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martedì, 4 Novembre, 2025
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L’Italia di Buscetta

Fonte Succede Oggi a firma di Lidia Lombardi

Non c’era modo migliore, ieri, per ricordare la morte di Giovanni Falcone, schiantato dalle bombe della mafia ventisette anni fa sulla strada che da Palermo conduce all’aeroporto. A Cannes, sulla mondana Croisette, si è proiettato Il Traditore, il film di Marco Bellocchio in concorso per la Palma d’Oro. E contemporaneamente la pellicola è uscita in 350 copie nelle sale italiane. Un atto molto più politico, di sincero impegno civile, rispetto alle cerimonie commemorative, soprattutto quella tenutasi nell’aula bunker dell’Ucciardone, alla quale non ha partecipato il sindaco Leoluca Orlando – c’erano il premier Conte e il presidente della Camera Fico – in polemica con il ministro dell’Interno Salvini. Un colpo di teatro inutile e fuorviante in una giornata in cui le istituzioni dovevano mostrarsi unite, scevre da polemiche strumentali.

Che cosa racconta infatti Il traditore? La vita di Tommaso Buscetta; meglio, la tranche della sua vita a partire dagli anni Ottanta e fino alla morte. La vita in fuga della prima gola profonda della mafia, un racconto lungo 487 pagine, raccolto da Falcone in un’istruttoria esemplare, che produsse 366 mandati di cattura ad altrettanti boss di Cosa Nostra, tutti condannati. Di fatto, la decapitazione della Piovra siciliana. Tommaso Buscetta è morto nel Duemila, a 72 anni, nel suo esilio negli Usa pagato dallo Stato italiano. È morto nel suo letto, come aveva fortissimamente voluto. Era diventato collaboratore di giustizia per questo motivo, e per proteggere la sua famiglia. Appresso si è portato molti misteri, primo fra tutti come andò veramente il “caso Andreotti”, che egli accusò “per deduzione”, come gli fece notare nel dibattimento l’avvocato Fausto Coppi, difensore del democristiano. Ma aver ricostruito vent’anni di storia italiana che già si offusca e che anzi, quando torna a galla – l’abbiamo visto all’Ucciardone – si piega comunque alle tattiche meschine, è un gran merito di Bellocchio, e di Beppe Caschetto, che ha prodotto il film distribuito da 01.

L’ottantenne regista di Piacenza si è ancora una volta speso per un cinema civile. Ha ripercorso una fetta di storia italiana (come in Vincere e in Buongiorno, notte). Ma insieme al quadro storico – l’epoca delle stragi, col corollario delle legislazioni speciali, l’ombra della trattativa Stato-Mafia, il processo Andreotti – egli disegna il personaggio, qui appunto Tommaso Buscetta, mentre là erano stati Mussolini e Aldo Moro. E lo fa mettendo di fronte allo spettatore cronaca e interiorità del protagonista. Del quale si narra a partire da un banchetto tra boss per la festa di Santa Rosalia che sembra voler chiudere la guerra tra palermitani e corleonesi. Non è così, il traffico d’eroina aizza gli uomini d’onore, Riina vuole tutto il potere, anche quello di Bontade e Badalamenti, l’asticella delle vendette si alza fino all’eliminazione di donne e bambini. Buscetta fiuta l’aria e se ne va a Rio, con la nuova moglie brasiliana e i piccoli. Lascia in Sicilia i due figli maggiori, li affida a Pippo Calò, che invece li farà fuori. Ma il Brasile non basta al “boss dei due mondi”. La Polizia Federale Brasiliana lo arresta, lo tortura. Lui non parla. Rapida è l’estradizione, che non riesce a evitare neanche tentando il suicidio con la stricnina. Lo prende in consegna Gianni De Gennaro, il più fedele collaboratore del giudice Giovanni Falcone. Al primo incontro, a Roma, più o meno le stesse parole pronunciate nell’Ucciardone a inizio processo, dopo aver confermato tutte le dichiarazioni rese in istruttoria: «Sono stato e resto un uomo d’onore, quello spirito non è cambiato, sono loro che hanno tradito Cosa Nostra. Per questo, signor Presidente, io non mi considero un pentito». Intorno, dalle gabbie, ululano e gesticolano feroci guidati da Luciano Liggio. Solo una smorfia mostra Calò. Sono sequenze magistrali per misura e forza, altrettanto quanto quelle del confronto tra Buscetta e Calò e della deposizione di Totuccio Contorno.

L’articolo completo è visionabile qui 

Elezioni europee 2019 come si vota

Per votare ci si può recare presso il seggio elettorale di iscrizione. La sezione, il numero e l’indirizzo del proprio seggio sono riportati sulla tua tessera elettorale.

Al proprio seggio si riceve una scheda, di colore diverso a seconda della propria circoscrizione elettorale:

– grigio, per l’Italia nord-occidentale (Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia)

– marrone, per l’Italia nord-orientale (Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Emilia Romagna)

– rosso, per l’Italia centrale (Toscana, Umbria, Marche, Lazio)

– arancione, per l’Italia meridionale (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria)

– rosa, per l’Italia insulare (Sicilia, Sardegna).

Ciascun elettore può esprimere il suo voto di lista tracciando una X nel box corrispondente alla lista scelta. Si possono allo stesso tempo esprimere anche da uno a tre voti di preferenza, per i candidati che appartengono alla lista scelta. In caso di più preferenze, queste devono essere assegnate a candidati di sesso opposto, pena l’annullamento.

Il voto di preferenza si esprime scrivendo il nome e il cognome o solo il cognome dei candidati nelle righe tracciate accanto al box della lista.

 

Confesercenti: L’Italia che non cresce

I consumatori italiani oggi consumano meno di otto anni fa. Nel 2018 la spesa media annuale in termini reali – cioè al netto dell’inflazione – delle famiglie italiane è stata di 28.251 euro, inferiore di 2.530 euro ai livelli del 2011 (-8,2%). Una cifra superiore ad un mese intero di acquisti da parte di una famiglia media e anche alla perdita effettiva di reddito (-1990 euro) registrata nello stesso periodo. Complessivamente, il mercato interno italiano ha perso circa 60 miliardi di euro di spesa negli ultimi otto anni, ed il bilancio probabilmente continuerà a peggiorare.

Si spende di meno praticamente su tutto – ad eccezione di Istruzione e Sanità – ma la spending review delle famiglie non ha colpito con la stessa forza tutte le voci. Tra le spese più rappresentative nei bilanci domestici, sono state tagliate soprattutto le spese per l’abitazione, -1.100 euro circa all’anno per famiglia rispetto al 2011. Tagli importanti anche su abbigliamento (-280 euro), ricreazione e spettacoli (-182 euro), comunicazioni (-164 euro), alimentari (-322 euro). In proporzione, però, è la voce comunicazioni ad aver perso di più: la flessione della spesa è del 19%. Gli italiani spendono di meno anche per gli smartphone, un tempo passione nazionale. Impressionante anche la riduzione del budget impegnato sugli alimentari: una voce di consumo che un tempo si riteneva una ‘spesa incomprimibile’, e che invece ha perso il 6%. Crescono invece le spese per la sanità (+12,1%) e l’istruzione (+24,7%).

