore. Da dove nasce questo rancore? De Rita dà una sua lettura, quasi un lutto per quello che non c’è stato, una promessa mancata, un futuro che sembra incrinato, perso.

Nel 1984 Norberto Bobbio parlava delle «promesse non mantenute della democrazia», sottolineando — erano gli anni del cosiddetto “riflusso” dall’impegno politico — come molti cittadini, malgrado l’enfasi posta sull’individuo sovrano nelle democrazie liberali, iniziassero a sentirsi sovrastati, isolati e sempre più dimenticati nella lotta di potere fra oligarchie, gruppi e organizzazioni. Questa condizione di frustrazione latente è stata poi resa più grave dal montare di un certo egoismo sociale che ha condotto alla crisi dei corpi intermedi e ha accresciuto la frammentazione del nostro Paese. Per anni però questo disagio crescente è stato sopito dalla residuale condivisione di un certo benessere diffuso. Il malcontento, la disaffezione e l’apatia verso l’intermediazione e la rappresentanza politica sono poi deflagrati con l’ultima grande crisi, sotto la pressione di una comunicazione che ha esasperato la percezione di alcuni problemi oggettivi legati alla sicurezza economica e sociale. Anche se il compito è tutt’altro che facile, ora bisogna impegnarsi per ricreare un clima di fiducia. Ritengo però che non sia possibile “rimettere insieme” i cocci di un passato prossimo, eppur molto lontano, come penso che non ci sia spazio per operazioni che guardano a esperienze trascorse. La storia cammina e il mondo corre, per questo è fondamentale puntare soprattutto sui giovani, sulla loro libertà rispetto a schemi precostituiti e a retaggi ideologici: occorre cioè investire sulla loro voglia di realizzare se stessi e di cambiare la società.

In questa situazione emerge un dato che ha una sua ambiguità, anche inquietante, cioè il dato dell’identità come risposta alla globalizzazione ma una risposta che si colora di chiusura e violenza.

Credo che l’ambiguità del tema identitario, con la pericolosa tendenza a farne elemento di chiusura e di contrasto, si debba sciogliere non “per sottrazione”, ma proponendo una visione più ampia, orientata alla costruzione di una piena, matura e consapevole “identità culturale”. Quando si parla di cultura del resto si tocca un aspetto essenziale dell’umano, in cui si riassume, come si legge nella Gaudium et spes, tutto ciò che «con l’andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano». In questo senso è giusto rivendicare una propria identità culturale e anche raffrontarla, per meglio distinguerla, con quelle altrui. È infatti un fondamentale diritto umano, individuale e collettivo, quello di conservare la memoria viva della propria storia, sfuggendo a forme più o meno “violente” di omologazione. L’identità culturale però non è, come ci ha ricordato Papa Francesco rivolgendosi a un gruppo di giovani a Buenos Aires, «un numero di fabbrica… un’informazione che posso cercare in internet per sapere chi sono», è piuttosto l’appartenenza a qualcosa di vivo che si muove nella storia e nel mondo globalizzato, incontrando continuamente altre culture. La forza di una tradizione culturale sta nella capacità di dialogare e integrare altre persone senza perdere ciò che in essa è realmente essenziale. Per questo motivo brandire l’identità come uno scudo è un segno di debolezza; infatti non stupisce scoprire oggi tra gli strenui difensori dell’italianità persone che fino a pochi anni fa la denigravano. La questione delle identità storiche che diventano particolarismi nazionalistici si connette con le gravi responsabilità di chi, anche nelle istituzioni comunitarie, ha sostenuto una concezione minimalista e lacunosa dell’identità europea, tralasciando di valorizzare l’autentica origine dell’Europa, nata da una plurisecolare circolazione e trasmissione di idee, persone, principi. Soltanto ora forse si comprende quanto sarebbe stato utile valorizzare le radici comuni, alle quali per incontestabile dato storico appartiene la dimensione cristiana, e con esse la capacità di comporre tradizioni differenti in nuove sintesi. Le università europee hanno assolto in questi decenni un ruolo trainante nel definire una nuova idea di cittadinanza. Hanno coltivato sempre più intense relazioni nella ricerca, favorito la circolazione dei docenti e gli scambi di studenti, creato percorsi formativi internazionali: hanno cioè contribuito in modo decisivo a creare generazioni di “nativi europei”, giovani destinati, per formazione, cultura, progetti di vita, propensione alla mobilità, a vivere in una dimensione sovranazionale.

Il Papa propone ormai da anni il tema anzi il metodo della sinodalità, cioè il camminare insieme, il conoscersi, il fare qualcosa insieme, alto e basso che si intrecciano armoniosamente. Si avverte però un po’ di fatica a capire bene come realizzare questa sinodalità all’interno della Chiesa e della società, come mai?

Ogni cambiamento di metodo richiede un tempo di adattamento e un lavoro per superare la tendenza a replicare processi che ci fanno sentire più sicuri. Sinceramente non penso di poter dare suggerimenti su questo punto, in particolare riguardo alla sinodalità all’interno della Chiesa. Posso però testimoniare che anche nel governo di un ateneo e nella partecipazione a organismi interuniversitari, come la Federazione internazionale delle università cattoliche, ogni volta che si riesce a far dialogare e interagire le diverse soggettività, gli interni e gli esterni, i giovani e i meno giovani, le indicazioni che giungono non sono quasi mai scontate e spesso aiutano a lavorare meglio e con più consapevolezza.

Quando si dice “Chiesa italiana” può scattare l’automatismo per cui si pensa alla Cei o al Vaticano, ma la Chiesa non è né l’una né l’altro, la Chiesa è il popolo di Dio. E allora quale può essere il ruolo del popolo cattolico in questa situazione critica dell’Italia?

Occorre innanzitutto restituire dignità al valore dell’impegno politico come dimensione dell’umano e come modalità di contributo al discernimento dell’interesse comune. Bisogna poi individuare, forse con maggior convinzione, le priorità per cui valga la pena battersi in quanto cittadini italiani e cattolici europei, anche ricercando il consenso di persone che non appartengono alla Chiesa. Una presenza rinnovata, più definita e riconoscibile dei cattolici nella politica italiana potrebbe essere guardata anche da molti “laici” con simpatia perché in vari settori si percepisce un’aspettativa verso l’emergere di progetti e metodi nuovi che, rompendo con gli schemi del passato e distinguendosi dai cortocircuiti del presente, interpretino i profondi cambiamenti in atto. Non saprei dire, naturalmente, quale forma dovrebbe assumere un tale impegno, ma credo sia definitivamente superato il tempo dei velleitari tentativi di rivitalizzare esperienze gloriose ma inevitabilmente trascorse. Ritengo invece che sia giunto il momento di elaborare visioni dinamiche e complessive del Paese che sappiano puntare davvero sulle nuove generazioni. In questa direzione dall’Università Cattolica, che è nata dall’ispirata iniziativa di padre Gemelli come programma culturale rivolto a un mondo cattolico allora relegato ai margini del dibattito, e che nella sua ormai centenaria storia ha attraversato le turbolenze e coltivato le speranze del ’900 e di questo primo scorcio di millennio, può giungere un contributo in termini di riflessioni, spunti e idee utili per tradurre in proposte concrete e convincenti l’aspirazione al bene comune.

I tratti della nuova mappa del calcio extraeuropeo

di Lorenzo Longhi (www.treccani.it)

La scelta di un’immagine da parte dei media spesso va oltre il significante. La fotografia con la quale gran parte delle testate europee hanno illustrato i festeggiamenti dei tifosi algerini dopo la vittoria della loro Nazionale all’ultima Coppa d’Africa (Senegal battuto 1-0 in finale) lo è senz’altro: non le celebrazioni ad Algeri, ben più roboanti e affollate, ma quelle salutate dai fuochi d’artificio sotto gli Champs-Élysées, a Parigi. È la storia del Novecento a spiegarne i motivi, è l’attualità di una Francia in cui il nazionalismo del Rassemblement National non ha perso occasione per attaccarli, quei festeggiamenti (e i relativi disordini), è la stessa figura del capitano dell’Algeria, Riyad Mahrez, nato nella banlieu parigina e mai vissuto nella patria di cui difende i colori. Un anno dopo la vittoria della Francia al Mondiale russo, di nuovo il centro del mondo calcistico mediatico ha esultato sotto l’Arco di Trionfo, in taluni casi a bandiere affiancate – quelle algerine e quelle francesi – a riprova di un concetto, quello di identità, tutt’altro che univoco. La scelta dell’immagine di cui sopra, tuttavia, denota anche un altro aspetto, quello di una narrazione comunque eurocentrica, anche quando il calcio è solamente un pretesto per tornare a considerazioni di stampo prettamente politico.
In questo modo, a molti è sfuggito l’abbraccio che ha unito la Nazionale algerina e l’Hirak, il movimento di protesta che vuole la fine dell’era di Abdelaziz Bouteflika, presidente dal 1999 per quattro mandati di seguito, e più in generale dell’intero gruppo di potere che si è creato negli anni attorno a lui, da tempo gravemente malato e dimessosi lo scorso aprile. Non a caso, uno degli slogan della vittoria è stato “deuxième étoile, deuxième République”, ovvero “seconda stella (l’Algeria ha vinto per la seconda volta la Coppa d’Africa, pertanto aggiungerà al suo logo la seconda stella dorata, ndr), seconda Repubblica”, e qui s’intende appunto la speranza del cambio di regime. Le elezioni, inizialmente previste per il 4 luglio, sono state rinviate: non c’è ancora una data, intanto però – potere del calcio – il calcio ha unito per qualche momento entrambe le fazioni, quella che si riconosce nell’hirak e l’altra che sostiene l’establishment, e questo nonostante le proteste del martedì (quelle degli studenti) e del venerdì (quelle generali) non si siano mai fermate, nemmeno durante la Coppa d’Africa…continua a leggere su treccani

Le valli ladine in festa

Evviva la “Festa ta mont”. Il primo week end del mese di agosto, nel pieno della stagione estiva, si celebra la festa dei monti ladini. Una tre giorni in cui a Pozza di Fassa, e fino alla vicina Val San Nicolò, si festeggia la cultura ladina con approfondimenti culturali che interessano uno degli angoli più belli delle nostre montagne, le Dolomiti, patrimonio Unesco. Un luogo magico la valle Ladina che è popolata da 30 mila persone, distribuite in cinque valli e tre province,  che cercano di mantenere intatte tutte le tradizioni di una cultura millenaria. Partendo dalla cura della propria lingua  che aiuta a mantenere una identità sociale e allo stesso tempo a crearsi un status verso l’esterno. L’idea di una comunità millenaria con usi e costumi propri e soprattutto con una propria lingua sono un merchandising naturale dalle mille risorse. E’ il veicolo principale per un turismo identitario caratterizzato da un principio basilare della cultura ladina: l’armonico mix tra uomo e paesaggio.  Tutto questo ha la sua ragione di esistere nel mantenere e tramandare le tradizioni di un popolazione che ha visto già un migliaio di anni fa che unire natura e tradizione assieme a qualità e gusto genera un qualcosa di eccezionale. La festa ta mont è tutto questo e qualcosa di più, che non può essere limitata al racconto di una festa ma va vissuta nell’arco della vita di una comunità tutta da scoprire e da tramandare.

Multilateralismo in crisi

Pubblichiamo l’articolo di Giuseppe Fiorentino che appare nell’edizione odierna dell’Osservatore Romano

A poco sono servite le rassicurazioni dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica e degli altri paesi firmatari circa il rispetto da parte dell’Iran dell’accordo sul nucleare faticosamente raggiunto nel 2015. Così, ad aprile dello scorso anno, il presidente statunitense Donald Trump ha sancito l’uscita dall’intesa fortemente voluta dal suo predecessore e alcuni mesi dopo, con l’immancabile tweet dai toni hollywoodiani, l’inquilino della Casa Bianca ha annunciato il varo di sanzioni contro la Repubblica islamica. «Sanctions are coming»: questo lo slogan che campeggiava sotto l’immagine di un accigliato Trump del quale tutto si può dire, ma non che somigli a qualche protagonista di Game of Thrones, la fortunata serie televisiva Hbo il cui motto, «Winter is coming», richiama direttamente la frase utilizzata dal presidente per notificare l’introduzione delle misure anti-iraniane.

Ma anche senza ricordare minimamente Jon Snow o Ned Stark, Donald Trump ha voluto con il suo tweet lanciare un messaggio di forza, usando inoltre una metafora televisiva molto popolare. È storia di queste settimane che Teheran, alle prese con le difficoltà economiche dovute alle sanzioni — che colpiscono tra gli altri il settore petrolifero — e in mancanza di un’efficace alternativa europea per favorire la prosecuzione degli scambi, ha ripreso la produzione di uranio arricchito. Ben poco resta quindi dell’accordo del 2015 e quel poco sembra molto difficile da salvare.

Ma il trattato sul nucleare iraniano è solo una delle tante intese recentemente ricusate dall’amministrazione statunitense. Sotto la guida di Trump, gli Stati Uniti sono usciti ad esempio dal Global Compact dell’Onu per una migrazione sicura, ordinata e regolare e dall’accordo di Parigi sul clima, e hanno abbandonato organismi quali il Consiglio dell’Onu per i diritti umani e l’Unesco. Altre intese commerciali regionali, oltre a quelle transpacifiche e transatlantiche, sono state sospese o congelate. L’amministrazione statunitense in questo momento sembra quindi rinunciare al multilateralismo nella risoluzione delle controversie, ma anche nella definizione di nuovi accordi, a favore di un approccio bilaterale. Così è avvenuto per il trattato di libero scambio con Canada e Messico, il Nafta, accantonato per sottoscrivere singoli patti con quei paesi. Anche la guerra dei dazi messa in atto soprattutto con la Cina lascia intendere che gestire congiuntamente questioni internazionali non costituisce una priorità. Lo si è capito dal documento diffuso al termine del recente g20 di Osaka, un testo che, secondo alcuni osservatori, riconosce la grave crisi attraversata dal multilateralismo, ammettendo che «le tensioni commerciali e geopolitiche si sono intensificate», ma senza individuare le soluzioni per rispondere a queste pericolose dinamiche.

Il preoccupante stato in cui versa oggi il multilateralismo è diretta conseguenza di quell’America first di cui Trump ha fatto il suo cavallo di battaglia elettorale, come reazione diretta alle storture della globalizzazione. È giusto ricordare che Trump è stato eletto anche perché ha promesso di accogliere le istanze di quel ceto produttivo depauperato dalla delocalizzazione delle imprese, avvenuta soprattutto per risparmiare sulla mano d’opera. Ma sta di fatto che invece di cercare, insieme, di individuare strumenti per governare e regolamentare la globalizzazione, si preferisce ora ricorrere a trattative “private” in cui far valere tutta la propria forza, perché svincolate dal contesto di quegli organismi internazionali dove le regole dovrebbero valere per tutti. Un accordo bilaterale è soprattutto vantaggioso per chi, in nome del suo potere economico e militare, può dettare le condizioni. E ogni intesa così raggiunta può essere propagandata come un successo da giocare poi in chiave elettorale, magari con un nuovo tweet, molto popolare, dal sapore hollywoodiano.

