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martedì, 4 Novembre, 2025
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L’impegno sociale tra profezia e concretezza

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Roamano a firma di Gualtiero Bassetti

Sabato 22 giugno, in occasione della festa di san Tommaso Moro, patrono di governanti e amministratori, la diocesi di San Marino -Montefeltro ha organizzato una giornata di riflessione e preghiera per i politici alla quale è intervenuto il presidente della Conferenza episcopale italiana che ha tenuto una relazione sull’impegno sociale nell’esperienza di Giorgio La Pira. Qui di seguito ampi stralci dell’intervento.

di Gualtiero Bassetti

Il tema — «L’impegno sociale fra profezia e concretezza» — è impegnativo ma, al tempo stesso, molto stimolante. Cercherò di sintetizzarlo in tre concetti, tre bussole che orienteranno la mia riflessione e che sono: l’impegno sociale come vocazione cristiana; la profezia come dono di Dio; l’eredità di La Pira nel mondo di oggi.

Iniziamo dalla prima bussola a cui prima ho fatto riferimento: l’impegno sociale come vocazione cristiana. Per sviluppare questo concetto bisogna porsi una domanda iniziale: chi è stato Giorgio La Pira? Egli può essere definito in molti modi: un politico, un professore universitario di diritto romano, un terziario domenicano oppure un terziario francescano. In moltissimi, ancora oggi, a Firenze lo ricordano come il «sindaco santo». Ognuna di queste definizioni è senza dubbio vera. A mio avviso, però, l’espressione migliore, quella che riesce a sintetizzare la sua versatile personalità, è quella che lo definisce come «un mistico in politica». […]

La sua vocazione politica, come scrisse Carlo Bo, era «il riflesso e l’eco della sua più antica e vera scelta religiosa» avvenuta nella notte di Pasqua del 1924. […] 

La Pira è colui che organizza le Conferenze di San Vincenzo e l’appuntamento settimanale della Messa di san Procolo; è l’insegnante universitario e l’autore de L’attesa della povera gente; è il terziario francescano e il sindaco di Firenze. Per usare le sue parole, il suo programma politico si “fondava” sulla “pagina più bella ed umana del Vangelo: risolvere i bisogni più urgenti degli umili”. L’impegno sociale e politico di La Pira, dunque, non è mai scisso dalla vocazione cristiana. Questo è uno snodo cruciale che va compreso pienamente. Ed è un modello di impegno civile a cui devono guardare, con umiltà, tutti i laici cristiani oggi impegnati in politica.

L’impegno politico per La Pira è stato infatti «un impegno di umanità e santità» che deve «poter convogliare verso di sé gli sforzi di una vita tutta tessuta di preghiera, di meditazione, di prudenza, di fortezza, di giustizia e di carità». La carità e la politica si fondono, in lui, in un legame indivisibile. E lo stesso legame tra carità e politica è al centro della predicazione di Papa Francesco. 

Nella Evangelii gaudium il Papa ha scritto chiaramente che “la politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose di carità, perché cerca il bene comune”. E in un discorso di qualche anno fa, a Cesena, il Papa ha ribadito con forza che la politica non può essere asservita “alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi” ma deve avere come unico grande obiettivo “il bene comune” dell’intera società, senza lasciarsi tentare dalla corruzione e senza lasciare ai margini della società i piccoli e i poveri. 

Il secondo aspetto su cui voglio soffermarmi riguarda la visione profetica di La Pira. Una visione profetica che era indubbiamente un dono di Dio e a cui La Pira era totalmente abbandonato senza opporre resistenze. È doveroso sottolineare che questa sua visione profetica lo ha fatto molto soffrire come hanno sofferto tutti gli uomini di Dio. A causa di questo sguardo, così profondo e lontano nella storia, La Pira è stato spesso etichettato come un ingenuo o un visionario, addirittura come un Savonarola dei nostri tempi.

Solo oggi riusciamo a cogliere la portata della sua visione. In questo periodo storico, infatti, lo sguardo lungo di La Pira assume un significato grandissimo. Proprio oggi, infatti, stiamo vivendo un grande “cambiamento d’epoca”, un eccezionale mutamento storico che ci obbliga a stare svegli, a guardare lontano e ad assumere una prospettiva globale, pur restando ben ancorati alla nostra storia, alle nostre tradizioni e ai nostri luoghi. Da questo punto di vista, la sua visione profetica è di fondamentale importanza: per la Chiesa intera e per l’Italia.

In questa sede voglio mettere in evidenza solo un aspetto del suo spirito profetico: la sua visione internazionale. La Pira viveva in un mondo molto diverso da quello attuale. Viveva in un mondo caratterizzato da un «crinale apocalittico» dominato dallo scontro tra le due superpotenze e dall’incubo nucleare. Eppure, in questo mondo così polarizzato e così armato, La Pira riesce ad opporre alla logica del conflitto, la supremazia del dialogo. Egli è stato uno dei più importanti costruttori della cultura del dialogo nel corso del XX secolo.

Un dialogo cercato con tutte le sue forze nei Paesi dell’Europa dell’Est e in Asia, in America Latina e in Africa. In questo sforzo incessante per il dialogo, il sindaco di Firenze traccia una strada: è il «sentiero di Isaia». Un sentiero di pace che si proponeva di arrivare al disarmo generale trasformando «i cannoni in aratri ed i missili e le bombe in astronavi». Un sentiero estremamente concreto e non fatto solo di discorsi e articoli.

Per raggiungere la pace, La Pira incontra personalmente molti Capi di Stato. In uno di questi incontri, conia una delle sue espressioni più note: «abbattere i muri e costruire i ponti». Un’immagine che mutuò da quello che vide al Cairo nel 1967 dopo aver incontrato il presidente egiziano Nasser. In quell’occasione vide «una squadra di operai abbattere i muri che erano stati costruiti davanti alle porte dell’albergo, come strumenti di difesa antiaerea». In quel gesto vide il simbolo di una grande azione politica e culturale. Bisognava abbattere «il muro della diffidenza» tra i popoli e costruire ponti di dialogo tra le genti. Occorreva, in definitiva, «non uccidere, ma amare».

E questo amore, questa ferrea volontà di dialogo, lo riferiva, per esempio, ad una zona del mondo a tutti noi molto cara: il Mediterraneo. Oggi possiamo dire che questo spirito di dialogo continua a vivere nonostante le intemperie del mondo. Da alcuni mesi, infatti, la Chiesa italiana sta lavorando per l’organizzazione di un incontro che abbiamo intitolato: Mediterraneo frontiera di pace. Incontro di riflessione e spiritualità. Un incontro che incarna la visione profetica di Giorgio La Pira, il quale, sin dalla fine degli anni ’50, aveva ispirato i “dialoghi mediterranei” anticipando lo spirito ecumenico che avrebbe soffiato, poi, con grande forza, nel Concilio Vaticano II. 

Oggi, attraverso questo incontro che si terrà a Bari nel febbraio 2020, abbiamo la possibilità di iniziare a mettere in pratica quella visione profetica partendo proprio da quel mare che La Pira chiamava “il grande lago di Tiberiade” e che metteva in comune i popoli della “triplice famiglia di Abramo”. Si tratta dunque di un’assise unica nel suo genere, promossa dalla Chiesa italiana, che permetterà l’incontro tra tutti i vescovi cattolici dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Un incontro basato sull’ascolto e sul discernimento comunitario. E soprattutto: un incontro che, valorizzando il metodo sinodale, si prefigge di compiere un piccolo passo verso la promozione di una cultura del dialogo e verso la costruzione della pace in Europa e in tutto il bacino del Mediterraneo. […] 

Infine, e vengo all’ultimo aspetto, occorre riflettere sull’eredità del Sindaco Santo nel mondo attuale. Cosa rimane oggi di La Pira? A mio avviso un’eredità profonda, sintetizzabile in tre concetti: la politica come missione e non come ricerca di un tornaconto personale; una tensione verso i poveri, i precari, gli sfruttati e gli emarginati; una ricerca della concretezza.

La Pira è stato uno dei simboli, non l’unico, ma sicuramente uno dei più importanti, di una stagione nobile del cattolicesimo politico in Italia. La stagione dello spirito costituente e della ricostruzione del Paese. La stagione di una generazione di cattolici colta, sobria e appassionata, che aveva conosciuto i disastri del fascismo, che combatteva il comunismo e che faceva politica come «un impegno di umanità e santità» senza cercare nulla per sé stessi.

Lo voglio dire semplicemente e con grande chiarezza: io penso che oggi l’Italia ha bisogno di tali personalità. Ha bisogno di uomini con il suo candore, con il suo spirito di servizio, con il suo essere controcorrente, con la sua integrità morale, con la sua audacia e, soprattutto, con la sua fede. Una fede che a volte lo faceva apparire ingenuo e fuori dal tempo agli occhi di molti suoi colleghi politici — perfino cattolici — ma che invece gli dava una forza inesauribile e un coraggio mai domo nel combattere le battaglie più diverse: dalla lotta per la pace, alla difesa della famiglia.

La Pira rappresenta, senza dubbio, quella fedeltà e quell’unità del magistero sociale della Chiesa Cattolica a cui tante volte mi sono richiamato. Un magistero unitario che non può essere strumentalizzato o dimenticato in alcune sue parti proprio oggi che viviamo in un mondo liquido, dove tutto sembra precario e incerto. Da un lato, le nuove tecnologie accompagnate dalla diffusione di un umanesimo ateo, come lo definiva il padre De Lubac, minano la statura ontologica dell’uomo e la salvaguardia del Creato. Dall’altro lato, una serie di nuove ideologie, spesso associate a visioni xenofobe e suprematiste, minacciano le basi di una convivenza civile e dialogante.

I laici cattolici, di fronte a questi richiami mondani che a volte possono essere addirittura suadenti, sono chiamati a testimoniare con coraggio martiriale la fede nel Risorto e ad assumere la sobrietà e la carità come stili di vita. La nostra società ha un grande bisogno di uomini e donne che non scendano a patti con la mondanità nichilista, con l’individualismo esasperato e con l’arroganza diffusa che, oggi, troppo spesso, si combina drammaticamente con la superficialità.

Giorgio La Pira, essendo un credente autentico e quindi un uomo libero che ha avuto il coraggio di sostenere opinioni scomode, non è mai sceso a patti con la mentalità di questo mondo. Per questo motivo, ancora oggi è un esempio di vita per tutti ed è un monito importantissimo per tutti coloro che rivestono incarichi di responsabilità.

Non bisogna mai dimenticare che l’unico vero grande obiettivo di La Pira è stato il bene comune. È stato il bene delle famiglie e dei giovani, dei disoccupati e delle aziende, degli anziani e degli ultimi. Questo bene comune si fonda sulla responsabilità e sulla carità verso i piccoli, gli indifesi e i poveri. E non si lascia tentare, in alcun modo, dall’arroganza del potere, dal consenso facile, dall’odio verso chi è diverso, dalla corruzione e dalla malavita.

C’è, infatti, una modalità di fare politica — che non fu certo del solo La Pira, ma che lui visse in maniera del tutto essenziale — che deve essere riconsegnata alle giovani generazioni: la politica come missione altissima e come capacità «di proporzionare le risorse ai bisogni», secondo il programma che espresse nel suo primo discorso da Sindaco di Firenze. La politica è la capacità degli uomini, della loro intelligenza e della loro volontà, di trovare le risorse per risolvere i problemi degli ultimi.

E per cercare di risolvere i bisogni più urgenti degli ultimi, egli non si nascondeva dietro a belle parole ma era estremamente concreto. La concretezza era una delle caratteristiche più importanti della visione lapiriana, che ancora oggi ci fa riflettere. Questa concretezza, infatti, si espresse su tutti i campi del sociale: dalle medicine al latte, distribuito quotidianamente nelle scuole per integrare la dieta dei bambini di Firenze; dalle case requisite, alla costruzione dell’Isolotto; dalla lotta contro i licenziamenti di massa, alla nazionalizzazione del Pignone e della Galileo. 

Oggi siamo chiamati ad ispirarci a questa concretezza in ogni ambito della nostra esistenza: nelle scuole e nelle città; nelle famiglie e nelle aziende; nella cura dei disoccupati e dei precari, come dei migranti. Occorre dare forma e sostanza alle parole. Non ci si può fermare solamente all’annuncio. Sono convinto, infatti, che gli uomini e le donne di buona volontà se mettono realmente l’interesse generale al primo posto possono veramente realizzare il bene comune per l’intero Paese.

Il Bene Comune è dunque il nostro unico obiettivo. È l’unica direzione verso la quale si muove l’impegno sociale dei cattolici. Un bene per tutti e non per pochi. Un bene che non cerca il potere, ma che desidera il servizio. Un bene che non vuole dividere, ma che si sforza ardentemente di condividere.

Olimpiadi, quando prevalgono le pregiudiziali.

Dunque, le Olimpiadi invernali del 2026 si faranno in Italia. A Milano e a Cortina. Così ha deciso il Cio e così, purtroppo, deve essere dopo la sciagurata decisione politica del Comune di Torino di ritrarsi dalla competizione e dopo una gestione da parte della Regione Piemonte del tempo alquanto morbida. Dico questo non solo perché, come neo Sindaco di Pragelato, una delle località olimpiche di Torino 2006, avrei preferito – come quasi tutti i piemontesi, del resto, – una soluzione diversa ma soprattutto perché rischiamo di gettare al vento un patrimonio e una potenzialità che ha concretamente premiato il territorio subalpino dopo le Olimpiadi invernali di 13 anni fa.

Ora, si tratta di capire come si definisce l’intero mosaico. Se il Sindaco di Milano, con la consueta arroganza e altezzosità, chiude ogni possibilità ad una potenziale collaborazione con il Piemonte sfruttando al meglio gli impianti attualmente a disposizione, e’ pur vero che non si può non raccogliere la sfida lanciata dal Presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio per insistere, sino all’ultimo, sul coinvolgimento dei siti delle valli olimpiche di Torino 2006 in vista dell’evento internazionale del 2026. Al centro della discussione, infatti, c’è un solo tema: e cioè, il possibile risparmio di denaro pubblico per la costruzione e l’omologazione di tutti gli impianti per la realizzazione delle Olimpiadi invernali. Su questo, credo, verterà il dossier annunciato dal Presidente Cirio e che sarà sottoposto agli organismi preposti. A cominciare dal CONI e dal Governo con la speranza, seppur non remota, che non ci sia un muro pregiudiziale eretto dal Sindaco di Milano e dal Presidente della Regione Veneto.

Per il momento non resta che una amara conclusione. E cioè, ogniqualvolta la politica, e le relative scelte, sono il frutto di pregiudiziali e di pregiudizi ideologici, l’epilogo non può che essere nefasto e fallimentare. Come è puntualmente capitato con la scelta del Comune di Torino di ritirarsi dalla competizione favorendo così, e giustamente, altri territori e altre località. Scelte, appunto, incomprensibili e politicamente sbagliate.

Il peso dei dati che non vogliamo vedere

Articolo già apparso sulle pagine della rivista il Mulino a firma di Bruno Simili

Trecento pagine fitte, di cui venticinque di glossario, per illustrare una situazione assai seria. Non tanto e non solo per l’analisi dell’oggi, quanto (ancora una volta) per le prospettive. Il Rapporto annuale 2019 dell’Istat, intitolato La situazione del Paese e presentato a Montecitorio dal neo presidente Giancarlo Blangiardo, non lascia aperti molti varchi all’ottimismo. E – di certo involontariamente ma purtroppo inevitabilmente – rappresenta in forma non troppo plastica eppure a suo modo sempre affascinante lo stato dell’arte di un’Italia che arranca, a partire dai dati economici. Le difficoltà dell’economia italiana vengono riconosciute in apertura, pur sottolineando (anche troppo, forse) il perpetuare di situazioni di difficoltà a livello globale e negli altri Paesi europei: “Alla stregua di quanto accaduto ai principali partner europei, anche l’economia italiana ha segnato un netto rallentamento della crescita del Pil” [corsivo nostro].

Molte ombre, pochissime luci. Ombre su una dinamica dei consumi, che paga le condizioni di debolezza del potere di acquisto delle famiglie, che “hanno fornito un contributo alla crescita del Pil sostanzialmente dimezzato rispetto all’anno precedente)”. Famiglie la cui fiducia nella ripresa sembra essere calata sensibilmente, “con valutazioni pessimistiche diffuse a tutte le componenti (dei consumatori”, seppure con qualche timido segnale di ripresa nell’ultimo mese.

Ombre nel sistema delle imprese, che ha ricostituito “solo in parte la base produttiva persa durante la seconda recessione del periodo 2011-2013”. Con forti problemi di capitale fisico e umano.

Anche nel mercato del lavoro, del tutto insufficienti le poche luci a illuminare crescenti zone d’ombra. Nel Rapporto, la premessa del capitolo dedicato a “Mercato del lavoro e capitale umano” non basta a ridare speranza di una inversione di tendenza (“A cinque anni dall’avvio della ripresa economica il mercato del lavoro italiano mostra, nonostante il recente rallentamento ciclico, un sostanziale miglioramento superando i livelli occupazionali pre-crisi”). La crescita degli occupati, infatti, è un dato da disaggregare: per lo più negativo quanto a stabilità del lavoro e a prospettiva di crescita individuale. Infatti, il “deciso aumento dei lavoratori dipendenti e il calo di quelli indipendenti si sono accompagnati da una ricomposizione interna dei due aggregati che ha comunque accresciuto il peso dei componenti che rappresentano al loro interno segmenti relativamente più vulnerabili”. Crescita dei lavori a termine tra quelli dipendenti (soprattutto quelli di breve durata, con contratti di lavoro inferiori ai sei mesi; sul punto rimandiamo al numero 3/2018 del Mulino) e riduzione delle forme di lavoro a tempo pieno, con particolare riguardo per il lavoro femminile, che ha visto sì una dinamica positiva, ma accompagnata da “una riduzione della stabilità e delle ore lavorate”. Con l’aggravante, di cui si è discusso un poco nello specifico nei giorni scorsi, del vincolo famigliare sempre più forte per le donne lavoratrici, costrette spesso a scegliere tra un lavoro o un figlio (o, in casi ormai non così comuni, più di uno).

Restando sul mercato del lavoro, aumenta la sua segmentazione e prosegue il peggioramento delle condizioni in base all’età: negli ultimi dieci anni, fra i giovani la quota di dipendenti a tempo indeterminato “è scesa dal 61,4% al 52,7%”, mentre per il lavoratori con più di 35 anni di età “si attesta al 67,1%”. Fortissime, e crescenti, le disparità territoriali, con un Nord in buona parte uscito dalla crisi e in netta ripresa e un Sud che aumenta i divari anziché ricucirli: rispetto al 2008 al Centro Nord si è tornati a un +2,3% di occupati, a fronte di un -4% al Sud. Un punto, questo, su cui ha insistito anche il presidente della Camera Roberto Fico nella sua introduzione, ma che non sembra essere accompagnato da politiche di governo nazionale atte a invertire la tendenza. Anzi, come più volte è stato sottolineato sulle nostre pagine, intende operare in senso contrario, con il progetto di una Autonomia differenziata che, oggi più che mai, sembra non conoscere ostacoli. Il sottosegretario Giorgetti, che ha seguito la presentazione in prima fila, lo sa bene.

Altro punto sottolineato dal rapporto è la relazione tra qualità del posto di lavoro e remunerazione economica: anche qui si è tornato a parlare di migrazioni di giovani italiani con qualifiche medio-alte, sia verso l’estero (come noto ai nostri lettori, avendo dedicato al tema questa rivista un intero numero monografico) sia verso il Nord dalle regioni del Sud (anche qui rimandiamo a articoli usciti recentemente: quello di Michele Colucci e Roberto Impicciatore sulle migrazioni interne, oltre all’intervista fatta a Isaia Sales, dove si sottolinea il forte e rapido impoverimento del Mezzogiorno d’Italia in termini di capitale umano).

Un ampio capitolo a parte l’Istat guidato dal demografo Blangiardo tocca le tendenze negli equilibri della popolazione dell’Italia e i cosiddetti “percorsi di vita”. È la grande questione demografica, alla quale il Mulino ha dedicato il numero 5 dello scorso anno. Dati già in larga parte noti, ma pur sempre impressionanti, se guardati tutti assieme (si vedano, in particolare, le pagine 115-151 del Rapporto). Soprattuto in riferimento alla crescita della popolazione anziana (compassionalmente, la slide che è stata proiettata in sala non parlava di “vecchi” ma di “invecchiati”). Le stime ci dipingono come un Paese via via sempre più vecchio, nelle proiezioni peggiori addirittura decrepito. Si pensi che, se il dato complessivo ha visto una riduzione della popolazioni di 400 mila unità in quattro anni, quello relativo agli italiani in età compresa tra i 20 e i 34 anni in un decennio ha visto una riduzione di 1 milione e 230 mila unità (il 3% in meno del totale dei residenti) Dal lato opposto, si allunga la speranza di vita e, mentre la fascia di età che va dai 65 ai 74 anni ha perso per i geriatri la connotazione di “anziani” per acquisire quella di “tardo-adulti”; una riclassificazione resasi necessari dalla prevista crescita non solo degli ultraottantenni ma addirittura dei centenari.

L’articolo completo è leggibile qui 

Ma allora queste Olimpiadi sono una cosa buona o no?

A questo punto la domanda è doverosa, perché se l’evento è un fatto positivo non si capisce per quale motivo prima la Raggi e poi la Appendino abbiano rinunciato rispettivamente alle Olimpiadi del 2024 e a quelle invernali del 2026.

Se viceversa le Olimpiadi sono da considerare un evento nefasto (come qualcuno ha tentato di dipingerle) allora non si comprende perché le due prime cittadine di Roma e Torino si siano complimentate con i loro colleghi sindaci di Milano e Cortina per il brillante risultato, anziché esprimergli la propria preoccupazione per la sciagura che si starebbe per abbattere sulle loro città.

In effetti l’unica sciagura che appare evidente è quella determinata dalla incapacità e dalla inadeguatezza delle amministrazioni di Torino e di Roma in modo particolare; mentre Milano si misura con questa nuova impresa, a Roma l’unica prova olimpica che interessa i cittadini è purtroppo quella dello slalom tra buche nelle strade e sacchetti dell’immondizia. Un’autentica vergogna!

E’ peraltro molto probabile che, in una logica di equilibri politico-sportivi interni al Comitato Internazionale Olimpico, l’assegnazione delle Olimpiadi invernali a Milano e Cortina sia anche un parziale indennizzo all’Italia per la rinuncia fatta due anni orsono da Roma per un evento che era ormai a portata di mano e che sfumò per l’approccio ideologico dell’amministrazione cinque stelle, che su quel progetto non volle neanche interloquire con il CONI (ricordiamo ancora la famosa “buca” a Malagò che invano aspettava la Sindaca in Campidoglio).

Quindi Milano ringrazia la Raggi che, non capendo il danno causato alla città di Roma, si compiace e fa anche l’applauso ai suoi errori.

Aumenta in Francia la popolarità del presidente Emmanuel Macron.

Secondo un sondaggio pubblicato dall’istituto Bva, Macron guadagna tre punti rispetto a fine maggio e sale al 35 per cento delle opinioni favorevoli. Sale anche la popolarità del primo ministro, Philippe, che guadagna 4 punti e va al 40 per cento.

Il presidente e il premier guadagnano terreno soprattutto tra le persone con più di 65 anni (+12 per Macron, +11 per Philippe). Il quotidiano francese “Le Figaro” sottolinea che l’indice di gradimento di Macron torna così ai livelli dell’estate dello scorso anno.

Il titolare dell’Eliseo migliora la sua posizione anche in un sondaggio condotto dall’istituto Odoxa, arrivando al 36 per cento delle opinioni favorevoli, 6 punti in più in un mese.

Sempre per Odoxa, Philippe avanza di 3 punti e va al 37 per cento. Il leader del partito ambientalista Europa-Ecologia i Verdi (Eelv), Yannick Jadot, risulta essere uno dei politici più apprezzati dai francesi, con il 24 per cento delle opinioni favorevoli per Bva (+10 punti) e il 23 per cento secondo Odoxa.

Subiaco: una mostra su Papa Pio VI

È in corso in questi giorni (fino al 29 settembre), presso la biblioteca statale dell’abbazia di Santa Scolastica, a Subiaco, la mostra “Pio VI – un Papa abate commendatario di Subiaco”. Promossa dall’abbazia territoriale di Subiaco, guidata dall’abate ordinario, mons. Mauro Meacci, la mostra è frutto della collaborazione tra gli istituti culturali dell’Abbazia territoriale e la Biblioteca statale di Santa Scolastica, nell’ambito del più ampio progetto “Aperti al Mab” dell’Ufficio nazionale per i beni culturali della Conferenza episcopale italiana.

Sullo sfondo degli episodi più significativi della vita del Pontefice, ripercorsi attraverso 14 stampe edite poco dopo la sua morte, la mostra ricostruisce, in sette sezioni, la figura e l’operato di Pio VI, di origine cesenate, dall’anno in cui, ancora cardinale, venne nominato abate commendatario di Subiaco (1773).

Dalle prime iniziative compiute in questa veste, come la Sacra Visita del 1773, si giunge alla sua elezione a Pontefice nel 1775, dopo un conclave durato ben quattro mesi. “Dopo lungo tempo – afferma l’abate di Subiaco, Meacci – si torna finalmente a riflettere sulla figura di Papa Pio VI e sul suo governo come abate commendatario dell’Abbazia Nullius di Subiaco, dando l’opportunità di rintracciare i contorni di una figura e di un’epoca estremamente significativi per la storia del sublacense.

Per l’occasione il patrimonio culturale ecclesiastico dell’Abbazia viene esposto in dialogo con quello della Biblioteca statale, offrendo un contributo nuovo su una pagina rilevante della storia sublacense, i cui spunti inediti meriteranno sicuramente ulteriori futuri approfondimenti. Inquadrate nel contesto degli eventi più significativi della vita di Pio VI, vengono delineate le tante iniziative promosse dal Pontefice in favore di Subiaco e dell’Abbazia, fino a giungere – conclude l’abate – alle note traversie dell’occupazione francese e ai tanti riflessi che ebbero sui monasteri sublacensi e su tutto il territorio”.

Bologna protagonista del trasporto locale integrato pubblico-privato

Philip Morris Manufacturing and Technology Bologna, in partnership con la Città metropolitana di Bologna, la Regione Emilia Romagna, Tper Spa e Trenitalia, ha presentato la scorsa settimana il primo progetto in Italia di mobilità intermodale ferro-gomma finanziato da un’impresa e fruibile non solo dallo stesso personale aziendale, ma da tutti i cittadini.