Tra questo ed il prossimo anno, la spesa delle famiglie dovrebbe registrare un lieve recupero, anche grazie alle misure espansive adottate nell’ultima legge di Bilancio (vedi Focus): al 2020 si stima una spesa media annuale in termini reali di 28.533 euro, con un incremento annuo di poco più di 140 euro. La previsione, però, non incorpora il possibile aumento delle aliquote Iva previsto dalle clausole di salvaguardia per il 2020, e non ancora scongiurato ufficialmente.

L’aumento dell’Iva annullerebbe tutti i progressi, portando ad una riduzione di 8,1 miliardi di euro della spesa delle famiglie, pari a 311 euro di minori consumi a testa. L’impatto dell’IVA avrebbe un effetto devastante anche sul tessuto delle imprese del commercio, già in sofferenza. La frenata dei consumi che seguirebbe l’incremento delle aliquote IVA porterebbe, secondo le nostre stime, alla scomparsa di altri 9mila negozi circa da qui al 2020.

Maltempo: addio a un frutto su 4

A causa di una primavera maledetta si rischia di perdere un frutto su quattro nelle campagne italiane, dalle fragole alle ciliegie, dalle nespole alle albicocche, dalle pere ai meloni fino ai cocomeri per l’ondata di pioggia, grandine e allagamenti che ha devastato le coltivazioni e ridotto le disponibilità dei primi raccolti nel carrello della spesa. E’ quanto emerge da una prima analisi della Coldiretti sugli effetti del maltempo, anche se bisognerà però attendere ancora qualche settimana per verificare come reagiranno le piante e quantificare l’esatta entità del danno.

Con l’arrivo della nuova perturbazione – sottolinea la Coldiretti – gli agricoltori hanno corso contro il tempo per salvare il salvabile e portare i prodotti di stagione nei mercati di www.campagnamica.it  di tutta Italia a partire da quello di Roma in via san Teodoro 74. Un’iniziativa per sostenere l’economia e l’occupazione locale, ma – precisa la Coldiretti – anche un aiuto agli stessi consumatori per tornare in forma con l’inizio dell’estate e non rinunciare ad alimenti importanti per la propria salute.

La situazione peggiore si registra sulle ciliegie – spiega la Coldiretti – dove è andato distrutto oltre il 50% del prodotto in prima raccolta per effetto del maltempo che ha colpito le principali regioni produttrici, dalla Puglia all’Emilia Romagna alla Campania fino al Veneto. Ma pioggia e grandine non hanno risparmiato neppure le nespole in Sicilia o le pere, soprattutto sui territori veneti ed emiliani, dove si arriva a un calo fino al 70% per le varietà abate e kaiser. Gravi danni anche per albicocche buttate giù da grandine e pioggia e per le fragole, finite sott’acqua a causa degli allagamenti. I problemi interessano però anche i meloni in Lombardia e i cocomeri in fase di maturazione nel Lazio e in Puglia.

Assieme alla frutta si contano pesanti danni anche agli ortaggi – rileva Coldiretti – a partire da insalate e radicchi, senza dimenticare il fatto che il maltempo ha bloccato anche le attività di semina di prodotti come i piselli e quelle di trapianto dei pomodori. Nei campi allagati – ricorda la Coldiretti – è, infatti, impossibile entrare per effettuare le necessarie operazioni colturali mentre dove si è già seminato i germogli e le piantine soffocano per la troppa acqua. Una situazione che mette a rischio i redditi delle aziende agricole, i primati dell’Italia che vanta la leadership in Europa per la produzione di molti tipi di frutta e verdura e la stessa salute dei consumatori.

In queste condizioni – sostiene la Coldiretti – è importante aumentare le attività di controllo per evitare che vengano spacciati per Made in Italy prodotti importati. Ma per ottimizzare la spesa, ottenere il miglior rapporto prezzi-qualità e aiutare il proprio territorio e l’occupazione, il consiglio della Coldiretti è quello di verificare l’origine nazionale, acquistare prodotti locali che non devono subire grandi spostamenti, comprare direttamente dagli agricoltori nei mercati o in fattoria e non cercare per forza il prodotto perfetto perché piccoli problemi estetici non alterano le qualità organolettiche e nutrizionali, i cosiddetti “brutti ma buoni”.

Corridoio di trasporto multimodale panafricano: la visione della Ue

La nuova Alleanza Africa-Europa per la crescita e l’occupazione sostenibile si concentra su tre settori chiave: trasporto aereo, sicurezza stradale e connettività. A oggi, un risultato concreto dell’avvio della piattaforma ad alto livello è stato l’annuncio dei tre filoni di attività: individuare gli investimenti con un forte impatto sulla crescita e la creazione di posti di lavoro; analizzare i rischi degli investimenti energetici e proporre orientamenti per degli investimenti e un ambiente imprenditoriale sostenibili; stimolare gli scambi tra il settore privato africano e quello europeo. A Lipsia gli esperti dei due continenti si sono scambiati idee e proposte su come migliorare la connettività dei trasporti con l’Africa, stimolando gli investimenti in questo settore, al fine di sostenere lo sviluppo del corridoio di trasporto multimodale panafricano, correggerne le inefficienze, realizzare riforme strutturali.

La task force “trasporti”, istituita ad hoc, ha riunito i soggetti del settore energetico privato e pubblico di entrambi i continenti per promuovere il partenariato tra le imprese europee e africane. Essa contribuirà a creare maggiori opportunità nel campo degli investimenti nelle energie sostenibili in Africa e ad affrontare le nuove sfide contrastando i principali ostacoli esistenti. Gli obiettivi generali della piattaforma sono essenzialmente rivolte alla realizzazione delle riforme strutturali nel settore dei trasporti.

A questo riguardo proprio il commissario europeo per i Trasporti, Violeta Bulc, ha detto: “La rete transeuropea, che collega le reti di trasporto stradali, ferroviarie, aeree e fluviali, può fornire indicazioni importanti per essere eventualmente replicata lungo i corridoi di trasporto africani. Lo scambio di conoscenze su come migliorare i collegamenti di trasporto e collegare meglio persone e imprese è l’esempio tipico di attività reciprocamente vantaggiosa che caratterizza l’Alleanza Africa Europa”.

“Un’infrastruttura di trasporto ben funzionante, che garantisca una connettività di qualità, sostenibile e affidabile, è essenziale per lo sviluppo, l’integrazione economica e la crescita – ha aggiunto il commissario per la Cooperazione internazionale e lo sviluppo, Neven Mimica – . La riunione di oggi costituisce un ulteriore passo avanti verso il raggiungimento degli obiettivi dell’Alleanza Africa-Europa: promuovererà gli investimenti e creerà posti di lavoro in Africa. La prossima mossa sarà aumentare gli investimenti del settore privato in quest’ambito, caratterizzato da un’elevata domanda, grazie a un ambiente settoriale favorevole e migliorato, rispettando i principi di sostenibilità economica, ambientale e sociale”.

Esercizio fisico: un toccasana anche per il tumore

L’esercizio fisico  va prescritto anche nei pazienti con tumore. E dall’Australia arrivano delle linee guida ad hoc.  Le nuove linee guida rappresentano una rivoluzione in questo campo della medicina, caratterizzato nella precedente versione dell’Exercise and Sports Science Australia’s (ESSA), da raccomandazioni generiche in merito all’attività fisica, che prevedeva 3-5 sedute a settimane di esercizi aerobici o di resistenza ad intensità da lieve a moderata.