Sarebbe tuttavia opportuno chiedersi se la legge del più forte sia davvero la regola su cui basare le relazioni internazionali. Certo la storia, quella maestra di vita che ha ben pochi allievi, come ha recentemente sottolineato Papa Francesco, citando il gesuita Giacomo Martina, troppo spesso ci racconta di violenze e di sopraffazioni. Ma è anche vero che la comunità internazionale si è dotata di istituzioni basate sul multilateralismo proprio nel tentativo di arginare la tentazione di far prevalere la potenza a scapito del diritto. Non è sicuramente un caso che oggi il valore di quelle istituzioni sia fortemente messo in discussione. Ma negare legittimità alle organizzazioni internazionali che imbrigliano la volontà di potere, in prospettiva è pericoloso per tutti. Come ha spesso ricordato il Papa, il mondo è già alle prese con un guerra mondiale combattuta a pezzi. E a volere imporre a ogni costo la propria forza si rischia alla lunga di aprire scenari di conflitto in cui non ci saranno vincitori, ma solo sconfitti.

A destra poco di nuovo

di David  Fracchia

http://www.laboratorio.info/Mensili/2019/7-lug-2019.pdf

La Lega rappresenta tutto il nuovo nella storia italiana, rappresenta l’avvenire oltre i prodigiosi traguardi di Maastricht, e conferma soprattutto l’incontro ideale fra Pontida
ed i Vespri Siciliani.Questa frase di Umberto Bossi, conclusiva della su prefazione ad uno snello volume interessante allora ed utilissimo da rileggere oggi (Iacopini – Bianchi, La Lega ce l’ha crudo ! – Il linguaggio del Carroccio nei suoi slogans, comizi e manifesti, Mursia 1994), 25 anni fa, piaccia o meno, aveva un senso. In quel momento si trattava di una sintesi del percorso compiuto, dalle oscure origini della profonda provincia del Nord alla ribalta nazionale conquistata con notevole successo; una sintesi che, oggettivamente, aveva un nucleo di verità, pensando alla genesi di  quel movimento agli inizi degli anni ’80, in dichiarata contrapposizione a metodi e tematiche dei partiti tradizionali della Prima Repubblica.
Merita sottolineare il dato emerso, già nel 1989, da uno studio sulla Lega Lombarda commissionato dalla Dc lombarda all’Università Cattolica di Milano, da cui emerse che il militante leghista era relativamente giovane, alquanto scolarizzato, occupava una posizione professionale medio-alta, percepiva un reddito superiore alla media nazionale, era nato e tendenzialmente viveva in Lombardia.
In sintesi: ceto medio in ascesa, dinamico, insofferente di un sistema politico sclerotico ed avviato al crollo per molti motivi (la letteratura sul punto è smisurata).
Un ceto, quindi, che avrebbe tranquillamente potuto essere reso destinatario di una comunicazione, un messaggio, articolato, strutturato: ma non fu questa mai, nemmeno allora, la scelta della classe dirigente leghista. Gianfranco Miglio stesso, nel giustificare la scelta della politica-spettacolo e del linguaggio da slogan compiuta dal movimento, ebbe ad osservare che anche le forme ideologiche più sofisticate, i programmi più elaborati, debbono ad un certo punto trovare il consenso delle moltitudini; debbono cioè tradursi in manifestazioni popolari, in gesti, in miti che consentano al singolo di condividere, pubblicamente, l’adesione ad una certa interpretazione della realtà, alla medesima carica di
speranza (v. in merito l’amplissimo lavoro di Caldiron, La destra plurale. Dalla preferenza nazionale alla tolleranza zero, Roma 2- In tale scelta di metodo si collocò la radice dellaforza diffusiva del primo messaggio leghista, peraltro indiscutibilmente diretto al popolo del Nord in esplicita contrapposizione a Roma ladrona ed al Sud parassita; lo scardinamento del vecchio quadro politico ad opera della Magistratura fece poi il resto: in mancanza, probabilmente le sorti anche della Lega, oltre che di questo paese, sarebbero state molto diverse.
2. Sono trascorsi venticinque anni, arco temporale in sé rilevante ed ancor più nel frenetico tempo attuale.
Il nucleo identitario leghista delle origini si è trasformato, assumendo connotati da destra radicale classica, abbastanza velocemente.
La fiducia nella capacità dei territori originari di far da sé, meglio degli altri, in virtù (paradossalmente) anche della vicinanza geografica e culturale rispetto alla MittelEuropa si è evoluta (o devoluta, a seconda dei punti di vista), alimentandosi del timore verso la globalizzazione tipico dei ceti meno elevati e, tra questi, di quello operaio, alle prese con una vistosa crisi industriale.
Nel quadro di nettissima difesa dell’ordine economico esistente e, quindi, delle modalità di produzione e distribuzione della ricchezza già consolidate, si è aggiunta una mutazione
dell’elemento identitario strettamente locale, sino a creare l’idea di una comunità di lavoro, territorialmente sempre più ampia, ma etnicamente coesa, una sorta di etnocapitalismo: il tutto ravvivato dall’elemento maggiormente vistoso, vale a dire quello razzista e/o, se si preferisce, di repulsione nei confronti degli immigrati.
La Lega ha assorbito, sul punto, linguaggio e teoriche della destra radicale europea anti-mondialista, in modo esplicito, anche mediante documenti ufficiali. In un documento del 1998, titolato Padania, identità e società multirazziale, prodotto dagli Enti Locali Padani Federali, si legge che l’ideologia mondialista, favorevole all’immigrazione xtracomunitaria, vuole negare l’esistenza di popoli e nazioni, sostenendo un cosmopolitismo individuale di massa che sgretola le identità e i sentimenti di appartenenza territoriali; gli orfani del Marxismo, convertitisi a tale mondialismo, proseguono in tal modo la loro sottile opera di distruzione della civiltà europea, utilizzando l’immigrazione come grimaldello e futuro elemento di destabilizzazione e caos Di lì a poco, ad inizio 1999,Dopo venticinque anni di Lega.
la Lega coerentemente lanciava la propria campagna Uomo, non microbo contro la cd. invasione di immigrati clandestini in Italia, avviando raccolta di firme
con la partecipazione entusiasta di ampio panorama dell’allora destra estrema italiana, dal Msi-Fiamma Tricolore di Rauti al Fronte Nazionale di Adriano Tilgher, già allora a Forza Nuova. I leghisti torinesi, per l’occasione, invitarono la Fraternità Sacerdotale di San Pio X a tenere una messa in latino a Porta Palazzo, per fermare l’islam e immigrati, per dirla con il leader cittadino dell’epoca Mario Borghezio (lo stesso esponente, tradizionale trait d’union traLega e ambienti estremi, che a marzo del 2019 ha inaugurato la sede torinese dell’associazione Legio Subalpina). A quel punto, l’apertura esplicita, sempre a fine anni ’90, delle colonne del giornale La Padania al pensiero del maggior pensatore della Nouvelle Droite francese, Alain de Benoist, non solo non può stupire, ma è coerente e chiude il cerchio: l’idea dell’impero sovranazionale che rispetta, riunisce ed insiemesupera le singole comunità identitarie è sbocco teorico nel quale non è impossibile incasellare il messaggio leghista in atto sul territorio, sbocco rispetto al quale la visione euro-asiatica di Aleksandr Dughin, attivo da decenni, ma da noi divenuto noto al pubblico – non a caso – con l’attuale governo, è solo una variazione sul tema.
Dughin già riprende infatti, da decenni, la teorizzazione di un impero euroasiatico da Dublino a Vladivostok, contrapposto allo atlantismo americano, teorizzazione operata dal
belga Jean Thiriart già negli anni Sessanta. Nel 1992 Dughin stesso invita a Mosca proprio Alain de Benoist e negli stessi anni avvia la diffusione in Russia degli scritti di Julius Evola; trovare lo stesso Dughin, nel 1994, a capo di un partito russo nazional-bolscevico non può stupire da nessun punto di vista. Pochi mesi orsono, è noto, si è appunto avuto un tour italiano del medesimo Aleksandr Dughin, con vicinanze esplicite di vari ambienti, leghisti ma non solo (non poteva mancare, ovviamente, il Fusaro fustigatore del turbocapitalismo).
Archetipi che ritornano, quindi, e trovano fortuna comunicativa nella piena attualità; al netto delle indubbie peculiarità russe, nazional-bolscevismo evoca abbastanza intuitivamente il nazional-socia lismo delle origini (si rimane rigorosamente sul piano delle idee, non delle nefaste conseguenze); come pure il sindacalismo rivoluzionario di matrice francese evolutosi, un secolo orsono, in sindacalismo nazionale italiano, evoca ogni altra congerie di pensiero volta ad unificare i contrapposti interessi dei diversi ceti sociali
in ottica di superamento di ogni conflitto, nell’interesse superiore dell’identità nazionale.
La configurazione (peraltro mai troppo attuata) del sistema corporativo fascista ne fu l’esito formale. Su un piano meritevole di rispetto se non altro, per la coerenza estrema che vi dimostrò il suo autore, lo scrittore Yukio Mishima, nazionalista, militarista, imperialista, negatore del modernismo e della generazione liberale e filo-americana del Giappone postbellico, riconobbe come le sue posizioni non fossero, poi, troppo distanti da quelle degli studenti giapponesi protestatari marxisti di fine anni ’60: ma aggiungeva che lui disponeva di un atout che a quelli mancava: l’Imperatore.
La materia è enorme per riferimenti, interventi, personaggi e varianti; ma pare possibile concludere che,in definitiva, l’evolversi (non di oggi, si parla già di vent’anni orsono) della Lega verso il radicalismo di destra europeo (ed anche italiano) tradizionale segni l’abbandono di un potenziale di innovazione che, se non altro per reazione all’esistente e ceto sociale dinamico coinvolto, per certi aspetti, all’inizio quel movimento aveva.
Di recente, invece, ampliatasi numericamente e mutata sul piano economico-sociale la base di riferimento, la Lega si è collocata appieno in un filone di certo non nuovo.
3. Rifiuto dell’immigrazione; rifiuto dell’occidente capitalista e atlantico; aspirazione ad un ordine sovranazionale nel rispetto delle identità (nel senso di differenze di popolo più che di stato), sono elementi cardine del pensiero di destra radicale italiano da decenni, che ha trovato anche mezzi di comunicazione efficaci, sia pure all’interno della cerchia degli adepti, per così dire, di quell’area, sino allo sdoganamento berlusconiano, la svolta di Fiuggi
e così via. Tra la metà degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, la cd. sinistra missina” (ritornano gli apparenti ossimori, anche comunismo padano lo è), in contrapposizione ad un sofferto conservatorismo della classe dirigente di quel partito, cercò sviluppi anche di linguaggio e di media.
-5 ITALIA Russia sovietica, sia contro il mostro statunitense, ma pure (già allora, sia pure per altri motivi) contro la Cina, da cui slogans come quello celeberrimo Russi, cinesi, americani, sul suolo dell’Europa per voi non c’è domani.
Il quadro internazionale di quegli anni ovviamente faceva abbinare le due superpotenze: venuto meno il sistema sovietico, come
visto, il nazionalismo imperial-bolscevico russo è oggi molto meno sgradito. Julius Evola, poi, riemerge come un fiume carsico ad ogni volgere di decennio, da
un lato per le teorizzazioni razziali risalenti già agli anni ’30 (suo fu il cd. razzismo spirituale, in contrapposizione a quello scientifico, per così dire naturalmente, dei vari Preziosi ed anche Almirante); dall’altro per il recupero in vari ambiti (v. di recente proprio con Dughin) del suo pensiero sparso in opere come Rivolta contro il mondo moderno, Cavalcare la tigre, Gli uomini e le rovine. Esso pensiero ha costituito e costituisce tuttora, infatti, riferimento per chi, tradizionalista integrale, neghi radicalmente capitalismo e liberismo (oltre ovviamente al comunismo, che era realtà negli anni in cui lui scrisse), denunziando la demonìa dell’economia, definendosi senza remore antiborghese e proponendo un tipo umano che vive nella modernità, ma non lche ’accetta come tale e vuole ribaltarla in senso rivoluzionario conservatore. 4. Vien difficile pensare che lo strumentario comunicativo (ma anche di contenuti) della Lega attuale, volto alla nazione, alla comunità etnica che (sbalorditivo) non è solo più padana ma italiana, all’attizzare
Nacque, ad esempio una rivista che visse alcuni anni, La Voce della Fogna, su ispirazione di Marco Tarchi: la copertina del n. 24, Estate 1980, della medesima, raffigura una massa di immigrati di coloredavanti al Colosseo. Titolo: Mezzo milione di africani popolano l’Italia. Figli dell’Impero; un Mussolini raffigurato nel migliore dei suoi faccioni proclama, un po’ inviperito: Adesso, il primo che sento fischiettare ‘Faccetta Nera’, parola
mia, lo strozzo!. Se ne occupò, fra l’altro, Giordano Bruno Guerri in qualità di direttore del mensile Storia Illustrata, che pubblicò un dossier su vecchia e nuova destra dal 1945 ad inizio anni ’80: un d’ossier che evidenziava, da dichiarazioni e testimonianze raccolte, la furiosa voglia di lotta dei militanti di destra-destra .. non imborghesiti, sia contro la 6- costantemente il rifiuto e la paura per l’invasione straniera e la perdita dell’identità culturale, abbia preso davvero il sopravvento sul concretissimo tronco ì originario del Nord/NordEst, omogeneo e animato anche da interessi economici ben identificabili.
Vi è però chi lo pensa; periodicamente Roberto Maroni lancia messaggi; un personaggio di indiscutibile rilievo come Giorgetti non manca di cogliere malumori della base storica; nasce, ad esempio, un movimento come Grande Nord, dapprima di soli esuli leghisti, dichiaratamente in reazione al ritenuto tradimento salviniano delle origini e delle missione della Lega stessa. La stipulazione del cd. contratto di governo con il M5S è, forse, di per sè meno eversiva di quanto superficialmente si potrebbe pensare, rispetto al contesto che si è tentato appena di indicare per eventuali approfondimenti. Essa è stata, comunque, utilizzata sapientemente dai media a conduzione leghista, per attrarre quel segmento di popolo che si è, dapprima, sentito indistintamente gialloverde, poi ha scelto la componente maggiormente strutturata dello strano binomio contrattual-governativo. L’area di centro, liberaldemocratica, moderata (le etichette possibili si sprecano), può dialogare in modo costruttivo e, se sì, come, con tale soggetto politico di indubbia importanza?
Se si considera lo sfondo, i riferimenti radicali scelti, certe linee-forza che hanno fatto la fortuna della Lega ultima, di oggi, pare di no. Se si considera l’aspetto più strettamente di prassi, di rappresentanza di ceti economici attivi ed attenti – proprio – all’Europa e comunque al mondo globalizzato che, inutilenegarlo, concorrono a costituire la forza del Lombardo-Veneto esteso al Friuli e progressivamente all’Emilia, pare di sì.
Può essere che il futuro, auspicabilmente prossimo, + di un Centro Democratico (si conceda l’utilizzo, per semplificare, di un’espressione di montanelliana memoria) si giochi anche nell’essere, pienamente consapevole dei propri obiettivi e della rappresentanza che vuol conseguire, da un lato, diga alle componenti radicali; dall’altro, invece interlocutore delle componenti concrete e storicamente propositive, di quell’entità assai cresciuta quanto non troppo consolidata che, oggi, pare essere la Lega.