L’iniziativa, sviluppata in accordo con Tper, Trenitalia e approvata dall’Agenzia per la mobilità Società reti e mobilità, si concretizza nella realizzazione di due linee di trasporto pubblico locale, interamente finanziate dall’azienda, che permetteranno un collegamento su gomma tra le stazioni ferroviarie di Anzola dell’Emilia e di Crespellano/Via Lunga, raggiungibili grazie ai servizi Tper e Trenitalia, e l’area industriale della Valsamoggia dove, oltre allo stabilimento del gruppo Philip Morris, sorgono importanti realtà industriali. L’accordo di mobility management fornirà, inoltre, gratuitamente a tutto il proprio personale degli abbonamenti per il trasporto pubblico locale utilizzabili su tutti i mezzi Tper anche all’infuori dell’orario e delle giornate di lavoro. Secondo le stime il progetto andrà a vantaggio di oltre 2.000 persone nell’intera area metropolitana.

Scegli il vetro? Il mare e i delfini ringraziano

Scegli il vetro? Il mare e i delfini ringraziano. Una candid-camera ha filmato in un supermarket di Roma lo stupore e il divertimento di chi è arrivato alla cassa automatica con un prodotto “in vetro” ed ha visto illuminarsi uno schermo dove delfini sorridenti ringraziavano per aver acquistato un packaging che non fa male al mare e all’ambiente in generale.

Il video, girato anche in altri supermarket europei, fa parte della campagna Endless Ocean 2.0 lanciata in Europa dalla community Friends of Glass e sostenuta in Italia da Assovetro, per dimostrare che anche la scelta di un imballaggio può fare la differenza nella lotta al marine litter, una delle grandi emergenze ambientali che mette a rischio la salute dell’uomo, la conservazione della flora e della fauna marina e la qualità dei mari.

Anche Legambiente ha preso parte a questa iniziativa ed il video sta già riscuotendo una certa popolarità

La Milza

La milza è l’organo linfoide secondario più grande del sistema linfatico umano. La sua grandezza e la sua struttura sono tali da essere considerato un organo pieno (cioè parenchimatoso). A differenza di altri organi linfoidi secondari, essa è collegata con sistema circolatorio per mezzo di vasi sanguigni e non linfatici. La milza è un organo impari, posizionato nell’ipocondrio sinistro.

La milza presenta molteplici funzioni:

immunitaria acquisita: essa ospita nella sua polpa bianca sia linfociti T che centri germinativi contenenti soprattutto linfociti B. Grazie al suo collegamento diretto con i vasi sanguigni è l’unico organo in grado di contrastare direttamente le infezioni ematiche, soprattutto quelle di batteri incapsulati come Haemophilus influenzae e Streptococcus pneumoniae.

Per i motivi sopracitati la milza è stata paragonata ad un “grande linfonodo”, con la fondamentale differenza che sia i patogeni che i linfociti entrano ed escono per mezzo di vasi sanguigni e non dei vasi linfatici.

emocateretica: essa ospita nella sua polpa rossa il sistema dei monociti-macrofagi che riconosce gli eritrociti e le piastrine “invecchiati”, degradandoli;

marziale: essa degrada i componenti dell’eme presenti nell’emoglobina fornendo i substrati ideali per il metabolismo del ferro;

riserva: essa è in grado di immagazzinare una notevole quantità di monociti (uno studio del 2009 ha dimostrato che la milza dei mammiferi è in grado di ospitare oltre il 50% dei monociti del corpo) e una notevole quantità di sangue venoso;

emopoietica: questa funzione è esclusiva della vita embrionale, dove la milza costituisce un organo temporaneo capace di generare le cellule della linea emopoietica.

La milza in un paziente sano non è palpabile in quanto rimane coperta dalle coste; essa può essere invece ben apprezzata in condizioni patologiche che inducano splenomegalia (ad esempio malattie da protozoi come la malaria, la leishmaniosi e il trypanosoma).

Politica e classe dirigente, un nodo irrisolto.

Già pubblicato sulle pagine dell’Huffingtonpost

Il capitolo della classe dirigente, della sua autorevolezza, del suo profilo, della sua competenza e del suo carisma continua ad essere al centro del dibattito politico e culturale nazionale. I detrattori infaticabili ed instancabili della prima repubblica avevano individuato in quella classe dirigente la ragione sociale del decadimento etico e della corruzione della democrazia italiana. Detrattori che dopo anni, con una operazione alquanto squallida nonché ridicola, si esercitano in una operazione di radicale riabilitazione politica, culturale e forse anche etica proprio di quella classe dirigente. Lacrime di coccodrillo che non meritano alcun commento se non quello di prendere atto che questi soloni, peraltro strapagati e milionari, continuano a predicare e a blaterare da vari organi di stampa, nei rinnovati talk show televisivi e da vari pulpiti politici che orientano, per fortuna sempre di meno, la pubblica opinione. 

Ma, al di là del giudizio interessato di costoro, è indubbio che soprattutto con l’avvio di questa esperienza di governo, il giudizio sul profilo e sulla statura della classe dirigente politica ha assunto nuovamente una importanza cruciale. Ecco perché, anche alla luce delle precedenti esperienze, e’ forse giunto il momento per fare un po’ di chiarezza. 

Innanzitutto una classe dirigente autorevole e competente non è quasi mai il frutto della sola carta di identità. Chi ha provato nel passato Renzi con la sua “rottamazione”. Ma era solo e soltanto un escamotage tattico e furbesco per punire gli avversari interni al partito e premiare chi dimostrava, invece, atti concreti di fedeltà. L’esempio più eclatante? Massimo D’Alema andava silenziato ed escluso mentre Piero Fassino andava premiato e valorizzato. Misteriosa la motivazione politica che stava alle spalle visti l’età, il curriculum e la storia politica di entrambi se non quella, appunto, della fedeltà al “capo”. Altri hanno puntato tutto sulla discontinuita’ e sulla criminalizzazione politica del passato – come i 5 stelle – salvo poi rendersi conto che il deficit di competenza e di autorevolezza della nuova classe dirigente alla prima prova concreta nazionale e’ sotto gli occhi di tutti… Altri ancora ritengono, soprattutto la “sinistra al caviale” e i circoli salottieri e aristocratici degli intramontabili “progressisti” nostrani, che la carta decisiva per qualificare e nobilitare la classe dirigente politica e’ una sola: e cioè, quella che proviene dalla cosiddetta società civile. Un atto, del resto, coerente con quella impostazione elitaria e salottiera e sostanzialmente liquidatoria di tutto ciò che è anche solo lontanamente riconducibile alla politica e ai suoi dinamismi concreti. 

Ora, sono almeno 3 le condizioni necessarie per ridare freschezza e competenza, autorevolezza e spessore alla futura classe dirigente politica nel nostro paese. In primo luogo deve nascere dalle battaglie concrete condotte nella società e non deve essere il prodotto aristocratico e salottiero delle solite benedizioni delle classi dominanti. Che, come sempre, sappiamo quali sono e dove sono. In secondo luogo una classe dirigente politica e’ credibile se è stata formata culturalmente alla politica. E, su questo versante, non c’è ancora una concreta alternativa al ruolo decisivo che possono e debbono svolgere i partiti. Quei partiti che, nel momento in cui si sono trasformati in cartelli elettorali o in luoghi dediti al culto e all’esaltazione del capo, si sono ridotti a cassa di risonanza del “guru” di turno con tanti saluti alla credibilità e all’autorevolezza della classe dirigente. In ultimo, una classe dirigente formata e che e’ anche il frutto di battaglie condotte e praticate nel vivo della società, non può non avere forte dimestichezza con la democrazia interna ai partiti. Anche qui, per uscire dagli equivoci, non si tratta di consolidare la guerra per bande organizzate che caratterizza la vita interna, ad esempio, del Partito democratico ma, semmai, di rendersi conto definitivamente che senza un serrato confronto, libero e autenticamente democratico all’interno dei partiti e dei movimenti politici, non potrà mai emergere una classe dirigente altrettanto libera e soprattutto qualificata e realmente rappresentativa. 

Ecco, sono queste le tre condizioni basilari necessarie se si vuol cercare di uscire dal pantano in cui siamo precipitati quando si affronta il capitolo della classe dirigente politica italiana. Nessuno pensa, credo, a riportare indietro le lancette della storia ma tutti, credo, si rendono conto che senza una decisa sterzata si corre il serio rischio di aggravare ulteriormente la situazione premiando persone e stili radicalmente estranei e esterni al vero obiettivo che molti auspicano. E cioè, la possibilità di riavere nuovamente una classe dirigente politica di cui nessuno debba vergognarsi o rassegnarsi a rimpiangere il passato della prima repubblica per provare un po di d’orgoglio e per assaporare una lontana ed ormai improponibile ed irrealizzabile autorevolezza e competenza. 

Rete Bianca: l’impegno dei cattolici per l’unità europea

Dopo più di un anno di attività di Rete Bianca, può essere utile segnalare alcuni “punti fermi” che possano servire a riflettere sul terreno percorso e a individuare alcune possibili tracce per il cammino futuro. Nella politica europea si è aperta una stagione di conflitto, sempre più acceso, fra passioni e ragione. Le discussioni e i ragionamenti basati sui dati di realtà sono relegati (quando va bene) in sedi appartate, non sempre influenti, spesso lontane dai riflettori. La ragione è oggi più derisa che ascoltata. Come si è arrivati a questo punto? Il ritorno delle passioni in Europa è in parte connesso ai fallimenti della ragione durante il decennio di crisi (dal 2008). Molti degli esecutivi in carica – compresa la Commissione di Bruxelles – hanno giocato in modo freddo, basato su regole e numeri. Anni di sacrifici, ripresa incerta. Non si sono comprese le ansie della gente, né soprattutto le loro radici: l’aumento dei rischi, la riduzione delle opportunità, il senso crescente di privazione relativa (rispetto ad altri, rispetto a prima). Un fenomeno che ha interessato tutta la classe media, e tutti i giovani. Frustrazione e rabbia hanno cercato sollievo nella nostalgia del passato, ritenuto più sicuro. Oppure nella ricerca di un futuro radicalmente diverso, costi quello che costi. Intendiamoci, le passioni sono un fattore connaturato alla politica. Ma lo è anche la ragione. Oggi il problema dell’Europa è come recuperare un giusto equilibrio tra ragione e passioni.

Il cattolicesimo politico (non solo italiano) è riuscito a dare vita nel secondo Dopoguerra a un grande e suggestivo scenario europeo. Oggi, in un momento di forte (e spesso strumentale) critica all’intero edificio comunitario, nel nome dei nuovi nazionalismi, occorre più che mai una proposta per una nuova “Assemblea Costituente” europea. Una proposta che possa riprendere il discorso bruscamente abortito nel 2005 sulla Costituzione europea (e sulle radici cristiane) e che assieme alla Costituzione italiana e alla Dottrina Sociale della Chiesa, costituiscono i riferimenti fondamentali della capacità di presenza e della identità politica dei cattolici. A titolo di esempio, pensiamo se al rinnovo del Parlamento europeo del 26 maggio scorso, fossero stati presenti sulle schede elettorali i simboli delle principali famiglie politiche europee (PPE, PSE, Liberali, Verdi) e non dei partiti nazionali, i quali poi devono andare a cercarsi gli apparentamenti (alle volte più inverosimili) per entrare a far parte dei gruppi del Parlamento di Strasburgo. Pensiamo a quanta maggiore chiarezza ci sarebbe per gli elettori e quale passo avanti una tale scheda elettorale segnerebbe, se non ancora verso l’Europa dei popoli, almeno verso quella di più coese rappresentanze (e maggioranze) politiche. L’Europa della non chiarezza, una Unione indebolita dai conflitti interni e priva di slancio, anche nel “rebus” delle nomine dei principali Commissari europei, fa solo il gioco di una politica miope degli Stati Uniti e di una politica interessata della Russia e della Cina.

Una riflessione ulteriore, per i partecipanti al prossimo Convegno nazionale di Rete Bianca, riguarda le dinamiche demografiche da qui al 2040, un futuro molto più prossimo di quanto si creda e tale dunque da costituire una certa priorità nell’agenda politica. Secondo queste previsioni l’Europa (Russia compresa), avrà a quell’epoca intorno ai 700 milioni di cittadini, poco meno di quelli attuali. In Africa saranno circa un miliardo in più degli attuali, in condizioni di vita abbastanza peggiori rispetto alle nostre. Gli immigrati di oggi sono l’avanguardia di un fenomeno migratorio che sarà sempre più impetuoso se non governato con prudenza e lungimiranza politica. Se il destino dei migranti si gioca sul tavolo europeo, anche il destino dell’Europa si gioca sul tavolo delle migrazioni e dunque largamente dell’Africa. Tutto è intrecciato. Ecco perché le migrazioni non sono un problema per “addetti ai lavori” ma, in Italia come in Europa, saranno la cartina di tornasole che ricomprende in sé le maggiori sfide del nostro tempo.                                       

Paura e indifferenza ma anche voglia di mettersi in gioco. Intervista a Gioele Anni

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Monda

Gioele Anni, classe 1990, è un giovane giornalista impegnato nell’Azione cattolica. Ha partecipato molto attivamente al Sinodo sui giovani, con tanta voglia di futuro negli occhi e nella testa. Lo abbiamo incontrato e anche con lui siamo partiti dalla riflessione del sociologo Giuseppe De Rita che parla di due esigenze sociali, la sicurezza e il senso, alle quali rispondono le due autorità, quella civile e quella spirituale, da qui la responsabilità della Chiesa, intesa come istituzione e soprattutto come popolo dei credenti.

«Sicurezza e senso: mi sembra che per la mia generazione le due tematiche siano connesse e quasi sovrapposte. Cerchiamo una sicurezza che non riusciamo a vedere nel futuro, perché c’è una precarietà continua di vita che ti toglie l’orizzonte di senso. Quando tu non hai una prospettiva di stabilità perché mancano le opportunità per realizzarti professionalmente, e quindi per costruire la tua vita, dare forma ai tuoi sogni e aspirazioni, come ad esempio creare una tua famiglia, allora viene meno tutto, anche il senso. E su questo terreno ha gioco facile chi propone soluzioni semplicistiche, mescolando i due elementi. Ma lo spazio per un racconto diverso della vita c’è: è uno spazio ferito, che evidenzia la debolezza della mia generazione, di questa fascia di giovani italiani che viviamo la difficile situazione sociale ereditata dagli ultimi anni».

Il cittadino cattolico che vive una dimensione spirituale, cosa può o deve fare in questa situazione?

Per rispondere a questa domanda bisogna dare uno sguardo al contesto. Se penso ai giovani come me — io ho 28 anni — direi che la maggior parte di noi non ha avuto un rapporto strutturato con le esperienze di fede e di Chiesa. Moltissimi ragazzi sono transitati dalla parrocchia fino alla cresima, poi se ne sono andati e hanno sviluppato un’idea dell’esperienza di fede legata a stereotipi e pregiudizi. Un’idea di Chiesa-istituzione che, addirittura, non riesce a intercettare le domande profonde di senso. Sembra un paradosso ma è così, e questa considerazione è emersa spesso anche nel processo del Sinodo sui giovani. In questo contesto mi sembra che la prima missione per la nostra Chiesa, per la nostra comunità ecclesiale, sia proprio quella di stabilire un contatto con i giovani che si sono allontanati perché non hanno conosciuto l’esperienza di fede come qualcosa di vivo e vitale. Per prima cosa serve mostrare che l’esperienza di fede è appunto un’esperienza viva, un’esperienza di comunità, e che lì, pian piano, in un lungo percorso tu puoi trovare le risposte alle domande di senso che come tutti ti porti dentro. Serve costruire prima di tutto un tessuto di relazioni: così potremo andare oltre l’idea che la vita cristiana si riduca a un percorso funzionale a ottenere dei sacramenti. Questa idea stereotipata della vita di fede nasce anche dai pregiudizi che si hanno rispetto al mondo ecclesiale, spesso frutto di narrazioni mediatiche parziali. Penso in particolare ai casi di scandali clamorosi che non rendono ragione della grande maggioranza delle esperienze in cui le persone incontrano la Chiesa, al cui interno ci sono tanti uomini e donne dediti, lineari, esemplari.

Si capisce dalle tue parole che in realtà la tua è un’esperienza positiva ma che molti tuoi coetanei si sono fermati a un rapporto con la parrocchia abbastanza freddo. C’è qualcosa che non va nella parrocchia? Nella sua forma? Va ripensata? 

Parto proprio dalla mia esperienza: vengo da un contesto di parrocchia piccolissima, perché il mio paese — Bertonico, nella diocesi di Lodi — ha solo mille abitanti. È un’esperienza del “nucleo”, dove ancora la parrocchia è significativa perché è l’unica istituzione vicina alla gente insieme al Comune. Su questo nucleo c’è stato poi l’incontro con l’Azione cattolica, che in tutti i livelli mi ha fatto vivere un’esperienza di Chiesa-comunità, dall’Azione cattolica dei ragazzi alla dimensione del gruppo adolescenti. Poi un primo salto, per me, è stato nell’esperienza del Movimento studenti dell’Azione cattolica, quindi la prospettiva di un impegno concreto nella scuola: mi ha spinto a “uscire” dalla dimensione strettamente parrocchiale per portare una testimonianza lì dove passavo la maggior parte del mio tempo. Ai miei compagni di classe non “fregava” nulla della mia appartenenza ecclesiale, volevano solo capire se potevo offrire qualcosa di concreto. L’esperienza del Movimento studenti invita ad abitare gli spazi di protagonismo della scuola, ad animare le assemblee studentesche, le attività di approfondimento con altri studenti e docenti: uno studente cattolico, inserito in un gruppo, ha spazio per tante proposte anche semplici ma concrete. Alla base di tutto però c’è il dialogo con gli altri, perché se tu porti la tua identità di cristiano-cattolico e proponi solo attività che potresti benissimo fare in parrocchia, questo spazio di dialogo viene meno. Se invece dici: “Qui c’è una cosa concreta da fare, mettiamoci insieme per organizzare un’attività formativa, per organizzare un ciclo di incontri, per trattare in assemblea un tema che interessa a tutti”, allora lì anche dagli altri c’è un’apertura. Il punto d’incontro è sulla concretezza, non sulla base dell’ideologia: puoi trovare disponibilità a fare qualcosa insieme per il bene della comunità. Chiaramente lo stile con cui abitare questo dialogo è conseguenza di una formazione cattolica. 

Questa tua formazione, come incide nel tuo impegno? L’ispirazione che scaturisce dal Vangelo che ruolo gioca? Da come stai raccontando sembra che debba toglierti la “giacca del cattolico” per poter dialogare con gli altri, ma l’appartenenza cattolica non è una “giacca”. 

Direi due cose. Da un lato c’è l’impegno a cercare di trovare quei punti d’incontro, quelle tematiche, quegli spazi d’impegno concreto che possono interessare tutta la comunità, e non solo alla mia sensibilità di cattolico. È un frutto dello sguardo al “bene comune” che cresce in un’esperienza matura di fede. Il secondo punto su cui incide la formazione di credente è il riconoscere che nell’altro, anche se viene da un percorso diverso, c’è un valore, che l’altro mi può insegnare qualcosa. Provo a dirlo con una battuta: una volta abbiamo fatto in parrocchia un incontro su come vengono percepiti i cristiani nella società. Un adolescente ha risposto: “A me della Chiesa non piace questo: sembra che abbia ragione solamente chi ne fa parte”. Il problema è che a volte chi esce da percorsi di formazione come quelli parrocchiali entra poi negli ambienti di vita come portatore di una verità già pronta, che viene proposta senza spazi di mediazione. L’approccio di un dialogo pragmatico, a mio parere, non mette in discussione i nostri valori, ma spinge a trovare prima di tutto i punti d’incontro, come dice il Papa: quei punti che ci uniscono e che sono maggiori di quelli che ci dividono. Da lì si può partire per costruire qualcosa insieme. Primo passo quindi è cominciare ad ascoltare l’altro in cui, anche se non è credente, siamo convinti che ci sia un frammento di Vangelo, un frammento di verità, e da qui partire per costruire qualcosa a partire da ciò che praticamente puoi fare lì dove sei, come sei.

Quindi ad attirarti e coinvolgerti è stata soprattutto l’Azione cattolica?

Sì. Come dicevo, la possibilità di mettermi in gioco concretamente nello spazio della scuola è stata una prima svolta nel mio percorso, utile a uscire dalla logica che la fede cristiana si vive solo nel contesto della parrocchia. Poi altre svolte, a livello molto personale, sono state delle esperienze di servizio, di volontariato, una in particolare in Abruzzo dopo il terremoto, nel 2010. Quell’esperienza mi ha aiutato — come dire — a “de-intellettualizzare” la mia vita di credente. Con questo termine mi riferisco al fatto che forse la formazione che ho ricevuto (insieme alla maggior parte dei mie coetanei) era stata improntata a imparare bene dei concetti, ad apprendere e conoscere bene il catechismo. Forse a volte è mancata un po’ di esperienza concreta. I momenti di volontariato, in particolare questo con le vittime del terremoto, mi hanno portato a pensare: “Qui non spiego niente a nessuno, non devo raccontare che cos’è per me la fede, non devo difendere delle posizioni o delle scelte etiche. Qui sono io con quello che ho, poco o niente, eppure quello che metto a disposizione degli altri può essere utile”.

La tua sensazione è che i giovani della tua generazione siano rimasti a questo approccio intellettuale della fede? Cioè, hanno incontrato una Chiesa che ha proposto solo concetti?

Credo che l’idea di fondo sia questa, perché forse il percorso che ti porta fino ai sacramenti viene ancora associato al percorso scolastico: in qualche modo, la scuola e il catechismo viaggiano quasi paralleli.

Hai in mente una forma alternativa? 

I problemi sono tanti e complessi. Ad esempio al Sinodo sui giovani qualcuno proponeva di spostare più in là il momento della cresima, affiancando il percorso dottrinale a un percorso esperienziale. Sono ragionamenti che vanno studiati e approfonditi nelle giuste sedi, però intanto mi sembra un’intuizione interessante: maggiore spazio alle dinamiche esperienziali. Anche su questo l’Azione cattolica in qualche modo ha lavorato: la “scelta esperienziale” risale già al dopo concilio, ma è un processo che sempre si può aggiornare e ampliare. Mi sembra che le esperienze di Chiesa che attirano i giovani sono quelle che inizialmente ti chiedono di dare un contributo su qualcosa che tocca la tua vita. Poi in un processo, con l’accompagnamento di adulti, con l’accompagnamento di una comunità, arriviamo insieme a definire perché tu ti impegni, che cosa c’è di più profondo in questa tua voglia di spenderti per un bene anche molto concreto, molto semplice. 

Ti dico queste due parole: paura, rancore. Appaiono i sentimenti prevalenti oggi nella società occidentale, contemporanea. Sei d’accordo?

Ne aggiungerei un terzo, che è l’indifferenza. Mi pare che la mia generazione sia soprattutto impaurita; non direi rancorosa, forse questo è un sentimento che appartiene più agli adulti. Riprendo quello che diceva De Rita: il rancore che nasce dalla promessa di futuro che non si è realizzata. Dopo lo choc economico del 2008 abbiamo sentito parlare così tante volte di crisi, di opportunità che vengono meno, da pensare già in partenza che il nostro futuro sarebbe stato peggiore del presente. Questo non ha sviluppato rancore, ma direi una forma di indifferenza alle dinamiche di comunità, perché in fondo devo prima di tutto pensare a salvare me stesso. Quindi direi più paura e indifferenza in questa accezione, per cui non ho tempo di preoccuparmi degli altri, della mia comunità, dal momento che ho bisogno di mettermi prima al sicuro, perché il futuro non c’è per tutti. E questo non fa per forza di me una persona arrabbiata, però mi chiude alla relazione con gli altri. 

Allo stesso tempo però non penso che il nostro tempo sia caratterizzato solo da sentimenti negativi. C’è una disponibilità a mettersi in gioco nuova, diversa. Ne abbiamo parlato spesso durante il Sinodo. Mentre forse gli adulti hanno ancora un’idea di appartenenza ideologica, dove tu sposi una causa e ti senti partecipe, noi abbiamo una forte disponibilità ad attivarci su cause concrete e vicine. Penso a tutti i movimenti ambientalisti, a partire dai Fridays For Future lanciati da Greta Thunberg. Se la questione ci tocca direttamente, se ci rendiamo conto che qualcosa deve cambiare perché così non possiamo andare avanti, sentiamo il desiderio di metterci in gioco.

Alcune persone che ti hanno preceduto in questa serie di interviste, ad esempio il poeta Davide Rondoni, si sono soffermate sull’impatto della tecnologia sulla vita dell’uomo, riflettendo su una possibile mutazione antropologica. Per te che sei quasi un nativo digitale, come sono cambiati i desideri profondi? Come si vive la dimensione dell’affetto e delle relazioni in un’epoca così tecnologica?

Il primo dato è che noi abbiamo un senso di comunità molto più largo. Facciamo delle esperienze, almeno noi giovani del mondo occidentale, che forse la tua generazione iniziava a fare: i viaggi all’estero, l’Erasmus, le vacanze studio estive. Esperienze che ti portano ad avere un senso di appartenenza che è più ampio del paesino, della regione. Credo che questo sia un dato positivo. Abbiamo il mondo in tasca e ci sentiamo cittadini di questo mondo. Ci sono grandi e piccole cause che mettono in moto i giovani in tutto il mondo, in un modo che trenta o quaranta anni fa probabilmente non era pensabile. Questa mi sembra la cosa più interessante. 

Allo stesso tempo mi sembra che le tecnologie portino sempre più a vivere le relazioni dentro delle “bolle”. Se ho una chat di WhatsApp con i mie amici, con la mia compagnia storica, posso andare a scuola e non avere relazioni con i compagni di classe, perché i miei affetti ce li ho in chat. Quello che m’interessa lo condivido con un post, lo condivido scrivendo sul gruppo. Paradossalmente, l’apertura amplissima di cui ti parlavo in realtà rischia di ridursi. Se andiamo poi sulle questioni tematiche, l’effetto “bolla” creato dai social si fa ancora più forte. Il radicamento di posizioni sempre più estreme è anche legato alle modalità di funzionamento di Facebook, Instagram, Twitter: io giovane di oggi posso aver accesso a dei contenuti molto ristretti ma avere la sensazione che tutti la pensino come me, che quello sia l’unico pensiero. Come sempre, strumenti nuovi scatenano dinamiche positive e negative, anche accentuate in un senso o nell’altro.