La nuova versione invece personalizza la prescrizione dell’esercizio fisico sulla base della tipologia del paziente e degli obiettivi da raggiungere, dalla correzione del linfedema, alla fatigue. Frutto questo delle evidenze che si sono accumulate nell’ultima decade.

Anche se un’attività fisica di intensità moderata-elevata potrebbe risultare appropriata per la maggior parte dei pazienti oncologici, nelle nuove linee guida non ci sono prescrizioni prestabilite o ‘quantità’ settimanali standard per tutti i pazienti.
Infatti come non esiste un paziente oncologico uguale all’altro, allo stesso modo non ha senso insomma consigliare un esercizio fisico ‘a taglia unica’.

Anche il leone deve avere chi racconta la sua storia

Tratto dall’Osservatore Romano a firma di Giulio Albanese

Oggi si celebra, tradizionalmente, la Giornata mondiale dell’Africa. La ricorrenza coincide con l’anniversario della costituzione dell’Organizzazione per l’unità africana (divenuta in seguito Unione africana), avvenuta nel 1963 per celebrare l’indipendenza, allora appena conquistata, da molti paesi nei confronti dei regimi coloniali.

Dobbiamo, comunque, riconoscere che, nell’inconscio collettivo occidentale, si è sedimentato nel tempo una sorta di pregiudizio verso questo continente. In effetti, le “Afriche” — è doveroso il plurale parlando di un continente tre volte l’Europa — vengono costantemente redarguite, quasi fossero irriducibilmente bocciate dalla storia, quella delle grandi civilizzazioni.

Ecco che allora, spesso, molto spesso, ogni genere di comunicazione riferita al continente africano si riduce ai soliti stereotipi di atrocità, guerre, carestie, pandemie e permanente instabilità. Non solo. Le Afriche sono solitamente percepite, nell’immaginario nostrano, quasi fossero una realtà a sé stante, anni luce distante dal resto del mondo; una sconfinata terra di conquista fatta di savane, deserti e foreste pluviali i cui popoli, per misteriose ragioni ancestrali, sarebbero istintivamente avversi alla mente razionale e al pensiero scientifico.

Occorre, pertanto, sfatare certi luoghi comuni che soffocano ogni serio ragionamento, nella consapevolezza che questo continente costituisce un poliedrico contenitore di saperi millenari, luoghi di passioni, ricchezza culturale e artistica, galassia di etnie fatte di volti con le loro storie da scoprire. D’altronde, come ricordava sensatamente il compianto storico britannico Basil Davidson, questi pregiudizi non giovano alla causa del bene condiviso, ma semmai acuiscono il fraintendimento, pregiudicando l’incontro. Emblematico è l’aneddoto, raccontato dallo stesso Davidson, riguardante un etnografo e viaggiatore tedesco di nome Leo Frobenius. Questo distinto signore nel 1910 si trovava in Nigeria ed ebbe la fortuna di scoprire delle statuette di terracotta di rara bellezza e fattura. Frobenius non volle ammettere allora che quelle sculture fossero opera di artigiani dell’etnia Youruba e s’inventò di sana pianta una teoria secondo cui i greci avrebbero colonizzato prima della nascita di Cristo le coste dell’Africa occidentale, lasciando ai posteri quei volti umani che le popolazioni autoctone non avrebbero mai potuto concepire.

Si tratta, pertanto, di andare decisamente al di là di certa mentalità, quasi l’uomo bianco avesse bisogno d’inventare le Afriche con le sue affermazioni narcisistiche. E sì perché le Afriche, contrariamente alle indicazioni fornite da certi spot strappalacrime, non sono povere, semmai risultano impoverite. E le stragi perpetrate da quelle parti, che spesso colpiscono direttamente le comunità cristiane, rispondono sempre a logiche predatorie nei confronti di tanta umanità dolente. Poco importa che si tratti delle feroci milizie jihadiste, o di formazioni ribelli come nel caso dei Mai-Mai, nella Repubblica Democratica del Congo, dietro le quinte si celano interessi legati alle commodity, le preziose materie prime di cui è ricco il continente.

Le responsabilità ricadono, certamente, su potentati stranieri, più o meno occulti, con la complicità di quelle classi dirigenti locali, incapaci di servire la Res publica.

Per comprendere la discrasia è sufficiente operare un confronto tra le ricchezze di un paese come la Repubblica Centrafricana — con una superficie due volte l’Italia e una popolazione di 4 milioni e mezzo di abitanti — e una regione italiana come la Basilicata. La prima ha un Pil di circa 2 miliardi di dollari, la seconda di 12.250.329.322 di dollari. Senza voler nulla togliere alle bellezze paesaggistiche e alle ricchezze naturali della Lucania, c’è da rilevare che la Repubblica Centrafricana è ricca di diamanti, petrolio, uranio, legname e quant’altro. Non v’è dubbio che se vi fosse equità, gli abitanti di questo paese potrebbero essere più ricchi di quelli del Canton Ticino. E invece il Centrafrica è stato devastato da guerre civili, stragi perpetrate da bande armate finanziate da lontano.

Ecco perché Papa Francesco, il 30 novembre del 2015, aprì la Porta santa, nella cattedrale della capitale centrafricana Bangui, inaugurando così il Giubileo della misericordia: a fianco dei poveri. D’altronde, come spiegava con lucidità e schiettezza il compianto scrittore nigeriano Chinua Achebe, «Anche il leone deve avere chi racconta la sua storia. Non solo il cacciatore». Un detto ancestrale che evoca l’istanza di guardare alle Afriche senza pregiudizi e stereotipi, andando al di là di una visione paternalistica, ammantata di carità pelosa.

Sì perché questo continente ha una dignità inalienabile che nessuno può misconoscere.

 

Theresa May si dimetterà il 7 giugno

Theresa May lascerà la guida del partito conservatore il 7 giugno, aprendo la strada a un successore che si insedierà come nuovo primo ministro della Gran Bretagna, probabilmente entro la fine di luglio.

Theresa May, durante il suo discorso, ha rivendicato i meriti della sua premiership e ha sottolineato che il successore dovrà cercare un compromesso sulla Brexit.

“E’ e sarà sempre un motivo di profondo dispiacere per me il fatto di non essere stata in grado di portare a termine la Brexit”

Dopo le dimissioni di May ci sarà una nuova elezione. Al momento i favoriti  sono l’ex ministro degli Esteri ed ex sindaco di Londra Boris Johnson e  Andrea Leadsom, la ministra del governo che si occupava dei lavori parlamentari e che questa settimana aveva annunciato le sue dimissioni, in aperta polemica con May. Entrambi convinti sostenitori di una Brexit dura.

Altri possibili futuri primi ministri sono Dominic Raab, ex ministro per Brexit del governo britannico; Jeremy Hunt, il segretario agli Esteri; e Michael Gove, ministro dell’Ambiente.

Comunque, a chiunque verrà eletto toccherà il compito di raccogliere i cocci cercando di non infliggere nuovi danni all’economia britannica.

Elezioni europee: I grandi del Web vogliono sostenere il voto

Strumenti e simboli per invitare al dovere e diritto democratico di votare in queste elezioni europee sono stati elaborati dalle grandi piattaforme social.

Facebook, insieme alla battaglia contro le fake news (ad  oggi, sono oltre 6 milioni gli utenti sospesi dal social network in vista delle elezioni europee) che ha portato avanti in queste settimane, ha attivato informazioni agli elettori e il simbolo “Ho votato” che si potrà cliccare il giorno delle elezioni.