Di male in peggio

La delusione continua senza sosta e senza alcuna pietà a inseguire le speranze degli iscritti al partito democratico. Immaginavano che la beatificazione con le primarie potesse fare emergere una figura carismatica. Non è stato così, non è così, non lo sarà domani. Le primarie hanno consegnato un vincitore dal profilo pallido e senza una capacità carismatica da riempire di sogni i militanti di quel partito. Devo dire che anche io all’inizio lasciavo la porta aperta a una possibilità di costume più adatto alle condizioni nazionali, ma dopo diversi mesi, tutto si è prosciugato e, oggi, con l’ultima critica aperta, constato, come voi tutti, l’insufficienza del segretario nazionale del Pd. Questo non è sicuramente un bel avvio per la salute politica nazionale. Ho sempre considerato fondamentale che ogni forza politica fosse retta, sia di destra, di centro o di sinistra, da soggetti all’altezza del compito e, magari, anche retti da una abilità e una umanità più elevata del normale. A dir il vero le fasi tristi della storia, almeno quella recente, hanno anche manifestato mediocrità nei leader politici nazionali. Dentro al Pd, quindi, non regna alcun entusiasmo. Gli stessi renziani, vedasi l’ultima crisi aperta e senza alcun infingimento dall’On. Elena Boschi, non fanno più mistero di voler prendere direttamente a bersaglio il Segretario Nicola Zingaretti. A conti fatti, pertanto, il clima complessivo tra le fila dell’opposizione sembra volto a un contenimento poco adatto ad affrontare le sfide profonde e intense del momento. In parallelo a tutto questo, sempre in casa Pd, c’è, e lo segnalo con preoccupazione, il grigio gesto dell’On. Ivan Scalfarotto, il quale per distinguersi – distinzione che dal mio punto di vista lo fa precipitare verso il basso – ha fatto visita ai due ragazzi americani arrestati per l’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega con il dichiarato intento di verificare se costoro fossero stati fatti mira di comportamenti illeciti da parte dei carabinieri di Roma. Si è messo la veste del radicale di turno, mantenendo la casacca del Pd. È pur vero che ci sono casi che ricordano i comportamenti non leciti da parte delle forze dell’ordine, ma da qui a pensare che quella foto apparsa sui giornali volesse significare una condotta, da parte delle nostre forze dell’ordine, scorretta, disumana, illegale nei confronti del giovane  Finnegan Lee Elder, è una mossa francamente vergognosa ed inaccettabile. In un mio intervento di qualche giorno fa avevo avanzato l’ipotesi, ripeto solo una ipotesi da commento giornalistico, in cui immaginavo che quella foto fosse stata scattata solo a vantaggio dell’americano e per mettere così in ridicolo le nostre forze dell’ordine e impedire in tal modo che si procedesse con le leggi vigenti nel nostro Paese per verificare e giudicare il grado di colpevolezza del giovane assassino americano. Ivan Scalfarotto ha così ulteriormente colpito l’intelligenza politica di tutto il suo partito. È ben vero che c’è una presa di posizione di Zingaretti, ma credete forse che questo basti a nascondere l’azione compiuta da un parlamentare del partito democratico, e non un parlamentare qualsiasi, ma un esponente di primo grado di quella formazione?

Non c’è futuro al di fuori dell’Unione europea

Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano, edizione settimanale in lingua italiana del 1 agosto, a firma di Andrea Monda.

«Ed è, in fondo, anche qui il bello della nostra Costituzione, che non esonera nessuno da responsabilità, tanto meno in questa materia». La “materia” in questione è l’informazione, e al mondo della comunicazione si è rivolto giovedì mattina, 25 luglio, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel tradizionale appuntamento della consegna del “Ventaglio” da parte dell’Associazione stampa parlamentare. E quale sia la responsabilità di chi opera in questo campo è presto detto: «In ragione della professionalità e deontologia che caratterizza la loro funzione» i giornalisti «devono agire con indipendenza e con rigore per alimentare credibilità e fiducia, nell’assolvimento della missione di servire i governati e non i governanti, sempre anteponendo la verifica delle notizie all’anelito dello scoop». 

Nel suo discorso il presidente ritorna più volte su questa espressione “servire i governati e non i governanti” che è ripresa letteralmente dalla sentenza del 1971 della Corte suprema degli Stati Uniti investita dal caso Pentagono papers, sulla politica americana sul Vietnam. È grazie al servizio di una stampa libera che i governati, i cittadini, ha affermato Mattarella, «possono formarsi un’opinione consapevole e liberamente critica». È chiara l’idea di fondo: l’informazione è un servizio e non un potere, e finché resta un servizio può svolgere una funzione di contro-potere; un’idea questa che è «uno dei cardini della democrazia liberale […] da questa si può andare avanti, progredire. Non certamente retrocedere per tornare a un invasivo esercizio del potere di chi governa». 

Il libero esercizio di questo contro-potere è tanto più urgente oggi al tempo della rivoluzione digitale che «ha cambiato il volto del pianeta in breve tempo» investendo «il sistema delle relazioni interpersonali, come pure l’economia, il mondo del lavoro, della scienza e della cultura». Questa rivoluzione così pervasiva interpella intensamente la coscienza dell’uomo «su temi che vengono messi in discussione, come la libertà, la dignità delle persone, la dimensione della riservatezza». Su questo punto Mattarella si sofferma evidenziando le questioni che attengono al profilo politico (la tenuta democratica) ma anche quelle più direttamente esistenziali, umane: «L’egemonia di pochi colossi dell’impresa digitale assume una pervasività sin qui sconosciuta. Gli strumenti per guidare in modo positivo l’evoluzione digitale, a servizio delle persone, consistono nell’applicazione puntuale dei principi sui quali si basa l’esperienza liberal-democratica, costruita a caro prezzo da tanti popoli. Non esistono “non luoghi”: si tratta comunque di spazi, sia pure virtuali, in cui interagiscono persone e si registrano attività umane; e anche la dimensione digitale deve rispettare principi e regole frutto delle conquiste democratiche».

Al presidente sta a cuore la struttura istituzionale ma prima ancora “il sistema delle relazioni interpersonali”, una dimensione che nella sua riflessione si allarga al sistema paese e a tutto il continente europeo a cui ha dedicato la prima parte del discorso: l’Europa che fuoriesce dalle elezioni di maggio, secondo Mattarella, mostra «una visione e un atteggiamento di maggiore solidarietà, soprattutto nei confronti delle giovani generazioni che si sentono, e sono, sempre di più, popolo europeo. Appare sempre più evidente l’importanza capitale del non isolarsi». Parole forti e fortemente sentite che lo portano ad affermare lapidariamente che «Non c’è futuro al di fuori dell’Unione europea. Di fronte alle grandi questioni e numerose sfide, tutte di carattere globale, in un modo sempre più condizionato da grandi soggetti, i singoli paesi dell’Unione si dividono tra quelli che sono piccoli e quelli che non hanno ancora compreso di esser piccoli anche loro». 

Il pubblico composto esclusivamente da direttori dei quotidiani, delle agenzie giornalistiche e dai giornalisti accreditati presso il Quirinale, segue con attenzione, recepisce i messaggi, espliciti e impliciti, ma quello che a tutti risulta chiaro è che il discorso del presidente è stato un inno alla libertà di informazione, una libertà mai scissa dal senso della responsabilità, oggi forse più importante e decisiva che in passato.

 

Ubriachi sul ciglio dell’abisso

Articolo già apparso sul sito internet della rivista Il Mulino a firma di Antonio Banfi

Straniamento: forse non c’è una parola più adatta per descrivere la sensazione che si prova osservando ciò che sta accadendo in queste settimane nel nostro Paese. Il dibattito pubblico è prevalentemente assorbito da questioni poco serie, o – per meglio dire – da questioni la cui gravità deriva più dal coinvolgimento che tali questioni generano piuttosto che dalla loro effettiva rilevanza. Detto in altri termini, il dibattito politico (se ancora così lo si può definire) è ormai appiattito su faccende di corto respiro e di breve se non brevissimo orizzonte, fagocitato da agende nelle quali il tempo si misura in giorni se non ore; dove gli slogan fioriscono su un substrato costituito in parti variabili ma sempre determinanti di ignoranza, ricerca del consenso purchessia, rifiuto di qualsiasi senso di responsabilità, analfabetismo radicato che si estende come una infezione alle più elementari capacità di ragionamento, alle basi della logica. Spiace apparire così tranchant e anzi viene il sospetto di essere un po’ vecchi, magari brontoloni e moralisti, poco aperti agli orizzonti della politica “liquida”: e tuttavia è giunto il momento di dire che il dibattito pubblico italiano è ormai un lupanare, un festoso postribolo che neanche le più sfrenate rappresentazioni della demagogia di Cleone pensate da Aristofane mai avrebbero potuto raggiungere nel suo orrendo livello di abiezione. La questione suscita un forte timore per i destini del Paese, anche perché non pare che questa malattia degenerativa infetti solo l’attuale maggioranza di governo, sempre che così la si possa chiamare.

Questa cosa va detta, e in modo forte e chiaro, per due ragioni fra loro intimamente collegate: la prima è che le strutture istituzionali e politiche di una democrazia sono fragili e non possono reggere a lungo un simile imbarbarimento senza aprire le porte a qualcosa d’altro che allo stato non sappiamo cosa sia, ma che per molte buone ragioni dovremmo temere. La seconda è che la politica distillata ad uso del “popolo”, fatta di tweet, sagra paesana, pomiciate ministeriali e diretta Facebook non è per definizione in grado di confrontarsi efficacemente con i più semplici problemi di gestione della cosa pubblica, figuriamoci quelli maggiori o che abbiano rilevanza internazionale. Su questi scende, non per caso, una coltre di silenzio, come se non esistessero. Si dirà che personaggi da avanspettacolo ricoprono ruoli di primo piano in grandi potenze come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna; magra consolazione. E soprattutto quei Paesi hanno – pare – la fortuna di potersi ancora avvalere di un deep state e di una burocrazia ministeriale che ormai in Italia è stata eradicata a colpi di spoils system, ammesso e non concesso che sia mai esistita in quella forma.

Vengo ora al punto che intendo qui sollevare, che mi pare meritevole di un assai preoccupato interesse per i suoi possibili sviluppi, ma non senza ribadire che esso non è certo isolato, sotto la coltre di silenzio: basterebbe pensare alla politica energetica, al commercio estero (la vicenda indecorosa delle dimissioni del board editoriale dell’Ice, l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane) accuratamente taciuta da buona parte della stampa, la dice lunga), alle relazioni internazionali, solo per citarne alcuni.

Faccio un breve passo indietro: intorno all’anno 2000 terminò clamorosamente la bolla finanziaria dell’high-tech; l’esuberanza irrazionale degli investitori fu costretta, come prima o poi sempre accade, a fare i conti con la realtà e una gran massa di aziende – che spesso avevano al loro attivo poco più di un brand accattivante – fu spazzata via mentre gli indici azionari furono severamente ridimensionati. Le conseguenze sul piano di quella che è talvolta ambiguamente definita “economia reale” per distinguerla dalla finanza furono tutto sommato limitate, con l’usuale raffreddamento recessivo che era lecito attendersi. In quegli anni iniziò a manifestarsi un atteggiamento di politica monetaria, da parte della Federal Reserve, che è difficile non definire compiacente, quando non eccessivamente espansivo. Si ebbero in particolare diversi anni di politica “accomodante” (tassi significativamente bassi) pur in presenza di un’economia che si avviava rapidamente verso la ripresa. Sulle ragioni di questa scelta, da molti aspramente criticata, in particolare, anche se non solo, da parte di alcuni esponenti della destra repubblicana, si dibatte ancora. In ogni caso, come tutti ricordano, tali politiche compiacenti finirono per generare una nuova bolla (deflagrata nel 2008), su asset più senior, più illiquidi e dunque assai più rischiosi dei precedenti: gli immobili. A questo punto il contagio si era avviato e si stava trasferendo dai mutui immobiliari insolventi ai derivati, alle banche stesse, i cui bilanci rischiavano di rivelare patrimoni ampiamente costituiti di carta straccia, ai titoli di debito in generale, inclusi quelli sovrani. Il “delfino” di Greenspan, Ben Bernanke, detto “Helicopter” da una famosa frase di Milton Friedman da lui rilanciata in un discorso del 2002, secondo la quale si sarebbero dovuti lanciare i dollari dagli elicotteri per estinguere l’incendio finanziario, reagì approfondendo le politiche accomodanti, non solo operando sui tassi, ma attraverso politiche non convenzionali (il cosiddetto quantitative easing, un intervento diretto sui prezzi degli asset), successivamente adottate anche al di fuori degli Stati Uniti.

Qui l’articolo completo 

 

Gli italiani dicono no alla plastica monouso

In Italia un cittadino su quattro (27%) ha evitato di acquistare oggetti di plastica monouso come piatti, bicchieri o posate mentre ben il 68% ritiene addirittura che sarebbe opportuno pagare un sovraprezzo per questi prodotti. E’ quanto emerge da una analisi della Coldiretti su dati Eurobarometro, in relazione alla sentenza del Tar Puglia che ha sospeso l’ordinanza balneare adottata dalla Regione Puglia nell’aprile 2019, nella parte relativa al ‘plastic free’ imposto a gestori di stabilimenti balneari e agli utenti delle spiagge.

I giudici amministrativi hanno accolto il ricorso contro la Regione Puglia promosso dall’associazione dei produttori di acque minerali e di sorgente, da quella dei produttori di bevande analcoliche e da quelle dei distributori perché – spiega la Coldiretti – la recente direttiva europea sulle plastiche monouso invocata nell’ordinanza regionale deve essere recepita dagli Stati membri entro il 3 luglio 2021 e non è quindi di competenza degli enti locali.