Il ruolo della Chiesa, delle nostre comunità e dei nostri gruppi, può essere allora quello di aiutarci a far uscire ciascuno dalla sua piccola bolla e di creare (o ritrovare) spazi fisici d’incontro e di dialogo. Forse solo noi, come Chiesa — o anche la scuola, con cui la stessa Chiesa spesso riesce a dialogare — possiamo riconoscere l’urgenza di mettere insieme persone che altrimenti non avrebbero dove incontrarsi, senza avere la tentazione di guardare alla carta d’identità, stimolando processi inclusivi di costruzione del bene comune, del bene possibile. 

Forse si è caricata di troppa aspettativa la comunicazione, cioè il fatto che viviamo l’epoca delle comunicazioni così potenti, così pervasive. Però forse la comunicazione, considerata dal punto di vista meramente tecnico, non basta.

Non è solo comunicazione, è senso di appartenenza. Cercavo di spiegare a mia madre cos’è nato con la serie tv Il Trono di Spade. È sorto un universo in cui ritrovarsi e raccontarsi con tante persone di tutto il mondo, condividere le proprie impressioni, ciò che quella storia ti ha detto. Stiamo ore su Facebook o su Twitter non tanto perché abbiamo qualcosa da comunicare, quanto perché vogliamo sentirci parte di una comunità che condivide il nostro interesse: una serie tv, il calcio, persino le questioni di Chiesa! Ci sono delle pagine Facebook che sono super frequentate e attivissime. Certo, se io condivido i miei interessi solo con persone con cui ho un contatto virtuale, diventa un problema, perché non sempre nella vita ho a che fare con comunità che mi scelgo: sul posto di lavoro, a scuola, non ci sono solo persone con le mie stesse sensibilità. Abbiamo quindi bisogno di vivere esperienze concrete, fisiche, di ascoltare opinioni diverse, modi di pensare diversi. In questo senso, forse, il mondo ecclesiale fa ancora fatica ad accettare che gli spazi virtuali sono spazi profondamente reali. Il Sinodo sui giovani ha posto il tema e ci ha lavorato, ma la narrazione è ancora quella della rete che ti estranea, che ti toglie vita, invece è un ambiente dove la vita c’è, a tutti gli effetti.

Se io dico politica tu che dici? 

Dico che è una cosa complicata e invece ce la vendono semplice. La politica è difficile. È l’arte della mediazione. Come quando fai politica a scuola, all’università, e lì ti rendi conto che devi trovare punti d’incontro fra persone dello stesso gruppo che la pensano diversamente, tra giovani, e poi devi interfacciarti con gli adulti. A noi invece viene spiegato che la politica è l’arte dell’imporsi, del mandare il messaggio più convincente. E le “bolle” di cui dicevo prima, che sono sempre più ridotte, sono funzionali a questa narrazione: quando il mio messaggio raggiunge il target di riferimento e faccio breccia, passo per il più bravo. Mi sembra che l’uso pubblico dei simboli cattolici faccia un po’ parte di questa dinamica, di una semplificazione strumentale che punta a convincere chi fa fatica a comprendere questa complessità.

Quindi come bisognerebbe fare per agire in politica diversamente? I giovani della tua età fuggono dalla politica. 

Sì, fuggono, e mostrano segni di apparente disinteresse. L’astensione non è però del tutto una fuga come ha notato il sociologo Alessandro Rosina analizzando il voto del 4 marzo: i giovani votano chi c’è e fa proposte magari un po’ estreme, oppure si astengono perché intendono dare un segnale, non per disinteresse. Allora, prima che gli spazi della politica partitica, serve innanzitutto valorizzare quelli dell’impegno nella scuola, nell’università, nel sindacato, nella comunità civile. Lì ti formi e ti rendi conto di cos’è l’esperienza politica. E poi c’è bisogno di un enorme lavoro di ricostruzione dei contesti complessi, che vuol dire riuscire a scappare dalla logica del muro contro muro continuo. È chiaro che i messaggi divisivi fanno più breccia, ma mi sembra che le esperienze più efficaci siano quelle che riescono ad aiutare le persone a comprendere i contesti piuttosto che dire “a un messaggio A rispondo con un messaggio B”. Anche se questa operazione richiede molto più tempo.

Un’altra parola: sinodalità; il Papa insiste su questo.

Il Sinodo dei giovani è stata una figata, non so se si può dire su «L’Osservatore Romano». È stata esperienza di sinodalità, l’assemblea sinodale in particolare, ma anche tutto il processo. È un metodo che ha bisogno di tempi lunghi, anche lunghissimi. Il Sinodo dei giovani è iniziato due anni fa ma la sua attuazione sarà molto lunga e avrà bisogno di essere seguita tanto quanto l’evento, perché, altrimenti se la sinodalità si riduce a un evento, si perde; siamo pieni di convegni e di appuntamenti che poi si sono persi. È stata un’esperienza entusiasmante perché ha messo insieme tante differenze: di provenienza, di età, di cultura. Anche nel contesto italiano, però, abbiamo tantissime differenze, tra nord e sud, tra età diverse. Il Sinodo le ha messe insieme dando spazi per vivere momenti formali e informali. Questi ultimi in particolare sono stati decisivi perché hanno permesso di muovere molto profondamente gli affetti. Davanti ad alcune storie di giovani, penso ai giovani dell’Iraq, ad alcune storie di sofferenze e di marginalità, ma anche davanti a storie semplici di comunità cristiane vive e significative, c’è stato un continuo emozionarsi, commuoversi. Ho visto anche i vescovi, anche il Papa, emozionarsi fino alle lacrime, alcuni vescovi facendo i loro interventi hanno pianto. L’incontro con i giovani, soprattutto con i giovani ai margini, nei racconti, anche nella presenza dei questionari che erano stati inviati alla riunione del pre-sinodo ha mosso gli affetti della Chiesa. Tutto il processo, in definitiva, è stato un primo passo per recuperare lo stile dell’informalità, almeno con i giovani. Ricapitolando: riscoprire l’informalità, darsi tempi lunghi e muovere gli affetti sono gli ingredienti che ho riscontrato nella sinodalità. Penso che possano essere elementi che fanno bene anche alla Chiesa italiana in questo orizzonte di lungo periodo per andare ad attingere alle sorgenti vive. Avrei molta paura di un sinodo della Chiesa italiana “romanocentrico”, credo invece che ci serva la periferia, portarla un po’ dentro, uscire un po’ dal centro. Andare nelle periferie e vedere che cosa si muove, che esperienze belle stanno già nascendo spontaneamente. Davvero la realtà è più importante dell’idea: in tanti casi noi pensiamo di dover progettare chissà che cosa, poi andiamo nel gruppo più scalcagnato di provincia e vediamo che ci sono delle cose stupende. 

Ha ragione Matteo Truffelli quando dice, su questo giornale, che c’è una dinamica della sinodalità che va molto oltre l’evento. Un evento sinodale forse potrebbe essere interessante se pensato in due tempi: un momento di sinodalità a livello locale, parrocchiale, diocesano e poi il confronto con l’autorità dei vescovi a Roma. Partiamo dal concreto: che cosa vuol dire essere parrocchia sinodale? Che vuol dire fare sinodalità in parrocchia? Penso che le dinamiche che raccontavo prima si possano portare anche a livello parrocchiale. E poi c’è un confronto con chi ha un ruolo di autorità che è fondamentale per l’esercizio della sinodalità, dove l’autorità deve mettersi al servizio e far crescere tutte le varie parti della comunità. Più vai nel locale e più invece è difficile trovare autorità che si mettano al servizio delle comunità. E non parlo solo di mondo clericale; anche i laici, nel piccolo contesto, nella piccola associazione, a volte sembrano cercare quasi un piccolo spazio di potere.

In conclusione mi sembra che questo è un tempo bello di Chiesa, e direi che anche nello spazio politico ci sono dei fermenti interessanti; c’è anche qualche scenario preoccupante, qualche narrazione che fa un po’ paura, però è bello abitare questo momento, è bello vedere questa Chiesa che è Chiesa in uscita, nel senso che cerca di dialogare con i giovani, con gli adulti, con tante realtà. È bello essere giovani oggi ed è bello far parte della Chiesa oggi. Questa mi sembra la cosa principale che anche nelle attività delle varie associazioni, movimenti, nell’Azione cattolica, nelle parrocchie, è bello far emergere. Non cediamo alle profezie di sventura, come ha detto il Papa iniziando il Sinodo dei giovani.

 

Sul partito d’ispirazione cristiana

Il tema della diaspora dei cattolici non richiede ulteriori rinvii. Non si tratta certamente di non essere sensibili ai richiami, agli appelli e alle indicazioni di una gerarchia che è più attenta all’universalismo, piuttosto che a una identità fondata sulle nostre radici. Le radici sono indispensabili, in politica, come nella morale, nel sociale, come nell’economia, pena un sincretismo ideologico e riduttivo che permette di parlare di +europa e nello stesso tempo fare parte di quella politica minima di supporto alla denatalità che tanto ha inciso da molti decenni, con l’arrivismo politico dei radicali e il cedimento di quota parte dei cattolici democratici a disvalori, nella convinzione che ciò conducesse a una pacificazione sociale.

Perché Sturzo e De Gasperi, nonostante sia trascorso oltre un secolo dalla loro attiva azione politica, sono ancora i nostri maestri e i nostri maggiori interlocutori, e nonostante i rivolgimenti, i cambiamenti, “le rivoluzioni industriali e tecnologiche” che hanno portato l’Italia e l’Europa a una fase critica di impoverimento e di sfiducia? Perché essi hanno saputo incarnare il grido di dolore della povera gente, operando attivamente nei loro territori, Sturzo a Caltagirone e De Gasperi nel Trentino, provvedendo ai bisogni concreti delle persone, delle famiglie, dei gruppi imprenditoriali, che sono i veri motori dell’economia reale, quella che sostiene i valori di piena presenza e di piena capacità produttiva.

Tutto questo, relativo al mondo di oggi, ha un solo significato: la presenza di quel partito – prima PPI, poi DC – che ha costituito la spina dorsale dell’Italia sia come opposizione al fascismo, sia come baluardo al comunismo nel dopoguerra. Ed ora, in questo momento storico, il pensiero e l’azione di Sturzo e De Gasperi rappresentano la campana che risuona nelle piazze e nelle strade, nelle città e nelle campagne; essi sono il nostro inno nazionale che inizia con quel rullio musicale che richiama in un solo punto non solo i cattolici, ma tutti coloro che amano le cose più sane e viventi della nostra esperienza: la difesa della vita nel grembo materno, allo stesso modo che nel barcone, l’accoglienza solidale del focolare familiare, il rispetto e la buona educazione politica, la solidarietà che si fa sussidiarietà e condivisione nel sociale, tutte quelle reti di fiducia (dal latino fides, cioè corda), che fanno di un popolo e di una comunità (l’Europa) una buona unione di civile e di pacifica convivenza.

“Gli affari dei comitati”, sia locali che nazionali, che hanno infestato e stanno infestando i rapporti sociali, politici ed economici, non ci appartengono, perché solo se saremo capaci di dare una svolta alla dimenticanza dei valori e alle nostre divisioni, sarà possibile la presenza, ancor oggi, di una formazione politica, antica in quanto fondata sulla nostra tradizione più ricca e produttiva, nuova, in quanto corrispondente alla sua incorporazione nell’attuale momento storico, in cui l’oblìo delle certezze ha annebbiato le nostre capacità sostanziali di riflettere, comprendere ed elaborare le necessarie contromisure nella vita politica. Quando leggo e sento fare tanti esercizi dialettici, o sento parlare di tanti ripetuti convegni, mi rendo conto che chi li esprime forse non ha inserito la sua presenza nel tessuto sociale lacerato, non ha ancora compreso che continuare nelle vanaglorie e attribuzioni personali, nelle discussioni fini a se stesse, rende ragione delle nostre sconfitte e delle nostre miserie politiche, che sono prese ad esempio, in negativo, dai nostri avversari politici, quelli dei comitati di affari locali e nazionali. Su queste continuano a costruire le loro opportunità, a tutto svantaggio di chi soffre e vive situazioni di grande difficoltà.

Scrisse Alcide De Gasperi, nel suo discorso a Trento in occasione del primo congresso cattolico trentino, il 30 agosto del 1902: “…permettete che io oggi sia assolutamente pratico. Lascerò gli astratti ed esprimerò i nostri ideali concretamente: cattolici, italiani, democratici”. E l’11 febbraio 1903, a Vienna: “Soldati di fede e di entusiasmo, non ci nascondiamo le difficoltà della lotta e soprattutto che gli anni nostri sono di preparazione, e di studio, ma sappiamo che vi sono momenti in cui vale la parola di Goethe: adesso, in questo periodo, nessuno dovrebbe tacere o cedere”.

Andreotti ne racconta l’impegno in questi termini: “De Gasperi divideva il suo tempo tra gli studi e l’organizzazione studentesca e sociale…Accanto a don Endrici andava per la Val di Fiemme o in Folgaria ad organizzare cooperative di consumo e casse rurali, per sottrarre tanta povera gente al dominio degli usurai. La popolazione delle campagne, collegata ai centri di vendita con mezzi scarsi e difficoltosi, che nel periodo invernale venivano addirittura sospesi, era alla mercé di mercanti che nei loro affari non si ispiravano certamente ai precetti evangelici. Altro peso gravante sui contadini era quello dei prestiti e dei mutui che alcuni signori di campagna, non esclusi purtroppo alcuni dei cosiddetti <intransigenti>, effettuavano a tasso elevatissimo…”(De Gasperi e il suo tempo. Trento Vienna Roma, II edizione riveduta e ampliata, dicembre 1964, Mondadori).

Queste memorie danno ragione a coloro che, con spirito di novità e con dedizione, hanno cercato di entrare nelle pieghe locali dei territori, nelle criticità delle anguste miserie di quel popolo che nella storia è sempre stato o carne da macello, o servizio dei potenti del tempo, e che nella sua umiltà e capacità di soffrire, ha offerto la migliore parte di se stesso, costituendo da sempre il più grande esempio di passione civile, umana e solidale.

Una battuta sulle Olimpiadi invernali . Bravo Malagò a crederci

Non credo che questo tipo di votazioni si svolga sul dossier migliore tecnicamente ma su un impatto emotivo generico, su sentimenti di empatia e sulla spinta di un lobbysmo scatenato che usa anche armi “scorrette”.

I popoli nord europei, e gli scandinavi in particolare, vivono abbastanza di rendita al riguardo e sono molto bravi a denigrare i terroni dell’Europa con argomenti di facile presa sui delegati del CIO, che sono piuttosto snob per la loro provenienza dalle élite dei loro Paesi.

Un bel colpo, comunque. Alla fine l’Expo di Milano e la magia di Cortina rispetto ad Are (io ci sono stato…) hanno prevalso, sia pur senza stravincere. Bravo Malagò a crederci e a cementare le istituzioni più che la politica dei partiti.

Donne. Ocmin: “Coordinamento nazionale donne Cisl ha aderito all’iniziativa contro la maternità surrogata”

“Il Coordinamento nazionale donne Cisl ha aderito stamane all’iniziativa promossa dall’ Associazione ‘Se non ora quando-libera’ e da altre realtà contro il riconoscimento per legge della maternità surrogata e della pratica dell’utero in affitto”. Lo dichiara in una nota la Responsabile del Coordinamento Donne della Cisl, Liliana Ocmin.

“Come Coordinamento ci siamo sempre dichiarati contrari alla mercificazione del corpo della donna- sottolinea Ocmin- ed abbiamo cercato di guardare soprattutto all’interesse superiore del nascituro che ha il diritto appunto ad avere una mamma ed un papà certi.

Ciò senza nulla togliere alle scelte personali di ciascuno, ma qui parliamo di diritti e non di desideri personali o questioni ideologiche. Tutto questo è inaccettabile, perciò occorre fare fronte comune su un tema che rischia di condurci verso una deriva sociale disumanizzante. Per questo diciamo con forza ‘No’ ad una legge che regolamenti l’utero in affitto al solo scopo di assecondare “capricci” individuali facendo della maternità addirittura un lavoro. Per noi l’uso commerciale del corpo della donna non potrà mai assurgere a tipologia lavorativa. Per noi non esiste il sex work.

Così come ci siamo opposte all’idea paventata da qualcuno di un ritorno alle “case chiuse” ed all’abolizione della legge Merlin facendole passare come sostegno alla libertà e all’autodeterminazione delle donne. Basta offese alla dignità delle donne e dei bambini”. “E’ bello oggi vedere tanta trasversalità- conclude Ocmin- e quindi consapevolezza su un tema così delicato, serve però un fronte più ampio per arginare i numerosi tentativi di scavalcare i diritti inviolabili delle persone”.

Estate, in vacanza 39 mln di italiani nel 2019

Sono 39 milioni gli italiani che hanno deciso di andare in vacanza nell’estate 2019, un numero sostanzialmente stabile rispetto allo scorso anno.  È quanto emerge da una analisi Coldiretti/Ixe’ divulgata nel primo weekend dopo l’inizio dell’estate, dalla quale si evidenzia una tendenza a ritardare le partenze per le incertezze del meteo dopo un mese di maggio eccezionalmente piovoso con il maltempo che ha rallentato le prenotazioni.

L’Italia resta di gran lunga la destinazione preferita che – sottolinea la Coldiretti – è scelta come meta dal 86% ed è sempre il mare a fare la parte del leone per 7 italiani su 10 (70%), anche se in molti casi in combinazione con le città d’arte, la montagna, i parchi e la campagna.

La maggioranza degli italiani in viaggio – riferisce la Coldiretti – ha scelto di alloggiare in case di proprietà, di parenti e amici o in affitto ma nella classifica delle preferenze ci sono nell’ordine anche alberghi, bed and breakfast, villaggi turistici e gli agriturismi che fanno segnare un aumento del 3% rispetto allo scorso anno anche grazie alla qualificazione e diversificazione dell’offerta ma anche all’ottimo rapporto tra prezzi/qualità.

Per scegliere l’agriturismo giusto il consiglio –  sottolinea la Coldiretti – è quello di rivolgersi su internet a siti come www.campagnamica.it o di scaricare la nuova App di Campagna Amica che permette di scegliere le strutture dove poter soggiornare nei più bei paesaggi della campagna italiana, i mercati di Campagna Amica, le fattorie e le botteghe dove poter comprare il vero made in Italy agroalimentare, a partire dai Sigilli, i prodotti della biodiversità salvati dall’estinzione, ma anche i ristoranti che offrono menù con prodotti acquistati direttamente dagli agricoltori.

Se in piena estate è il mare – spiega Coldiretti – ad essere piu’ gettonato all’inizio e alla fine della stagione turistica estiva particolarmente apprezzate sono anche le scelte alternative per conoscere una Italia cosiddetta “minore” dai parchi alla campagna, dalla montagna fino ai piccoli borghi che fanno da traino al turismo enogastronomico, con ben il 92% delle produzioni tipiche nazionali che nasce nei comuni italiani con meno di cinquemila abitanti.

Con l’estate si mette in moto la stagione estiva dell’intera filiera turistica che – sottolinea la Coldiretti – contempla le imprese che si occupano di alloggio e ristorazione, le agenzie di viaggio e i tour operator ma anche altri settori che integrano e supportano quelli principali (come, ad esempio, i trasporti o le attività ricreative e di intrattenimento) e si compone di 612mila imprese con oltre 700 mila unità locali. Essa rappresenta – conclude la Coldiretti – il 10,1% del sistema produttivo nazionale, superando il settore manifatturiero. Elevata l’incidenza dell’occupazione: con 2,7 milioni di lavoratori, al turismo si deve il 12,6% dell’occupazione nazionale secondo elaborazioni dati Unioncamere.

Refugees got talent: vince la poetessa Hannah Imordi

A vincere il talent – organizzato dalla Rete del Rifugiato, col patrocinio dell’Unhcr, del Comune e dell’arcidiocesi di Catania – è stata la poetessa Hannah Imordi che “ha saputo esprimere, con parole semplici e intense, esaltate da una presenza e da una recitazione di grande impatto emozionale, il senso più profondo e doloroso del viaggio e dell’esperienza in una nuova terra”.

Sul podio anche il cantante Loveth Oluwatobi e il ballerino Soumah Mamadou, che ha ottenuto una borsa di studio dal maestro Lino Privitera per un corso di perfezionamento a “L’Opéra”, centro professionale di danza di Catania.

Sul palco erano 13 i finalisti in gara che hanno fatto ballare, cantare, emozionare il pubblico. Varietà e qualità hanno ispirato la serata che ha potuto svelare al pubblico i tanti talenti nascosti, stranieri e italiani, della città: cantanti rap, reggae, ballerini, danzatori, poeti, musicisti.

Criminalità e corruzione: la Regione Lombardia promuove due giornate formative

In considerazione di un fenomeno del quale si comprende ormai la dimensione, si terranno il 26 e il 27 giugno a Varese, presso l’Ufficio territoriale regionale, due giornate formative inerenti al progetto “Percorsi di formazione e conoscenza contro mafia e corruzione” un’iniziativa promossa dalla Regione Lombardia in collaborazione con Avviso Pubblico. Alla kermesse si discuterà di“Criminalità organizzata e contrasto a riciclaggio, evasione, elusione, racket e usura” con gli interventi di esperti del tema, investigatori e docenti. Due gli eventi: uno a carattere generale e l’altro dai contenuti specialistici al fine di approfondire i diversi aspetti dei fenomeni corruttivi e mafiosi.

Interverranno, tra gli altri, Mario Turla, consulente, esperto di anticorruzione e antiriciclaggio; David Gentili, presidente della Commissione antimafia del Consiglio comunale di Milano; Paola Caccio, vicequestore della Direzione investigativa antimafia; Monica Mori, responsabile antiriciclaggio del Comune di Milano. A moderare i due incontri sarà Francesco Vignola, responsabile del Dipartimento formazione di Avviso Pubblico.

Il racket è quella forma di crimine estorsivo che agisce nei confronti di operatori economici e di chi detiene la proprietà di un’azienda (negozio, cantiere, fabbrica) che produce reddito. L’estorsore applica una strategia di minaccia e intimidazione per spaventare l’operatore economico (senza tuttavia annientarlo, per non perdere una fonte di reddito). L’estorsore si manifesta poi per offrire protezione in cambio di somme di denaro, il cosiddetto “pizzo”.

L’usura è, invece, lo sfruttamento del bisogno di denaro di un altro individuo per procacciarsi un forte guadagno illecito. Nel rapporto usurario ci sono dunque la necessità di denaro e un’offerta che può apparire come un’immediata possibile soluzione per chi si trova in difficoltà. Viene così concesso un prestito a un tasso d’interesse superiore al cosiddetto “tasso soglia”, rilevato ogni tre mesi dal Mef e pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, che si calcola aumentando del 50% il tasso effettivo globale medio relativo ai vari tipi di operazioni creditizie.

Il fenomeno della criminalità organizzata, estorsioni e usura al Nord è un fenomeno relativamente recente che purtroppo sta crescendo in questi anni. I negozianti, gli imprenditori, i manager non sempre sono preparati alla complessità e alla rischiosità del fenomeno mafioso, che può manifestarsi attraverso diversi molteplici varchi. Nel quadro d’insieme, oltre alla difesa sociale, un ruolo chiave è certamente rappresentato dalla la formazione dei decisori aziendali a vari livelli.

Talvolta il processo d’infiltrazione è facilitato da soggetti che popolano la cosiddetta zona grigia, vale a dire persone che agiscono nella sfera economica legale, in quella politica e civile intrattenendo rapporti di scambio con coloro che appartengono ai nuclei criminali e facendo da tramite tra questi e l’impresa legale. Accanto a tali soggetti operano intermediari, persone affiliate o comunque vicine alla criminalità organizzata che hanno l’obiettivo di individuare e avvicinare le potenziali vittime, traendone a loro volta un vantaggio. Per combattere la piaga dell’usura, della corruzione, della concussione occorre un grande quanto corale, impegno educativo, profonda etica della cittadinanza e del bene comune, una reale presa di coscienza della dimensione e della pervasività del problema che non conosce confini.

 

Il luogo di cura per intervento chirurgico oncologico: una scelta consapevole del paziente

Siamo sempre più attenti alla ricerca del luogo giusto dove poter acquistare il prodotto migliore, dove poter mangiare il cibo migliore… poniamo sempre maggiore attenzione alla qualità del prodotto e alla sua certificazione. Leggiamo con attenzione le etichette – sempre più complete di informazioni – e consultiamo con criticità le guide che svelano la bontà dei servizi offerti.

Questa modalità di scelta ha contaminato anche il mondo della salute. Abituati ormai a questa forma mentis, i cittadini sono indotti a cercare quegli strumenti che possano aiutarli a scegliere il luogo di cura più adeguato per le proprie esigenze di salute.

Per questo motivo è richiesto uno sforzo nella ricerca di “indicatori” – oggi in parte forniti dal Programma Nazionale Esiti (PNE) di Agenas – che siano utili e adatti a identificare i luoghi di cura più adeguati. Istituzioni e Società Scientifiche sono chiamate a portare avanti questo impegno.

Questa scelta deve tener conto sia dei volumi di attività chirurgica, ma anche delle buone pratiche assistenziali che prima, durante e dopo l’intervento chirurgico devono accompagnare il paziente oncologico nel suo percorso di cura.

In altre parole, la soglia minima di interventi annui prevista dagli standard resta un indicatore fondamentale, ma in Italia varie realtà sono ‘sotto’: così, nel 2017 solo il 27% delle struttura ha eseguito almeno 70 interventi al polmone all’anno e soltanto il 23% ha superato 20 operazioni allo stomaco. Al contrario, è dimostrato che la mortalità a 30 giorni dopo l’intervento chirurgico diminuisce decisamente nei centri con almeno 50-70 interventi all’anno per tumore del polmone, nei centri con almeno 50 interventi per carcinoma del pancreas e nei centri con 20-30 interventi per tumore dello stomaco. La scelta del luogo di cura può dunque fare la differenza. Dall’altro lato, l’Italia registra miglioramenti nel cancro al seno: nel 2017, il 20% degli ospedali ha effettuato almeno 150 interventi chirurgici, lo standard stabilito per legge, rispetto al 16,5% del 2015.

Tabacci, il centro e i cattolici.