Google ha preparato un “doodle” e richiami al voto.

Sono comparsi anche emojii e stickers. Queste piattaforme, insieme a youtube, instagram e twitter, hanno anche un “punto di contatto per emergenze” durante i giorni delle elezioni.

 

Seattle: la città che ha abbattuto il traffico giornaliero

Seattle una città di 725.000 persone ha compiuto un enorme salto verso il sogno di diventare un luogo dove è facile vivere senza guidare tutti i giorni o senza possedere un’auto.

A marzo 2016, il sistema di ferrovia leggera Link ha aggiunto due stazioni, una nel quartiere di Capitol Hill e una presso l’Università di Washington. “All’improvviso, si può arrivare da Capitol Hill al centro in due minuti”, dice Keith Kyle, presidente del gruppo di pressione Seattle Subway. “Rispetto a quello a cui la gente era abituata, potresti anche teletrasportarti.”

I risultati di questo progetto, l’ultimo di una lunga serie di investimenti di trasporto di massa, sono stati notevoli e Seattle ama pubblicizzarli: dato che la città è cresciuta in termini di popolazione, aggiungendo posti di lavoro ed edifici mentre il traffico automobilistico è diminuito .

Ad affermarlo è il municipio. Dal 2006, epoca in cui la città ha iniziato a crescere, anche il trasporto leggero è aumento e dopo l’espansione più recente, il numero di utenti giornalieri è salito dell’89% rispetto all’anno precedente.

A novembre 2016, ispirati dal successo della metropolitana leggera, gli elettori di Seattle hanno approvato un’impressionante tassa di 54 miliardi di dollari per espandere ulteriormente il sistema di trasporto della regione. Tutto questo per far diventare  il sistema di ferrovie leggere grande quanto il sistema metropolitano di Washington, DC.

E grazie a questa riduzione del traffico, in 12 minuti i ciclisti possono attraversare tutto il centro città senza paura.

Cosa che ha portato più gente verso l’uso della bicicletta come mezzo di trasporto.

Seattle non ha, però, bandito le auto, né lo vuole. Piuttosto, ha finalmente realizzato un sistema multimodale equilibrato, ricostruendo una città fatta per le auto in una città in cui tutti possano viaggiare senza traffico.

Anche perché meno macchine sulla strada vuol dire maggiore salute per tutti.

 

Al via i laboratori per la valorizzazione dei beni culturali organizzati da AnciLab

Partono mercoledì 29 maggio i laboratori per la valorizzazione dei beni culturali, organizzati e gestiti da ANCILab, società in house di ANCI Lombardia, nell’ambito della rassegna “Laboratori per l’innovazione”. Un approfondimento e confronto su aspetti tecnici, strategici e di innovazione per la valorizzazione dei beni culturali.

I laboratori per la valorizzazione dei beni culturali metteranno a confronto gli stakeholder del settore, su tre principali temi: il finanziamento, la gestione organizzativa e dell’innovazione ed infine la comunicazione. Al centro dei lavori anche l’innovazione tecnologica che rappresenta un’importante occasione di ridisegno degli interventi di valorizzazione del nostro patrimonio culturale.

Le giornate formative saranno dedicate agli amministratori locali, chiamati a svolgere un ruolo di guida e coordinamento tra diversi attori affrontando questioni complesse come la gestione economica del progetto di riqualificazione e il coordinamento con gli altri soggetti pubblici coinvolti e le imprese, che partecipano presentando il loro punto di vista e le esperienze innovative maturate.

I temi e le metodologie operative adottate sono illustrati nella presentazione che alleghiamo.
La partecipazione al Laboratorio è gratuita, ma il numero di posti a disposizione è limitato.

Per prenotarsi è necessario inviare una e-mail di richiesta all’indirizzo info@ancilab.it.
Seguirà una e-mail di conferma di partecipazione al Laboratorio, con maggiori indicazioni sull’organizzazione degli incontri.
Gli incontri del Laboratorio si terranno presso la Casa dei Comuni di ANCI Lombardia, a Milano, in via Rovello, 2.

Corruzione: l’Italia supera la valutazione periodica prevista dall’Onu

Nell’ambito del secondo Rapporto di valutazione, previsto per gli Stati contraenti, il nostro Paese è risultato è risultato pienamente in linea in materia di prevenzione e recupero dei beni. Oltre a dare atto dei progressi compiuti a partire dal 2012 nella lotta alla corruzione, il Report si è concentrato sull’efficacia dell’azione svolta dall’Anac, sottolineando che la legislazione italiana “prevede l’applicazione di tutte le disposizioni della Convenzione relative alla prevenzione”.

Il Rapporto, presentato ieri presso il Ministero degli Affari esteri, elogia il lavoro dell’Autorità sotto diversi aspetti, soprattutto per le buone prassi introdotte. Nello specifico, viene manifestato particolare apprezzamento per lo sviluppo di un modello di controllo sugli appalti pubblici economicamente rilevanti, così da impedire l’infiltrazione mafiosa e quella criminale. Il riferimento è agli “High Level Principles per l’integrità, la trasparenza e i controlli efficaci di grandi eventi e delle relative infrastrutture”, che già l’Ocse aveva definito una best practice internazionale.
Più in generale, per quanto riguarda i profili di competenza dell’Autorità, il Rapporto riconosce vari punti di forza al modello italiano della prevenzione: la centralità del Piano nazionale anticorruzione redatto dall’Anac e lo sforzo per coinvolgere nell’elaborazione dei propri atti normativi tutti gli enti della Pubblica amministrazione e gli stakeholder; la creazione di una piattaforma online dedicata alle segnalazioni di whistleblowing e l’istituzione di un ufficio specifico per la loro trattazione; la collaborazione con la società civile e l’impegno nella promozione di appositi programmi educativi all’interno delle scuole.

“Il lusinghiero giudizio dell’Onu sull’attività dell’Anac è per noi motivo di particolare orgoglio – ha detto il presidente dell’Autorità Raffaele Cantone -. Il Rapporto non solo riconosce il lavoro svolto nel corso di questi anni, ma dimostra quanto sia importante un’azione di sistema per contrastare la corruzione, nella quale la repressione non può essere disgiunta dalla prevenzione. Una valutazione tanto favorevole, fra l’altro – conclude Cantone – produce ricadute positive in termini di immagine e reputazione internazionale di cui può beneficiare tutto il Paese”.

Alzheimer: perché invecchiano i neuroni

Lo studio realizzato dall’istituto americano Van Andel e coordinato dalla ricercatrice Viviane Labrie ha messo in evidenza che nei malati di Alzheimer il cervello perde più rapidamente le sequenze di DNA che modulano l’attività dei geni e mantengono giovani i neuroni. Nello stesso tempo viene invece accelerata l’attività dei geni che favoriscono la formazioni delle placce che uccidono le cellule celebrali.

Gli scienziati hanno analizzato le sequenze di DNA alla scoperta dei fattori che a seconda dell’età e dell’ambiente influiscono sull’attività dei geni nel cervello. In particolare, è stata posta l’attenzione su quegli “interruttori” che accendono e spengono i geni tra individui sani e malati di Alzheimer. Quest’ultimi hanno mostrato una progressiva perdita di sequenze di DNA nei vari stadi della malattia.