La lotta alle plastiche monouso, come piatti, posate, cannucce e bastoncini cotonati, è sostenuta – sottolinea la Coldiretti – da una crescente attenzione alla sostenibilità ambientale dei propri comportamenti. Un tema che – continua la Coldiretti – riguarda non solo il rispetto dell’ambiente, ma anche la stessa salute degli animali, da quelli marini fino a quelli da fattoria. I rifiuti di plastica – spiega la Coldiretti – sono, infatti, i più diffusi anche nelle campagne, spesso a causa dell’inciviltà di chi abbandona le stoviglie utilizzate per i picnic.

Mucche, pecore o cavalli degli allevamenti rischiano così di restare soffocati dai residui come sacchetti o piatti, ma si registrano episodi in cui animali sono morti addirittura a causa di prodotti “di moda” come i resti delle lanterne cinesi che sempre più frequentemente vengono fatte volare in cielo. Accanto ai comportamenti scorretti dei cittadini, non mancano poi i casi in cui le campagne vengono utilizzate addirittura per lo smaltimento illecito di rifiuti – conclude la Coldiretti – abbandonati nottetempo senza curarsi dei gravissimi danni che ciò comporta all’intero settore agricolo.

Sono 3.867 i migranti sbarcati sulle coste italiane

Ad oggi sono 3.867 i migranti sbarcati sulle coste italiane da inizio anno, 950 dei quali nel solo mese di luglio.

La giornata durante la quale è stato registrato il maggior numero di persone sbarcate è stata quella del 31 luglio, con 203 migranti arrivati sulle nostre coste. Altri consistenti sbarchi si erano registrati il 19 luglio (111), il 6 luglio (110), il 9 luglio (80), il 24 (77) e il 25 (75).

Dei quasi 3.900 migranti sbarcati in Italia nel 2019, 858 sono di nazionalità tunisina (22%), sulla base di quanto dichiarato al momento dello sbarco; gli altri provengono da Pakistan (620, 16%), Costa d’Avorio (421, 11%), Algeria (339, 9%), Iraq (310, 8%), Bangladesh (190, 5%), Sudan (188, 5%), Iran (103, 3%), Guinea (91, 2%) e Marocco (71, 2%) a cui si aggiungono 676 persone (17%) provenienti da altri Stati o per le quali è ancora in corso la procedura di identificazione.

In Etiopia piantati più di 350 milioni di alberi in un giorno

Si chiama Green Legacy la maratona voluta in Etiopia per assicurare più ossigeno. Nel corso di un solo giorno, lunedì, nel Paese africano sono stati piantati oltre 350 milioni di alberi per combattere la deforestazione e il cambiamento climatico.

Un record toccato grazie anche alla decisione delle autorità etiopi di disporre la chiusura di scuole e uffici governativi per la giornata di lunedì.

Il progetto rientra nel programma governativo che prevede di piantare circa 4 miliardi di alberi nella seconda metà dell’attuale anno fiscale.

A fronte di un territorio coperto per meno del quattro per cento da foreste, Green Legacy tenta di prendere le dovute misure dopo quanto denunciato da alcuni scienziati svizzeri a inizio luglio: il modo migliore per contrastare efficacemente il riscaldamento globale, sarebbe quello di coltivare un trilione di alberi.

L’iniziativa ‘Green Legacy’ lanciata il 26 maggio dal premier Abiy Ahmed: ha visto in 2 mesi, piantare 2,6 miliardi di alberi.

 

Torino: Torna la ‘Festa dei Vicini’

L’iniziativa si propone di contrastare la solitudine nei quartieri e nei condomini con un momento di convivialità e condivisione.

L’amministrazione torinese che la ospita, quest’anno ha optato per un appuntamento doppio:

la prima Festa, che si è svolta l’8 e il 9 giugno scorsi, e stata ispirata alla tematica “Plastic free”, secondo le indicazioni del Ministero dell’Ambiente, che invita a non utilizzare la plastica, ma materiali riciclabili e biodegradabili; il secondo appuntamento, previsto per sabato 21 e domenica 22 settembre, per il quale l’amministrazione invita comunque a limitare l’utilizzo di oggetti in plastica, si svolgerà, come da tradizione, in occasione della 16ma edizione del “Neighbours’Day”.

I partecipanti avranno il compito di organizzare un evento di convivialità per coinvolgere i propri vicini di casa. Chi porta una torta, chi un mazzo di carte o una chitarra, l’importante è stare insieme. Sono sempre tantissimi, oltre 5000, i cittadini torinesi che raccolgono l’invito e decidono di scendere in strada o in cortile per brindare ai rapporti di buon vicinato. Nelle case popolari, poi, la festa è particolarmente sentita, infatti, da Mirafiori a Barriera di Milano, gli inquilini danno vita ai banchetti più affollati della giornata.
La partecipazione è gratuita. Tutte le informazioni sono reperibili su sito: http://www.comune.torino.it/festadeivicini/

Ospedale Bambino Gesù: la scoliosi si corregge con la chirurgia “flessibile”

Un nuovo sistema di viti e “corde flessibili” per correggere la scoliosi di bambini e ragazzi, consentendogli di muoversi più liberamente dopo l’intervento chirurgico. Un nuovo metodo adottato all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma.

La scoliosi è una deformità della colonna vertebrale caratterizzata da curvatura e rotazione delle vertebre. Colpisce circa il 2% della popolazione pediatrica; può essere corretta con busti e corsetti e, nei casi più complessi, con la chirurgia.

Al Bambino Gesù vengono trattati circa 1.000 casi di scoliosi all’anno, l’1% dei quali con interventi chirurgici.

La tratta degli esseri umani

Articolo a firma di Liliana Ocmin (edizione odierna di Conquiste del lavoro)

La Giornata mondiale contro la tratta degli esseri umani, proclamata il 30 luglio del 2013 dall’Assemblea Generale dell’Onu, é utile per poter riflettere e fare un bilancio annuale sull’impegno che la Comunità internazionale sta portando avanti per la difesa delle vittime di tratta e  dei loro diritti.

La tratta di essere umani è lo sfruttamento criminale di donne, uomini, bambini e bambine che si traduce nella quasi totalità dei casi in lavoro forzato e  sfruttamento sessuale. 

Si tratta di un fenomeno che ha inizio sin dai paesi di origine per poi perpetrarsi in quelli di transito e di destinazione delle vittime.

Ogni anno milioni di persone in tutto il mondo finiscono nelle mani dei trafficanti e vengono schiavizzati e la maggioranza delle vittime è destinata allo sfruttamento sessuale e il 35% delle vittime del lavoro forzato è costituito da donne.

Di fronte alla drammaticità e alla portata di questo odioso fenomeno, la comunità internazionale, attraverso l’azione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha adottato nel 2010 il Piano d’azione mondiale per lottare contro la tratta di persone, esortando i governi a prendere delle misure concrete per contrastare questo flagello. 

Un altro importante atto che testimonia la crescente attenzione per il dilagare di questa piaga è rappresentato dall’adozione nel dicembre del 2015, da parte dei paesi del mondo intero, dell’agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile che comprende la repressione del lavoro forzato e la fine della schiavitù e della tratta di essere umani, nonché gli obbiettivi di sviluppo sostenibile che si prefiggono anche il divieto e l’eliminazione del lavoro minorile in tutte le sue forme.

Questa Giornata deve essere anche utilizzata per denunciare la gravità che si cela dietro i numeri dei diversi rapporti pubblicati in tutto il mondo, lasciandoci sgomenti, perché ci rappresentano una cruda realtà in cui purtroppo milioni di persone nel mondo sono ancora oggi vittime di tratta. 

Ad esempio, secondo l’Unicef  quasi una su 5 delle vittime è una bambina o una ragazza, inoltre tra di loro il 95% sono vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale.

In misura minore, ma pur sempre rilevante, la tratta produce abusi sessuali anche a danno di ragazzi e giovani adulti maschi. 

A testimonianza di quanto sia diffuso il fenomeno, citiamo un altro rapporto, quello della Women’s Refugee Commission (WRC) pubblicato lo scorso marzo, che attesta come proprio in Libia e lungo la rotta del Mediterraneo centrale resti elevato il rischio di violenza sessuale per migranti e rifugiati che si muovono verso l’Italia.

L’abuso sessuale è una violazione diffusa sia nei paesi d’origine dei giovani migranti e rifugiati che in quegli di transito, e che a volte si trasforma in sfruttamento anche nei paesi di destinazione. Un fenomeno questo complesso che va affrontato anche considerando le specifiche vulnerabilità dei minori stranieri non accompagnati, che rappresentano una delle categorie più a rischio.

Purtroppo nessun Stato può dirsi immune da questa piaga. Anche in Italia migliaia di uomini e donne sono sfruttati come manodopera a basso costo o come ‘merce’ nel mercato del sesso.

Non possiamo dimenticare il tragico incidente di un anno fa sulle strade del foggiano che costò la vita a dodici braccianti agricoli lavoratori non comunitari arruolati e trasportati da un caporale, oppure la morte nel 2015 della bracciante di Adria, Paola Clemente, in un’estate caldissima nonostante la legge 199/2016 contro il caporalato che è una piaga sociale dura ad essere debellata.

“Se oggi dovessimo dare un volto alla povertà e allo sfruttamento sarebbe di sicuro quello di una donna, ha detto giorni fa il sottosegretario Spadafora”. Infatti, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), circa 21 milioni di persone sono vittime del lavoro forzato e il  71% è costituito da donne e bambine. 

Tutto ciò si traduce in un  business miliardario per le mafie internazionali che introducono in Europa “i nuovi schiavi” attraverso viaggi della speranza che si trasformano in veri e propri incubi, a causa di caporalato e lo sfruttamento della prostituzione contro cui, come afferma la nostra Segretaria, Annamaria Furlan, bisogna battersi con più determinazione e coraggio e la Cisl continuerà a sostenere l’attività di Don Aldo Buonaiuto e della Comunità Papa Giovanni XXIII.  L’impegno della Cisl sarà quello di promuovere e sostenere politiche che si pongano l’obiettivo di contrastare con determinazione a livello globale, grazie anche al ruolo dell’UE, le organizzazioni criminali che organizzano e gestiscono questi traffici.Pertanto questi fenomeni vanno contrastati con azioni concrete e sistematiche. 

A tale scopo in occasione della Giornata mondiale contro la tratta degli esseri umani, si è riunito il comitato tecnico anti-tratta, composto da Amministratori centrali e locali, organizzazioni sindacali, forze dell’ordine ed enti del terzo settore che quotidianamente affrontano questa realtà. La Cisl ha potuto offrire attivamente il proprio contributo in questo comitato che  supporterà la Cabina di regia inter-istituzionale per la stesura del nuovo piano d’azione 2019/2021. 

Concludiamo le nostre riflessioni, in occasione di questa Giornata, con le parole di Papa Francesco: “ Il Signore liberi le vittime della tratta e ci aiuti a rispondere al grido di aiuto di chi e privato di dignità e libertà”.

Quando l’Alto Volta divenne il paese degli uomini integri

Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Giulio Albanese

La sera del 4 agosto 1983 si apriva nell’allora Alto Volta, una stagione politica destinata a lasciare un segno indelebile nella storia del continente africano: iniziava la rivoluzione burkinabé. Il neo presidente è un giovane capitano di 32 anni di nome Thomas Sankara e il suo programma è tutto racchiuso in un virgolettato ad effetto: «Noi siamo quello che siamo, cioè un regime che si consacra anima e corpo al benessere del proprio popolo. Chiamate ciò come volete, ma sappiate che non abbiamo bisogno di etichette. La nostra è una rivoluzione autentica, diversa dagli schemi classici».

Per la stampa internazionale d’allora si tratta dell’ennesimo colpo di stato in un Paese ridotto allo stremo: sette milioni di abitanti, dei quali più di sei milioni contadini; un tasso di mortalità infantile stimato al 180 per mille e un tasso di analfabetismo del 98 per cento; un’aspettativa di vita media di soli 40 anni; un medico ogni cinquantamila abitanti; un tasso di frequenza scolastica del 16 per cento.

Sankara ed i suoi seguaci mirano dunque al cambiamento radicale di una società afflitta da miseria, inedia e pandemie. L’Alto Volta cambia nome: da ora in poi si chiamerà Paese degli uomini integri (questo significa Burkina Faso). Una società che nelle aspirazioni dei fautori del nuovo corso non avrebbe più visto la contrapposizione tra sfruttati e sfruttatori, affermando un bene comune condiviso. Ed è proprio nell’attuazione politica di quest’idea che Sankara riesce a dare, probabilmente, il meglio di sé, dimostrandosi politico capace e ricco di idee nei suoi quattro anni di governo. Un lasso di tempo relativamente breve ma che rimane oggi come una sorta d’indelebile paradigma della politica intesa come servizio. I suoi detrattori quando parlano lo apostrofano a puntino: «Ce fou de Sankara» («quel matto di Sankara»), anche se il giudizio è impietoso e non risponde alla verità dei fatti. Con ardite e radicali riforme — tra cui la forte decentralizzazione dell’amministrazione, l’abolizione di balzelli feudali, la riforma agraria, la promozione della donna e forti investimenti nelle infrastrutture — riesce in poco tempo a realizzare nel suo Paese una maggiore giustizia sociale e con essa l’autosufficienza alimentare a livello nazionale. Al contempo si rifiuta di firmare i piani di aggiustamento strutturale, che il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) intende imporgli a tutti i costi, sostenendo che le politiche dei Paesi industrializzati sono finalizzate «a perseguire un controllo politico sui poveri». Dimostra fin da subito un’istintiva antipatia per i creditori internazionali che gli impongono linee di finanziamento in totale contrasto con i bisogni del popolo.

La Banca Mondiale (Bm), ad esempio, è disposta a finanziare un’autostrada che colleghi la capitale con il nord del Paese, ricco di manganese. Ma sapendo che la sua gente non può permettersi, neanche sognando ad occhi aperti, l’acquisto di una “giardinetta”, decide di realizzare una ferrovia con l’aiuto di volontari — inclusi i membri del suo governo — e, per inciso, senza ricevere finanziamenti dall’estero. Il suo intervento al Palazzo di Vetro, durante la trentanovesima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è toccante: «Il mio Paese è un concentrato di tutte le disgrazie dei popoli, una sintesi dolorosa di tutte le sofferenze dell’umanità», aggiungendo che parla «a nome di coloro che vivono nei ghetti della storia, perché hanno la pelle nera, […] e chiedo uno sforzo perché abbia fine l’arroganza di chi ha torto, svanisca il triste spettacolo dei bambini che muoiono di fame, sia spazzata l’arroganza, vinca la legittima rivolta del popolo e tacciano finalmente i tuoni di guerra».