Foto centro democratico

E’ sicuramente positiva l’elezione di Bruno Tabacci a Presidente della formazione +Europa. Al di là e al di fuori dei radicali, la presenza di Tabacci è la conferma che qualcosa si muove nell’area riformista e democratica del centro sinistra. Una elezione che rappresenta un tassello importante in vista della costruzione di un centro riformista, di governo, innovativo e che sia in grado di intercettare una fetta di elettorato che tuttora si rifugia nell’astensionismo o che, al contempo, vota stancamente i partiti esistenti.

Certo, per costruire un luogo politico credibile e che non sia solo un posizionamento tattico o un escamotage funzionale ad una pura rendita di posizione, è necessario che questo sia un movimento/partito plurale. Nessuna deriva identitaria, nessuna logica autoreferenziale e, soprattutto, nessuna tentazione di autosufficienza culturale. In un luogo politico plurale si entra con la propria identità culturale, ideale e a volte, forse, anche etica e si raggiunge poi una sintesi politica solo attraverso il pieno recupero della “cultura della mediazione”. Un metodo e una prassi che, da sempre, caratterizzano il cattolicesimo democratico e popolare.

È questa, dunque, la vera priorità che caratterizza oggi un’area politica che rischia di essere catturata dalla nostalgia da un lato – e quindi si fa forza della sua autosufficienza e autoreferenzialita’ – e che, dall’altro, si affretta a dichiarare con troppo anticipo con chi si alleera’ in vista delle elezioni. Anticipate o meno che siano. Un doppio errore che deve essere battuto alla radice pena la riduzione del “centro” ad un luogo politico troppo debole per essere competitivo e quindi condizionante.

Ed è lungo questo crinale che si inserisce il tema della presenza e del ruolo dei cattolici democratici e popolari. È perfettamente inutile, anche se comprensibile, continuare un dibattito dove si evidenzia l’impossibilità di confluire in qualsiasi partito e contenitore sognando ad occhi aperti di percorrere un tragitto identitario ed autosufficiente. Un percorso rispettabile ma puramente e seccamente testimoniale e quindi politicamente sterile ed inconcludente. Come hanno confermato ripetutamente tutte le elezioni a livello nazionale e a livello locale. Ed è giunto anche il momento, quindi, di “trafficare i propri talenti” per dirla con Rosy Bindi. Sotto questo versante saremo giudicati e, soprattutto, sara’ valutato il nostro progetto politico, la nostra iniziativa culturale e il nostro comportamento organizzativo. La riflessione e il dibattito culturale e prepolitico continuano ad essere indispensabili e necessari ma adesso è il momento dell’azione. Piaccia o non piaccia a tutti noi.

Infante, I cattolici dinanzi alla “grande alleanza” per il Paese.

Mi pare che l’ultimo intervento di Lorenzo Dellai prosegua sulla linea di un suo serissimo ragionamento su alcuni punti fondamentali. Una volta chiariti, possono davvero servire ad avviare un processo di “ ricomposizione” di un’area finita nell’irrilevanza.

Sono così chiari gli antefatti che appare superfluo il tornarci sopra. A partire dalla questione del “ nuovo soggetto politico” da costruire su cui, da tempo, è stata avviata una riflessione sia su Il Domani d’Italia, sia su Politica Insieme, oltre ad essere stata recentemente oggetto di ampia discussione all’interno della intera realtà cattolica italiana.

Ci sarebbe molto da discutere sul fatto che la crisi dei partiti italiani, simile a quelli di altre realtà europee, ma differente da altri ancora, sempre europei, non debba proprio essere fatta risalire alla mancanza di quella identità che, giustamente, Lorenzo Dellai collega al “ legame tra la ‘politica’ e il suo profilo culturale”.

Gran parte della crisi delle organizzazioni politiche è, infatti, crisi di idealità. Come scrisse il Capograssi è il frutto dello “ staccarsi dai centri della vita, dai principi della vita, dalle morali e dai diritti della vita”, da parte di quelle “classi di professionisti della politica, i quali cercano di utilizzarla a proprio profitto”. (Giuseppe Capograssi, “ Considerazioni sullo Stato”, pubblicato postumo nel 1958)

E’ vero che i “ valori” e una “visione” non sono sufficienti a sostanziare da soli una presenza politica. L’energia “ rivoluzionaria” del popolarismo sta proprio qui: nella capacità di tradurre valori e visione nella costruzione di un “partito vitale”, lungo “vie precise e finalità concrete” ( Luigi Sturzo: I problemi della vita nazionale dei cattolici italiani- 29 dicembre 1905).

Questo ragionamento, come ricorda Dellai, oltrepassa la ricerca di un mero posizionamento “ geometrico” nella dialettica politica.

Va al di là dei concetti di “buon senso” e di moderazione”. Due termini cui don Luigi, dopo di lui concordarono De Gasperi e Moro, riconosce l’importanza come “metodo”, non certo come sostanza. Sturzo, infatti, fece parte di quel filone di “ intransigenti”capace di portare l’intransigentismo, che molti confusero, alcuni lo confondono ancora oggi, con l’integralismo, ad uno sbocco popolare e democratico.

In fondo, è all’intransigentismo che risale quel concetto di “autonomia” da non intendere quale separatezza presuntuosa o autorefenzialità. Bensì, riconoscimento realistico ed obiettivo che nessuna altra proposta possa pienamente rispondere ai problemi del Paese secondo le finalità perseguite in base a quella “soggettività politica”, ricordata da Lorenzo Dellai, necessaria a portare nella dialettica pubblica specifiche istanze sociali, ideali e morali.

E’ per me estremamente facile esprimere l’assoluta convergenza di valutazioni con Lorenzo Dellai sulla necessità di arrivare al superamento della fase “ pre politica”, dimensione sempre apparsami vaga, oltre che delle titubanze e, soprattutto, di quelle ” circospezioni tattiche” tanto care, purtroppo, ad alcuni uomini ed organizzazioni del nostro mondo nel corso degli ultimi 25 anni.

E’ necessario attingere alla forza dell’antico popolarismo e della successiva esperienza degasperiana e morotea per quel molto di “vitale”, nel sociale e nel politico, in esse contenute e in grado di riproporre una specificità e un’autonomia da metabolizzare e declinare intelligentemente nel tempo in cui ci è dato di vivere.

Non ci si può abbandonare, dunque, all’idea accademica di una trasposizione sic et simpliciter ai giorni nostri. Allo stesso tempo, neppure ci si può riferire alle più recenti esperienze, come quella della ” Margherita”, nate, e purtroppo decedute, in un contesto molto diverso da quello odierno.

L’Italia, e in essa le forze politiche e le dinamiche collettive dell’oggi, è diversa. Ha attraversato e sta affrontando una mutazione “ genetica”: differenti le segmentazioni della società, gli individui, le famiglie e i più complessivi snodi economico-sociali ed internazionali.

Sarebbe esiziale non registrare ciò e, sulla base della conoscenza e della consapevolezza di ciò, non avviare una “ riaggregazione” il cui punto di partenza, ma anche il suo sbocco finale, sia la capacità di avanzare una adeguata “proposta al Paese”.

Anch’io ho appena sostenuto la necessità (https://www.politicainsieme.com/?p=2140 ) di proporre ad una consistente parte del mondo laico di partecipare ad una “ grande alleanza”. In gioco c’è, infatti, una generale rigenerazione. Non solo dei cattolici e del loro eventuale riaggregato movimento politico.

Una sfida in cui saremmo costretti a misurare la nostra laicità, la capacità di proposta e di conquistare consenso. L’impegno, però, richiama pure la sincera partecipazione di altri, determinati a collaborare alla ricostruzione non per via ideologica, ma fattuale e concreta.

Gli intellettuali e gli editorialisti espressione di vari mondi laici da tempo indicano questa prospettiva e credo sia giunto il momento di vedere le nostre carte e quelle loro e di quanti altri sono intenzionati ad un superamento di una fase di oggettiva “ confusione” e contraddittorietà politica e legislativa.

La questione europea concorrerà a farci giungere al “dunque” lungo questo percorso. Noi dovremmo farci trovare pronti. Cominciando dal superare le dinamiche di un mondo cattolico indaffarato solo ad interloquire al proprio interno, spesso senza alcun costrutto.

E’ stato, infatti, perso il senso della “ dinamicità” della politica italiana e si è rimasti rinchiusi nei vecchi stati di fatto creati da 25 anni di diaspora. Tante le opportunità perdute!

E’ fondamentale, come sottolinea, Lorenzo Dellai, partecipare sulla base di un “ proprio originale e peculiare contributo alla ricostruzione di una idea “sociale e comunitaria” della democrazia e di un suo rinnovato ed esigente “compromesso” con il capitalismo, che rilanci la tutela “delle attese della povera gente” e riaffermi il primato della “Comunità” sullo Stato e sul Mercato.

Non può la nostra essere, però, una prospettiva unidirezionale, interessata solo ad una parte dello scacchiere politico italiano.

C’è un grande fermento anche tra gli amici ispirati cristianamente che hanno vissuto esperienze al di là di quella che per circa 20 anni è stata una “ barricata” irta ed invalicabile. Dobbiamo porci questa questione o no? O dobbiamo continuare a vivere l’oggi con il retaggio delle divisioni del passato e delle sue superate dinamiche politico – parlamentari?

Guardando a provenienze dal centrodestra o dal centrosinistra, non mancherà certo il discernimento per valutare uomini e cose, sincerità negli intendimenti, capacità propositiva. Si tratta di curare vecchie e nuove relazioni. A partire da quelle che si definiscono spontaneamente nelle realtà locali.

Un punto cruciale è certamente rappresentato dalle questioni eticamente sensibili su cui sono state registrate oggettive difficoltà ad intervenire.

Tra poco giungerà l’appuntamento su di una parte della legge sul fine vita che, se non adeguatamente affrontata entro il prossimo 24 settembre, potrà realisticamente far diventare l’Italia paese in cui sarà di fatto legalizzata l’eutanasia. Verso questo sbocco già in molti premono. Del resto, anche forze economiche ed imprenditoriali importanti sono interessate a trasformare il fine vita in un ulteriore settore di affari. Sono già pronte le cliniche specializzate, la formazione di personale, l’organizzazione e i medicinali adatti all’uso.

Io sto fermo alle recenti riflessioni di Domenico Galbiati (https://www.politicainsieme.com/?p=2052 ) sulla necessità di aprire un tavolo comune. Superiamo, dunque, i silenzi e i tatticismi e non lasciamo la battaglia per la vita e per una morte dignitosa a quelli che, davvero in questi anni, hanno finito per presentarsi come gli “ ultimi dei mohicani”, da una parte e dall’altra.

E’ probabile che i prossimi eventi congiureranno affinché la “ risistemazione” di casa nostra possa coincidere, e in qualche modo sovrapporsi, con la necessità di interloquire e avviare relazioni con altri. Ma questa seconda esigenza non può sostituire la prima, non può divenire la scappatoia per non risolvere i nostri problemi o aiutare altri a non risolvere i propri.

Su questo punto, vedo una varietà di posizioni tra tutti gli orbitanti attorno a Il Domani d’Italia, alla Rete Bianca e oltre. Cosa, del resto, che mi sembra sottintendere anche una parte del ragionamento di Dellai, se addirittura non trova in essa lo stimolo.

Si va da amici ancora inseriti a pieno titolo nel Pd, ad altri che vivono una sorta di “ vedovanza” nei confronti del partito di Zingaretti. Altri ancora si ritrovano attorno a quel capezzale, in attesa di una “ resurrezione”.

In molti, però, o almeno io ho capito così, hanno raggiunto invece il convincimento della necessità di “ convenire” attorno ad un processo nuovo ed originale di riaggregazione che nell’autonomia individua un elemento sostanziale e di metodo.

Credo sia necessario precisare, a questo punto, qualcosa su Politica Insieme. Essa non è stata concepita perché debba costituire il “ contenitore”. Si tratta, invece, di uno sforzo di progressivo allargamento di una nuova sensibilità e di un richiamo verso un progetto più ampio. E’ quello che ci chiede tanta gente ritrovata nel corso dei mesi scorsi sul territorio.

La convergenza esclude un “ convenire” d’ordine gerarchico. Così come, può divenire sostanziale ricchezza comune, grazie alla pluralità di toni e di accenti, se davvero parte di una stessa lingua.

Persino le caratteristiche dei singoli possono esplicitarsi meglio in un percorso più ampio, destinato a coinvolgere con intenti inclusivi, su di un piede effettivo di parità, tutte le espressioni, singole o di gruppo, e quanti sono ancora oggi animati da una ispirazione cristiana e volenterosi di articolarla laicamente sulle cose concrete.

Si tratta di voler fare assieme la strada, che però prima o poi si dovrebbe pur imboccare davvero, oltre che essere declamata, dedicandoci con animo aperto e costruttivo con tutte le amiche e gli amici dal comune e coincidente richiamo ideale, ma che non sono riusciti finora a tradurlo in un impegno convergente di personalità, idealità ed intenti.

Cattolici e politica: Dianich (teologo), “scollamento della vita di fede da responsabilità politiche”

Fonte Agensir

“L’attuale insignificanza dei cattolici in politica è il sintomo di un avvenuto scollamento della vita di fede del credente dalla percezione delle sue responsabilità politiche”. Lo scrive il teologo Severino Dianich nel numero di luglio di Vita pastorale, anticipato al Sir. “Non pochi cattolici, nella valutazione della situazione presente, sembrano poco preoccupati di confrontare il proprio giudizio politico con l’insegnamento del Vangelo – aggiunge -. Appena lo si fa, risulta molto arduo poter simpatizzare con l’attuale impressionante revival del ‘nazionalismo’ e le sue politiche sulle migrazioni”.

Dianich pone in evidenza l’opportunità di “giudicare se sia un’operazione compatibile con il Vangelo sostituire il ‘Prima di tutto noi’ al ‘Prima i poveri’, l’orgoglio nazionale alla fraternità universale, la difesa del proprio benessere alla solidarietà, la chiusura dei confini all’accoglienza dei poveri, il ‘Basta stranieri in casa nostra’ all’’Ero straniero e mi avete accolto’ di Matteo 25,35”. Consapevole che “l’applicazione degli imperativi evangelici in politica sia un’operazione complessa”, il teologo osserva che “il cristiano, qualunque sia la sua scelta, dovrà avanzare all’interno del suo schieramento le esigenze della fede”. Soffermandosi sullo “scollamento tra la coscienza di fede e le scelte politiche”, Dianich l’attribuisce al fatto che “nella vita delle comunità è prevalso un atteggiamento di disimpegno”.

“Le migliori energie sociali dei cattolici si sono incanalate nel volontariato, disertando il campo della politica. Invece di favorire il dialogo tra i diversi orientamenti sui problemi emergenti, chiamando tutti a confrontarsi con il Vangelo, s’è preferito, per evitare spaccature nelle comunità, silenziare le questioni politiche”.

Di cosa dovrebbero (pre)occuparsi davvero progressisti e populisti

Fonte Agi

“Le prime luci dell’alba cominciavano a illuminare lo splendido tempio di Atena a Palmira, in Siria, quando improvvisamente una turba di uomini concitati, vestiti di nero e con la barba lunga fece irruzione al suo interno. Sorretti da un inflessibile senso di rettitudine morale, erano venuti per distruggere quello che ai loro occhi era un intollerabile esempio di idolatria, retaggio di un passato pagano e perverso. In poco tempo essi portarono a termine la loro azione, facendo precipitare la statua e quindi vandalizzandola insieme al resto del tempio.”[i]

Non è il resoconto di quanto avvenne nella stessa città nel 2015 ad opera dell’Isis. Siamo invece nel 380 d.c. circa e gli assalitori erano dei convertiti a una nuova religione monoteista che in quegli anni si andava diffondendo nel Medio Oriente molto più velocemente che nel resto dell’impero romano: il cristianesimo.

A poco meno di due millenni di distanza, gli uomini dell’Isis, mossi, a sentir loro, dalle stesse buone intenzioni, si sono dovuti così accontentare di completare l’opera, riducendo in polvere le poche macerie che ancora resistevano sul terreno.

Non si tratta di casi isolati. A ben vedere, infatti, la distruzione violenta delle vestigia del passato è una pratica ricorrente che spesso segna l’alba delle biforcazioni della storia, quando l’incontro con altre culture e/o il mutamento delle condizioni e dei rapporti economici si accompagna a un’improvvisa sensazione di inadeguatezza del sistema vigente di valori e di relazioni sociali.

Le cronache sul recente incendio della cattedrale di Notre-Dame ci hanno permesso di ricordare che le numerose statue che la circondavano furono tutte “decapitate” dai giacobini ben prima di tagliare la testa al re. In tempi più prossimi a noi, i talebani, quando ancora governavano l’Afganistan, distrussero due gigantesche e millenarie statue del Budda, inserite dall’Unesco fra i patrimoni dell’umanità. Nel 2012, pochi mesi dopo che l’Unesco aveva attribuito analoga qualifica alla città di Timbuctu in Mali, i militanti di “al-Qaeda nel Maghreb” rasero al suolo gli antichi mausolei dei “santi” sufi (appartenenti a una corrente “moderata” ma irrituale dell’islam) che rappresentavano la ricchezza culturale del luogo.

Quando abbiamo notizia di questi eventi la nostra riprovazione è totale e sincera, com’è giusto che sia. La cosa sorprendente però è che fra coloro che si indignano vi è chi ritiene invece cosa giusta e necessaria la rimozione di monumenti dedicati a personaggi del passato le cui gesta o il cui pensiero sono ritenuti incompatibili con i nuovi valori che si vanno affermando in occidente. Il fenomeno è per ora concentrato soprattutto negli Stati Uniti, dove si abbattono le statue di Cristoforo Colombo e dei generali sudisti e nelle cui università vengono messi all’indice autori non in linea con le nuove sensibilità.

Coloro che promuovono queste azioni costituiscono un’avanguardia estrema delle nuove convenzioni sociali, ma, non diversamente dai “distruttori” islamici, essi rappresentano l’epifenomeno di una più ampia e diffusa reazione agli stravolgimenti delle relazioni economiche e sociali indotti dalla globalizzazione.

L’apertura dei mercati commerciali e finanziari avviata sul finire degli anni ’80 si è risolta, infatti, in una enorme redistribuzione del reddito planetario che ha beneficiato soprattutto la Cina, l’India e alcuni Paesi del sud-est asiatico. Per la maggior parte degli altri Paesi di quello che un tempo era definito “terzo mondo”, invece, la globalizzazione si è tradotta in un netto peggioramento delle condizioni economiche relative, con l’aggravante del “disordine sociale” determinato dall’irruzione, anche tramite Internet e i social, di costumi e sistemi valoriali sviluppatisi in società (le nostre) che avevano sperimentato un diverso sviluppo economico e sociale.

Non dovremmo sorprenderci quindi che la popolazione di questi Paesi reagisca rigettando la cultura e i valori provenienti dall’esterno. A fronte di quella che percepiscono come un’indebita e perniciosa “invasione”, essi cercano invece di recuperare sicurezza e protezione nelle proprie tradizioni e credenze. Con un po’ di supponenza mista a ingenuità noi occidentali avevamo inizialmente intepretato i tumulti succedutisi nel medio oriente (la cosiddetta “primavera araba”) come un anelito di quei popoli ad acquisire il nostro modello di democrazia e di costumi sociali, mentre proprio da questo intendevano allontanarsi per rifugiarsi nelle proprie consuetudini più arcaiche e radicate, fra cui è naturalmente centrale quella religiosa.

Le cose sono andate diversamente nei Paesi occidentali dove inquietudini qualitativamente non diverse hanno trovato sfogo soprattutto nella cabina elettorale, dando origine ai movimenti “populisti”. In realtà, appare sempre più evidente che all’interno di questi Paesi si va consolidando una netta contrapposizione fra due “tribù” che mostrano una diversa gerarchia di valori e una diversa rappresentazione della realtà quotidiana e delle priorità da affrontare.

Da una parte c’è una maggioranza rappresentata dai “perdenti” della globalizzazione, da coloro cioè che negli ultimi decenni hanno subito l’impatto diretto della nuova e più ampia competizione internazionale e della contestuale distruzione delle preesistenti relazioni economiche indotta dalle nuove tecnologie. Essi, soprattutto dopo la crisi economico-finanziaria del 2008 ricaduta in gran parte sulle loro spalle, sperimentano un deterioramento progressivo delle proprie condizioni economiche, una crescente incertezza sulle prospettive future, un graduale ma inesorabile scadimento del proprio ruolo, e quindi della propria dignità, all’interno della società.

Per comodità descrittiva li chiameremo “stanziali”, perché in larga parte, non partecipando ai fasti della globalizzazione, restano radicati ai luoghi di origine: i paesi , le piccole città e le periferie di quelle grandi.

Sul fronte opposto vi è una minoranza, per ora consistente e soprattutto influente, che invece si trova a suo agio nelle nuove relazioni economiche e sociali introdotte dalla globalizzazione. Li chiameremo “cosmopoliti”, perché non si sentono radicati a un particolare luogo, ma ambiscono a sentirsi cittadini del mondo, in ciò spesso agevolati dall’appartenenza a network internazionali: l’informazione, lo spettacolo, le università, la moda, la ricerca scientifica, la finanza, solo per citare alcuni esempi. In buona sostanza, essi hanno sostituito i modelli relazionali tipici delle comunità chiuse con quelli propri di questi network, che per forza di cose sono il risultato di una mediazione fra culture diverse.

La contrapposizione fra queste due tribù è pertanto particolarmente accesa sul fronte del sistema dei valori di riferimento. Gli “stanziali” ritengono ragionevole difendere quelli identitari delle comunità a cui sono legati e che sentono minacciati da forze esterne e incontrollabili. A fronte di questo attacco economico e culturale, essi reagiscono, non diversamente dai loro omologhi del terzo mondo, cercando riparo e sicurezza in tutto ciò che rafforza il loro senso di appartenenza, come le tradizioni, la famiglia e la religione. Non sorprende che questa tendenza si accompagni e anzi venga rafforzata dal rigetto e dall’ostilità verso il “diverso”, colui che non appartiene alla comunità e non ne condivide i valori.

Da parte loro i “cosmopoliti”, in virtù del loro “sradicamento”, tendono a sviluppare un’identità più fluida, enfatizzando il proprio individualismo. Per loro la diversità è un valore da tutelare e allo stesso tempo privilegiano la libertà rispetto alla sicurezza, l’autonomia rispetto all’autorità e la creatività rispetto alla disciplina. Tutto il contrario degli “stanziali”.

Ma è soprattutto sul piano della regolamentazione della sessualità, che la contrapposizione fra i due gruppi emerge con maggiore nettezza. Il contenimento e la disciplina della competizione sessuale è essenziale per un’ordinata convivenza e, fin dalle società più antiche, esso è avvenuto attraverso l’attribuzione di ruoli e comportamenti predefiniti per i maschi e le femmine e una regolamentazione delle relazioni sessuali e della protezione dei figli. Centrale in questo processo di normalizzazione della sessualità è la funzione svolta dalle religioni.

Queste regole appaiono agli occhi dei secolarizzati “cosmopoliti” come un orpello retrogrado, proprio di una società oscurantista e chiusa che ci siamo lasciati alle spalle. Il problema è che al loro posto essi desiderano introdurne altre, apparentemente più aperte e flessibili, ma che nei fatti si rivelano invece altrettanto prescrittive e repressive.

Vediamo così che, non diversamente da quanto sempre accaduto in passato, viene posta in primo piano la regolamentazione della condizione delle donne, di cui si reclama ora una piena emancipazione dal ruolo atavico loro assegnato all’interno della comunità, accompagnata però dall’introduzione di nuove, severe e, per la verità, ancora un po’ confuse regole di ingaggio sesssuale.

Appare inquietante, solo per fare un esempio, che alcune fra le principali testate giornalistiche si siano sentite in dovere di pubblicare un vademecum, con tanto di illustrazioni esplicative, dei comportamenti “corretti” con cui ci si deve rapportare all’altro sesso, implicitamente avallando l’introduzione di nuove categorie di tabù.

Alle campagne “educative” e alla “political correctness” dei “cosmopoliti”, gli “stanziali” rispondono enfatizzando l’importanza dei simboli religiosi (il rosario di Salvini) oppure entrando nel campo avversario dei “diritti civili”, riproponendo, come sta accadendo in alcuni stati americani, il divieto di aborto.

Un osservatore obiettivo non mancherà di restare sorpreso dall’assertività acritica con cui le due tribù portano avanti le proprie posizioni, ciascuna senza prendere neanche in considerazione le possibili ragioni dell’altra. Eppure, se non viene ricomposta, questa faglia che si sta creando all’interno delle nostre società rischia di mettere in crisi lo stesso sistema democratico. I risultati elettorali, fuori e dentro il nostro Paese, sono un chiaro segnale d’allarme.

A rigore, spetterebbe alla tribù dei “cosmopoliti”, con la quale si identifica larga parte della classe dirigente, liberarsi dalla compiacenza mista a gratificazione con cui hanno abbracciato il nuovo sistema di valori, elevandolo ingenuamente a modello universale, la cui correttezza sarebbe di tutta evidenza e incontestabile. Non dovrebbe mai essere dimenticato che proprio sulle verità “facili” e incontrovertibili (per cui, chi non le condivide o è in malafede o stupido) poggiano gli estremismi che nel migliore dei casi si manifestano con la distruzione di statue.

Sarebbe auspicabile invece che venisse dedicato almeno una parte dell’ardore e del senso di urgenza con cui sono condotte le battaglie, pur legittime in principio, per i cosiddetti “diritti civili” a quelli che sono i veri problemi che attanagliano le nostre società e che ne stanno minando la coesione interna: la scomparsa dell’ “ascensore sociale”, la ripartizione sempre più squilibrata del reddito prodotto fra capitale e lavoro, l’ipertrofia della finanza, il calo apparentemente inarrestabile della produttività, l’impatto delle nuove tecnologie sul mondo del lavoro, per citarne alcuni. E’ dall’incapacità di affrontare questi problemi che originano le fratture all’interno della nostra società.

Non ci sono ricette facili e soprattutto non possono essere adottate da singoli Paesi, ma almeno cominciamo a parlarne, prendendo atto del fallimento dell’attuale modello di sviluppo di matrice anglosassone. Abbiamo il vantaggio, mai abbastanza sottolineato, di poter condurre questa riflessione all’interno di una grande comunità di Paesi accomunati da millenni di storia e civiltà alle proprie spalle.

Nel frattempo, non vi dovrebbe essere alcuna indulgenza nei confronti di coloro che abbattono i monumenti del passato, a qualunque tribù appartengano.

Caso Regeni, La denuncia deve restare. Fedriga (FVG) ci ripensi.