Nuovi incarichi e riorganizzazione pastorale nella diocesi di Roma

«Abbiamo lavorato sul ripensare alcuni incarichi, in vista della partenza di monsignor Paolo Lojudice per Siena (di cui è stato nominato vescovo lo scorso 6 maggio, ndr). Abbiamo lavorato con il Papa e con i vescovi ausiliari». Ha esordito così il cardinale vicario Angelo De Donatis, questa mattina (venerdì 24 maggio 2019), davanti ai vescovi ausiliari, ai parroci prefetti, ai direttori degli Uffici e a tutti i dipendenti del Vicariato di Roma, riuniti nell’Aula della Conciliazione del Palazzo Lateranense. E ha illustrato, in sintesi, questa riorganizzazione.

Diventa vescovo ausiliare per il settore Sud, al posto di monsignor Lojudice, monsignor Gianrico Ruzza; prende il suo ruolo di ausiliare per il settore Centro monsignor Daniele Libanori, e diventa prelato segretario generale del Vicariato don Pierangelo Pedretti, che resta vicedirettore ad interim dell’Ufficio amministrativo.

Per «interagire in maniera più profonda», ha annunciato ancora il cardinale vicario, «ciascun vescovo non avrà più soltanto la cura del territorio di settore, ma delle aree di pastorale da prendere in cura che riguardano tutta la diocesi». Quindi monsignor Ruzza è delegato per la Pastorale d’ambiente, per la Pastorale familiare con incarico specifico per lo sviluppo del Catecumenato matrimoniale e la preparazione dell’Incontro internazionale delle famiglie; rimane inoltre cappellano della Camera dei deputati. Il vescovo Paolo Selvadagi, ausiliare per il settore Ovest, è delegato per la Pastorale giovanile, per l’Ecumenismo e il Dialogo interreligioso e per la Pastorale della cultura.

Ancora, monsignor Guerino Di Tora, vescovo ausiliare per il settore Nord, è delegato per l’Ordo Viduarum. Monsignor Paolo Ricciardi è vescovo delegato per la Pastorale sanitaria e assume anche la delega per l’Ordo Virginum. Monsignor Daniele Libanori diviene ausiliare per il settore Centro e vescovo delegato per il Clero e i Seminari. Monsignor Gianpiero Palmieri, oltre a essere vescovo ausiliare per il settore Est, assume la delega per il Diaconato permanente nonché per la Carità, la Pastorale dei migrantidei rom e incaricato del Centro per la cooperazione missionaria tra le Chiese.

Il grande peccatore

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Roberto Righetto

C’era anche Vladimir Solov’ev, il filosofo amico e discepolo del grande scrittore, a dare l’ultimo saluto a Fëdor Dostoevskij, quel giorno di febbraio del 1881, al monastero Alexander Nevskij a San Pietroburgo. Solov’ev fu anche il pensatore e critico che più di ogni altro diede una lettura squisitamente religiosa dell’opera di Dostoevskij, che vide in lui un “sacerdote dell’arte”, il profeta di un cristianesimo fondato sulla misericordia, colui che più di ogni altro scrittore ha indagato la profondità dell’animo umano, gli abissi del male in cui può cadere ma al tempo stesso ha spalancato le porte alla redenzione.

Si sa che Dostoevskij, pur essendo profondamente credente, andava poco in chiesa e non amava i preti: tutta la sua attenzione religiosa era focalizzata sulla figura di Cristo. Un’icona era appesa negli studi in cui lavorava, che si trovasse a Pietroburgo o a Semipalatinsk, in Siberia, dove fu mandato nel 1854 dopo quattro anni trascorsi nella fortezza di Omsk in seguito alla condanna subita per cospirazione, preceduta dal famoso episodio della falsa fucilazione. Una situazione che torna spesso nel romanzo di Ferruccio Parazzoli Il grande peccatore, pubblicato da Bompiani (pagine 240, euro 17), tutto incentrato sulla figura di Razumichin, l’amico di Raskolnikov nel romanzo Delitto e castigo, e sul suo rapporto immaginario con l’autore russo.

Ecco cosa dice a metà libro Dostoevskij, che si rivolge al seguace ma a suo modo traditore: «E tu cosa credi, che dopo quattro anni di lavori forzati, io, FM Dostoevskij, il più potente scrittore di storie quali nessuno scrittore ha mai immaginato, io, figlio della santa madre Russia, sotto lo sguardo di quel Cristo che tengo lì, inchiodato al muro, mi lascerò scoraggiare, abbattere, naufragare? Nulla potrà fermarmi, la miseria, i debiti, la famiglia, neppure lo zar. Lavorerò con fervore, con furore, sarò il più grande scrittore che la Russia abbia avuto dopo Puskin».

Il volume di Parazzoli è un omaggio al suo autore prediletto, ma al tempo stesso si fa ritratto irriverente di Dostoevskij e insieme uno scavo del tutto originale in quel sottosuolo che da sempre ha affascinato entrambi. Indagato da Parazzoli in tutta la sua opera, dai romanzi più religiosi alla trilogia su Milano, con quel viaggio nel mondo oscuro della metropolitana che fa ricordare l’apologo di Buzzati Viaggio agli inferni del secolo, in cui in una contemporanea discesa agli inferi s’immagina il regno di Satana come una metropoli bloccata dal traffico: la porta dell’Ade è l’ingresso della metro.

L’invenzione di Parazzoli consiste nel ridare vita a un personaggio minore, Razumichin appunto (o Vrazumichin), che dopo aver assistito ai funerali di Dostoevskij si reca da un editore per proporgli la sua versione della vita dello scrittore, che egli stesso ha affiancato nelle varie fasi, viaggio in Europa e in Italia compreso. Cercando di farsi suo discepolo e di imparare da lui (invano) le arti della narrativa ma contemporaneamente denunciandone le bassezze. Si viene così a sapere che Dostoevskij avrebbe conosciuto Raskolnikov a Wiesbaden, dove come al solito si era fermato per giocare al casinò, e avrebbe convinto il giovane studente universitario a commettere quel crimine efferato ma perfetto cui poi si sarebbe ispirato per scrivere Delitto e castigo. FM — come spesso lo chiama Parazzoli — aveva infatti bisogno di un fatto di cronaca nera per trovare il puntello per dare vita alle sue storie. E, in questo caso, si trattava di dimostrare che «si può commettere un’azione riprovevole conservando la propria integrità morale, toccare la lordura senza restarne contaminato».

Come si può capire, romanzo e vita si sovrappongono: spesso prevale la disillusione, la miseria che può colpire ogni individuo, anche il più grande; altrove si afferma la pietà, come quando nel finale Dostoevskij torna dalla moglie Maria Dmitrievna, che aveva abbandonato per seguire altre avventure, per accompagnarla alla morte. O quando si richiama l’anelito nichilista della gioventù rivoluzionaria. Molti critici del resto, come noto, hanno visto nell’opera dello scrittore russo il presentimento della rivoluzione d’Ottobre, con i suoi demoni e i suoi orrori. Tutto questo c’è nel romanzo Il grande peccatore, che più che le anti-memorie di Dostoevskij definirei uno scavo singolare ma autentico nel sottosuolo mai del tutto esplorato di quello che ritengo il più grande scrittore mai esistito.