Ma certamente, l’aspetto che maggiormente colpisce di Sankara è la sobrietà di vita al punto che, senza indugio, mette al bando ogni privilegio per la classe dirigente burkinabé, stigmatizzando ogni forma di arricchimento indebito da parte di chiunque rivesta ruoli di responsabilità nell’amministrazione pubblica. Ordina la vendita delle Mercedes che compongono il parco-macchine statale e proclama l’economica “Renault 5”, auto-blu ministeriale. Non solo: dichiara pubblicamente d’essere proprietario soltanto di una moto e di una piccola casetta di cui sta pagando il mutuo. Da rilevare che questo è stato, fino alla fine del suo corso, lo stato patrimoniale di Sankara. Convince o costringe — non è chiaro, ma poco importa — i suoi ministri a volare in classe economica, soggiornando all’estero in hotel di due, massimo tre stelle. Ripete sempre, nei suoi discorsi che l’Africa non chiede beneficenza ma giustizia e per questo esige coerenza in casa. Ha il dente avvelenato con le élite borghesi africane che impongono un feudalesimo fatto d’intrighi e costrizioni, auspicando maggiore correttezza dalle ex potenze coloniali. Paladino delle riforme economiche, invoca nuove regole per il commercio mondiale, ritenendo in particolare la questione della restituzione del debito estero come uno dei più grandi crimini contro le popolazioni immiserite dell’Africa Sub-Sahariana. «La sorte riservata dal colonialismo ai Paesi poveri — dice — è la perpetua mendacità come modello di sviluppo». E la sua analisi si spinge ben oltre, evidenziando come l’interesse dei Paesi ricchi, durante la guerra fredda, miri a dominare i poveri non solo militarmente ed economicamente ma anche culturalmente. Condanna l’infibulazione e la poligamia, e il suo governo è il primo a dichiarare apertamente che l’Aids costituisce la peggiore minaccia di tutti i tempi per l’Africa.

Rileggendo oggi la presidenza Sankara, non v’è dubbio che galvanizzò tutte le vicine nazioni dell’Africa occidentale ma irritò, com’era prevedibile d’altronde, i grandi poteri occidentali del tempo; e probabilmente anche per questo Sankara pagò a caro prezzo il suo successo. Il giovane presidente venne assassinato il 15 ottobre del 1987 a soli 37 anni, durante un golpe che portò al potere, ironia della sorte, il suo amico ed ex compagno di lotta Blaise Compaoré (che governò il Burkina Faso ininterrottamente per 27 anni). Come rileva Marinella Correggia nell’introduzione a un prezioso saggio su Sankara, curato da Carlo Batà per le edizioni Achab, la rivoluzione del capitano «fu spezzata a metà del guado. Sankara aveva chiesto troppo ai vertici, ormai stufi dello sforzo rivoluzionario; e intanto la base rurale e popolare, i contadini, le donne non erano ancora socializzati alla politica».

Rileggendo la storia di questo straordinario personaggio, emergono anche tante debolezze e ingenuità, ma certamente colpisce la sua visione incentrata sull’azzardo dell’utopia: «Per ottenere un cambiamento radicale — diceva — bisogna avere il coraggio d’inventare l’avvenire. Noi dobbiamo osare d’inventare l’avvenire. Tutto quello che viene dall’immaginazione dell’uomo è per l’uomo realizzabile. Di questo sono convinto!». Vengono alle mente le parole dell’intellettuale beninese Albert Tévoédjrè che, in un magnifico libro — intitolato “Povertà, ricchezza dei popoli” — cita una poesia di Salvador Diaz Mirón: «Sappiatelo, sovrani e vassalli, eminenze e mendicanti, nessuno avrà diritto al superfluo, finché uno solo mancherà del necessario». Ed è questa la vera questione di fondo: l’Africa ha bisogno di leader illuminati capaci d’essere, come scriveva lo stesso Tévoédjrè, «prima di tutto dei dirigenti della vita sociale». Proprio come Sankara che pagò con la vita le sue convinzioni, finendo in una fossa comune. Come scrive di lui un giornalista malgascio, Sennen Andriamirado: «Non fu un presidente come gli altri. È stato semmai un incidente della Storia, però un incidente felice». È per questo che in Africa nessuna libera coscienza può fare a meno di ricordarlo.

Una debole crescita economica per la zona Euro

L’economia della zona euro ha posto fine alla tregua concessa nel primo trimestre dell’anno. Infatti nel giro di tre mesi, i partner della moneta unica sono entrati di nuovo in quella fase di decelerazione che ha messo in guardia le previsioni di tutti gli organismi internazionali. I Diciannove hanno ridotto della metà il loro tasso di crescita trimestrale: dallo 0,4% allo 0,2%, secondo il primo anticipo dell’ufficio statistico di Eurostat.

Come previsto, l’Europa ritorna, così, nell’area di una fragilità economica che si può notare anche grazie ad una debole crescita dei prezzi, poiché l’inflazione è scesa di nuovo e si è attestata all’1,1%.

La spinta del primo trimestre aveva sorpreso la maggior parte degli analisti, anche se Bruxelles aveva mantenuto previsioni prudenti. Ora in tale contesto, con la minaccia di una Brexit selvaggia che sta già innervosendo i mercati finanziari, si dovranno aspettare le prossime mosse di  Mario Draghi, prima che lascerà il posto a Christine Lagarde solo il prossimo 1 novembre.

Pur se questa flessione potrebbe essere solo dovuta ai comportamenti di  Germania e Italia. L’economia tedesca rimane la più colpita dalle guerre commerciali, mentre l’Italia non riesce ancora, secondo i mercati, a controllare il suo ingente debito pubblico.

La buona notizia arriva, invece, dal mercato del lavoro. La zona euro continua a creare occupazione in un ambiente di incertezza e bassa crescita. Il tasso di disoccupazione è sceso nuovamente a giugno al 7,5%, un decimo in meno rispetto al mese precedente. Grecia (17,6%), Spagna (14%), Italia (9,7%) e Francia (8,7%) sono sopra la media. All’altro estremo, diversi stati hanno già piena occupazione, come la Germania (3,1%) o l’Olanda (3,4%).

Lavoro, Istat: a giugno occupazione al top

Dopo la crescita registrata nei primi mesi dell’anno, a giugno 2019 la stima degli occupati risulta sostanzialmente stabile rispetto al mese precedente; il tasso di occupazione sale al 59,2% (+0,1 punti percentuali).

La stabilità dell’occupazione è sintesi di una crescita tra le donne (+15 mila) e una diminuzione tra gli uomini (-21 mila); per età sono in aumento i 15-24enni (+10 mila) e i 35-49enni (+5 mila), in calo i 25-34enni (-4 mila) e gli ultracinquantenni (-18 mila). Si registra un’ampia divaricazione delle dinamiche occupazionali per tipologia, con una crescita dei dipendenti, sia permanenti sia a termine (+52 mila nel complesso) e una diminuzione degli indipendenti (-58 mila).

Le persone in cerca di occupazione sono ancora in calo (-1,1%, pari a -29 mila unità nell’ultimo mese). La diminuzione è determinata da entrambe le componenti di genere ed è distribuita in tutte le classi d’età ad eccezione dei 25-34enni. Il tasso di disoccupazione cala al 9,7% (-0,1 punti percentuali).

La stima complessiva degli inattivi tra i 15 e i 64 anni a giugno è in lieve calo (-0,1%, pari a -14 mila unità), l’andamento è sintesi di un aumento tra gli uomini (+18 mila) e una diminuzione tra le donne (-33 mila). Il tasso di inattività è invariato al 34,3% per il quinto mese consecutivo.

Nel trimestre aprile-giugno 2019 l’occupazione registra una crescita consistente rispetto ai tre mesi precedenti (+0,5%, pari a +124 mila unità), verificata per entrambi i generi. Nello stesso periodo aumentano sia i dipendenti permanenti (+0,8%, +114 mila) sia quelli a termine (+0,6%, +19 mila) mentre calano gli indipendenti (-0,2%, pari a -10 mila); per età si registrano segnali positivi tra i 15-24enni e gli ultracinquantenni e negativi nelle classi d’età centrali.

All’aumento degli occupati si associa, nel trimestre, il calo delle persone in cerca di occupazione (-4,3%, pari a -114 mila) e degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-0,2%, -22 mila).

Anche su base annua l’occupazione risulta in crescita (+0,5%, pari a +115 mila unità). L’espansione riguarda entrambe le componenti di genere, i 15-24enni (+46 mila) e soprattutto gli ultracinquantenni (+292 mila) mentre risultano in calo le fasce di età centrali. Al netto della componente demografica la variazione è positiva per tutte le classi di età. La crescita nell’anno si distribuisce tra dipendenti permanenti (+177 mila) e a termine (+14 mila) mentre sono in calo gli indipendenti (-76 mila).

Nei dodici mesi, la crescita degli occupati si accompagna a un forte calo dei disoccupati (-10,2%, pari a -288 mila unità) e a un aumento degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (+0,2%, pari a 23 mila).

Inail, meno incidenti ma più morti sul lavoro nel primo semestre 2019

L’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro ha pubblicato i dati analitici delle denunce di sinistri (sia generali e purtroppo con esito mortale, che quelli di malattia professionale). Nella stessa sezione sono state pubblicate anche le tabelle del “modello di lettura” con i confronti “di mese” e “di periodo” (gennaio-giugno 2018, gennaio-giugno 2019). Gli open data pubblicati sono provvisori e il loro confronto richiede una valutazione prudente, in particolare rispetto all’andamento degli infortuni con esito mortale, soggetto all’effetto di “punte occasionali” e dei tempi di trattazione delle pratiche. Per quantificare il fenomeno, comprensivo anche dei casi accertati positivamente dall’Inail, sarà quindi necessario attendere il consolidamento dei dati dell’intero anno, con la conclusione del percorso amministrativo e sanitario relativo a ogni denuncia.
Nel numero complessivo degli infortuni sono incluse anche le comunicazioni obbligatorie effettuate ai soli fini statistici e informativi da tutti i datori di lavoro e i loro intermediari, compresi i datori di lavoro privati di lavoratori assicurati presso altri enti o con polizze private, degli infortuni che comportano un’assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell’evento.
Le denunce di infortunio presentate all’Inail entro lo scorso mese di giugno sono state 323.831, 577 in meno rispetto alle 324.408 dei primi sei mesi del 2018 (-0,2%).

I dati rilevati al 30 giugno di ciascun anno, evidenziano a livello nazionale un decremento dei casi avvenuti in occasione di lavoro passati da 277.690 a 276.043 (-0,6%), nonchè un incremento del 2,3%, da 46.718 a 47.788, di quelli in itinere, occorsi cioè nel tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e il posto di lavoro. A giugno 2019 il numero degli infortuni in ambito lavorativo denunciati è diminuito dello 0,8% nella gestione Industria e servizi (dai 245.439 casi del 2018 ai 243.591 del 2019), mentre è aumentato dell’1,3% in Agricoltura (da 15.490 a 15.694) e dell’1,7% nel Conto Stato (da 63.479 a 64.546).
La rilevazione a livello territoriale mostra una diminuzione delle denunce di infortunio nel Nord-ovest e nel Nord-est (-0,3% per entrambe le aree), al Sud (-0,9%) e nelle Isole (-0,2%).

Il Centro, in controtendenza, presenta un aumento dello 0,7%. Tra le regioni che hanno fatto registrare i decrementi percentuali maggiori spiccano il Molise (-5,7%) e la Valle d’Aosta (-3,2%), mentre gli incrementi più consistenti riguardano la Sardegna (+3,3%) e l’Umbria (+3,1%).  Il lieve calo che emerge dal confronto dei primi sei mesi del 2018 e del 2019 è legato esclusivamente alla componente maschile, che registra un -0,4% (da 206.893 a 206.010 denunce), a differenza di quella femminile, in aumento dello 0,3% (da 117.515 a 117.821). Per i lavoratori extracomunitari si registra un incremento degli infortuni denunciati del 3,7% (da 38.340 a 39.745), mentre le denunce dei lavoratori italiani sono in calo dello 0,6% (da 273.646 a 271.887) e quelle dei comunitari dell’1,8% (da 12.421 a 12.194).
Dall’analisi per classi di età emergono aumenti tra gli under 30 (+2,2%) e tra i 55 e i 69 anni (+2,8%). In diminuzione del 2,5%, invece, le denunce della fascia di lavoratori tra i 30 e i 54 anni, nella quale rientra oltre la metà dei casi registrati.

Avellino: al via il Christian Summer Youth Fest

Un appuntamento estivo, ormai consueto, che raduna circa 700 persone da tutta Italia. Questo è “Estatevangelizzando”, evento in cui sono protagonisti i giovani del Rinnovamento nello Spirito Santo e che quest’anno “rinnova” il proprio nome (ma non formula): Christian Summer Youth Fest.

DA oggi fino al 4 agosto, guidati dal versetto biblico tratto da Atti 1,8 (‘Avrete forza dallo Spirito e mi sarete testimoni’), a Materdomini (Avellino), nel Santuario di san Gerardo, i ragazzi e le ragazze tra i 16 e i 30 anni si lasceranno ispirare dalle parole di Papa Francesco per diventare, nel tempo di oggi, “influencer come Maria”. Sarà un momento di evangelizzazione rivolto a quanti stanno già compiendo un cammino nel Movimento ma, in particolare, aperto ai ragazzi che arrivano per la prima volta e che spesso sono lontani dalla fede.

Le quattro giornate verranno scandite da un fitto programma fatto di momenti di preghiera comunitaria, celebrazioni eucaristiche e, soprattutto, riflessioni su: relazioni interpersonali, impegno verso il bene comune, Parola di Dio e social network. Diversi gli spunti da affrontare, nel solco tracciato dal Sinodo con l’esortazione apostolica di Papa Francesco “Christus Vivit”. Tra i vari momenti, oltre al “roveto ardente” nella piazza del paese, anche un concerto/festa di evangelizzazione incentrato sul tema dell’evento, a cura del Servizio nazionale della musica e del canto del Rinnovamento.

A tenere le relazioni saranno: Salvatore Martinez, presidente nazionale RnS; Mario Landi, coordinatore nazionale del RnS; Rosario Sollazzo, membro del Comitato nazionale di servizio per l’area carismatico-ministeriale; Carmela Romano, membro del Comitato nazionale di servizio per l’area formativa; Luciana Leone, direttore editoriale edizioni RnS; Raffaella Del Giudice e Angelo Brancaleone, delegati nazionali (attuale ed uscente) per l’area giovani del RnS. Assieme a loro interverranno anche: Pasquale D’Urzo, don Fulvio Bresciani, Alberto Civitan, Valeria Del Vescovo e Bruno Mastroianni.