Del tutto improvvido è sembrato il gesto di Massimiliano Fedriga. Togliere la denuncia che la coscienza del nostro Paese rivolge al Governo Egiziano per nascondere la verità sulla tragica e orribile sorte di un giovane nostro concittadino, di Giulio Regeni, non ha alcuna giustificazione. Poteva sicuramente toglierlo per il periodo attinente alla pubblicità di un evento sportivo estivo, ma giustificarlo dicendo che l’avrebbe riposizionato il giorno successivo. Argomentare, come ha fatto il Presidente, è un gesto intellettuale, prima che etico e politico, per me incomprensibile.

A parlare non è in questo caso l’uomo politico, ma l’uomo che risponde alla propria coscienza. È  quest’ultima che mi spinge a muovere questa critica e questa osservazione. Fossi in Fedriga, come può capitare a chiunque, sentendo le proteste che da più parti gli sono piovute addosso, ritornerei sui miei passi.

Il dolore insopportabile per la perdita del giovane ricercatore di Fiumicello, uno dei nostri ragazzi, dovuta a torture con conclusione tragica, è un dolore che non può essere mai dimenticato. Ne va della nostra dimensione intima, culturale e religiosa.

Anche dovesse, come si vede un po’ ovunque, sbiadirsi il giallo degli striscioni, non potrà mai tingersi il dovere di un Paese nei confronti del diritto almeno alla Verità della sua drammatica scomparsa.

Hanno cercato in mille modi di aggirare e depistare la drammatica scomparsa del giovane Giulio e se adesso dovessimo dar segno di stanchezza – e togliere lo striscione ne è un inconfondibile indice – allora cederemmo a queste inqualificabili risposte egiziane e mancheremmo di rispetto all’immenso dolore dei genitori.

Invece, non dobbiamo demordere, perché è in gioco una profonda credibilità etico-politica.

Per questo motivo, sapendo che il Presidente è uso ascoltare le osservazioni che gli provengono, non tarderà a rimediare al guasto prodotto.

Con ciò, non rivelerebbe una fragilità ideale, quanto un acquisto impagabile di stile e di forza. So quanto tutto questo sia complicato, non voglio farla facile e semplice, perché, nel caso rivedesse la sua posizione, i più feroci lo potrebbero canzonare.

Bisogna che maturi una convinzione, magari confortato da quelli  che, come me, sono animati più a raccogliere la sostanza che a criticare la forma.

Cani in spiaggia: i diritti e i doveri dei proprietari

Le regole fra cui districarsi sono moltissime,

Una certezza però c’è: la spiaggia è proibita ai cani solo se ci sono divieti esposti in maniera chiara.

Per il resto tutto è molto nebuloso. Sono, infatti, 3mila, le ordinanze emesse rispettivamente da comuni, capitanerie di porto, provincie e regioni. A queste si aggiungono le leggi regionali e i regolamenti dei singoli stabilimenti balneari, per un totale di circa 18 diverse normative locali.

Quello che occorre tenere a mente, in ogni caso, è che i cani, accompagnati dal padrone, non possono essere cacciati da una spiaggia pubblica, o dalla battigia, se non ci sono divieti esposti in maniera chiara. Inoltre, serve che questi divieti vengano pubblicizzati con regolarità.

Da considerare, poi, che solo le Forze dell’ordine – e in particolare la Capitaneria di Porto e i Vigili Urbani – possono rivolgersi al proprietario di un cane invitandolo ad allontanarsi. Questo, però, “non prima di avere informato della presenza dell’ordinanza di divieto. Non basta la comunicazione verbale. I vigili – precisa l’associazione – devono mostrarvela e indicare chiaramente il numero di ordinanza e la scadenza, in quanto molte ordinanze contengono divieti solo parziali, limitazioni orarie o riferite a singoli giorni della settimana”. Il rifiuto di mostrare le ordinanze, inoltre, “è passibile del reato di omissione di atti di ufficio”.

Anche i padroni dei cani sono chiamati, però, a fare la loro parte: devono tenere l’animale al guinzaglio, raccogliere obbligatoriamente gli escrementi ed evitare di liberare il cane in presenza di bambini, di altri soggetti a rischio o di altri cani. Da evitare anche, l’esposizione prolungata dell’animale al sole, per scongiurare rischi per la sua salute.

La qualità dell’acqua risulta “eccellente” in più dell’85 % dei siti di balneazione europei

Dalla relazione di quest’anno, stilata dalla Commissione europea e dall’Agenzia europea dell’ambiente (AEA), emerge che la stragrande maggioranza dei 21 831 siti di balneazione monitorati nei 28 Stati membri (per la precisione il 95,4 %) soddisfa i requisiti minimi di qualità previsti dalla normativa UE. La relazione include inoltre 300 siti monitorati in Albania e in Svizzera. La percentuale di siti che rispettano gli standard di qualità più rigorosi e possono fregiarsi della qualifica di “eccellente” è aumentata leggermente, passando dall’85,0 % nel 2017 all’85,1 % l’anno scorso.

Nello stesso periodo è invece scesa dal 96 % al 95,4 % la percentuale dei siti balneabili di qualità minima, giudicata “sufficiente”. Questo modesto calo è dovuto principalmente all’apertura di nuovi siti per i quali non sono ancora disponibili i dati relativi alle ultime quattro stagioni balneari, necessari per la classificazione ai sensi della direttiva. Nel 2018 sono stati 301 (ossia l’1,3 %) i siti di balneazione in UE, Albania e Svizzera le cui acque sono state ritenute di qualità “scarsa”: si tratta di un dato leggermente inferiore a quello del 2017, in cui erano stati l’1,4 %. Karmenu Vella, Commissario per l’ambiente, gli affari marittimi e la pesca, ha dichiarato: “Com’è apparso evidente ieri, giornata mondiale dell’ambiente, le sfide che ci troviamo ad affrontare sono numerose. Ma dobbiamo anche celebrare i successi dell’Unione europea sul piano ambientale: uno di questi è la qualità delle acque balneabili in Europa, con cui siamo tutti familiari. Le analisi, la comunicazione, il monitoraggio e la condivisione delle competenze ci permettono di continuare a migliorare la qualità dei nostri siti di balneazione preferiti. Il nuovo riesame dell’attuazione delle politiche ambientali aiuterà gli Stati membri a imparare gli uni dagli altri come raggiungere e mantenere i livelli di eccellenza registrati durante il mio mandato. Desidero ringraziare l’AEA per il supporto nel migliorare questi livelli e per le informazioni che forniscono in modo così regolare e affidabile.

È la loro affidabilità che ci permetterà di decidere a ragion veduta dove tuffarci quest’estate.” Hans Bruyninckx, Direttore esecutivo dell’AEA, ha dichiarato: “La relazione conferma che gli sforzi compiuti dagli Stati membri negli ultimi quarant’anni, soprattutto per quanto riguarda il trattamento delle acque reflue, hanno dato i loro frutti. Oggi la maggior parte degli europei può godere di acque di balneazione di qualità eccellente. Ma questo è solo uno dei numerosi fronti, dalla lotta all’inquinamento da plastica alla tutela della vita marina, su cui dobbiamo lavorare per migliorare la salute di mari, laghi e fiumi.” I requisiti in materia di acque di balneazione, stabiliti nella direttiva dell’UE sulle acque di balneazione, hanno contribuito a migliorare notevolmente la qualità delle acque balneabili europee nel corso degli ultimi quarant’anni.

Il controllo e la gestione efficaci introdotti dalla direttiva, insieme agli investimenti nel trattamento delle acque reflue urbane, hanno portato a una drastica riduzione della quantità di rifiuti urbani e industriali non trattati o parzialmente trattati che finiscono nelle acque. La normativa impone alle autorità locali di prelevare campioni di acqua nell’arco di tutta la stagione balneare presso i siti di balneazione che figurano in un elenco ufficiale. I campioni sono poi analizzati per verificare l’eventuale presenza di due tipi di batteri, indice di inquiinamento da acque di scolo o da liquami di allevamento.

Altri dati chiave

In cinque paesi il 95% o più dei siti di balneazione è risultato di qualità “eccellente”: Cipro (99,1 % dei siti), Malta (98,9 % dei siti), Austria (97,3 % dei siti) e Grecia (97 % dei siti). Nel 2018 tutti i siti di balneazione analizzati a Cipro, in Grecia, in Lettonia, in Lussemburgo, a Malta, in Romania e in Slovenia hanno conseguito almeno la menzione di qualità “sufficiente”.

La percentuale più elevata di siti di balneazione con qualità delle acque “scarsa” è stata registrata in Italia (89 siti, pari all’1,6 %), Francia (54 siti, pari all’1,6 %) e Spagna (50 siti, pari al 2,2 %).

Rispetto al 2017 questo numero è diminuito in Francia (da 80 siti nel 2017 a 54 nel 2018) ma è aumentato in Italia (da 79 siti a 89) e in Spagna (da 38 siti a 50).

Etiopia: sventato il golpe

Il governo etiope ha sventato un colpo di Stato nella regione settentrionale di Amhara: lo ha annunciato il premier Abiy Ahmed, citato dalla Bbc. Il responsabile, comparso in tv con abiti militari, ha detto che diversi ufficiali sono stati uccisi nella capitale di Amhara, Bahir Dar.

Secondo i resoconti, la rete internet è stata oscurata. Violente sparatorie a Bahir Dar sarebbero andate avanti per almeno 4 ore

Intanto il capo delle Forze speciali ha assicurato che la maggior parte degli ufficiali golpisti e dei loro sostenitori “sono stati arrestati”.

Gli infermieri siciliani sono pronti a scendere in piazza

Il Coordinamento degli Ordini delle Professioni infermieristiche della Sicilia e i rappresentanti sindacali delle segreterie regionali degli infermieri hanno convocato un vertice presso l’Opi Palermo per discutere le criticità della sanità regionale, prime tra tutte “la carenza strutturale delle dotazioni organiche” e “la infima evasione della domanda di salute dei cittadini siciliani”.

“L’obiettivo mirato – spiega in una nota il coordinamento degli Opi – è stato quello di estendere a tutte le OO.SS del comparto sanità, per competenza, le istanze di tutti gli infermieri che vivono sulla propria pelle i rischi connessi all’erogazione di un’assistenza inadeguata che non garantisce i LEA, la sicurezza dei pazienti e incrementa il rischio clinico”.

Dall’incontro è emerso un coro unanime che ha raccolto il “grido di aiuto” degli infermieri siciliani che vivono sulla propria pelle “le ormai croniche criticità assistenziali incrementate dalla fuoriuscita dal lavoro degli aventi diritto per il raggiungimento della cosiddetta ‘quota 100’ e per il sopraggiunto periodo delle ferie estive.”

Le tre condizioni per riprendere a fare politica.

L’articolo di Giorgio Merlo sul tema del “partito identitario” mi stimola qualche piccola riflessione che propongo, ovviamente, a fini costruttivi. Come si addice a chi, in questo disastro politico, non pretende di avere certo improbabili certezze assolute, ma prova semmai – assieme agli amici – a scorgere un sentiero possibile.

Dice bene Giorgio Merlo: sono in crisi i partiti in quanto tali, figurarsi quelli “identitari”. Non ho nulla da aggiungere alla constatazione dello stato di fatto e neppure alla critica verso proposte “nostalgiche”, che sarebbero da evitare per rispetto alla Storia, oltre che per non coprirsi di ricolo.

E tuttavia, qualche approfondimento credo sia necessario invece per quanto riguarda la prospettiva del “che fare?”. Forse è utile partire proprio dalla crisi dei “partiti”, che riflette – come sappiamo – una crisi ben più profonda. Quella, da un lato, della democrazia rappresentativa e della sua credibilità nella rappresentanza delle aspirazioni del popolo verso migliori condizioni economiche e sociali.
E quella, dall’altro, della aggregazione degli interessi individuali attorno a valori condivisi di “Comunità”.

Una volta, i “partiti” garantivano tutto questo; erano – nello stesso tempo – veicoli di identità culturale (talvolta tradotta in canoni ideologici), rappresentanza sociale di interessi collettivi, tutela della soglia minima di “bene comune” e di condivisione del patto istituzionale che lo identificava.

Oggi non è più così.
Come possiamo recuperare una prospettiva di futuro in tale quadro?

Credo che dobbiamo ragionare non su una, ma su tre dimensioni, tutte tre essenziali. Ciò che una volta era la dimensione del “partito”, postula oggi la necessità di una triplice azione. Senza una delle tre, un progetto di futuro non nasce.

In primo luogo, serve recuperare un legame tra la “politica” e il suo profilo culturale. Bisogna costruire “case” sulla roccia, non sulla sabbia. E la roccia non può essere rappresentata che da una “visione”, da valori, da convinzioni profonde, ben oltre i flutti tempestosi e mutevoli delle contingenze del momento.

Ciò vale anche per chi ha l’ardire di richiamarsi al “popolarismo”. Che non è “ideologia” (non lo è mai stata) ma neppure è un vago e indefinito spirito di “buon senso” o di “moderazione”.
Dunque, serve che chi intende richiamarsi a questa cultura ricostruisca un ambito di “soggettività politica”. Autonoma, riconoscibile, connessa con ciò che ancora resta del mondo sociale che si muove in questo ambito culturale. In questo senso, temo, gli antichi “distinguo” tra politico e pre-politico sono del tutto superati dall’emergenza derivante dai rischi di marginalità e di inaridimento di questa cultura.

Ritengo perciò del tutto irragionevoli ed irresponsabili le titubanze e le circospezioni tattiche che si notano da parte delle molte iniziative nate – a livello locale e nazionale – in questi mesi.

Ci si attende con urgenza un salto di qualità e di generoso coraggio: tocca anche ai popolari assicurare il proprio originale e peculiare contributo alla ricostruzione di una idea “sociale e comunitaria” della democrazia e di un suo rinnovato ed esigente “compromesso” con il capitalismo, che rilanci la tutela “delle attese della povera gente” e riaffermi il primato della “Comunità” sullo Stato e sul Mercato.

In secondo luogo, serve che questa “soggettività politica popolare e identitaria” non ragioni con la logica della setta, ma con quella della “politica”. E, dunque, serve una iniziativa aperta per la costruzione di un “contenitore politico-elettorale” capace di presentare agli elettori una proposta solida e robusta e di indicare una prospettiva “forte” a fronte dei rischi e delle necessità del Paese.

Una aggregazione – questa si “non identitaria” – che con realismo e serietà si sostanzi in una “proposta al Paese” nella quale sia distinguibile la cifra di quel fecondo incontro tra pensiero popolare – di matrice cristiana – e pensiero laico e liberal-democratico che ha rappresentato un pilastro della Ricostruzione e dello sviluppo dell’Italia e dell’Europa.

Qualcuno (“si parva licet componere magis”) rievoca la Margherita. Figurarsi se non mi fa piacere. Ma la Margherita – senza una presenza visibile, organizzata e credibile dei “popolari” – è un fiore che appassisce presto.

In terzo luogo, serve che si lavori ad una Alleanza per un nuovo governo del Paese. I soggetti politici esistono sempre “in quanto tali e a prescindere dagli alleati” – se non sono satelliti di altri – e in modo particolare devono marcare la loro autonomia quando cercano di rinascere quasi da zero. Ma la cultura di governo” (che è tutt’altro che attrazione inesorabile al Potere) insita nel DNA delle nostre storie e l’urgenza di costruire una alternativa credibile alla deriva in atto, devono portare a lanciare agli elettori un messaggio molto chiaro: un appello a tutte le forze democratiche che intendono impegnarsi per una nuova stagione politica capace di far tornare l’Italia ciò che essa deve essere nella sua interna dinamica culturale e sociale, in Europa e nel mondo.

Non può essere la riproposizione della Alleanza di prima, ma una nuova esperienza fondata su un nuovo progetto, su nuovi soggetti politici e su un candidato Premier capace di parlare al cuore e alla mente degli italiani al di fuori dei vecchi recinti partitici.

Una Alleanza non scontata, tutta da costruire, ma auspicata e ricercata. Perché le solitudini autoreferenziali non sono nello spirito degasperiano e neppure negli interessi del Paese.

Ripartire dal Sud. Il discorso della Furlan a Reggio Calabria

Lo avevamo promesso: non ci fermeremo sino a quando non saremo ascoltati e oggi siamo qui per mantenere questa promessa e per dire, ancora una volta, che l’Italia è una e una sola.
Dopo le grandi manifestazioni di Roma a febbraio, di Bologna il 1° maggio e le tante iniziative delle nostre categorie ci siamo voluti dare appuntamento a Reggio Calabria, in questa città bellissima e piena di storia. Luogo simbolo di un Sud che fatica, ma che ha grande voglia di riscatto.

Lo abbiamo fatto per una ragione precisa. Per ribadire chiaro e forte, proprio da qui, che non si può più rinviare un radicale cambio di rotta delle politiche per il Mezzogiorno.
I nostri ragazzi, le donne e gli uomini del mezzogiorno, attendono da troppo tempo.
Non è un problema di oggi e nemmeno degli ultimi tempi, lo sappiamo bene. La “questione meridionale” è antica e ha accompagnato le vicende dello Stato unitario sin dall’inizio del suo cammino.

Ma il nostro tempo è “oggi”!
E oggi, il Mezzogiorno, invece di essere al centro dell’agenda politica, invece di essere la priorità assoluta, continua ad essere completamente dimenticato.
È stato così con la legge di Bilancio. È così con il “decreto crescita”, che dopo settimane e settimane di attesa ha partorito il classico topolino.

Sì, si recuperano o si prorogano alcune misure che sbagliando erano state eliminate proprio dalla legge di Bilancio. Ma al di là di questo c’è davvero poco. È proprio il Governo, nel Def, ad ammettere che la spinta aggiuntiva all’economia di questo decreto e del cosiddetto “Sblocca cantieri” non andrà, per quest’anno, oltre lo 0,1 per cento di Pil.
E un grande problema e lo è soprattutto per il sud. Chi fa il nostro mestiere è portato a confrontarsi e a fare i conti con la realtà, che è la vita concreta delle persone.
E la realtà è che il Mezzogiorno, nell’azione del Governo, continua ad essere il “grande assente”. È un fantasma.

Non basta minacciare di revocare gli incentivi o convocare i tavoli, bisogna indicare anche le soluzioni, avere una strategia di politica industriale, perché ci sono più di 160 grosse vertenze aperte al Mise e molte riguardano il destino di tante famiglie del sud. Qualcosa vorrà pure dire!
La situazione è grave, estremamente grave.
Per due grandi ordini di motivi.
IL PRIMO, è evidente, riguarda direttamente la situazione economica e sociale in cui si trovano intere aree del Sud e le condizioni di vita delle popolazioni che vi abitano.
Se infatti è il Paese intero che fa fatica a riprendersi dalla crisi e dalla recessione, resta il fatto che il ritardo del Mezzogiorno è aumentato e che qui tutte le difficoltà italiane sono amplificate. Ogni dato o statistica lo conferma!
Ma guardate, non servono nemmeno dati e statistiche.

Basta avere occhi e cuore, per sentire le tante ferite del Sud fatte di carenza di lavoro e di lavoro povero e sottopagato, di bassa crescita e deindustrializzazione, di disparità di genere, di povertà crescente, di elevata dispersione scolastica.
Di piaghe come il caporalato, che offendono la dignità della persona e del lavoro, che spezzano vite umane.
Degli infortuni e delle morti sul lavoro, che al Sud raggiungono le cifre più alte. Dietro ai freddi numeri, ci sono esistenze interrotte, sogni infranti, famiglie precipitate nel dolore, con il futuro che diventa assenza: di famigliari, di reddito e persino di speranza!
Dietro a tanti nomi di persone comuni: Massimo, Sabatino, Seferi, ci sono le tragedie di mariti e padri usciti la mattina per lavorare e che la sera non sono rientrati.
E non importa la nazionalità o il colore della pelle. Non ci sono gerarchie sulla vita delle persone. È questo il vero problema di sicurezza che abbiamo, non altri!

Ma il Governo cosa fa? Fa cassa con il decreto crescita diminuendo i contributi Inail che servono per la sicurezza, la prevenzione e il risarcimento degli infortuni sul lavoro. Il Governo fa cassa sulla pelle delle persone, mentre ogni giorno gli incidenti sul lavoro sembrano un bollettino di guerra.
E poi cosa dire, a proposito di ferite del Sud, di un’offerta socio-sanitaria che non riesce a garantire le fondamentali certezze alle persone:
a partire dagli anziani che come non bastasse si sono visti tagliare la pensione come fossero un bancomat e che per questo il 1° giugno hanno manifestato a Roma insieme a noi.
ma anche per i tanti costretti ai viaggi della speranza al nord per curarsi, lontano dai propri affetti e con disagi e costi elevati (proprio la Calabria è in testa alla classifica: paga al resto d’Italia più di 300 milioni l’anno).

Basterebbe avere buon senso e lungimiranza per comprendere le infinite potenzialità del nostro mezzogiorno. L’inestimabile patrimonio di bellezza e di forza che custodisce.
La voglia di crescere che lo anima, nonostante tutto.
La capacità di resistere di tanti imprenditori, degli uomini e delle donne del lavoro, di magistrati e amministratori eroici. Di uomini di fede che hanno scelto gli ultimi e di straordinari sindacalisti che rischiano la vita per testimoniare la loro missione e difendere i lavoratori e il lavoro.

IL SECONDO GRANDE ORDINE DI MOTIVI è questo: occuparsi del sud non è solamente un dovere, una questione di solidarietà nazionale e di equità, è una necessità! È interesse di tutto il Paese.
Come si fa a non capire, che siamo tutti sulla stessa barca? Che comprimere il potere d’acquisto di chi vive qui al Sud comporta una flessione economica pesante anche per il Nord?
Sappiamo che avremo bisogno dell’Europa unita, democratica, federale e solidaristica per reggere la sfida degli anni a venire, poi ci arrendiamo alla logica delle due Italie? Di chi sostiene che per ripartire basta sganciare i vagoni di coda? È pura follia! Arretreremo o avanzeremo insieme.

L’Italia crescerà davvero solo se crescerà il Sud. L’Italia è una e indivisibile come recita l’art 5 della nostra straordinaria costituzione!
La politica deve uscire finalmente dall’oblio, ma non basta. È arrivato anche il tempo di smetterla con le politiche a singhiozzo e ci circostanza.
Il mezzogiorno non ha bisogno d’interventi spot, ma di un progetto serio e di medio periodo, che tenga insieme il suo sviluppo e quello dell’Italia perché sono legati. Non ha bisogno di paternalismo il sud, ma di infrastrutture. Non ha bisogno di assistenzialismo, ma di legalità e lavoro!
Quando diciamo che una grande opera al nord come la TAV, non è per qualcuno ma per tutti, che non possono esistere diritti di veto locali, vogliamo dire questo: i porti e gli interporti del sud sul mediterraneo, gli snodi ferroviari, le grandi infrastrutture per collegare l’Italia al suo interno e con l’Europa sono per tutti, sono per l’Italia nel suo insieme.
E allora è chiaro che bisogna cambiare strategia. Anzi bisogna darsi una strategia e che non sia un semplice slogan! E non può essere né quella delle due Italie, né quella di continuare a creare debito per gonfiare la spesa corrente, per poi ingaggiare inutili battaglie con l’Europa.

Certo, dovrà cambiare anche l’Europa, ma non è l’Europa il problema.
Smettiamola di cercare capri espiatori attraverso armi di distrazione di massa.
Servono solo a non affrontare i problemi, che continuiamo ad accumulare: crescita zero, deficit, debito e disoccupazione in aumento, produzione industriale calante, crescita delle sperequazioni, blocco delle infrastrutture, blocco delle assunzioni nella Pubblica amministrazione, depauperamento della sanità.
Il Governatore della BCE Mario Draghi, in questi giorni, ha dichiarato che sosterrà una nuova fase espansiva e gli effetti positivi anche sullo spread, quindi sugli interessi che paghiamo sono stati immediati.
È la seconda volta che ci viene in soccorso, ma se l’Italia non farà la sua parte con la politica di bilancio degli investimenti, della crescita, dello sgravio del costo del lavoro, sarà tutto inutile. Il nostro Governo va a cercare improbabili alleati oltreoceano e non si accorge di quelli che ha in casa.

Non si crea così il lavoro e per noi l’obiettivo è chiaro: lavoro, lavoro, e ancora lavoro.
Se qualcuno ha pensato di risolvere tutto con il Reddito di cittadinanza, ha sbagliato. Basta vedere il concorso di questi giorni per i navigator! 54.000 candidati di cui la metà è del sud e il 73 per cento è donna! Tutti in cerca di un posto di lavoro precario di due anni.
Il lavoro, prima di essere distribuito, va creato e noi siamo a crescita zero. L’unica percentuale che aumenta è quella dei poveri. Come lo dobbiamo ancora spiegare? I giovani disoccupati del Sud questo vogliono: non un assegno caritatevole, non un sussidio, ma un lavoro, dignitoso, vero e stabile. Quindi crescita.
Anche il salario minimo, come il reddito di cittadinanza non serve a fare ripartire il paese. Con la contrattazione copriamo l’85% dei lavoratori e delle lavoratrici: estendiamo quella e abbassiamo le tasse sul lavoro!

Non diritto di cittadinanza è mai quello:
che vale solo per qualcuno?  che premia fiscalmente le rendite rispetto al lavoro?
che ti penalizza se sei nato nel posto sbagliato pur nello stesso paese?  che trasforma i diritti in concessioni, l’opportunità in clientela e consente che si diffondono le reti basate sulla convenienza, la collusione, la corruzione, il profitto ad ogni costo?
E a proposito di “armi di distrazione di massa” da agitare nella continua ricerca di consensi, vogliamo parlare della flat tax?

La “tassa piatta” è iniqua, perché avvantaggia per definizione chi ha di più. Ma è anche sbagliata perché per sostenere i consumi bisogna creare lavoro e aumentare i salari. Non è dando più soldi a chi ne ha già che sosteniamo i consumi, ma dandone di più a chi ne ha meno e facendo pagare le imposte in proporzione al reddito, perché mantengono lo “stato sociale” che serve soprattutto ai bassi redditi.
E avrebbe anche una ricaduta territoriale molto sbilanciata. A svantaggio indovinate di chi? Ma del Mezzogiorno, è ovvio. Della parte del Paese dove i redditi sono più bassi.
Altro che “anno bellissimo”. Non sarà così per nessuno, non sarà così per l’Italia e per il Sud soprattutto senza un cambiamento radicale.