Cittadini del mondo

Fonte Associazione Popolari

Per interpretare i grandi cambiamenti del nostro tempo – e per comprendere il successo dei partiti populisti – dobbiamo aver chiari i concetti legati alla sovranità e alla tutela delle identità nazionali in un mondo sempre più globalizzato. Nel nostro piccolo abbiamo la fortuna di pubblicare gli articoli in cui Beppe Ladetto ci fa interrogare sul senso vero delle parole, modificate nella loro percezione dall’evolversi della storia e della cultura. Le sue ultime riflessioni, che partono dal significato del termine “confine”, sono di grande attualità, e sono sostanzialmente condivisibili. Di certo “confine” non è una parolaccia ma un concetto cui dare il giusto valore, così come è positiva l’attenzione al territorio e all’identità nazionale che i confini delimitano.

Il confine in sé non è una cosa cattiva, come non lo è il diritto di proprietà. Tutti diamo per scontato che in casa nostra facciamo entrare solo chi vogliamo e che gli ospiti devono rispettarne le regole. Diversa, tra i proprietari, è la volontà/capacità di accogliere: c’è chi si rinchiude nel bunker, c’è chi apre la propria dimora agli amici e, all’occorrenza, a chi ha bisogno di riparo.

Non tutte le persone, non tutte le popolazioni sono egualmente ospitali, e tutti ne abbiamo consapevolezza, senza che mi attardi in esempi. Tra “chiusura” e “apertura” verso “l’altro da sé” c’è una disputa filosofica che riguarda l’essenza stessa dell’uomo. Ladetto aderisce alla teoria che risale ad Aristotele, ritenendo la nostra specie “costitutivamente sociale”. Siamo nell’eterna contrapposizione tra homo homini lupus e homo homini deo, mai veramente risolta, dato che il libero arbitrio permette sempre all’uomo di scegliere tra il bene e il male, tra la prevaricazione e la collaborazione con i suoi simili. Vorrei poi sottolineare l’amara considerazione di Ladetto sugli animali, che “difendono lo spazio loro indispensabile per sopravvivere”, mentre “gli umani tendono a conquistare territorio per sottomettere e sfruttare altri membri della propria specie”. E anche la condanna dell’individualismo sfrenato della nostra epoca: che questo frutto dell’ultimo liberismo selvaggio, in aggiunta alla brama di potere e ricchezza sempre esistite, abbia creato una serie di guasti sociali e politici, è tanto evidente da non richiedere aggiunte.

Dove però vorrei approfondire il pensiero di Ladetto è per contestare la presunta dicotomia tra l’identità, il senso di appartenenza a una comunità, e il considerarsi “cittadini del mondo”. Premetto che a questo titolo sono particolarmente legato perché da assessore lo scelsi oltre vent’anni fa per una iniziativa di educazione alla cittadinanza e alla multiculturalità realizzata nelle scuole del mio Comune in collaborazione con Amnesty International. Certo, il “cittadino del mondo” che avevamo – e ho tuttora – in mente, non è lo yuppie descritto da Bauman e Lasch, il ricco cosmopolita slegato da ogni comunità territoriale, spinto a muoversi alla ricerca di sempre migliori opportunità.

Il mio “cittadino del mondo” è colei/colui che ritiene tutti gli altri individui del pianeta simili a sé: diversi per colore della pelle, lingua, religione, usi e costumi, ma accomunati dal provare la stessa gioia per la nascita di un figlio e lo stesso dolore per la perdita di una persona cara, la stessa paura per la malattia, la guerra e il terremoto, dall’avere la stessa speranza in un futuro sereno, lo stesso desiderio di una familia, dei figli, di un lavoro gratificante o almeno dignitoso. Insomma, ogni individuo è sì unico e irripetibile – cosa di cui tendiamo a dimenticarci quando pensiamo alle moltitudini con gli occhi a mandorla o quando vediamo un barcone zeppo di giovani migranti neri “tutti uguali” – ma, nello stesso tempo, ci possiamo tutti considerare figli dello stesso pianeta o, per i credenti, di un unico Dio. Questa “eguaglianza umana”, questo “umanesimo” che porta a vedere in ciascuno il “prossimo” dell’insegnamento evangelico, ha ispirato i principi fissati nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Proprio la dignità della persona umana, la sua tutela, può e deve rappresentare il collante universale tra individui e nazioni.

Poi la realtà è complessa e confligge anche con i buoni propositi. Possiamo solo condividere con Bauman che “il mondo globalizzato non conosce né la solidarietà, né la tradizione del villaggio, non possiede un centro e manca di integrità”, come ricorda Ladetto. Ed è vero che dalla “dilatazione globalista” dei confini ne nascono per reazione di nuovi: “localismi politici, etnicismi, fondamentalismi religiosi, ma anche i neo-tribalismi metropolitani”. E vediamo bene come diventa difficile mantenere saldi i principi di umanità e accoglienza di fronte a fenomeni epocali come l’esplosione demografica del Sud del mondo e le conseguenti migrazioni. È difficile organizzare accoglienza e integrazione sapendo che ci si deve scontrare con i limiti del possibile, che sono inferiori alle necessità. Molto più semplice è invece dare seguito alle preoccupazioni, alle paure o agli egoismi, e invocare l’innalzamento di muri sui confini.

Ma su questo tema non posso che rimandare al sempre attuale documento che noi Popolari piemontesi abbiamo elaborato un paio di anni fa.

Vale invece la pena ribadire ancora che non trovo contrapposizione tra chi vede la persona umana al centro di un umanesimo senza confini e chi difende le identità culturali.

Non è l’omologazione (l’inglese, la Coca Cola, le star planetarie, ecc.) ma all’opposto la diversità (la lingua nazionale e il dialetto, il vino locale, gli amici d’infanzia, ecc.) a dare valore all’umanesimo universale. Per fare un esempio chiarificatore, la forza del Made in Italy, un marchio a diffusione mondiale, sta nella miriade di produzioni locali tutelate e valorizzate. Allo stesso modo – da inguaribile sturziano – ritengo che la forza di uno Stato poggi sopra un equilibrato sistema di autonomie, democratiche e responsabili, incentrato sul municipio, l’ente più vicino al singolo cittadino e alla primitiva comunità locale. E non confondiamo il campanilismo, chiusura nel proprio ambito territoriale, con il municipalismo, apertura verso comunità con gli stessi intenti e gli stessi problemi. Allo stesso modo rifiutiamo un cosmopolitismo omologato e vuoto, ma auspichiamo una vera multiculturalità, che presuppone l’attenzione verso chi è diverso da noi. Se siamo eredi di una storia particolare e membri di una definita cultura, che è legittimo e anzi doveroso tutelare, non dobbiamo però chiuderci in noi stessi ma essere aperti al dialogo.

Chi crede nel valore della spiritualità, rispetta tutte le religioni e ne ricerca la reciproca conoscenza: nemici della spiritualità sono tanto il relativismo etico (proprio del liberismo ateo) quanto il fondamentalismo di chi pensa di possedere la verità. Chi crede nella libertà, sa che ne conseguono tanto i diritti – di cui tutti si riempiono la bocca – quanto i doveri – che pochi ricordano, come era solito fare Aldo Moro –. E sa che la libertà assoluta, all’insegna dell’individualismo liberista, si risolve a vantaggio di pochi in società globalizzate, come se fossimo in una giungla: lì tutti sono liberi, ma soggetti alla legge del più forte o del più astuto. Doti che nella società umana si sommano: è l’eterno Machiavelli a ricordarci che per primeggiare “bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi”.