Carie: assumiamo troppi zuccheri

La carie dentaria è ormai una delle patologie più comuni al mondo, e la causa principale sta nel consumo eccessivo di zucchero. Una ricerca sui problemi globali di salute pubblica legati alle patologie orali, guidata da Marco Peres del Menzies Health Institute di Brisbane, in Australia, indica che la carie negli adulti colpisce più di un terzo (34,1%) della popolazione mondiale. “Se parliamo di cure dentarie, dobbiamo parlare di zucchero, e le bibite sono la maggior fonte nella dieta globale”, scrive Peres sulla rivista Lancet.

“Il consumo di bevande zuccherate è il più alto in Nord America e in America Latina, ma anche in Australia”, aggiunge Peres, docente di odontoiatria e salute orale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda meno di sei cucchiaini di zucchero aggiunto al giorno – ricorda lo studioso – mentre gli adolescenti australiani ne consumano tre volte di più. E i tassi di carie in Australia riflettono le statistiche globali.

 

Il figlio di Salvini al mare sulla moto d’acqua della polizia. E gli agenti vietano le riprese

Fonte Repubblica

Da Assisi proposte per un futuro di pace.

Nei giorni dal 22 al 26 Luglio ho avuto il privilegio di partecipare alla Summer School di Assisi “Building future on peace” e il mio ringraziamento non può non andare all’Azione Cattolica di Lecce, alla Pastorale Giovanile e all’Ufficio della Pastorale Sociale per l’opportunità di una borsa di studio.

In quei giorni con altri trenta ragazzi europei e con autorevoli relatori ci siamo confrontati sul tema della pace. Attraverso questa scuola ho potuto comprendere come essa oltre ad essere presente, può e deve trasformarsi in futuro.

Noi – credenti in Dio, nell’incontro finale con Lui e nel Suo Giudizio –, partendo dalla nostra responsabilità religiosa e morale, e attraverso questo Documento, chiediamo a noi stessi e ai Leader del mondo, agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale, di impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace; di intervenire, quanto prima possibile, per fermare lo spargimento di sangue innocente, e di porre fine alle guerre, ai conflitti, al degrado ambientale e al declino culturale e morale che il mondo attualmente vive.

A distanza di alcuni giorni da questa bella esperienza ho voluto riprendere alcune significative parole del “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” che è stato firmato ad Abu Dhabi da Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb perché la pace non è questione che riguarda i grandi della Terra ma ognuno di noi. Oggi nel mondo “la sicurezza globale” è venuta meno a causa dei tanti conflitti del mondo tant’è vero che nel 2016 il SIPRI, un istituto internazionale indipendente impegnato in ricerche su conflitto, armamenti, loro controllo e disarmo, ha contato ben 65,6 milioni di sfollati e sembra che questi numeri siano destinati a crescere. Proprio per questo, come cittadini italiani, abbiamo il dovere di rivendicare la nostra appartenenza all’Unione Europea;  è proprio grazie ad essa che da oltre settant’anni non viviamo conflitti nel nostro continente.

“L’Europa è una ricchezza. L’Europa è un vostro diritto, non fatevelo rubare!” ha concluso così il suo intervento la relatrice Lucia Serena Rossi, giudice alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. E in un clima di odio generato dall’imperversare dei populismi che rivendicano la propria identità nazionale, il compito di ciascuno di noi è ribadire che la diversità non è una minaccia ma una ricchezza.

Non a caso il motto dell’Unione Europea recita “Unità nella diversità” perché in fin dei conti si può vivere insieme anche provenendo da tradizioni diverse. Una proposta che mi ha particolarmente colpito è la mozione Assisi, voluta fortemente dal sindaco della città di San Francesco Stefania Proietti, approvata all’unanimità dal Consiglio Comunale lo scorso 19 Novembre con cui si chiede di bloccare la fabbricazione delle armi in Italia e in particolar modo delle bombe utilizzate per colpire lo Yemen.

Spero che questo atto possa essere seriamente preso in considerazione dai restanti 8mila comuni d’Italia. Ma vivere in un clima di pace è possibile rispettando soprattutto l’ambiente perché spesso chi fugge dai propri territori lo fa per insufficienza di cibo e acqua, proprio per questo è importante cominciare con l’attuazione delle buone pratiche di sostenibilità a partire dai piccoli comuni.

Questo l’invito del professor Leonardo Becchetti, economista e professore presso l’Università di Tor Vergata e presidente del comitato tecnico-scientifico di “Next – Nuova economia per tutti”, un’associazione che promuove e realizza una nuova economia: più inclusiva, partecipata e sostenibile rispetto all’economia tradizionale. E allora concludo con le parole di John F. Kennedy: “Che tipo di pace cerchiamo? Sto parlando di una pace vera. Un tipo di pace che rende la vita sulla terra degna di essere vissuta. Non solamente la pace nel nostro tempo, ma la pace in tutti i tempi. I nostri problemi vengono creati dall’uomo, perciò possono essere risolti dall’uomo. Perché in ultima analisi, il legame fondamentale che unisce tutti noi è che abitiamo tutti su questo piccolo pianeta. Respiriamo tutti la stessa aria. Abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri figli. E siamo tutti solo di passaggio.”

Perché la pace è un legame che riguarda noi, ma soprattutto il futuro delle nuove generazioni.

Le incertezze sulla politica estera hanno un prezzo. Parla il prof. Parsi

Articolo già apparso sulle pagine di formiche.net a firma di Francesco De Palo

“L’incertezza del governo su dossier strategici di politica estera ha fatto perdere all’Italia il terzo posto nella scala valoriale europea, superata dalla Spagna. Non dimentichiamo che Cavour realizzò l’unità d’Italia internazionalizzando la Conferenza di Parigi, mentre oggi rischiamo di mollare la tradizione liberale ed atlantica”.

Spiega così il professor Vittorio Emanuele Parsi, scrittore, analista e tra le altre cose membro dell’Advisory Board del LSE IDEAS (Center for diplomacy and strategy at the London School of Economics), i rischi che si affacciano all’orizzonte dopo le scelte fatte da Palazzo Chigi nell’ultimo anno. E in questa conversazione con Formiche.net ne valuta gli impatti nel breve e nel medio periodo.

Da queste colonne è stato lanciato un appello al governo perché Roma si impegni maggiormente in politica estera e in una cornice “più occidentale” e meno neutrale. Lo condivide?

In linea di sostanza sì. L’azione politica soprattutto di Matteo Salvini che è quella più evidente e viene vista dall’esterno come l’elemento che politicamente è spia dell’intero esecutivo, viene interpretata come una rottura delle posizioni italiane tradizionali sulla politica occidentale. Ciò potrebbe avere conseguenze estremamente gravi e di lungo periodo per il Paese.

Vede il rischio irrilevanza internazionale per l’Italia?

Lo abbiamo già visto nel dossier europeo, dove la Spagna ci ha sostituiti al terzo posto nella scala valoriale dopo Germania e Francia. E al netto dei problemi di politica interna che ha Madrid, con le difficoltà sul caso Catalogna e i riverberi nella maggioranza. Nonostante ciò la Spagna ha preso il posto dell’Italia in gran parte a causa dei nostri atteggiamenti. Lo si vede anche nei confronti della Russia: mentre nelle politiche europee il premier Giuseppe Conte ha provato ad equilibrare minimamente la questione, sui rapporti con Mosca l’Italia tende sistematicamente a sottovalutare fatti e direttrici, dimenticando che le sanzioni esistono perché è stata invasa la Crimea.

Sulla crisi a Hormuz Roma dovrebbe pattugliare lo stretto in raccordo con gli Stati Uniti anche per un proprio interesse nazionale?

No, penso che lo stretto sia già troppo trafficato da navi da guerra, con il rischio di un’escalation. Per cui penso che continuare a inviare mezzi sia foriero di incidenti non voluti: la parte navigabile dello stretto, come sa chi ha una minima conoscenza del mare, è estremamente ridotta e non c’è alcuna ragione per cui debba essere pattugliato, né che vi sia una presenza internazionale coordinata o scoordinata. Anche gli Usa mi auguro che lì riducano la presenza. Qualcuno sta cercando un casus belli per mimetizzare la propria politica illegale nei confronti dell’Iran e dopo la denuncia unilaterale sull’accordo per il nucleare iraniano. Ciò è molto grave e nulla c’entra con la posizione atlantica: si tratta solo di una posizione personale di Donald Trump e non occidentale. Non mi stupirei se Salvini un giorno o l’altro la appoggiasse.

Via della Seta, 5G e dazi: cosa possono comportare le scelte italiane sulla Cina?

A mio avviso servirebbe essere molto cauti circa l’apertura sulla Via della Seta. Quello rappresenta un disegno strategico cinese che, mentre cerca di mettere in discussione la residua leadership americana sul sistema, contemporaneamente traccia una serie di relazioni speciali con i Paesi di quel sistema. È un manifesto concreto e materiale del disegno cinese per il mondo: un disegno illiberale che si fonda però sulla tentazione dell’arricchimento reciproco. Non dimentichiamo che spesso i disegni illiberali si sono nutriti di iper liberismo e di mercatismo estremo. È questa la grande trappola del disegno cinese: per chi investe fare soldi è una preoccupazione naturale e legittima, ma il mercato dovrebbe essere inquadrato all’interno di regole liberali di cui il libero commercio è una parte che deve rispondere ad un quadro politico più vasto.

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Cinquemila pannelli solari su iniziativa dell’arcidiocesi di Washington Cattolici in prima linea nella difesa dell’ambiente

Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano

Cinquemila pannelli solari su un’area di due ettari saranno presto installati a Washington, grazie all’iniziativa di alcune organizzazioni cattoliche che hanno deciso di contribuire a migliorare la vivibilità del pianeta, seriamente minacciato dal surriscaldamento climatico. Il progetto è guidato da Catholic Energies, un’organizzazione senza scopo di lucro che fa parte del Catholic Climat Covenant, che sta lavorando con numerose organizzazioni benefiche cattoliche dell’arcidiocesi di Washington per progettare e creare quella che sarà la più grande area con pannelli solari della capitale statunitense. Il terreno, che si trova accanto a una casa di riposo e a un convento, è stato dato in beneficenza dalla stessa arcidiocesi.

«Catholic Energies — ha spiegato Page Gravely, vice presidente esecutivo della onlus all’agenzia Catholic News Agency — è nata con l’obiettivo di fornire tempo, esperienza e, soprattutto, risorse per creare e realizzare progetti di energia rinnovabile in edifici di proprietà e di enti a gestione cattolica. I progetti volti a migliorare l’efficienza energetica sono generalmente costosi e necessitano quasi sempre dell’intervento di investitori o di enti disposti a effettuare donazioni per la loro fattibilità. Per questa ragione Catholic Energies collaborerà con alcune società specializzate in energia rinnovabile, che agiscono come investitori e collaborano con gli appaltatori per dare vita a tali progetti». In cambio, gli investitori ricevono un credito d’imposta federale e altri incentivi finanziari. In questo progetto, le organizzazioni benefiche cattoliche dell’arcidiocesi di Washington non pagheranno nulla al fisco per l’installazione dei pannelli solari. 

Gravely ha ricordato di aver ricevuto diverse sollecitazioni da parte dei parrocchiani affinché si seguissero più da vicino le indicazioni contenute nell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco. «Inizialmente abbiamo cercato di abbassare i costi e i consumi energetici utilizzando l’illuminazione a Led, dopodiché — ha proseguito Gravely — abbiamo spostato la nostra attenzione sull’energia solare dopo aver ricevuto numerose richieste da potenziali clienti che avevano intenzione di installare i pannelli. A questo punto abbiamo pensato che potevamo realizzare questo progetto», che darà sicuramente ottimi risultati dal punto di vista economico e ambientale. «Quello che sorgerà nell’area di Washington — ha spiegato il vice presidente esecutivo della Onlus — è il secondo progetto messo a punto da Catholic Energies. Il mese scorso abbiamo coordinato l’installazione di 440 pannelli solari presso la chiesa cattolica dell’Immacolata Concezione di Hampton, nello Stato della Virginia. I pannelli contribuiranno ad abbassare i costi e i consumi di energia della parrocchia».

Il progetto riguardante l’installazione dei 5.000 pannelli solari a Washington ha, però, ricevuto critiche e pressioni da diversi residenti, i quali sostengono che i pannelli avranno un impatto visivo e paesaggistico negativo. Page Gravely ha assicurato di aver preso in considerazione le loro preoccupazioni e ha annunciato che saranno piantati un centinaio di alberi attorno all’area per creare un effetto di schermatura ai pannelli e per contribuire ad abbellire e rendere gradevole e fruibile l’intera zona. Inoltre, saranno piantati delle piante con fiori per favorire api, uccelli e farfalle nei loro processi riproduttivi. Non solo. Catholic Energies ha collaborato con l’amministrazione di Washington per garantire alla città e ai suoi abitanti che il deflusso delle acque piovane non venga influenzato negativamente. 

«Ci sarà sempre qualcuno che non sarà contento — ha concluso Gravely — ma più di così non possiamo fare. E credetemi abbiamo fatto veramente molto». I pannelli solari dovrebbero entrare in funzione entro marzo del prossimo anno. L’energia prodotta verrà restituita alla rete elettrica di Washington, mentre i crediti energetici saranno sufficienti a coprire il costo energetico di 12 edifici di proprietà di Catholic Charities.

Federturismo, giunto il momento per Agenzia europea del turismo

Fonte Askanews

Intervenendo ieri al convegno dell’Osservatorio Parlamentare per il Turismo “Le nuove sfide del turismo italiano” il Past President di Federturismo Confindustria Costanzo Jannotti Pecci ha ribadito l’importanza di creare un’Agenzia europea del Turismo.

Nonostante la Commissione abbia dal 2010 definito “L’Europa, prima destinazione turistica mondiale” e nonostante l’ Europa continui a dominare, con tre destinazioni su cinque (Francia, Spagna e Italia) la classifica turistica mondiale grazie alle sue infrastrutture turistiche ad oggi manca ancora un approccio integrato al turismo che garantisca che gli interessi e le esigenze di tale settore siano presi in considerazione nella formulazione e nell’attuazione delle altre politiche dell’Ue. Una possibilità per superare questa empasse potrebbe essere, come Federturismo sostiene da tempo, la creazione di un’Agenzia europea del turismo.

“Occorre – ha concluso Jannotti Pecci – un quadro comune europeo che apporti un valore aggiunto alle azioni realizzate a tutti i livelli e che aiuti a superare le difficoltà, così come a promuovere la cooperazione fra imprese turistiche ed istituzioni per sviluppare prodotti innovativi e sostenibili”.

 

Il nuovo libro di Giorgio Merlo e Marco Magrita: I Granata

Una nuova fatica editoriale sul Toro: “I granata” è stata realizzata dal nostro amico Giorgio Merlo e Marco Magrita.

“I Granata”, un titolo apparentemente semplice ma profondo.