Sig. Presidente del Consiglio, l’Italia rimane un Paese con una sorta di frontiera interna che la divide, il sud dal nord, la penisola dalle isole. E la crisi iniziata nel 2008 ha peggiorato la situazione.
Non è più accettabile.
Possibile che non ci si renda conto che sono proprio al sud le maggiori potenzialità inespresse? Bisogna aiutarle a fare sistema fornendo servizi che le mettano in dialogo con i mercati nazionali e mondiali.

E questo, appunto, potrà avvenire solo all’interno di una visione e di una strategia complessiva che si dia delle priorità.
Noi le abbiamo individuate, sono quelle contenute nella nostra Piattaforma unitaria.
La prima è racchiusa in una parola chiave: INVESTIMENTI.
Il Governo è colpevole di inerzia, perché nulla ha fatto e nulla sta facendo.
Investimenti significa innanzitutto infrastrutture.

Il vero nocciolo della questione meridionale oggi, è proprio qui.
Moderne infrastrutture sono necessarie in tutto il Paese. Nelle regioni più forti, per aumentarne la competitività. E a maggior ragione in quelle più deboli, per rilanciarle.
Chi volete che venga altrimenti a investire nelle regioni del mezzogiorno se l’alta velocità si ferma a Salerno, se le autostrade sono vecchie e obsolete, se le scuole e gli ospedali cadono a pezzi, se basta un temporale per creare devastazione, se la criminalità imperversa?
Bisogna aprirsi, non isolarsi come ci propone l’Europa incoraggiando la realizzazione di grandi reti di collegamento. Bisogna potersi spostare; poter viaggiare, comunicare, sperimentare, innovare, creare avendo le scuole, la sicurezza, i servizi e le infrastrutture per farlo.

Non è possibile che a parte qualche timido segnale per l’alta velocità Napoli-Bari, si resti nel campo degli annunci per la statale Jonica, per l’ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria ferroviaria o la realizzazione dei grandi assi viari in Sicilia.
E non finisce qui, perché parliamo anche di porti, acquedotti, dighe, scuole, ospedali. Parliamo di servizi fondamentali e posti di lavoro, e parliamo delle condizioni per crearli.
Quelli che restano bloccati, con le infrastrutture ferme, sono almeno 400 mila. Che poi vuol dire 400 mila disoccupati in più. E per una volta non per mancanza di fondi, visto che ci sono decine di miliardi pronti per essere utilizzati. No, è per un ritardo ideologico di questo governo.

E non sarà il cosiddetto “Sblocca cantieri”, a segnare una svolta. Anzi.
Sospensione del Codice dei contratti e deregolamentazione, con il moltiplicarsi di affidamenti diretti, subappalti e appalti integrati, avranno ben altre conseguenze: indeboliranno il contrasto alla corruzione e alle infiltrazioni mafiose e peggioreranno qualità delle opere e tutela della sicurezza dei lavoratori.
“senza legalità non c’è sviluppo, lavoro, progresso”! Così affermava il Giudice Falcone. Ricordiamolo sempre!
Investimenti e infrastrutture, dunque, e un nuovo modello di politica industriale e di sviluppo che sia in forte discontinuità col passato e valorizzi la programmazione negoziata, la partecipazione del lavoro.

La chiave dell’innovazione tecnologica e della digitalizzazione può davvero aprire porte fondamentali per il Mezzogiorno, anche a livello di internazionalizzazione.
È una chiave, badate, che non è affatto sganciata dal territorio. Al Sud possono crescere poli industriali con un forte potenziale innovativo e con grandi capacità di attrarre investimenti, se si riuscirà a mettere in rete tutti i possibili attori:
le grandi imprese a trasferire tecnologie alle piccole e medie ad esse collegate;
i centri di ricerca pubblici e privati e le università a creare una sorta di “fabbrica delle conoscenze e delle competenze”.

È cosi che si mette in moto un circuito virtuoso. È così che si frena l’altro grande “esodo”, quello dei giovani, molti dei quali laureati. In 18 anni più di un milione e mezzo di italiani del sud, tra essi tante donne laureate, sono stati costretti ad emigrare.
Sembra di essere tornati tra la fine dell’800 e i primi del 900, quando tanti italiani migrarono verso altri paesi, accolti dagli stessi pregiudizi che oggi spesso noi riserviamo agli immigrati che arrivano nel nostro Paese. È inconcepibile!
Il Mezzogiorno, anzi tutti noi, tutta l’Italia non può chiudersi e rassegnarsi a vedere partire il proprio futuro per assenza di alternative. Sarebbe il nostro fallimento!
Energie che possono e devono trovare alternative. Qui, al Sud, dove sono le loro radici, i loro affetti e dove è più importante il loro contributo.

Prima di tutto la cultura allora, con tutto ciò che attorno ad essa può ruotare. Matera non deve diventare l’ennesima occasione sprecata per il Mezzogiorno.
E poi ancora il turismo, con tutte le possibilità legate al suo essere “industria di industrie” e ad un patrimonio naturale, culturale e storico che ha pochi uguali al mondo.
E ancora la green economy e le fonti rinnovabili, il solare, l’eolico, l’energia del mare. E la valorizzazione dell’economia circolare.

E l’agricoltura, che per il Mezzogiorno può essere un volano straordinario. La carta migliore, specie nelle aree interne, per evitare isolamento ed abbandono, per agganciarsi alle possibilità della crescita. A condizione che non si punti sulla quantità, ma sulla qualità della tipicità. Dell’eccellenza.
Le energie ci sono, vanno impiegate. A cominciare dall’enorme giacimento di energia e potenzialità femminile, ancora scarsamente valorizzato. Alzare il tasso di occupazione delle donne è una priorità per il Paese, e ancora di più per il Sud. Anche per questo servono servizi adeguati, per conciliare lavoro e responsabilità familiari.
Proviamo a pensare a quali risorse inespresse si potrebbero valorizzare in un paese come il nostro nel quale lavora solamente il 57,7 % della popolazione, mentre in Germania e Gran Bretagna siamo oltre il 75%.

Venti persone ogni cento in più, che lavorano e contribuisco al benessere, alla crescita e al welfare.
E poi resta fondamentale la capacità di utilizzare al meglio i Fondi strutturali europei, che sono determinanti e devono essere aggiuntivi rispetto alle risorse ordinarie, da portare finalmente al 34 per cento, rispecchiando in modo equo la percentuale della popolazione residente.
Oltre a questo, però, bisogna soprattutto cambiare mentalità: è importante spendere, ma è ancora più importante spendere bene.
E qui ovviamente c’è da fare un discorso, anzi due: uno sulla necessità di rafforzare le amministrazioni pubbliche in termini sia di personale che di competenze, con un piano straordinario di assunzioni che vada al di là di un semplice turn-over.  l’altro sul ruolo attivo che deve avere una classe dirigente diffusa sul territorio e capace di operare anche in contesti difficili con onestà, intelligenza e dedizione al bene comune.

Non nascondiamocelo: la cattiva qualità della spesa è anche dovuta alla cattiva amministrazione, con i finanziamenti che si disperdono in mille rivoli, alimentati da logiche particolaristiche quando non clientelari e illegali.
A tutto questo bisogna porre la parola fine altrimenti non si andrà lontano. Mafia, ‘ndrangheta e camorra si battono dotando di mezzi più efficaci le forze dell’ordine e la magistratura, che ogni giorno fanno un lavoro straordinario, ma anche prosciugando quello stagno di sottosviluppo in cui le organizzazioni criminali proliferano: quello nel quale i diritti diventano concessioni!
Lo ribadiamo al Governo e a tutte le forze sociali: facciamolo assieme questo cambiamento, noi ci siamo!

È tempo di un grande Patto per lo sviluppo del Mezzogiorno, che coniughi politiche industriali e sostegno sociale, tutela del lavoro e crescita produttiva, investimenti e buona qualità della spesa, formazione e innovazione, efficienza e legalità.
Perché resta vero quel che diceva un grande meridionalista come Don Luigi Sturzo, quando osservava che “il risorgimento meridionale non è opera momentanea e di pochi anni, o che dipenda da una qualsiasi legge, o che venga fuori dalla semplice volontà di un governo; è opera lunga e vasta, di salda cooperazione nazionale; e che come spinta, orientamento, convinzione, parta dagli stessi meridionali”.
È così. È quel che serve oggi. Solo così si potrà finalmente dare il via ad un “nuovo inizio”.
È la sfida più grande. È il fronte su cui si scontrano due impostazioni culturali e politiche, contrapposte. Lo sappiamo: Da un lato chi ancora considera il Sud come una palla al piede, come un impaccio utile solo quando servono i voti in campagna elettorale.
Dall’altro chi ritiene che invece sia una leva fondamentale per far ripartire il nostro Paese, chi crede sia davvero arrivato il tempo di un nuovo “rinascimento meridionalista” che al centro abbia il lavoro, l’impresa, l’innovazione, la legalità, la qualità della spesa, i diritti e servizi ai cittadini.

CONCLUDO RIPETENDOLO ANCORA UNA VOLTA.
Siamo qui per cambiare. I giovani, le donne gli uomini del sud chiedono occupazione, non assistenzialismo. Troppi annunci, parole, promesse e slogan. Serve programmazione, fatti concreti e investimenti veri.

Basta spargere paura e diffidenza in questo clima perenne da campagna elettorale, che ha sempre bisogno di un nemico, che divide e disgrega, che mette i figli contro i padri, i cittadini contro altri cittadini, persone contro altre persone.
Così si frantuma la società, si alimenta una inutile guerra tra poveri. Noi queste logiche le rifiutiamo, le rifiuteremo sempre.

Il sindacato Confederale sa bene da che parte stare:delle lavoratrici e dei lavoratori, delle pensionate e dei pensionati, dei giovani e del loro diritto al futuro, delle famiglie indigenti, degli ultimi e di chi ha bisogno, delle persone per bene qualunque sia la loro etnia e la loro provenienza, degli italiani che credono nel loro paese, nella sua unità e nella solidarietà, nell’equità, nella giustizia, nella legalità, nell’accoglienza e nel bene comune.
Oggi, siamo qui per testimoniarlo e per ribadire il nostro impegno da questa parte, dalla vostra parte.

Il futuro e il progresso o saranno di tutti o non saranno. Il Governo ascolti il popolo del lavoro, che ancora una volta, a testa alta, è sceso in piazza democraticamente, per chiedere dignità e sviluppo.
Grazie a tutti voi. Viva il lavoro, viva l’Italia: una e indivisibile.

Le Giornate internazionali dell’editoria cattolica

Condividere le esperienze maturate in differenti contesti geografici per affrontare le sfide dell’ambiente digitale. È l’obiettivo delle Giornate internazionali dell’editoria cattolica organizzate dal Dicastero per la Comunicazione, in collaborazione con l’Ufficio nazionale per le Comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana, che si terranno a Roma dal 26 al 29 giugno nel Centro congressi Auditorium Aurelia (via Aurelia, 796).

Il programma si articola in convegni, dibattiti e gruppi di lavoro incentrati sull’opportunità di “ripensare le strategie editoriali alla luce delle mutate abitudini di consumo multimediali nonché della complessità del contesto economico e delle dinamiche del mercato digitale”. Prevista la partecipazione dei rappresentanti di oltre 50 case editrici cattoliche provenienti da diverse parti del mondo. Ad aprire i lavori, mercoledì 26 giugno, dalle 14.30, la relazione del prefetto del Dicastero per la Comunicazione, Paolo Ruffini, e del responsabile editoriale della Libreria editrice vaticana, fra Giulio Cesareo. A seguire, un focus su “L’editoria religiosa nell’attuale contesto culturale” con l’intervento del teologo gesuita padre Marko Ivan Rupnik, direttore del Centro Aletti.

Da Bruxelles l’approvazione definitiva del nuovo documento provvisorio di viaggio

A partire dal 1996 i cittadini dell’Ue che si trovino all’estero e il cui passaporto venga rubato o smarrito, possono ottenere documenti di viaggio provvisori dalle ambasciate o dai consolati di Stati membri dell’Unione diversi dal proprio. I passaporti smarriti o rubati rappresentano oggi oltre il 60 per cento dei casi di assistenza consolare fornita ai cittadini dell’Unione. Il vecchio formato però non rispondeva pienamente agli standard di sicurezza attuali, ad esempio le tecniche di stampa di ultima generazione o la protezione contro la duplicazione per mezzo di ologrammi di sicurezza. Di conseguenza, alcuni Stati membri hanno smesso di utilizzarli.

Per questo la Commissione europea aveva proposto di creare un documento di viaggio provvisorio dell’UE più moderno. Proposta che ieri è stata approvata definitivamente dai Ministri degli Stati membri.

Con l’approvazione appena conseguita, il nuovo documento di viaggio provvisorio dell’Ue sarà basato sul formato e sulle caratteristiche di sicurezza dell’adesivo del visto di Schengen. Il suo formato comprenderà uno spazio per eventuali visti di transito e dovrebbe essere rilasciato entro sette giorni lavorativi (con alcune eccezioni). Gli Stati membri saranno tenuti a recepire le nuove norme nelle rispettive legislazioni nazionali entro due anni dall’adozione, da parte della Commissione, delle regole tecniche mancanti sui requisiti di progettazione e sicurezza.

“La perdita o il furto del passaporto durante un viaggio all’estero è fonte di grande stress – ha sottolineato il commissario per la Giustizia, i consumatori e la parità di genere, Vera Jourová – . Le nuove norme appena adottate consentiranno ai cittadini dell’Ue di ricevere rapidamente da qualsiasi Stato membro un documento di viaggio provvisorio sicuro e ampiamente accettato per poter tornare a casa in condizioni di sicurezza. Si tratta di un esempio pratico dei vantaggi della cittadinanza e della solidarietà dell’Ue”.

 

I giudici europei hanno confermato l’annullamento del marchio di Adidas

Il Tribunale dell’Unione europea considera nullo il marchio di Adidas. Secondo la sentenza emessa dalla corte comunitaria, infatti, le “tre strisce parallele equidistanti di uguale larghezza, applicate sul prodotto in qualsiasi direzione” che descrivono il marchio della storica azienda di abbigliamento sportivo nata in Germania nel 1949 non avrebbero acquisito un carattere distintivo in tutto il territorio dell’Unione.

Pertanto, si legge nella sentenza, correttamente, secondo il Tribunale, l’Euipo ha escluso numerosi elementi di prova prodotti da Adidas. Il gruppo tedesco, primo produttore di abbigliamento sportivo europeo e secondo a livello mondiale, ha ancora la possibilità di appellarsi alla Corte europea di giustizia. In ogni caso la decisione del Tribunale è un duro colpo per il gruppo, che ha accusato forti perdite alla Borsa di Francoforte.

Una galassia di 13 miliardi di anni fa

Le galassie possono fondersi e un team di astronomi ha scoperto la prova più antica di questo fenomeno. Ben 13 miliardi di anni fa, nell’universo primordiale, due formazioni di stelle si sono infatti unite dando vita a B14-65666, osservata dai ricercatori attraverso il telescopio Alma (Atacama Large Millimeter/Submillimeter Array).

Le osservazioni effettuate dai ricercatori con Alma hanno rivelato segnali combinati di ossigeno, carbonio e polvere. Questi ultimi provengono dalla galassia B14-65666, situata nella costellazione del Sestante a 13 miliardi di anni luce dalla Terra. Proprio a causa di questa distanza e della velocità finita della luce, gli ‘indizi’ captati dagli astronomi hanno dovuto viaggiare 13 miliardi di anni per raggiungerci. In altre parole, il team di ricerca è riuscito ad osservare ciò che stava accadendo nell’universo primordiale, neanche un miliardo di anni dopo il Big Bang. A quell’epoca B14-65666 stava quindi nascendo, grazie alla fusione di due ‘blob’, dai quali provengono le emissioni intercettate da Alma.

Yogurt contro il tumore all’intestino

Uno studio che ha coinvolto 32mila uomini e 55mila donne  e pubblicato sulla rivista Gut da Yin Cao, della Washington University School of Medicine, a Washington DC ha stabilito che mangiare yogurt due (o anche più) volte a settimana potrebbe aiutare a prevenire la formazione di tumore all’intestino, soprattutto negli uomini.

Lo studio, che è stata solo un osservazione, di per se non è sufficiente a stabilire realmente se il consumo di yogurt riduca realmente il rischio di adenomi ma, essendo stato condotto su diverse migliaia di soggetti dovrebbe trattarsi di uno studio piuttosto solido.

E’ auspicabile che nasca un nuovo partito di cattolici e laici per l’applicazione della Costituzione 

È auspicabile un nuovo partito che riunisca i cattolici democratici che attualmente votano pd(non so come sia possibile andare daccordo con abortisti e portatori di diritti cosiddetticivili), che votano 5 Stelle (per motivi simili al pd, con l’aggiunta di populismo a buon mercato), che votano Lega e Berlusconi (per le loro contraddizioni di fondo, sul fisco, sulla burocrazia, sulla sicurezza ). 

Un partito che riunisca i cattolici di cui sopra e quei laici che, come noi cattolici, voglionolapplicazione della Costituzione. Questo è auspicabile e sperabile. Perché noi pensiamo che la vita sia la stessa nel barcone e nella pancia della mamma, che la persona debba essere messa al primo posto di ogni scala valoriale, che il lavoro è il vero strumento di promozione umana, che la famiglia naturale è indispensabile per lequilibrio di una società civile. 

Da questo insieme di priorità derivano le implicazioni economiche, sociali e politiche che ci possano permettere di vincere le sfide nelle criticità più difficili odierne. Ritengo che Zingaretti e Di Maio siano dei venditori di illusione, perché non solo danno fiato a chi vuole ostacolare la ricomposizione civile del popolo italiano (che si attua con la difesa e lincremento esponenziale dei posti di lavoro e la difesa della vita nel grembo materno), ma neanche riescono a risolvere il grosso problema dei paletti burocratici dellattuale statalismo, ostacolando le PMI, dando lelemosina alle famiglie, generando spesa pubblica parassitaria che toglie le risorse alle imprese che sono quelle che possono creare nuove opportunità lavorative.

Infatti basta ascoltare le varie trasmissioni sia sulla Rai, su Sky, su Mediaset, per rendersi conto che non si affrontano i problemi reali, poiché ci sono dei blocchi di natura burocratica e di interessi con comitati di affari” (è bastato rendersene conto anche durante la campagna elettorale delle recenti comunali dove hanno prevalso logiche di sterile antagonismo), in conseguenza dei quali non è possibile lavorare per la giustizia fiscale, per la promozione di nuovi posti di lavoro ad opera delle PMI (non certamente dello Stato che deve solo promuovere le attività produttive, pena uno sterile statalismo), per il sostegno alle politiche familiari, ormai cenerentole, per risolvere i gravissimi problemi della stagnazione lavorativa per i giovani costretti ad emigrare allestero e della denatalità che ormai minaccia la stessa sopravvivenza italiana (grazie alle politiche abortiste dei radicali, della Bonino a cui si sono unite le sinistre e anche il sindacato della Cgil).

San Tommaso Moro, il santo che tenne testa a un re

Fonte Famiglia Cristiana

Thomas More nacque a Londra il 7 febbraio 1478, figlio del giudice John More, membro dell’ Alto Tribunale Giudiziario. Tommaso, ancor giovanissimo, fu al servizio del cardinale John Morton, cancelliere di Enrico VII. Si procurò un’ ottima cultura umanistica a Oxford, ove conobbe alcuni tra i massimi esponenti dell’ Umanesimo, come Colet, Linacre, Latimer, Tunstall, Colt. La sua amicizia con Erasmo da Rotterdam iniziò nel 1499. Studiò il diritto a New Inn e poi a Lincoln’ s Inn. Durante la sua giovinezza sentì il desiderio di diventare monaco, e infatti, ebbe rapporti con i francescani di Greenwich e fece anche un prolungato soggiorno di quattro anni nella Certosa di Londra. Dopo aver lasciato la vita claustrale, sposò Jane Colt, dalla quale ebbe quattro figli; rimasto vedovo, si unì di nuovo in matrimonio con Alice Middleton.
Nel 1504 divenne membro del parlamento, e specializzatosi in diritto marittimo, iniziò a lavorare per la Livery Companies e la The Merchant Adventures. Nel 1510, Enrico VIII lo nominò rappresentante della corona a Londra, sottosceriffo della città e giudice di Hampshire. Essendo stato chiamato a coprire diverse mansioni diplomatiche, viaggiò nelle Fiandre (1515) e a Calais (1517).
In questo periodo, precisamente nel 1516, pubblicò il suo capolavoro, Utopia. Nel 1519, Enrico VIII lo nominò suo consigliere regio. Nel 1523 fu eletto presidente dei Comuni. Nel 1529 fu nominato Lord cancelliere, carica che tenne per quattro anni. Infatti, nel 1532 si dimise perché non accettò l’ Atto di Supremazia, per il quale il re diventava capo della Chiesa d’ Inghilterra.
Moro abbandonò la vita pubblica, e si ritirò nella sua casa di Chelsea; accusato di alto tradimento, venne incarcerato nella Torre di Londra e condannato a morte. Durante il processo pronunciò un’ apologia, rimasta celebre nella storia: in essa confessò l’ indissolubilità del matrimonio, il rispetto del patrimonio giuridico ispirato ai valori cristiani e la libertà della Chiesa di fronte allo Stato. La decapitazione avvenne il 6 luglio 1535.
Tommaso Moro appare come persona con una grande dedizione alla famiglia, impegnato nell’ educazione religiosa, morale ed intellettuale dei figli, dando una grande importanza alla preghiera in famiglia e ai momenti di svago. Coltivò la virtù dell’ umorismo, fu ammirato, tra l’ altro, per la grande integrità morale, l’ acutezza di ingegno, il suo carattere aperto e gioviale e la sua straordinaria erudizione.
Fu beatificato da Leone XIII nel 1886. Venne canonizzato da Pio XI il 22 giugno 1935. Giovanni Paolo II lo ha dichiarato patrono dei politici e dei governanti mediante motu proprio firmato il 31 ottobre 2000.

Cattolici, basta con i partiti identitari.

Il passato non ritorna. Lo diciamo da tanto tempo. Certo, il passato non può e non deve essere dimenticato. Perché senza la conoscenza del passato non c’è alcuna possibilità di costruire il futuro. E, soprattutto, non si può costruire nessuna prospettiva politica credibile e realistica.

Ora, quando parliamo di passato, in particolare noi cattolici democratici e popolari, persiste sempre la tentazione nostalgica. E’ inutile negarla. Siamo consapevoli, lo ripeto, che il passato non ritorna, ma siamo altrettanto tentati – a volte – di ripercorrerne in qualche modo le forme e la sostanza. E quindi il dibattito, sempre più fitto e insistente, su come ridare una adeguata e credibile rappresentanza politica a quest’area. Nessuno pensa che possa ritornare una sorta di neo Democrazia Cristiana.

Pochi, pochissimi, ritengono che si possa imbastire nel contesto politico contemporaneo e dar vita a movimenti e partiti identitari. Sotto questo profilo, e alla luce dei recenti e ripetuti risultati elettorali, forse è giunto il momento per dire una parola definiva quando si parla di cattolici in politica e di partiti che si rifanno a quella ispirazione. E cioè, quando nessun esperimento raggiunge l’1% ne’ a livello locale e ne’ a livello nazionale, significa che proprio quegli esperimenti – e seppur nel massimo rispetto della volontà e del coraggio dei proponenti – sono destinati inesorabilmente al fallimento. Per fermarsi al solo Piemonte, le recenti elezioni regionali ci hanno detto che la lista civica dov’è era presente Demos e’ finita sotto lo 0,5%, che il Popolo della famiglia ha avuto percentuali sotto il prefisso telefonico e che l’Udc ha toccato l’1%.

Di fronte ad un quadro del genere la conclusione è quasi obbligata. E parliamo solo del Piemonte per non citare la valanga di esprimenti nelle varie regioni italiane. Oltre, com’è ovvio, alle liste per il rinnovo del Parlamento Europeo. Per fare un solo esempio, la lista dei Popolari per l’Italia ha raggranellato un misero 0,2%. La conclusione di questa riflessione e’ molto semplice, almeno a mio parere. Questo mondo politico, culturale, sociale e forse anche etico non si riconosce, salvo eccezioni sempre presenti, nell’attuale geografia politica italiana. Difficilmente può confluire nel contenitore della sinistra, il Pd/ Pds di Zingaretti; non se la sente di condividere il progetto della destra leghista di Salvini e, men che meno, si avvicina al partito populista, antisistema e demagogico dei 5 stelle. Di quel che resta di Forza Italia e’ inutile parlarne.

Molti, anche se non tutti com’è ovvio, sono disponibili a lavorare seriamente per ricostruire una esperienza di “centro” plurale, riformista, di governo, democratico e innovativo. Non un posizionamento tattico o un luogo che rivendica una mera rendita di posizione ma un movimento/partito che sappia riscoprire un progetto politico e soprattutto una cultura politica. Ed è proprio su questo versante che l’apporto dei cattolici democratici e popolari, con il contributo di molti altri filoni culturali e ideali, può risultare decisivo e sempre più importante. Questa, oggi, e’ la vera sfida politica per quest’area culturale. Con buona pace dei partiti e dei movimenti identitari.

In quattro capitoli le promesse dei 28 leader per l’Europa di domani

Tratto da Agensir

“Ora che gli effetti dei cambiamenti climatici stanno diventando più visibili e pervasivi, dobbiamo intensificare urgentemente le nostre azioni per gestire questa minaccia esistenziale”: l’affermazione di principio – contenuta nell’Agenda strategica 2019-2024 – c’è; manca, tutto attorno, l’impalcatura politica ed economica. E resta latitante un accordo fondamentale fra i 28: quello sulle “emissioni zero” entro il 2050, per fare in modo che il vecchio continente persegua la “neutralità climatica”. Il Consiglio europeo del 20-21 giugno (nelle foto) non ha trovato la convergenza sulle euronomine (un prossimo summit straordinario è convocato per il 30 giugno), ha rinviato quella sul Quadro finanziario pluriennale, ha analizzato problemi di grosso calibro, come il Brexit, il rafforzamento dell’Eurozona, le minacce alla democrazia derivanti dalla “disinformazione”. Ma non è riuscito a convincere tutti i capi di Stato e di governo a intraprendere con decisione e lungimiranza la strada dell’economia pienamente sostenibile. Paesi come la Polonia, cui si sono allineate Repubblica Ceca e Ungheria, che dipendono ancora per la quasi totalità dal carbone, non ne vogliono sapere di inquinare meno, salvo compensazioni d’altro genere. Per ora rimangono gli impegni dell’Accordo di Parigi: riduzione di Co2 del 40%, rispetto al 1990, da qui al 2030. Meglio di niente.