Certamente oggi è più difficile che in passato individuare volpi e leoni, dato che il potere , come la ricchezza, ha assunto forme smaterializzate e lontane, dominanti nei mass media. Conviene riprendere lo studio dei fondamenti della politica, che è l’arte della civile convivenza.

Grazie quindi a Beppe Ladetto per averci aiutato a recuperare il corretto concetto di “confine”. Nell’antichità i confini erano spesso fissati lungo fiumi impetuosi, barriere naturali difficili da oltrepassare. Solo avendo chiaro cos’è un limite, possiamo anche valorizzare e apprezzare il concetto di “ponte”. I popoli che si fermano ad una politica che esalta i confini ma resta incapace di costruire ponti, sono destinati a ripiombare in un nuovo, oscuro medioevo.

Giovanni Paolo II: “Vecchia Europa, ritrova te stessa, sii te stessa”

Vogliamo, oggi, pubblicare a poche ore dal voto, alcuni dei passi più significativi dell’esortazione apostolica “Ecclesia in Europa”, firmata da Giovanni Paolo II, un Papa che, sulla propria pelle, aveva vissuto la seconda guerra mondiale. E che quindi conosceva i pericoli dei tempi moderni.

 

Constatiamo con gioia la crescente apertura dei popoli, gli uni verso gli altri, la riconciliazione tra nazioni per lungo tempo ostili e nemiche, l’allargamento progressivo del processo unitario ai Paesi dell’Est europeo. Riconoscimenti, collaborazioni e scambi di ogni ordine sono in sviluppo, così che, a poco a poco, si crea una cultura, anzi una coscienza europea, che speriamo possa far crescere, specialmente presso i giovani, il sentimento della fraternità e la volontà della condivisione. Registriamo come positivo il fatto che tutto questo processo si svolga secondo metodi democratici, in modo pacifico e in uno spirito di libertà, che rispetta e valorizza le legittime diversità, suscitando e sostenendo il processo di unificazione dell’Europa. Salutiamo con soddisfazione ciò che è stato fatto per precisare le condizioni e le modalità del rispetto dei diritti umani.

Nel contesto, infine, della legittima unità economica e politica in Europa, mentre registriamo i segni della speranza offerti dalla considerazione data al diritto e alla qualità della vita, ci auguriamo vivamente che, in una fedeltà creativa alla tradizione umanistica e cristiana del nostro Continente, sia garantito il primato dei valori etici e spirituali 

 

Tra le sfide che si pongono oggi al servizio al Vangelo della speranza va annoverato il crescente fenomeno delle immigrazioni, che interpella la capacità della Chiesa di accogliere ogni persona, a qualunque popolo o nazione essa appartenga. Esso stimola anche l’intera società europea e le sue istituzioni alla ricerca di un giusto ordine e di modi di convivenza rispettosi di tutti, come pure della legalità, in un processo d’una integrazione possibile.

Considerando lo stato di miseria, di sottosviluppo o anche di insufficiente libertà, che purtroppo caratterizza ancora diversi Paesi, tra le cause che spingono molti a lasciare la propria terra, c’è bisogno di un impegno coraggioso da parte di tutti per la realizzazione di un ordine economico internazionale più giusto, in grado di promuovere l’autentico sviluppo di tutti i popoli e di tutti i Paesi.

Di fronte al fenomeno migratorio, è in gioco la capacità, per l’Europa, di dare spazio a forme di intelligente accoglienza e ospitalità. È la visione « universalistica » del bene comune ad esigerlo: occorre dilatare lo sguardo sino ad abbracciare le esigenze dell’intera famiglia umana. Lo stesso fenomeno della globalizzazione reclama apertura e condivisione, se non vuole essere radice di esclusione e di emarginazione, ma piuttosto di partecipazione solidale di tutti alla produzione e allo scambio dei beni.

Ciascuno si deve adoperare per la crescita di una matura cultura dell’accoglienza, che tenendo conto della pari dignità di ogni persona e della doverosa solidarietà verso i più deboli, richiede che ad ogni migrante siano riconosciuti i diritti fondamentali. È responsabilità delle autorità pubbliche esercitare il controllo dei flussi migratori in considerazione delle esigenze del bene comune. L’accoglienza deve sempre realizzarsi nel rispetto delle leggi e quindi coniugarsi, quando necessario, con la ferma repressione degli abusi.

Occorre pure impegnarsi per individuare forme possibili di genuina integrazione degli immigrati legittimamente accolti nel tessuto sociale e culturale delle diverse nazioni europee. Essa esige che non si abbia a cedere all’indifferentismo circa i valori umani universali e che si abbia a salvaguardare il patrimonio culturale proprio di ogni nazione. Una convivenza pacifica e uno scambio delle reciproche ricchezze interiori renderà possibile l’edificazione di un’Europa che sappia essere casa comune, nella quale ciascuno possa essere accolto, nessuno venga discriminato, tutti siano trattati e vivano responsabilmente come membri di una sola grande famiglia.

Inclusione degli alunni con disabilità: via libera alle nuove norme

Il Consiglio dei ministri ha approvato lunedì, in via preliminare, un provvedimento che interviene modificando le norme in materia di disabilità in ambito scolastico, ponendo in rilievo lo studente e le proprie necessità. Con l’approvazione delle nuove norme vi saranno più sussidi, strumenti, metodologie di studio mirate. I diversi progetti verranno modulati in relazione al tipo di disabilità, attraverso un Piano didattico individualizzato che sappia guardare alle caratteristiche del singolo studente.

“Con il provvedimento approvato in Consiglio dei ministri, che ho fortemente voluto sin dal mio insediamento, facciamo davvero un grande passo avanti – ha detto il titolare dell’Istruzione Bussetti -. Abbiamo lavorato in accordo con le associazioni di settore e l’Osservatorio permanente per l’inclusione scolastica. Il governo ha dimostrato di dare attenzione concreta a questi temi. Siamo passati dalle parole ai fatti. Appena insediato – ha aggiunto – ho subito voluto far ripartire l’Osservatorio sull’inclusione, che era rimasto fermo. Per mesi abbiamo lavorato per raggiungere questo risultato […,]”.

In base alla rimodulazione delle norme, l’intera comunità scolastica sarà coinvolta nei processi di inclusione. Verrà rivista la composizione delle commissioni mediche per l’accertamento della condizione di disabilità ai fini dell’inclusione scolastica: saranno sempre presenti, oltre ad un medico legale che presiede la Commissione, un pediatria o neuropsichiatria e un clinico specializzato nella patologia dell’alunno. Anche i genitori e, dove possibile, nel caso di maggiorenni, gli stessi alunni con disabilità, potranno partecipare al processo di attribuzione delle misure di sostegno, per superare l’attuale impostazione che prevede una meccanica associazione tra la certificazione data ai sensi della legge 104 e il supporto offerto al giovane.

Nascono inoltre i Gruppi per l’inclusione territoriale (Git), formati su base provinciale, ovvero nuclei di docenti esperti che supporteranno le scuole nella redazione del Piano educativo individualizzato (Pei) e nell’uso dei sostegni previsti nel Piano per l’inclusione. I Git avranno anche il compito di verificare la congruità della richiesta complessiva dei posti di sostegno che il dirigente scolastico invierà al preposto Ufficio regionale. A operare sarà altresì il Gruppo di lavoro per l’inclusione, composto dal team dei docenti contitolari o dal consiglio di classe, con la partecipazione dei genitori dell’alunno con disabilità, delle figure professionali specifiche, interne ed esterne alla scuola che interagiscono con l’alunno stesso, nonché con il supporto dell’unità di valutazione multidisciplinare e con un rappresentante designato dall’Ente locale.