Al suo interno si evidenziano il cuore pulsante dell’identità granata. Una identità culturale, ideale, sportiva e forse anche etica. E quindi storica. Dagli idoli della comunità ai luoghi “sacri”; dalla coerenza dei tifosi agli allenatori più carismatici; dalla peculiarità della tifoseria al ruolo dei dirigenti. Perché il Toro è una grande comunità ideale, culturale e sportiva che suscita amicizia, rispetto, deferenza e passione. 

Sono tre i luoghi simbolo della comunità granata che vengono analizzati: Superga, il Filadelfia e corso Re Umberto a Torino. Tre luoghi che hanno sancito, e scandiscono, la memoria granata, la tragedia granata, la tristezza granata, ma anche la voglia di riscatto granata e il grande legame del popolo granata.

Essere del Toro, oggi. Non è un semplice attestato di tifoseria. Appartenere alla comunità granata, riconoscersi nella storia granata, essere partecipi della sua avventura centenaria significa, semplicemente, avere una identità. Inconsapevolmente si tratta di una identità culturale, pre sportiva.

La presentazione del volume si terrà oggi alle 11.30 presso la Sala Conferenze MCL, Galleria Enzo Tortora, in via Pietro Micca 21, al secondo piano dello storico edificio del centro torinese. Oltre agli autori (per la cui prefazione si sono avvalsi delle firme di Steve Della Casa e Eraldo Pecci), saranno presenti Angelo Cereser e altre vecchie glorie granata. Coordinerà Gino Strippoli.

Accordo sui migranti tra Stati Uniti e Guatemala

Donald Trump ha raggiunto un accordo di Paese terzo sicuro con il Guatemala, che obbligherebbe i migranti che attraversano il Paese a fare domanda di asilo lì invece che negli Stati Uniti, meta finale del loro viaggio. L’accordo potrebbe permettere di alleviare la pressione sulla frontiera statunitense, visto che la maggior parte dei richiedenti asilo provengono dall’America Centrale e che il Guatemala è un tappa di passaggio obbligatoria per i migranti dall’Honduras e da El Salvador.

L’intesa, che dovrebbe partire domani, è comunque destinata a incontrare resistenze in Guatemala, dove è stata già ampiamente criticata. La Corte costituzionale del Paese ha infatti stabilito che questa intesa dovrà essere approvata dal Parlamento per essere valida.

Il Guatemala, infatti, non è attrezzato per dare accoglienza a grandi masse di persone – l’anno scorso ha ricevuto appena 259 richieste di asilo –, senza contare la situazione di violenza e l’inefficienza delle forze di polizia

Il Festival delle Valli Reatine

Prende il via il 3 e 4 agosto il primo Festival delle Valli Reatine, un ricco calendario di eventi e attività per il primo Festival delle Valli reatine, in programma il 3 e 4 agosto, e organizzato da Regione Lazio e DOVE, il mensile RCS di viaggi e lifestyle. 

Si comincia da Amatrice sabato 3 agosto. Il Polo del Gusto, della Tradizione e della Solidarietà, progettato dallo Studio Boeri, diventerà teatro di talk e incontri. Insieme ai protagonisti delle realtà territoriali e a tanti ospiti d’eccezione si parlerà di futuro, sapori, sport, cammini, storie e paesaggi condividendo emozioni ed esperienze sul senso del viaggiare oggi. Tra gli ospiti degli incontri, moderati dai giornalisti RCS di Dove, di Corriere della Sera La Gazzetta dello Sport: lo chef Matteo Baronetto, gli scrittori Giuseppe Festa e Enrico Sgarella, i campioni sportivi Margherita Granbassi (Campionessa di scherma e giornalista sportiva) e Maurizio Zanolla (Manolo).

Il weekend proseguirà domenica 4 agosto fra trekking, passeggiate, degustazioni, laboratori, workshop, attività all’aria aperta, lezioni di cucina e tante altre esperienze e attività che porteranno grandi e piccini alla scoperta dei piccoli grandi tesori del reatino, conservati tra Rieti, Accumoli, Antrodoco, Amatrice, Borbona, Borgo Velino, Cantalice, Castel Sant’Angelo, Cittaducale, Cittareale, Leonessa, Micigliano, Poggio Bustone, Posta e Rivodutri.

“Il Festival delle Valli Reatine nasce dall’idea di trasformare questi luoghi in uno spazio originale di incontro e di conoscenza tra i viaggiatori e le comunità dei territori” – dichiara Lorenza Bonaccorsi, assessora al Turismo e alle Pari Opportunità della Regione Lazio – “Il progetto è soprattutto una grande occasione per promuovere nei 15 Comuni colpiti dal sisma un nuovo modello di turismo sostenibile in grado di valorizzare la bellezza dei luoghi e produrre economia e benessere a beneficio esclusivo delle comunità residenti e del paesaggio naturale. Durante le due giornate del Festival, le donne e gli uomini della valle reatina potranno ‘raccontare il futuro’ mostrando come, con coraggio e spirito innovativo è possibile partire dalle proprie identità per ricostruire progetti di vita”.

Gli appassionati di arte, natura, cultura, sport, potranno inoltre scoprire le tradizioni eno-gastronomiche delle valli, a partire dalla famosissima Amatriciana, nei ristoranti del luogo o attraverso i workshop di cucina organizzati dalla Proloco di Capricchia alla scoperta della “vera” anima di questo piatto.

“Dove con il Festival trasforma il racconto in un’esperienza reale di comunicazione e cooperazione sul territorio. È un onore per noi collaborare con la Regione Lazio, per accendere insieme i riflettori su una zona che merita d’essere conosciuta e vissuta dopo le fasi dell’emergenza terremoto” – spiega Simona Tedesco, direttore di Dove – “In loco, insieme ai comuni coinvolti, daremo voce a tante persone e realtà che meritano di guardare con orgoglio al loro futuro. Un progetto che noi seguiremo fino a Natale perché i riflettori non si spengano mai sui tesori nascosti del reatino.”

Ulteriori informazioni sul programma, in costante aggiornamento, e prenotazioni per gli eventi a numero chiuso su:

www.visitlazio.com

https://doveviaggi.it/festivalvallireatine

L’aria del bacino padano si fa più respirabile

A Milano, nella sede della Regione Lombardia, si è svolto un incontro per analizzare i risultati raggiunti nei primi due anni di progetto presentando altresì le strategie comuni e le prospettive future relative alla qualità dell’aria nel contesto del territorio padano. Life Prepair è un progetto integrato, in quanto in grado di mobilitare, oltre al budget specifico, circa 850 milioni di euro provenienti dai fondi strutturali dei diversi partner e che hanno direttamente o indirettamente ricadute sulla qualità dell’aria. A oggi le diverse attività del piano hanno confermato la reale possibilità di ridurre le emissioni di inquinanti nella valle del Po di circa il 40%, a fronte della realizzazione delle azioni pianificate e alla piena implementazione di tecnologie avanzate.

I principali obiettivi del progetto sono: contribuire ad implementare le misure incluse nelle iniziative di tutela della qualità dell’aria regionali e provinciali; attuare azioni sinergiche e coordinate a scala di Bacino; aumentare know-how e capacity building di enti pubblici e privati; sviluppare ed applicare strumenti e modelli comuni a scala di Bacino; aumentare la consapevolezza dei cittadini sulla qualità dell’aria e sull’impatto su salute umana ed ambiente; istituire una rete durevole tra istituzioni dal livello locale a quello nazionale, attori socio-economici, centri di ricerca. Le Regioni Emilia Romagna, capofila del progetto, Lombardia, Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia e la Provincia di Trento, insieme ai tre principali Comuni di quest’area, Milano, Torino e Bologna, nonchè alle agenzie ambientali di queste regioni, lavorano insieme per sostenere il percorso finalizzato al pieno rispetto degli standard comunitari.

Il progetto, che coinvolge anche l’Agenzia per l’ambiente della Slovenia (poiché proprio questo territorio presenta analogie comparabili a quelle del bacino padano), avrà durata settennale e si concluderà nel 2024. Dal punto di vista quantitativo l’analisi dei dati emissivi per le regioni dell’area padana ha confermato la rilevanza del settore della combustione non-industriale per le emissioni di PM10, pari al 56% del totale (59% per l’intero dominio), seguito dal trasporto su strada caratterizzato dal 20% delle emissioni totali sempre di PM10 (18% sull’intero dominio). Sempre il trasporto su strada determina il 50% delle emissioni totali di NOx (51% sul dominio Prepair), seguito dalle emissioni della combustione nella industria (15% e 14% sul dominio) e dai mezzi off-road (13% e 12% sul dominio). Il settore agricolo si conferma essere la fonte principale delle emissioni di NH3 (97% del totale).

Le regole dell’evoluzione sono dettate dalle femmine

Secondo uno studio dell’Università della California a Riverside e pubblicato sulla rivista Nature Communications le regole dell’evoluzione , nel mondo animale, sono determinate dalle femmine. La conferma a quella che finora era stata soltanto un’ipotesi arriva per la prima volta da questo studio, condotto sul Dna di oltre 170 specie di pesci, ma che secondo i ricercatori può applicarsi a tutto il regno animale.

Costruendo un albero genealogico basato sul Dna, gli studiosi hanno dimostrato che esiste una connessione tra il modo in cui le madri partoriscono i figli, il modo con cui scelgono il partner e quanto velocemente la loro specie si evolve in una nuova. Per arrivare a teorizzare il loro studio, i ricercatori hanno costruito un albero genealogico usando il Dna di oltre 170 specie della famiglia dei poecilidi. Hanno quindi mappato i tratti maschili e femminili, ricostruendo come i tratti maschili e femminili si siano evoluti in tutta la specie.

Groppo in gola

Il groppo in gola è un sintomo che si manifesta come la sensazione di corpo estraneo o massa a livello di faringe, laringe e/o porzioni cervicali dell’esofago. Questo disturbo può rendere difficile o addirittura dolorosa la deglutizione.

In qualche caso, la sensazione è percepita come un fastidio localizzato e può essere attribuibile a motivi del tutto banali (es. tristezza, agitazione o nervosismo); altre volte, il groppo alla gola è simile al soffocamento e segnala la necessità di un approfondimento medico.

Può dipendere da numerose cause, tra le quali sono incluse:

Malattia da reflusso gastroesofageo (MRGE);
Stato di ansia o depressione;
Tumori della faringe;
Tumori dell’esofago;
Patologie muscolari.

 

La coalizione secondo Veltroni.

Apparso ieri su Huffington


Walter Veltroni, con la ormai consueta lucidità e precisione, ha tracciato la strada politica del Partito democratico per i prossimi mesi in una lunghissima intervista rilasciata a Repubblica. In sostanza, l’ex segretario nazionale del Pd ha detto che è giunto il momento di prendere atto che c’è un “bipolarismo tra il Pd e la Lega” e che oltre al Pd, nella futura coalizione di centro sinistra, può esistere solo un “partito ambientalista”. Aggiungendo, tra l’altro, che qualsiasi ipotesi di ritornare ad una sorta di “Ds e Margherita” sarebbe una operazione inutile e farlocca perché avrebbe l’effetto, sempre secondo Veltroni, di sommare un consenso addirittura “inferiore all’attuale forza elettorale del Partito democratico”. 

Ora, al di la della legittimità e della coerenza della riflessione di Veltroni, è del tutto ovvio che una impostazione del genere riflette una concezione singolare dell’attuale sviluppo del centrosinistra e, soprattutto, dell’attuale ruolo politico del Partito democratico. Perché delle l’una: o il Pd è ritornato ad essere una forza a “vocazione maggioritaria” – ma con l’attuale 18/20% è poco probabile nonché sconsigliabile – oppure continua a prevalere la tesi, cara alla tradizione della vecchia sinistra italiana dal Pci in poi, secondo la quale la coalizione si deve certamente costruire purché sia definita attorno ad un partito centrale e largamente maggioritario attorniato da alcuni satelliti del tutto irrilevanti e privi di qualsiasi personalità politica e culturale. Che assomiglia un po’ al cosiddetto “lodo Calenda”, quello secondo il quale un potenziale alleato del Pd deve prima di tutto ricevere l’autorizzazione a scendere in campo dal segretario dello stesso Partito democratico. Una tesi francamente bizzarra se si vuol far crescere un campo politico realmente alternativo alla destra e a tutto ciò che oggi rappresenta quel progetto politico e culturale nella vita concreta del nostro paese e nel suo tessuto sociale, culturale ed economico. Ecco perché, forse, è arrivato anche il momento per chiarire definitivamente in che cosa consiste, oggi, ricostruire una “cultura delle alleanze” nel campo del centro sinistra. Sono almeno due, al riguardo, le precondizioni essenziali, senza le quali si cade nell’equivoco e nel singolare ritorno di un passato francamente superato e da consegnare alla storia. 

Innanzitutto va riconosciuto sino in fondo il pluralismo e l’articolazione sociale, culturale e politica che dovrebbe caratterizzare un potenziale campo riformista e democratico. Altroche’ rievocare la vocazione maggioritaria da un lato o promuovere una concezione satellitare del centro sinistra dall’altro. Senza questo riconoscimento e senza questa piena valorizzazione culturale di tutto ciò che non può essere meccanicamente riconducibile al Partito democratico è perfettamente inutile parlare di coalizione o di alleanza plurale. 

In secondo luogo occorre prendere atto che l’esperienza di un Partito democratico che coltiva l’ambizione della cosiddetta vocazione maggioritaria appartiene ad una stagione che oggi francamente è alle nostre spalle. Come quasi tutti sanno, oggi quel partito è sostanzialmente acefalo perché conta al suo interno correnti e gruppi hanno prospettive e progetti politici diversi se non alternativi. Come quasi tutte le cronache politiche quotidiane confermano. E un partito che ha un consenso che si attesta sul 20% e che incassa sconfitte ripetute a livello locale, regionale e nazionale, difficilmente può esaurire una alleanza al suo interno salvo poche aggiunte marginali e periferiche. 

Ecco perché, dopo la seppur interessante e suggestiva intervista di Veltroni, il dibattito non si può non riaprire su come ricostruire il campo democratico e riformista del centro sinistra. Limitarsi ad alcuni slogan ad effetto probabilmente non aiuta a far crescere una alternativa politica alla destra ma solo ad alimentare illusioni e e riproporre tesi che, francamente, non hanno più cittadinanza nel dibattito politico italiano contemporaneo. 