Direzione di marcia. L’Agenda strategica appare, peraltro, come un successo – sottovalutato dai media – del summit d’inizio estate. Non si tratta, è vero, di un ambiziosissimo e vincolante programma di lavoro delle istituzioni comunitarie e degli Stati membri, ma è piuttosto una direzione di marcia che, se intrapresa con coraggio, potrebbe portare risultati concreti a favore dei cittadini europei.“Negli ultimi anni il mondo è diventato sempre più instabile, complesso e soggetto a rapidi cambiamenti. Ne risultano sia opportunità che sfide”, hanno scritto, e controfirmato, i capi di Stato e di governo nel documento programmatico per il quinquiennio entrante. “Nei prossimi cinque anni l’Ue può rafforzare – e rafforzerà – il proprio ruolo in questo contesto mutevole. Insieme saremo determinati e chiari nei nostri obiettivi, costruendo sulla base dei valori e dei punti di forza che caratterizzano il nostro modello”. Si tratta, se non sono parole al vento, “dell’unica via efficace per dare forma al mondo di domani, promuovere gli interessi dei nostri cittadini, delle nostre imprese e delle nostre società e salvaguardare il nostro stile di vita”.

Orientare i lavori. L’Agenda strategica “fornisce un quadro generale e un indirizzo per tale approccio”. Il suo obiettivo è “orientare i lavori delle istituzioni nei prossimi cinque anni”. L’agenda è incentrata su quattro priorità: proteggere i cittadini e le libertà; sviluppare una base economica forte e vivace; costruire un’Europa verde, equa, sociale; promuovere gli interessi e i valori europei sulla scena mondiale”. Infine, l’agenda tratta delle “modalità con cui realizzare tali priorità”, con qualche vago accenno alle riforme interne.

Protezione e sicurezza. L’Europa “deve essere un luogo in cui ci si sente liberi e sicuri” e l’Ue è chiamata a “difendere i diritti e le libertà fondamentali dei suoi cittadini”. Fra le pompose affermazioni valoriali si legge: “Dobbiamo garantire l’integrità del nostro territorio. Dobbiamo sapere – e dobbiamo essere noi a decidere – chi entra nell’Unione. Il controllo efficace delle frontiere esterne è una condizione imprescindibile per garantire la sicurezza” interna.

“Siamo determinati a sviluppare ulteriormente una politica migratoria globale pienamente funzionante”:

parole risuonate più volte e a vuoto nei palazzi Ue, dove i leader nazionali assumono impegni che poi, sul fronte migratorio, non mantengono. Nello stesso capitolo si legge: “Dobbiamo proteggere le nostre società dalle attività informatiche dolose, dalle minacce ibride e dalla disinformazione provenienti da attori statali e non statali ostili”.

Capitolo economico. “Una forte base economica è di importanza vitale per la competitività e la prosperità dell’Europa” e “per la creazione di posti di lavoro”. In un momento in cui, si sottolinea, “il panorama mondiale è riplasmato da sfide in termini di tecnologie, sicurezza e sostenibilità, dobbiamo rinnovare le fondamenta di una crescita sostenibile e inclusiva a lungo termine e rafforzare la coesione nell’Ue”.“Dobbiamo garantire che l’euro sia vantaggioso per i nostri cittadini”, approfondendo l’Unione economica e monetaria, completando l’Unione bancaria e l’Unione dei mercati dei capitali.“Nei prossimi anni la trasformazione digitale subirà un’ulteriore accelerazione, con effetti di ampia portata. Dobbiamo garantire la sovranità digitale dell’Europa”. Ma un’economia moderna e al passo coi tempi richiede anche di “intensificare gli investimenti nelle competenze e nell’istruzione delle persone”, sviluppare l’imprenditorialità, la ricerca e l’innovazione.

“Verde, equa, sociale”. Terzo punto: “L’Europa ha bisogno di inclusività e sostenibilità, accogliendo appieno i cambiamenti determinati dalla transizione verde, dal progresso tecnologico e dalla globalizzazione, e assicurandosi nel contempo di non lasciare indietro nessuno”. L’Ue “può e deve svolgere un ruolo guida al riguardo, intraprendendo una profonda trasformazione dell’economia e della società per raggiungere la neutralità climatica”.

A questo punto è saltata la parte relativa alle emissioni zero entro il 2050.

D’altro canto “il successo della transizione verde dipenderà da una consistente mobilizzazione di investimenti privati e pubblici e dalla disponibilità di un’efficace economia circolare, nonché dalla presenza di un mercato europeo dell’energia integrato, interconnesso e ben funzionante”, nel rispetto, però, del diritto degli Stati membri di “decidere in merito ai rispettivi mix energetici”. Seguono finalmente alcune righe sui temi sociali: il “pilastro europeo dei diritti sociali dovrebbe essere attuato a livello dell’Ue e degli Stati membri nel debito rispetto delle rispettive competenze. Le disuguaglianze, che colpiscono soprattutto i giovani, rappresentano un rischio politico, sociale ed economico di primo piano”.

L’Europa nel mondo e riforme interne. Infine un lungo capitolo sulle relazioni esterne e sulle necessarie riforme delle stesse istituzioni Ue. Dove, fra l’altro, si legge che l’Unione “continuerà a essere un motore determinante del multilateralismo e dell’ordine internazionale basato su regole, garantendo apertura ed equità e le riforme necessarie. Sosterrà le Nazioni Unite e le organizzazioni multilaterali fondamentali”. Ulteriori sottolineature riguardano la cooperazione internazionale, la politica di vicinato e una politica commerciale “ambiziosa”. Si passa poi al funzionamento della “casa comune”: “ciascuna istituzione dovrebbe riesaminare i propri metodi di lavoro e riflettere sulle migliori modalità per assolvere i compiti stabiliti dai trattati”. La spinta populista e anti-Ue impone un esame di coscienza fra Bruxelles e Strasburgo.

 

Caudo e Raimo, aspiranti Sindaci di Roma, scatenano la guerra in terzo municipio. Perchè vezzegiarli?

Nel terzo Municipio di Roma si consuma una stana guerra. Il Presidente Giovanni Caudo minaccia fuoco e fiamme perché la delibera istitutiva di una casa per i diritti delle donne è stata emendata con voto trasversale dei membri dell’Assemblea consiliare. Il Pd ha dovuto registrare, nella circostanza, che due suoi consiglieri votassero con Lega e Fratelli d’Italia. Lo stato maggiore del Nazareno si è prontamente espresso a favore di Caudo, subito ricevuto con tutti gli onori nella sede nazionale del partito.

Cosa dice l’emendamento incriminato? Nulla di straordinario. In pratica restringe l’uso dei locali pubblici, destinati alla nuova istituzione. per evitare che possa trasformarsi in un “circolo” in mano a gruppi (di sinistra) già attivi sul territorio. Di per sé non rappresenta quel declassamento dell’operazione, che denuncia lo stesso Presidente del Municipio. Sembra dunque la classica tempesta in un bicchier d’acqua, tanto sono labili o pretestuose le motivazioni alla base della polemica.

Sta di fatto che Caudo, già in pre-riscaldamento per la corsa alla candidatura a sindaco di Roma, intende sfruttare l’episodio per chiarire i rapporti all’interno della maggioranza (o più precisamente del Pd). Oggi, secondo le intenzioni che ha lasciato trapelare, potrebbe agitare lo spettro delle dimissioni dinanzi ai quadri di zona del partito. Con questo piglio tanto risoluto mira a disinnescare perlomeno l’ordigno che l’assessore Christian  Raimo – scrittore molto attivo, coccolato dai media, anch’egli intenzionato a correre per la massima carica del Campidoglio – vuole far esplodere tra le gambe dei dirigenti locali del Pd. Un suo post, a dir poco feroce, ieri denunciava come traditori gli artefici del blitz in consiglio municipale.

Visto da vicino, lo spettacolo rivela un accumulo di piccole astuzie e speciose controversie. È difficile prendervi parte con passione. Resta da osservare, semmai, che la pretesa di addomesticare le assemblee elettive mostra il carattere negativo del sistema di elezione diretta dei sindaci e in particolare dei Presidenti di municipio. Perché i traditori dovrebbero essere quelli che non si attengono alle disposizioni di Caudo e Raimo? Forse sono loro, con la tracotanza degli autocrati, a violare una regola fondamentale, che assegna la funzione di indirizzo e controllo agli eletti nei Consigli.

Un po’di rispetto non dovrebbe mai mancare. Una volta nei partiti si considerva intangibile un codice non scritto, in base al quale l’esercizio del potere si specchiava in un sistema di equilibri, con la precauzione di non divinizzare il possesso di una responsabilità istituzionale. Ai Caudo e ai Raimo un partito serio, stile Prima Repubblica, avrebbe già comunicato che tutte le loro ragioni non danno tuttavia ragione di un comportamento inadatto ad aspiranti Sindaci. Al Nazareno, con serietà, dovrebbero rimediare in fretta. Altro che sperticati elogi e rassicurazioni a tutto campo!

Donne: Cisl, “Grande vittoria di civiltà la convenzione contro la violenza nel mondo del lavoro”

“La data di ieri segna un momento storico importantissimo nel cammino contro le molestie e la violenza sulle donne nei luoghi di lavoro. Nella cornice della chiusura dei lavori della 108° Conferenza Internazionale ILO, in concomitanza con il suo centesimo anniversario, è stata approvata a larga maggioranza una Convenzione e Raccomandazione ILO per porre un freno al dilagare della violenza nel mondo del lavoro”. Lo dichiarano in una nota il Segretario Confederale organizzativo della Cisl, Giorgio Graziani e la Responsabile del Coordinamento donne della Cisl, Liliana Ocmin.

“Da tempo la Cisl ed il Coordinamento nazionale donne, erano impegnati a supporto della Campagna promossa dal Comitato Donne dell’Ituc per sostenere e far adottare una Convenzione ILO n.190 e Raccomandazione che vincolasse tutti i paesi aderenti ad intraprendere iniziative concrete contro la violenza e le molestie sul lavoro: il primo Trattato del genere a livello mondiale che riconosce e conferma questo fenomeno come una violazione dei diritti fondamentali di tutte e di tutti.

È una grande vittoria di civiltà aver trovato il giusto punto di condivisione tra tutti i rappresentanti di Governo, del mondo imprenditoriale e dei lavoratori e delle lavoratrici, per fare convergere i voti su un documento che rappresenta un altro passo in avanti per l’affermazione dei diritti delle donne, soprattutto laddove ancora oggi il lavoro è sfruttamento e schiavitù. Le molestie e la violenza sul lavoro esistono, seppur a stadi differenti, in tutto il mondo. Perciò salutiamo con favore questo risultato che ci serve da stimolo per l’impegno che quotidianamente portiamo avanti e che rinnoviamo in difesa di tutti i lavoratori e di tutte le lavoratrici. Oggi possiamo dire che il mondo del lavoro è più rispettoso della dignità di ogni persona”.

La visione e la fatica della tessitura

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Monda

La parola ai poeti, perché a loro spetta più che alle altre categorie umane: chi può dire una parola anche su una questione apparentemente arida, tecnica, come l’attuale situazione di crisi della società italiana ed europea, se non un poeta? Il forlivese Davide Rondoni con piglio deciso rivendica il ruolo della poesia, la capacità che l’arte ha di scrutare e quindi di raccontare l’umano, lo abbiamo quindi voluto incontrare all’interno di questa conversazione, iniziata il 21 maggio con le parole di Giuseppe De Rita su sicurezza e senso, che ruota intorno alla responsabilità della Chiesa cattolica di fronte alle difficoltà in cui si dibatte la società italiana.

Allora, cosa vede il poeta che noi non riusciamo a vedere?

I poeti cercano di guardare una geografia del profondo. Per questo comprendo, ma non mi convince chi, anche su queste pagine nelle settimane scorse, ha assunto come punto di vista per leggere l’attuale situazione parole chiave come «paura». Ma la sicurezza, o il suo opposto la paura, sono sentimenti secondi, vengono dopo. Essi sono la conseguenza dell’affetto (afficio, legame) a un bene che viene prima. Occorre dunque vedere e semmai interpretare quali sono i termini e gli oggetti dell’affetto, del legame dell’uomo contemporaneo se vogliamo leggerne i conseguenti atteggiamenti. Altrimenti, a continuar di parlar di paura o di sicurezza, finiremo per vedere solo le cose secondarie, e la superficie. Inoltre è bene ricordare che il cristiano non ha paura perché ama molto con un senso del destino, ed è lieto. Questo è il suo contributo in ogni tempo: amare con un positivo senso del destino. Questo lo rende compagno di strada di ogni uomo ma al tempo stesso il suo è differente da ogni sforzo basato solo sulla generosità umana di amare. La Chiesa non è una ong, come spesso dice il Papa, ma la comunità di chi riconosce il Risorto, vera esplosione di ultima positività nell’osservare anche le ombre del destino. La Chiesa viva, santa e peccatrice, offre tale contributo. Specie in questo tempo. Quando non lo fa, diviene poco interessante.

La società italiana oggi sembra dominata dal rancore. Da dove nasce questo rancore? De Rita dà una sua lettura, quasi un lutto per quello che non c’è stato, una promessa mancata, un futuro che sembra incrinato, perso. La crisi economica-finanziaria che da anni ha messo in difficoltà gli stati occidentali forse rivela in controluce una preesistente crisi spirituale?

Penso che il sentimento di essere in balìa di forze ben superiori alle proprie è oggi in parte determinato dalla invasività tecnologica, dalla follia terroristica, dalla insicurezza economica, dallo sgretolarsi di abitudini. Questo vale in una porzione del mondo, non ovunque. Ma l’insicurezza soprattutto dipende dalla vacuità degli idoli. L’uomo di oggi da un lato ama le cose di sempre: i figli, le persone con cui si lega, la natura, l’amicizia. E d’altro lato, come sempre, insegue una serie di idoli, di immagini, di cose che «sembrano» quel che egli desidera e ama. Ad esempio nella «comunicazione» si è riversata una fame di amicizia, di relazione (con tutte le storture ovvie). Ci hanno illuso che la comunicazione rendesse più vicine le persone (hanno usato la parola amici per indicare i followers), ma invece abbiamo tanta gente più sola che comunica tanto. L’amicizia, la comunità, l’amore vincono la solitudine, non la comunicazione. Tale idolo, come altri, ad esempio il progresso tecnologico buono in sé, sono stati fabbricati da intellettuali e da loro interpreti politici che li hanno poi «smerciati» al popolo, come nuove ideologie nate sulle vecchie, salvo poi rimproverare il popolo per l’abuso che ne fa. Occorre quindi ripartire non dal contrasto alla paura, ma dalla valorizzazione delle cose amabili e amate, e la Chiesa può esser maestra in questo. E parlare deve essere sempre d’amore, ma adeguatamente, senza dolciastro, senza moralismi. La fame di vita, questo è il punto, non la paura. La Chiesa è fatta di gente che mangia il corpo di Dio tanta è la fame di vita, e deve parlare di Dio, di Gesù, mai vergognarsi di Lui, della sua passione da condannato, della sua risurrezione senza la quale tutto, tutto è vanvera. Parlare di questo, far vedere questo. Moralismi, perbenismi, tatticismi sono pelle morta sul volto della Chiesa.

In questa situazione emerge un dato che ha una sua ambiguità, anche inquietante, cioè il dato dell’identità come risposta alla globalizzazione ma una risposta che si colora di paura e quindi di chiusura e violenza.

Credo sia sbagliato continuare a dare del popolo solo l’idea di una massa che cova rancori. Non che questo manchi, ovviamente, come già aveva descritto Manzoni, o Huizinga che parlava dell’uomo-massa già un secolo fa. Ma il popolo è anche e soprattutto la sede dell’amore, del legame, dell’attaccamento e della tenacia. Della fede e della costruzione. Per trent’anni gli organi di stampa legati al potere finanziario, altri bovinamente accodatisi e una parte non disinteressata di partiti vecchi e nuovi hanno avvelenato i pozzi della politica — grazie anche alla collusione di una parte della magistratura (non solo in Italia ma in molti paesi del mondo) — parlando continuamente di «casta». Il termine fu inventato dal «Corriere della Sera» che non è notoriamente il giornale del popolo e spargendo livore contro la classe politica si sono aperte autostrade a nuovi poteri economici senza volto e trasnazionali. Una politica debole a chi serve, al popolo o a chi vuole comandare senza mediazioni? Stupirsi che abbia allignato un sentimento di antipolitica è grottesco e furbesco. La debolezza della politica e delle comunità intermedie ha favorito tale processo. Qualcuno ora passa all’incasso, anche con una certa eterogenesi dei fini rispetto alle previsioni, di quel malumore che viene bollato a mio avviso in modo superficiale come populismo. Il sovranismo, invece, è una risposta, non banale per quanto ovviamente criticabile come ogni cosa dell’agone politico, alla crisi della globalizzazione, o meglio al rivelarsi della globalizzazione per quel che è, come già aveva previsto uno studioso cattolico, Alexis de Tocqueville, nel 1830, vedendo fin dall’inizio i segni di crisi del liberalismo.

Sta di fatto che il mondo rispetto a sei anni fa, quando è stato eletto Francesco, è cambiato: da Obama a Trump passando per la Brexit, i cosiddetti sovranismi, Bolsonaro… come si spiega e come si affronta questa situazione che richiama in gioco le identità, anche quelle religiose?

Oggi molti, anche in ambito cattolico, forse non avendo mai letto De Tocqueville, scambiano effetti con cause, e questo genera confusione oltre a un discorso culturale inerte. Il problema è che non si legge nemmeno la poesia. Un poeta cristiano, Baudelaire, vedeva nella noia il peggiore dei vizi, già nei Fiori del Male del 1857, e oggi siamo nell’era dell’intrattenimento come potenza economica, culturale e politica. E un altro poeta nel 1940 circa, W.H. Auden, aveva parlato della nostra come “età dell’ansia” e oggi ansiolitici e cannabis quietano animi scontenti di adulti e giovani. Ma a non leggere i poeti che hanno fiuto da lupi si finisce per non comprendere la realtà e si fan risalire certe questioni a categorie politiche e a protagonisti recenti. Che invece sono semmai effetto e interpretazione possibile di una lunga parabola. Occorre leggere e sostenere la speranza degli uomini, non accusarli, né essere manichei (tutti i buoni da una parte e i cattivi dall’altra). La globalizzazione è stata l’ambito ideologico ed economico necessario all’affermarsi della nuova ideologia delle identità. Intendo che serviva una utopia (il mondo senza confini, senza appartenenze, senza punti di vista, tutto relativizzato) per avere l’ambito adeguato all’affermazione di potenze economiche nuove e delle identità mutevoli a seconda di atti, preferenze, tendenze, gusti. Il tema della identità (che è il problema della modernità) è esploso in questi anni perché nessuno, se non l’uomo autenticamente religioso, sa rispondere adeguatamente al grido del poeta moderno Leopardi alla luna: «e io che sono?». La cultura dominante e la politica hanno pensato di rispondere a questa domanda dicendo «tu sei senza confini, la tua identità è mutevole e coincidente coi tuoi desideri». Non ne sono venuti però più gioia o più benessere. Invece ci sono confini (non nasci da solo, la tua vita non è un bene solo a tua disposizione) e l’unica vera identità umana è l’infinito, il problema dell’infinito. Non l’assenza di confini, in una sorta di metafisica orizzontale di cui la «rete» è strumento e idolo, ma il rapporto con Dio e l’infinito. Altrimenti l’identità è ciò che decide il potere (piccolo e stupido quello personale, potente e influentissimo quello sociale). Il consumatore con una propria e autonoma identità radicata a un livello invincibile e irriducibile è più scomodo, è meno standard di quello la cui identità, o le cui identità, sono plasmate e profilate dal potere.

Il Papa propone ormai da anni il tema, anzi il metodo, della sinodalità, cioè il camminare insieme, il conoscersi, il fare qualcosa insieme in un processo in cui “alto” e “basso” si intrecciano armoniosamente. Si avverte però un po’ di fatica a capire bene come realizzare questa sinodalità all’interno della Chiesa e della società, come mai?

Non sono certo un ecclesiologo… Un po’ scherzando (e un po’ no) mi definisco un «cattolico anarchico di rito romagnolo». La sinodalità, il metodo della unità, è la cosa più facile se si è lieti e se non si confonde la fede con una ideologia e se dunque non si ha nulla da difendere a livello ideologico. Una esperienza cristiana teme e ostacola il camminare insieme solo quando pretende che il cammino della comunità coincida con il proprio progetto o ideologia. La sinodalità non è come l’unità conquistata faticosamente da un partito diviso tra correnti, ma è la gioia semplice degli afferrati da Cristo, una letizia che trascina insieme persone con sensibilità e idee diverse. Gli scontenti si dividono, i lieti stanno insieme anche se diversissimi, lo posso testimoniare per quel che riguarda la mia esperienza. Nella storia della Chiesa abbiamo visto camminare insieme santi enormi e diversissimi, campioni di idee e sensibilità opposte. L’unità non viene dalla mediazione ma dal senso vivo dell’origine che viene assicurata nella sua lettura fondamentale dall’autorità del Papa. Il resto è, fin dagli inizi, un meraviglioso, misterioso e pure un po’ incasinato, mosaico.

Per il Papa possedere una coscienza di popolo è l’antidoto al populismo e richiama tutti, anche i politici, alla dimensione creativa, “artigianale”, di avviare processi di dialogo, di tessere legami che costruiscano la pace contro la rassegnazione e il rischio sempre presente di chiudersi in gabbie ideologiche, astratte, che portano alla divisione. La dimensione culturale, intellettuale e artistica può svolgere un ruolo in questo quotidiano lavoro di costruzione di un mondo più umano?

Se cercano il vero e il bello sì. Se si accomodano su schemi facili o nella ripetizione tranquillizzante di slogan e schemi no. Diventano lettera morta, estetica manieristica. E per cercare il vero e il bello, come i poeti sanno, occorre la visione e la fatica della tessitura. E quel che vale per l’arte vale per la società, su piani diversi, ma con identica urgenza. La Chiesa può decidere ancora se essere culturalmente e artisticamente un ambito interessante oppure solo manierismo e variante secondaria di filosofie altrui. Ma sai, lo Spirito soffia, e Gesù, il grande Sconfitto, non direi che si è dato per vinto, schizzando come un tappo di champagne dalla tomba, fantastico brindisi alla vita.

Il destino di Istanbul

Articolo già apparso sulle pagine della rivista Atlante Treccani a firma di Dimitri Bettoni

La metropoli turca si è ritrovata senza sindaco, commissariata dopo le elezioni amministrative dello scorso 31 marzo, quando l’esito delle urne è stato annullato e una nuova chiamata indetta per il prossimo 23 giugno. Il Partito popolare repubblicano (CHP, Cumhuriyet Halk Partisi), pur avendo ottenuto meno distretti rispetto ai rivali, era riuscito a strappare al Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP, Adalet ve Kalkınma Partisi) lo scranno di sindaco della città metropolitana. Ekrem İmamoğlu, candidato dell’opposizione, aveva vinto con uno scarto di soli 25.000 voti sullo sfidante di Binali Yıldırım, ex primo ministro ed in passato più volte ministro in vari governi targati AKP. Un margine di scarto praticamente nullo per una città che conta 16 milioni di abitanti. Soprattutto, un evento completamente inatteso e sorprendente rispetto ad altre città, come Ankara o Adalia, dove il cambio di poltrona era stato da più parti anticipato. Istanbul, invece, era ritenuta una roccaforte intoccabile del conservatorismo turco dell’AKP, la città che il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan aveva indicato come il caposaldo da tenere per chi voglia controllare la Turchia.

La vittoria di İmamoğlu è però durata soltanto diciotto giorni. La Commissione elettorale suprema (YSK), in risposta alle pressioni giunte dall’AKP sconfitto, ha revocato il mandato a causa di presunte irregolarità nelle nomine di scrutatori e presidenti di seggio, che secondo una recente riforma devono essere pubblici ufficiali. Una decisione contestatissima, considerato che tali provvedimenti non sono impugnabili in alcun modo e dovrebbero perciò essere il risultato di uno scrutinio condotto nella massima trasparenza. Invece la Commissione è stata travolta da accuse di sudditanza nei confronti del partito al governo e del presidente Erdoğan, personalmente in prima linea nell’invocare nuove elezioni. Il Consiglio di giudici e procuratori (HSK) ha avviato un’indagine a carico dei presidenti dei consigli elettorali distrettuali, dopo l’esposto contro di essi presentato dalla YSK per aver formato i comitati elettorali locali senza il rispetto delle disposizioni di legge. Un atto dovuto, ma anche un tassello per rendere più solida la decisione di annullamento a livello procedurale: non puoi cancellare le elezioni senza indicare un colpevole.

In questo contesto rovente, di enorme sfiducia nelle istituzioni e di forte polarizzazione, dove l’astio tra i due schieramenti è fortissimo, ci sono poche possibilità di assistere ad un consistente spostamento di voti da un campo all’altro. L’attenzione è rivolta, piuttosto, ai circa 600.000 astenuti che possono davvero fare la differenza. Istanbul conta perché è la città gioiello di Turchia, il simbolo di una storia nazionale secolare. Istanbul è anche la metropoli che muove miliardi di euro di budget, il motore dell’economia sul quale si fonda quell’intreccio di relazioni clientelari con il mondo degli affari, spesso tutt’altro che trasparenti, che ha costituito una delle colonne portanti del potere di Erdoğan e dell’AKP. La domanda sulle labbra di tutti da ormai due mesi è quindi: chi vincerà?

 

Perché l’opposizione può vincere

Nonostante la destituzione, Ekrem İmamoğlu resta sulla cresta dell’onda. Ha ferito l’AKP, dando prova della vulnerabilità di un partito che, dalla sua fondazione nel 2002, non aveva mai subito una sconfitta così bruciante e inattesa. Una ferita che si riflette sulla figura di Erdoğan, che si era speso molto nella precedente campagna elettorale a sostegno di Yıldırım.