L’enciclica dei gesti di papa Francesco

I gesti di Papa Francesco sono soltanto “gesti”? Mimmo Muolo, giornalista di Avvenire, è stato il primo che ha iniziato a guardare, raccogliere e catalogare le testimonianza di un Papa “gestuale”, estremamente “fisico” e che tiene ad avere su di sé, come Egli stesso disse “l’odore delle pecore”. Il volume dal titolo “L’enciclica dei gesti di papa Francesco” (Paoline) prende in considerazione il pontificato di Francesco dal punto di vista dei gesti da lui compiuti. Attraverso questi, il Papa costruisce un’enciclica vivente, quella dei “gesti” appunto. E tali gesti, secondo Mimmo Muolo, sono “magistero” a tutti gli effetti. Non semplici atteggiamenti che suscitano simpatia.

In questo libro vengono catalogati ed approfonditi i gesti del Pontefice, non con occhio di cronista ma di studioso, prima da un punto di vista complessivo, poi nei loro dettagli. Pastorale, carità, comunicazione, quotidianità, sono tutte categorie che Muolo descrive e che, al di là degli aggiornamenti possibili negli ultimi tempi, danno un’idea del magistero di Papa Francesco, chiedendoci, infine: “qual è lo scopo di questo Papa?”. Rendersi simpatico? Fare la rivoluzione? Ogni Papa è, a modo suo, rivoluzionario. In verità ciò che cerca di fare Francesco consiste nell’incarnare il Vangelo in un linguaggio pratico, quotidiano, quello dei gesti, appunto. Un linguaggio comprensibile agli uomini del nostro tempo. Il pericolo più grande secondo l’autore del libro è l’indifferenza. Con i suoi gesti (comprare gli occhiali in negozio, rompere il protocollo e parlare con la gente, salutare con un semplice “buonasera”, le telefonate private …) il Papa trasforma il Vangelo in un linguaggio che lo avvicina alla gente, al gregge e, perciò, abbatte i muri dell’indifferenza. Mimmo Muolo è stato il primo a comprendere che, mentre nei papi del passato dalle parole nascevano i gesti, con Francesco si ha oggi la dinamica contraria.

La “Chiesa in uscita” infatti nasce durante la prima domenica da Papa in cui Egli, in un fuori programma, incontrò la folla. Farsi abbracciare, toccare: una novità, rispetto i pontificati dei suoi predecessori. Il Papa o, come ora sono tutti abituati a chiamarlo, Francesco, corre il rischio di farsi “liquido” in una società liquida (citando Z. Bauman), soltanto per rendere saporito il liquido. Essere sale. Con l’ulteriore rischio di intendere il Cristianesimo come un messaggio politico. Ma lo è? Il Vangelo è la religione dell’Incarnazione, non della teoria. E’ il Credo di chi si sporca le mani. E’ chiaro che in questo modo si entra in contatto con la vita di tutti i giorni, con le sue tragedie. Il Cristianesimo diviene, di conseguenza, interesse per la polis, per la comunità umana, che è oltre i suoi confini. Con l’avvento di Cristo la schiavitù non ha più avuto il diritto di cittadinanza, nonostante essa cercò di resistere al suo messaggio. Oggi possiamo paragonare la schiavitù all’indifferenza. Anch’essa non può aver diritto di cittadinanza.

Un sismografo sociale

Articolo già apparso sulle pagine della rivista il Mulino a firma di Bruno Simili

Lo strumento utilizzato dai geologi per monitorare i movimenti del sottosuolo è il più delle volte associato alla paura: quando un sismografo registra una serie di valori più elevati della media c’è da stare in guardia, perché potrebbe trattarsi di avvertimenti che preannunciano disastri.

Di questo tipo di sismografi nell’ultimo libro di Francesco Erbani non si parla esplicitamente, per quanto il terremoto e le sue conseguenze siano ben presenti nel racconto di un’Italia che, altrove, vedremmo definita per sbaglio come “minore”. C’è, tuttavia, un altro tipo di sismografo, di tipo sociale, che questa volta più che alla paura può essere associato alla speranza. Un attrezzo che registra i picchi di una nuova socialità, di nuove forme di aggregazione progettuale sparse lungo questa “Italia che non ci sta”, come recita il titolo del libro. Non ci sta a osservare passivamente il progressivo decadimento di un modello che nei decenni immediatamente successivi alla seconda guerra aveva illuso, se non tutti quasi tutti, facendo credere in un’Italia che sembrava potesse solo crescere. Un’Italia che poco alla volta, ma in verità con tempi serrati, vedeva però abbandonare gli equilibri territoriali tra città e campagna, sino a rimodulare drasticamente gli stessi rapporti tra uomo e natura. I risultati di quella grande illusione li vediamo, oggi. E a poco è servito preconizzarne le conseguenze da parte di chi le avrebbe poi viste materializzarsi.

Il libro di Erbani rappresenta una lettura utile e – anche in considerazione dell’editore con cui viene pubblicato, che certo potrà garantirne un’ottima diffusione – necessaria. Non solo per il ritratto complessivo di un Paese così diverso da come viene solitamente rappresentato: si sarebbe potuto dire “un’Italia che resiste” ma, opportunamente, Erbani parla, appunto, di un Paese “diverso”. Da questo punto di vista si imparano a conoscere storie in larga parte poco note. Differenti tra loro, certamente. Ma accumunate da situazioni che fanno da sfondo alla ripresa di luoghi e territori tutte legate agli effetti deleteri dello sviluppismo e alla mancanza di visione che segnò i decenni di cui sopra. Storie, in un modo o nell’altro, segnate da quella che Vito Teti, in uno dei primi libri che andarono a toccare questi temi (Il senso dei luoghi), chiamò, riferendosi nel 2004 ai paesi abbandonati nella sua Calabria, “la ritornanza”; ovvero la ripresa di possesso dei luoghi di origine da parte di chi, venti o trent’anni prima, li aveva abbandonati.

L’abbandono dei luoghi è, nel racconto, ricorrente. Paese dopo paese si danno le cifre di uno svuotamento di vita e di vite del territorio che colpisce anche chi, più o meno, ne ha letto o lo ha vissuto in prima persona. Cito, ad esempio, il caso del Cilento, segnato sin dai primissimi anni Sessanta da un progressivo e inesorabile spopolamento, che segna ormai i tre quarti del territorio (75 comuni su 98): “Dal 1961 il calo medio è del 30%: 57.000 persone sono andate via da questi paesi, 51 dei quali hanno ora meno di 2.000 abitanti”. E il calo demografico è più alto proprio nei comuni più piccoli, in un circolo che si autoalimenta.

Allo spopolamento fa qui da contrasto il ri-abitare i luoghi, il ri-prenderne possesso, secondo forme e modi che appaiono in netto contrasto con la gran parte degli stereotipi che accompagnano il racconto più diffuso del ritorno (come l’entusiastico racconto del ritorno dei giovani alla campagna, ad esempio) o delle forme di rilancio delle tante economie locali. Questo è, a mio giudizio, uno degli aspetti più interessanti del libro, che nell’annotare in una sorta di taccuino i picchi del sismografo sociale dà conto delle forme utilizzate da chi ha deciso di provarci, senza necessariamente restare impigliato nella rete che vede “i territori” innanzitutto come fruttifere icone turistiche. Risposte, anche economiche, a quei nuovi modelli dominanti che sembrano non potere fare a meno della ristorazione tipica e dell’ospitalità di breve periodo, e che in questi casi invece si rivolgono a nuove forze generative dei beni culturali diffusi. Gli esempi nel libro sono tanti, conviene leggerseli e, magari, scoprirne il valore di persona.

Qui l’articolo completo 

Carabiniere ucciso: il dubbio

Gli elementi di cui disponiamo aprono un ventaglio di interpretazioni senza fondo. È proprio un intruglio tra i più intricati, perché ci sono molti angoli oscuri, pur nell’accecante brutalità del fatto. Restiamo sbigottiti e dolenti di fronte a quanto immaginiamo del gesto efferato compiuto da un ragazzino.

Volutamente scrivo ragazzino perché pur qualche mese dopo i diciott’anni, entrambi non sono che entrati in un passo formale della maturità; al giorno d’oggi, oserei chiamare ragazzi persino i trentenni: l’adolescenza si è estesa oltre misura e molti comportamenti di persone più adulte rinviano ad atteggiamenti, modalità, cliché e stili che sono riconoscibili nel panorama dei comportamenti della categoria ricordata.

A partire dalla fine restano ai miei, ma credo anche ai vostri occhi, degli eventi del tutto incomprensibili. Come mai diffondono una foto. Foto scattata all’interno del Comando Carabinieri. Chi l’ha scattata? Perché l’ha scattata? E, infine, perché l’ha diffusa?

Analizzando la foto, constato che il giovane americano ha le mani ammanettate dietro la schiena. In aggiunta lo bendano. Il quesito è il seguente: aveva bruciore agli occhi? Oppure non volevano che vedesse il ritratto del Presidente della Repubblica? O che altro mai?

Ciò che oggi sappiamo, è che quei gesti sono gesti non praticati dal nostro corpo dei carabinieri. Che io sappia, smentitemi se avete le prove, non c’è criminale che venga bendato per portarlo nella sede del Comando Carabinieri.

Chi ha avuto questa brillante idea? Pensate forse che sia frutto dell’atteggiamento di grande abnegazione di un carabiniere? Non scherziamo. Non c’è alcuna ragione che spieghi questo inverosimile gesto consumato in un Comando dei carabinieri di Roma. Ciò che invece oggi leggiamo è che in ragione di tutto questo, i quotidiani americani rivendicano la necessità di tutelare il proprio connazionale perché lasciato in balia di forze dell’ordine italiane del tutto prive dei dettami più semplici, praticati in vigore nei Paesi occidentali.

Restiamo tutti perplessi e attoniti, primo per il dolore subito dal nostro carabiniere – val la pena entrare nella sequenza criminale per avvertire un urto fisico ed emotivo da far star male chiunque – secondo, per questa vicenda quasi romanzesca di quello che è accaduto all’interno della stanza dei carabinieri e dell’epilogo quasi da giallo vacanziero che permetterà ai due giovani americani forse di uscire dall’iter giudiziario italiano, per approdare a quello statunitense. Non lo so che cosa ora accadrà, ma ditemi voi se non ci sono tutti gli elementi per alimentare sospetti a non finire.

Faccio solo una ipotesi di lavoro, se non fossero stati americani, e magari invece persone di continenti meno fortunati, credete voi che l’immagine in prima pagina di tutti i quotidiani italiani fosse stata targata da una foto di un reo confesso presentata come  vittima, com’è apparsa oggi?

Perché è evidente che l’immagine racconta la condizione disumana di un ragazzo, maltrattato dai carabinieri, e sullo sfondo compaiono pure diversi quadri di rappresentanti delle forze dell’ordine italiano.

Questo commento a caldo avrà sicuramente mille trascuratezze, ciò nonostante, intende illustrare qualche gigantesca stranezza che ci consegna una tra le più dolorose vicende di questo periodo.

Papa Francesco: liberare le donne dalla schiavitù della prostituzione

Quando in uno dei Venerdì della Misericordia durante l’Anno Santo Straordinario sono entrato nella casa di accoglienza della Comunità Papa Giovanni XXIII, non pensavo che lì dentro avrei trovato donne così umiliate, affrante, provate. Realmente donne crocifisse. Nella stanza in cui ho incontrato le ragazze liberate dalla tratta della prostituzione coatta, ho respirato tutto il dolore, l’ingiustizia e l’effetto della sopraffazione. Un’opportunità per rivivere le ferite di Cristo

Dopo aver ascoltato i racconti commoventi e umanissimi di queste povere donne, alcune delle quali con il bambino in braccio, ho sentito forte desiderio, quasi l’esigenza di chiedere loro perdono per le vere e proprie torture che hanno dovuto sopportare a causa dei clienti, molti dei quali si definiscono cristiani. Una spinta in più a pregare per l’accoglienza delle vittime della tratta della prostituzione forzata e della violenza.

Una persona non può mai essere messa in vendita. Per questo sono felice di poter far conoscere l’opera preziosa e coraggiosa di soccorso e di riabilitazione che don Aldo Buonaiuto, svolge da tanti anni, seguendo il carisma di Oreste Benzi. Ciò comporta anche la disponibilità ad esporsi ai pericoli e alle ritorsioni della criminalità che di queste ragazze ha fatto un’inesauribile fonte di guadagni illeciti e vergognosi.

Vorrei che questo libro trovasse ascolto nel più ampio ambito possibile affinché, conoscendo le storie che sono dietro i numeri sconvolgenti della tratta, si possa capire che senza fermare una così alta domanda dei clienti non si potrà efficacemente contrastare lo sfruttamento e l’umiliazione di vite innocenti.

La corruzione è una malattia che non si ferma da sola, serve una presa di coscienza a livello individuale e collettivo, anche come Chiesa, per aiutare veramente queste nostre sfortunate sorelle e per impedire che l’iniquità del mondo ricada sulle più fragili e indifese creature. Qualsiasi forma di prostituzione è una riduzione in schiavitù, un atto criminale, un vizio schifoso che confonde il fare l’amore con lo sfogare i propri istinti torturando una donna inerme.

È una ferita alla coscienza collettiva, una deviazione all’immaginario corrente. È patologica la mentalità per cui una donna vada sfruttata come se fosse una merce da usare e poi gettare. È una malattia dell’umanità, un modo sbagliato di pensare della società. Liberare queste povere schiave è un gesto di misericordia e un dovere per tutti gli uomini di buona volontà. Il loro grido di dolore non può lasciare indifferenti né i singoli individui né le istituzioni. Nessuno deve voltarsi dall’altra parte o lavarsi le mani del sangue innocente che viene versato sulle strade del mondo.

Francesco

Nasce l’“Infermiere di parrocchia”

Nasce la figura dell’“Infermiere di parrocchia”. Lo prevede l’accordo, firmato, stamani, da don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute, e da Angelo Tanese, direttore generale dell’Azienda sanitaria locale Roma 1. L’iniziativa intende sperimentare la presenza di un infermiere di comunità inviato dall’Asl nelle parrocchie.

Dopo aver raccolto richieste e bisogni, un referente di pastorale della salute condividerà i dati con l’“Infermiere di parrocchia”, che si incaricherà di attivare procedure e servizi utili al soddisfacimento delle richieste. Il progetto ha richiesto un anno di lavoro per essere definito, partendo dalla necessità manifestata da chi si occupa di sanità territoriale con il compito di individuare coloro che non sono raggiunti dal Servizio sanitario nazionale, perché esclusi dalle comuni “reti sociali di contatto”. Il progetto verrà sperimentato nei territori delle diocesi di Roma, Alba e Tricarico.

“Il progetto si propone di ascoltare, informare e orientare le persone all’interno della rete dei servizi socio-sanitari territoriali delle aziende sanitarie locali – si legge nel testo dell’accordo -; facilitare i percorsi di accesso alle cure o all’assistenza, interfacciandosi con i distretti sanitari e i vari servizi territoriali di prossimità; intercettare gli ‘irragginuti’ e favorirne il contatto con la rete; favorire azioni di promozione della salute e del benessere della comunità”.