La preoccupante situazione dell’economia turca resta il tallone d’achille dell’amministrazione uscente, oltre che del governo in carica. Gli indicatori che allarmano di più sono l’inflazione, da mesi stabilmente attorno al 20%, e i dubbi sulla capacità del Paese di sostenere il debito pubblico e soprattutto quello privato. L’agenzia di rating Moody ha di nuovo rivisto in negativo il profilo della Turchia, in quella che le autorità turche continuano a considerare aperta guerra economica. Non è un caso che la campagna elettorale di Yıldırım ad Istanbul sia passata dal mantra della “difesa della nazione”, che ha dato prova di non pagare in una competizione locale, ad una serie di promesse di ripresa economica ed estensione di welfare e benefit. Il nervo scoperto sul tema si misura anche dai trentotto tra giornalisti ed economisti coinvolti in procedimenti giudiziari per i loro commenti sul quadro economico del Paese. Rischiano da due a cinque anni di carcere, accusati di aver «tentato di indebolire l’ordine economico e la stabilità dello stato». I pestaggi e le aggressioni a diversi altri giornalisti nelle ultime settimane sollevano un inquietante questito: sono pronti l’AKP e i suoi elettori, specialmente le frange più oltranziste, ad accettare una sconfitta elettorale? Il rischio è di vedere altra violenza nelle strade, specialmente in un Paese che, dopo il tentato golpe del 2016, ha perso le tracce di una quantità enorme di armi allora distribuite alla popolazione dalle caserme di polizia per fronteggiare i reparti golpisti dell’esercito.

 

Perché l’AKP può ribaltare il risultato e riprendere Istanbul

Il partito di governo AKP continua a godere di un enorme seguito. Il rischio palese di perdere Istanbul può riportare all’ovile molti elettori sì scontenti, ma pronti a turarsi il naso e concedere nuova fiducia al campo conservatore pur di non cedere il passo ai secolaristi repubblicani.

Le reminiscenze della vecchia gestione CHP degli anni Novanta, con il suo welfare carente e i molti quartieri semiabbandonati, sono ancora vive nella memoria di molti cittadini, anche perché il Partito repubblicano, all’opposizione ad Istanbul da un quarto di secolo, non ha avuto modo di dimostrare di essersi evoluto imparando dal proprio passato. Parte del successo di Ekrem İmamoğlu è attribuibile proprio ai risultati ottenuti come amministratore del distretto di Beylikdüzü.

Dall’altro lato, l’AKP può vantare una lunga tradizione di associazionismo di quartiere, reti sociali, la costruzione di uno Stato sociale all’occidentale e una discreta dose di politiche populiste, come quella realizzata da Erdoğan che qualche mese fa distribuiva pacchi di tè, amatissimo dai turchi, lanciandoli dal palco della campagna elettorale.

Oltre al fronte conservatore, su cui l’AKP continua ad esercitare un monopolio politico, il partito ha individuato nell’elettorato curdo una potenziale fonte di consensi apprezzabile, nonostante la campagna militare in corso nel Sudest del Paese a maggioranza curda. I Curdi di Istanbul hanno avuto un peso determinante nella vittoria di İmamoğlu, dopo che il Partito democratico dei popoli (HDP, Halkların Demokratik Partisi) aveva offerto al candidato repubblicano il proprio appoggio attraverso una tattica vincente: non presentare candidati propri e indicare in İmamoğlu l’uomo da votare. L’AKP cerca ora di recuperare parte di questi consensi. Erdoğan ha visibilmente abbandonato la retorica nazionalista anticurda e si è addirittura allontanato dalla scena, sostenendo che la vittoria o la sconfitta saranno merito o colpa di Yıldırım, mossa che gli consentirà di evitare altri danni alla sua figura in caso di nuovo insuccesso. Dal canto suo, Yıldırım ha avviato nei confronti dei Curdi un corteggiamento senza freni, arrivando a rompere di nuovo il tabù della parola “Kurdistan” nel corso di un comizio nella città di Diyarbakir, nella speranza che il riverbero della parola giunga fino alla consistente popolazione di Istanbul. La mossa può potenzialmente attrarre voti, ma anche allontanare quei sostenitori ultranazionalisti che negli ultimi quattro anni hanno fornito un’importante stampella sia a livello locale che nazionale. Analogamente, la riapertura dei canali di comunicazione con il leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK, Partîya Karkerén Kurdîstan) Abdullah Öcalan, dopo anni di isolamento totale, indica la volontà dell’AKP di tentare i movimenti curdi con l’offerta di un nuovo processo di pace, qualora Istanbul venisse riconquistata.

Tra i sostenitori delle opposizioni persiste la paura di brogli. Il governo di Erdoğan già in passato ha dimostrato di faticare ad accettare risultati sfavorevoli. Un’inchiesta del quotidiano kemalista Cumhuriyet ha rivelato la scomparsa di molte persone dalle liste elettorali utilizzate il 31 marzo, sostituite con nominativi diversi. I partiti di opposizione hanno invitato i cittadini a verificare i propri nominativi presso le anagrafi e a presentare un’eventuale richiesta di correzione. Sono stati mobilitati 150.000 scrutatori aggiuntivi.

Qui potete trovare l’articolo completo 

Costruire insieme il futuro del lavoro

Riceviamo, per mail,  e volentieri pubblichiamo l’abstract dell’editoriale di Aggiornamenti Sociali 

Si conclude oggi, 21 giugno, a Ginevra l’annuale Conferenza internazionale sul lavoro, che nel 2019 riveste un significato speciale, visto che questa istituzione celebra il centenario della propria fondazione. L’editoriale del numero di giugno-luglio di Aggiornamenti Sociali, firmato dal direttore Giacomo Costa SJ e da Paolo Foglizzo, riflette sulle peculiarità dell’OIL, che ne fanno un protagonista di primo piano nelle dinamiche economiche e sociali a livello globale, e traccia un primo bilancio delle iniziative collegate all’anniversario in cui la stessa rivista è stata coinvolta dal 2015.

«Fondata in un contesto segnato da eurocentrismo e colonialismo – scrivono in apertura gli autori -, l’OIL si trova a incarnare in un mondo enormemente più variegato e plurale in termini culturali, politici e sociali, e al tempo stesso estremamente più interconnesso e interdipendente, l’intuizione con cui si apre il Preambolo della sua Costituzione: “una pace duratura non può che essere fondata sulla giustizia sociale”».

Per tenere fede a questa mission, l’OIL può contare su alcuni fattori strategici: il primo è il metodo del dialogo sociale come frutto della propria struttura tripartita. «Fin dalle origini – spiega l’editoriale – ogni Paese membro è rappresentato da una delegazione composta da due delegati governativi, da un rappresentante dei lavoratori e da uno dei datori di lavoro. (…) Per l’OIL il “volto” di ciascun Paese non coincide con quello del rispettivo Governo, ma vi è una rappresentanza dotata di una legittimità originaria e indipendente per quelle che in italiano chiamiamo parti sociali». In altre parole vi è la consapevolezza, oggi ancora più attuale di 100 anni fa che, «lo Stato, pur rivestendo un ruolo centrale, non è davvero in grado di riassumere e rappresentare adeguatamente tutte le componenti della società».

Un secondo elemento centrale nel mandato dell’OIL, continua l’editoriale, «è il compito di elaborare norme e standard internazionali in materia di lavoro, e di supervisionarne l’applicazione, adottando un approccio dichiaratamente multilaterale». Un compito che «manifesta la fiducia nella possibilità di elaborare strumenti di governance internazionale con un metodo multilaterale. Qualcosa di cui oggi molti dubitano, tra gli osservatori così come tra i politici che guidano molti Paesi».

Un terzo punto sottolineato da Aggiornamenti Sociali è la forza che ha acquisito nel tempo un’espressione elaborata dall’OIL già vent’anni fa nel rapporto Decent work, quella di “lavoro dignitoso”. «Con grande rapidità – scrivono Costa e Foglizzo -, la locuzione si è imposta ben oltre i confini dell’OIL. (…) Si tratta di un indubbio successo, provato anche dalla capacità del concetto di “federare” soggetti di provenienza molto diversa, come sindacati, ONG, movimenti di militanti. Fin da subito, anche la Chiesa ne ha riconosciuto le potenzialità: già nel 2000, in occasione del Giubileo dei lavoratori (1° maggio), Giovanni Paolo II incoraggiò l’azione dell’OIL, lanciando un appello per la creazione di una coalizione in favore del lavoro dignitoso». Questo successo non deve tuttavia far dimenticare «il rischio del suo svuotamento retorico».

Proprio al tema del lavoro dignitoso, e alle azioni necessarie per una sua promozione sempre più efficace, è dedicato un documento diffuso il 12 giugno dai soggetti promotori del progetto “The future of work. Labour after Laudato si’”, con cui una rete di partner internazionali si interroga su come ripensare il lavoro all’interno del quadro di riferimento dell’ecologia integrale proposto da papa Francesco, con l’obiettivo di offrire un contributo anche alla riflessione sul futuro dell’OIL.

Il documento, dal titolo, Ampliare l’agenda del lavoro dignitoso per affrontare l’attuale crisi globale, contiene 9 proposte: è disponibile integralmente sul nostro sito.

All’interno di questa iniziativa internazionale Aggiornamenti Sociali è direttamente impegnata su due fronti: il primo è una ricerca su come il magistero di papa Francesco stimoli pratiche di innovazione sociale, cioè su quanto le organizzazioni, di matrice cattolica e non solo, riescano effettivamente a tradurre in atto i valori a cui si ispirano. La ricerca, condotta insieme al CeSPI (Centro studi di politica internazionale) di Roma, è partita dall’analisi delle affermazioni di papa Francesco sul tema del lavoro e come primo risultato ha prodotto la pubblicazione del volume Il lavoro è dignità Le parole di papa Francesco, ma è ancora in corso.

Il secondo impegno di Aggiornamenti Sociali, anche questo con una rete di partner internazionali, è diretto alla formazione dei futuri leader delle organizzazioni di ispirazione cattolica attive nel mondo del lavoro su un duplice piano: l’acquisizione di strumenti operativi di lettura della realtà e l’approfondimento delle motivazioni personali e spirituali del loro impegno, alla luce della dottrina sociale della Chiesa.

 

Csm, Mattarella: “Quadro sconcertante e inaccettabile, ha minato autorevolezza delle toghe”

Rivolgo a tutti un saluto cordiale, particolarmente ai due nuovi consiglieri, cui auguro buon lavoro all’interno del Consiglio nell’interesse della Repubblica.

Il saluto e gli auguri sono accompagnati da grande preoccupazione. Quel che è emerso, nel corso di un’inchiesta giudiziaria, ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile.

Quanto avvenuto ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio ma anche per il prestigio e l’autorevolezza dell’intero Ordine Giudiziario; la cui credibilità e la cui capacità di riscuotere fiducia sono indispensabili al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica.

Il coacervo di manovre nascoste, di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di poter manovrare il CSM, di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato, si manifesta in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’Ordine Giudiziario e con quel che i cittadini si attendono dalla Magistratura.

Tengo a ringraziare il Vice Presidente, il Comitato di Presidenza e i Consiglieri presenti per la risposta pronta e chiara che hanno fornito, con determinazione, non appena si è presa conoscenza della gravità degli eventi.

La reazione del Consiglio ha rappresentato il primo passo per il recupero della autorevolezza e della credibilità cui ho fatto cenno e che occorre sapere restituire alla Magistratura italiana.

Di essa i cittadini ricordano i grandi meriti e i pesanti sacrifici anche attraverso l’esempio di tanti suoi appartenenti e hanno il diritto di pretendere che quei meriti e quei sacrifici non vengano offuscati.

A questo riguardo non va dimenticato che è stata un’azione della Magistratura a portare allo scoperto le vicende che hanno così pesantemente e gravemente sconcertato la pubblica opinione e scosso l’Ordine Giudiziario

Oggi si volta pagina nella vita del CSM. La prima di un percorso di cui non ci si può nascondere difficoltà e fatica di impegno. Dimostrando la capacità di reagire con fermezza contro ogni forma di degenerazione.

Tutta l’attività del Consiglio, ogni sua decisione sarà guardata con grande attenzione critica e forse con qualche pregiudiziale diffidenza. Non può sorprendere che sia così e occorre essere ancor più consapevoli, quindi, dell’esigenza di assoluta trasparenza, e di rispetto rigoroso delle regole stabilite, nelle procedure e nelle deliberazioni.

Occorre far comprendere che la Magistratura italiana – e il suo organo di governo autonomo, previsto dalla Costituzione – hanno al proprio interno gli anticorpi necessari e sono in grado di assicurare, nelle proprie scelte, rigore e piena linearità.

La Costituzione prevede che l’assunzione di qualunque carica pubblica – ivi comprese, ovviamente, quelle elettive – sia esercitata con disciplina e onore, con autentico disinteresse personale o di gruppo; e nel rispetto della deontologia professionale.

Indipendenza e totale autonomia dell’Ordine Giudiziario sono principi basilari della nostra Costituzione e rappresentano elementi irrinunziabili per la Repubblica. La loro affermazione è contenuta nelle norme della Costituzione ma il suo presidio risiede nella coscienza dei nostri concittadini e questo va riconquistato.

Potrà avvenire – e confido che avverrà – anzitutto sul piano, basilare e decisivo, dei comportamenti. Accanto a questo vi è quello di modifiche normative, ritenute opportune e necessarie, in conformità alla Costituzione.

Ad altre istituzioni compete discutere ed elaborare eventuali riforme che attengono a composizione e formazione del CSM. Viene annunciata una stagione di riforme sui temi della giustizia e dell’ordinamento giudiziario in cui il Parlamento e il Governo saranno impegnati.

Il Presidente della Repubblica potrà seguire – e seguirà con attenzione – questi percorsi ma la Costituzione non gli attribuisce il compito di formulare ipotesi o avanzare proposte.

Il CSM, peraltro, può – ed è, più che opportuno, necessario – provvedere ad adeguamenti delle proprie norme interne, di organizzazione e di funzionamento, per assicurare, con maggiore e piena efficacia, ritmi ordinati nel rispetto delle scadenze, regole puntuali e trasparenza delle proprie deliberazioni.

La giustizia è amministrata in nome del popolo italiano e in base alla Costituzione e alla legge: queste indicazioni riguardano anche il Consiglio Superiore della Magistratura.

Questo è l’impegno che al Consiglio chiede la Comunità nazionale ed è il dovere inderogabile che tutti dobbiamo avvertire.

La Sharing mobility si incontra a Roma

Il nuovo modello di mobilità condivisa continua la sua crescita e la sua evoluzione in Italia e nel Mondo. Per fare il punto su tutte le tendenze in atto, il 27 giugno prossimo si svolgerà a Roma la 3° Conferenza nazionale sulla Sharing Mobility, organizzata dall’Osservatorio nazionale Sharing Mobility presso la Sala Esquilino nella cornice dell’ala Mazzoniana della Stazione Termini. 

La Conferenza si  svolgerà durante l’arco della giornata. Durante la mattina saranno presentati i contenuti del 3° Rapporto nazionale sulla sharing mobility e saranno discussi, con la partecipazione di esperti nazionali e internazionali, dati e trend aggiornati della mobilità condivisa in Italia. Nel corso della mattinata, inoltre, Deloitte presenterà in esclusiva un’analisi industriale e sociale relativa agli scenari presenti e futuri della Nuova Mobilità. Nella seconda parte della mattinata un ampio spazio d’approfondimento sarà dedicato alle politiche e le misure favorevoli alla diffusione dei servizi di sharing mobility. Un’occasione di dialogo con Governo, Parlamento e Autorità dei Trasporti sui temi affrontati dai gruppi di lavoro dell’Osservatorio, tra cui: riforma codice della strada, politiche urbane, incentivi e nuovi modelli assicurativi.

La sessione del pomeriggio, che vedrà la partecipazione di alcune best practice internazionali del settore, sarà invece dedicata al contributo della sharing mobility nello sviluppo delle Green Cities. Seguendo gli interventi dei relatori, si ragionerà sugli impatti positivi della mobilità condivisa nei contesti urbani pesantemente sotto pressione a causa del traffico veicolare privato, sulla pianificazione e l’uso dello spazio pubblico, sull’ accessibilità e l’equità.

Durante tutta la giornata, inoltre, gli operatori membri del Network presenteranno al pubblico tutte le novità relative ai loro servizi.

Intanto gli Usa sospendono i voli sopra i cieli iraniani

Secondo il New York Times l’attacco contro l’Iran era pronto già l’altro ieri.

Solo all’ultimo momento il presidente americano Donald Trump che aveva approvato gli  attacchi ha cambiato idea.

L’operazione era nella fasi iniziali, con gli aerei già in aria e le navi posizionate, quando è arrivato il contrordine.

Dopo questo ripensamento, però, l’Autorità per il trasporto aereo americano ha vietato agli operatori statunitensi di volare nello spazio aereo controllato da Teheran sopra lo Stretto di Hormuz e il Golfo dell’Oman.

United Airlines aveva già sospeso i voli dall’aeroporto di Newark, uno degli scali di New York, a Mumbai per motivi di sicurezza.

 

Cresce il progresso digitale delle amministrazioni pubbliche locali

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Presso la prefettura di Lecce si è tenuto il convegno “L’Anagrafe nazionale della popolazione residente: tra innovazione tecnologica e semplificazione”. L’iniziativa, promossa dal Dipartimento per gli Affari interni e Territoriali del Viminale e dalla prefettura, in collaborazione con l’ufficio del commissario straordinario per la transizione al digitale e la partecipazione di Anci Puglia, Sogei Spa e Anusca, ha affrontato in particolare il tema della banca dati nazionale nella quale confluiranno le circa 8.000 anagrafi comunali, nonchè quello sullo stato di attuazione del progetto nei Comuni delle province di Lecce e Taranto, con possibilità di ulteriore miglioramento per i Comuni della provincia di Brindisi.

Il capo dipartimento Elisabetta Belgiorno ha assicurato agli amministratori locali, il supporto del Ministero per la condivisione dei percorsi e dei procedimenti necessari al subentro. Anche il prefetto di Lecce, Maria Teresa Cucinotta, evidenziando l’attività in corso per l’attuazione del progetto nelle province di Lecce, Brindisi e Taranto, per le quali erano presenti i rispettivi prefetti, ha confermato il sostegno alla digitalizzazione avviata dai Comuni. L’Anagrafe della popolazione residente (Anpr) è una delle piattaforme abilitanti indicate nella “Strategia per la crescita digitale 2014-2020”.

Le piattaforme abilitanti rappresentano, all’interno della strategia, gli asset chiave per permettere lo sviluppo di servizi digitali innovativi. Queste sono realizzate secondo la logica del Digital First e mettendo in primo piano l’esperienza utente. L’Anpr consiste in una banca dati centralizzata che subentrerà alle Anagrafe comunali e all’Anagrafe italiani residenti all’estero (Aire). Questo permetterà di superare l’attuale frammentazione della gestione dell’anagrafe della popolazione (più di 8.000 diverse banche dati gestite dai singoli Comuni). I cittadini potranno inoltre verificare la propria posizione e/o richiedere certificazioni anagrafiche presso qualsiasi Comune. In alternativa, si potranno utilizzare servizi online centralizzati e “profilati”. L’Anpr renderà disponibili: lo scambio di informazioni tra Comune e Comune, nell’ottica di semplificazione dei processi amministrativi; l’allineamento delle basi dati locali; il censimento continuo comprensivo della toponomastica; i servizi anagrafici centralizzati per pubblici servizi; altri servizi e basi dati, in ottica di integrazione nazionale dei sistemi informativi di interesse pubblico, come, ad esempio, quello dello stato civile.

Regione Puglia e OMS attivano una collaborazione per le valutazioni sanitarie a Taranto

Un passo decisivo nella direzione richiesta dai cittadini tarantini di fare ulteriori approfondimenti sui dati ambientali e sanitari. La Regione Puglia comunica, infatti, di aver formalizzato una collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità in tema di valutazioni di impatto sanitario per la città di Taranto.

“I rapporti di collaborazione tra Regione Puglia e OMS risalgono al 2016 e si sono sempre più rafforzati, portando all’adesione della Regione alla Rete Europea delle Regioni dell’OMS (RHN – Regions for Health Network) e al Protocollo ‘Breath the Life’, presentato nel corso della I Conferenza Mondiale OMS sul tema ‘Inquinamento Atmosferico e Salute'”, dichiara Michele Emiliano, Presidente di Regione Puglia.

“La specifica sinergia concordata tra Regione Puglia e OMS per le valutazioni sanitarie nella città di Taranto si colloca nel contesto del protrarsi di una situazione di incertezza per la salute dei tarantini, di complessità dei dati disponibili e non scevra da risvolti giudiziari – attestati non solo dalle sentenze della Corte Costituzionale della Repubblica Italiana ma anche dal recente pronunciamento della Corte Europea dei diritti dell’Uomo- circa la compatibilità ambientale e sanitaria delle attività siderurgiche di Taranto, che rappresentano una fonte di crescente insicurezza per la popolazione, oltre che di un potenziale danno d’immagine ed economico per lo sviluppo della città e della Puglia”.

“L’accordo di collaborazione su un tema di rilievo internazionale come quello di Taranto, di primario interesse sia per la Regione Puglia che per l’Organizzazione Mondiale della Sanità, mira ad arricchire di tutte le competenze che metteremo in campo quelle risorse e professionalità già presenti nell’ambito dell’amministrazione regionale e del Servizio Sanitario della Puglia, affinché si possa operare sinergicamente, con l’insostituibile contributo delle istituzioni sanitarie nazionali, in primis il Ministero della Salute, l’Istituto Superiore di Sanità e l’ISPRA, oltre che di quelle ambientali”, spiega Francesca Racioppi, Direttore del Centro Europeo Salute e Ambiente OMS.

“Non si tratta di una iniziativa che conduce alla delegittimazione delle strutture regionali deputate ma piuttosto di una forma di collaborazione tesa al raggiungimento dell’obiettivo di definire l’impatto sanitario derivante dalle fonti antropiche presenti sul territorio di Taranto, nei diversi scenari identificati, ivi incluso l’attuale assetto, cosa che fino ad oggi non risulta essere stata compiuta, esigenza non più procrastinabile. Oggetto specifico della collaborazione tra Regione Puglia e gli Uffici europei dell’OMS riguarda la realizzazione di una Valutazione d’Impatto Sanitario per la città di Taranto, relativamente agli scenari del piano di decarbonizzazione proposto dalla Regione, a partire dai livelli produttivi autorizzati all’acciaieria Arcelor Mittal, nonché valutazioni d’impatto cumulativo”, commenta l’ingegnere Barbara Valenzano, Direttore del Dipartimento regionale per l’ambiente nonché firmataria di ben due richieste di riesame del provvedimento di Autorizzazione Integrata Ambientale dell’ex ILVA di Taranto negli ultimi due anni (riesame dell’AIA recentemente riaperto dal Governo).

Soddisfatto il Presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA), Alessandro Miani: “Non vengono deluse le aspettative e le richieste di massimo impegno – per giungere a una sempre più chiara conoscenza della situazione sanitaria e ambientale – avanzate dai cittadini e delle associazioni tarantine, raccolte da SIMA nell’ambito della piattaforma di confronto civico del ‘Laboratorio Taranto’, scaturito dalla prima conferenza europea svoltasi a Taranto il 26 novembre scorso. SIMA intende garantire partecipazione e voce in capitolo – ma verificandole sempre col filtro dell’evidenza scientifica – alle istanze della cosiddetta “citizens science”, di cui Taranto sta diventando un laboratorio, cioè il giusto impegno degli stessi cittadini tarantini per la trasparenza delle informazioni circa la salubrità dei loro ambienti di vita e di lavoro”.

“Con tale iniziativa, la Regione Puglia, nella dimensione europea che attualmente la caratterizza su questi temi, intende offrire anche ai livelli tecnici nazionali un contributo di sicuro rilievo, come quello dell’OMS, per giungere entro un anno a una più completa e aggiornata valutazione della situazione sanitaria di Taranto e fornire anche al Governo ulteriori strumenti conoscitivi per una revisione complessiva dell’attuale assetto industriale della città, nella direzione indicata dalle strategie europee di cui la Puglia punta a diventare meta-modello per l’uscita dall’economia del carbone”, conclude il Presidente Michele Emiliano.

Se il Pd scegliesse M5S, un nuovo centro nascerebbe contro il Pd

Tratto dall’edizione odierna dell’huffingtonpost

Temo che la cura omeopatica del populismo sia nociva. Si affaccia purtroppo la tentazione di smontare la maggioranza gialloverde offrendo una sponda al Movimento 5 Stelle. Prende piede cioè la suggestione di un cambio di alleanze, anche in questa legislatura, con l’invito al Pd a superare giuste riserve ed obiezioni. Per altro, le alleanze sono fondamentali per identificare una forza politica. Un detto popolare recita così, in maniera lapidaria: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Con il crollo delle ideologie, questa piccola cautela cognitiva diventa la bussola per non perdersi nel vuoto che la cancellazione delle classiche polarizzazioni – destra sinistra e centro – determina nella vita democratica. Dunque, affrontare a viso aperto questo tema, con discorsi sinceri e concreti, rappresenta una necessità.

Il Pd ha molti difetti, ma non quello dell’autocensura. Non vige al nostro interno la regola del centralismo democratico. Si discute, apertamente e liberamente, senza mascherare il dissenso. Tutto ciò è positivo, non solo per noi. Vuol dire che un “partito aperto” esiste, non è una chimera.

È sbagliato, tuttavia, che il confronto interno eluda o ignori una minima disciplina di buon senso. Abbiamo tenuto una direzione nazionale, articolandola in due sedute, con il segretario impegnato a trovare una sintesi. Anche stavolta è sembrato che uno sforzo di reciproca comprensione fosse ampiamente condiviso. Invece, come nel passato recente e meno recente, chiusa la direzione si è materializzato un altro discorso, con altre prospettive.

Ora, adombrare l’ipotesi di un’alleanza con il M5S è operazione scorretta, se posta a distanza di poche ore dalla verifica negli organi di partito. Dovremmo rilanciare la “vocazione maggioritaria” e strizzare l’occhio, al tempo stesso, a Di Maio? Molta parte dell’elettorato, benché ostile alla destra, vedrebbe con fastidio un nostro cedimento al populismo grillino. Zingaretti ne è consapevole, come dimostra la prudenza da lui adottata su questo delicatissimo punto. Non si capisce, del resto, su quali basi dovremmo intavolare il confronto con i pentastellati.

Di questo passo, abbozzando con disinvoltura un’alleanza altamente controversa, miniamo la credibilità del PD. L’illusione è pensare che a uno strappo non ne consegua un’altro, di segno opposto. È vero, il “centro” può essere uno spazio occupato da noi, non c’è bisogno che si costituisca un clone politico di segno moderato. Ma la svolta filo-grillina darebbe fiato a un “centro” virtualmente incompatibile con un blocco democratico-populista. Allora non nascerebbe un generico “centro” (amico del Pd), bensì un nuovo soggetto politico desideroso di rimarcare la propria autonomia (dal Pd). A Zingaretti spetta il compito di tenere ferma la rotta.