Il gruppo di lavoro operativo per l’inclusione avrà il compito di redigere il Piano educativo individualizzato, compresa la proposta di quantificazione di ore di sostegno e delle altre misure a supporto del ragazzo, tenuto conto del suo profilo peculiare. Dal suo insediamento l’Osservatorio permanente per l’inclusione scolastica svolge analisi e studio delle tematiche relative all’inclusione degli studenti con disabilità certificata a livello nazionale e internazionale; monitoraggio delle azioni per l’inclusione scolastica; proposte di accordi inter-istituzionali per la realizzazione del progetto individuale di inclusione; proposte di sperimentazione in materia di innovazione metodologico-didattica e disciplinare; pareri e proposte sugli atti normativi inerenti l’inclusione scolastica.

Giornata biodiversità, in Italia persi 3 frutti su 4

In Italia sono scomparse dalla tavola tre varietà di frutta su quattro nell’ultimo secolo, ma la perdita di biodiversità riguarda l’intero sistema agricolo e di allevamento con il rischio di estinzione che si estende dalle piante coltivate agli animali allevati. E’ quanto afferma la Coldiretti, in occasione della Giornata Mondiale della Biodiversità, che si festeggia in tutto il Pianeta il 22 maggio.

In Italia nel secolo scorso si contavano 8.000 varietà di frutta, mentre oggi si arriva a poco meno di 2.000 e di queste ben 1.500 sono considerate a rischio di scomparsa anche per effetto dei moderni sistemi della distribuzione commerciale che privilegiano le grandi quantità e la standardizzazione dell’offerta. L’omologazione e la standardizzazione delle produzioni a livello internazionale mettono a rischio anche gli antichi semi della tradizione italiana sapientemente custoditi per anni da generazioni di agricoltori. Un pericolo – secondo la Coldiretti – per i produttori ed i consumatori per la perdita di un patrimonio alimentare, culturale ed ambientale del Made in Italy, ma anche un attacco alla sovranità alimentare e alla biodiversità.

E proprio per questo che l’agricoltura italiana ha invertito la rotta negli ultimi anni ed è diventato il Paese più green d’Europa. L’Italia – sottolinea la Coldiretti – è l’unico Paese al mondo con 5155 prodotti alimentari tradizionali censiti, 297 specialità Dop/Igp riconosciute a livello comunitario e 415 vini Doc/Docg, ma è anche leader in Europa con quasi 60mila aziende agricole biologiche e ha fatto la scelta di vietare le coltivazioni Ogm e la carne agli ormoni a tutela della biodiversità e della sicurezza alimentare. Sul territorio nazionale – spiega la Coldiretti – ci sono 504 varietà iscritte al registro viti contro le 278 dei cugini francesi e su 533 varietà di olive contro le 70 spagnole.

Senza dimenticare la riscoperta di grani antichi come il Senatore Cappelli che dopo aver rivoluzionato la produzione di pane e pasta in Italia, ha rischiato di sparire, ma adesso torna sulle tavole italiane grazie alla Sis, la Società Italiana Sementi.

Un’azione di recupero importante della biodiversità – continua la Coldiretti – si deve in Italia ai nuovi sbocchi commerciali creati dai mercati degli agricoltori e dalle fattorie di Campagna Amica attivi in tutte le Regioni e che hanno offerto opportunità economiche agli allevatori e ai coltivatori di varietà e razze a rischio di estinzione che altrimenti non sarebbero mai sopravvissute alle regole delle moderne forme di distribuzione. Un’azione formalizzata con i prodotti presenti nell’elenco dei “Sigilli” di Campagna Amica che – sottolinea la Coldiretti – sono la più grande opera di valorizzazione della biodiversità contadina mai realizzata in Italia che può essere sostenuta direttamente dai cittadini nei mercati a chilometri zero degli agricoltori e nelle fattorie lungo tutta la Penisola, una mappa del tesoro che per la prima volta è alla portata di tutti.

La difesa della biodiversità non ha solo un valore naturalistico ma – sottolinea la Coldiretti – è anche il vero valore aggiunto delle produzioni agricole Made in Italy. Investire sulla distintività – conclude la Coldiretti – è una condizione necessaria per le imprese agricole di distinguersi in termini di qualità delle produzioni e affrontare così il mercato globalizzato salvaguardando, difendendo e creando sistemi economici locali attorno al valore del cibo.

I 25 esami diagnostici più richiesti al mondo

L’Università di Waterloo (Canada) pubblica su American Journal of Clinical Pathology  la top 25 degli esami di laboratorio più importanti per sviluppare un sistema sanitario universalistico.

I ricercatori hanno chiesto a cinque ospedali, rappresentativi di nazioni a basso, medio e altoincome(Kenya, India, Nigeria, Malesia e USA). Confrontando volume e costo di questi esami, gli autori dello studio hanno scoperto che la tipologia degli esami più richiesti era molto simile anche in contesti nazionali così diversi.

L’emocromo è il test di laboratorio più effettuato in tutti gli ospedali inclusi nello studio; seguono ai primi posti i test di funzionalità renale, la glicemia, i test di funzionalità epatica. A Nairobi il secondo test più richiesto è l’esame delle urine, mentre il settimo posto è per la ricerca del parassita malarico e l’ottavo posto è occupato dal test fecale per Helicobacter pylori. A Bangalore, spunta al quarto posto il TSH, mentre a Denver il  sesto posto è occupato dall’emoglobina glicata. Ma al di là delle ovvie differenze geografiche, nella top 25 sono rappresentati in pratica gli stessi esami in tutti gli ospedali esaminati, anche se con un ranking diverso.

A sorpresa, nonostante l’elevata prevalenza di tubercolosi in alcune nazioni, solo in un ospedale questo test figurava nella top 25 degli esami più richiesti, probabilmente perché questi esami vengono effettuati al di fuori degli ospedali, in presidi dedicati.

26 Maggio, Rete Bianca rilancia l’opzione europeista

Pubblichiamo il comunicato stampa che l’Ansa ha diramato ieri pomeriggio, con cui la Rete bianca invita a votare le liste autenticamente europeiste.

Votare per le liste europeiste che “contrastano l’azione demolitrice a carattere anti europeo dell’attuale maggioranza di governo”. E’ l’appello di Rete Bianca, la rete a cui fanno riferimento alcune associazioni che si ispirano al popolarismo e al cattolicesimo democratico.

“Il voto di domenica 26 maggio – si legge nell’appello – costituisce una tappa fondamentale sulla strada del rafforzamento dell’europeismo. Sono forti, infatti, le preoccupazioni che generano il possibile deragliamento in chiave populista e sovranista. Oggi, nonostante le insufficienze e le difficoltà del modello post-Maastricht, la frontiera del ‘sogno europeo’ si attesta sull’asse del ritorno ai principi, ai valori e alle scelte dei Padri fondatori”.

“A noi piace difendere e rilanciare – prosegue Rete Bianca – l’idea dell’Europa di De Gasperi e Spinelli, ovvero dell’integrazione e della solidarietà come architrave del progresso dei popoli e delle nazioni del nostro Continente.

Per questo ‘Rete Bianca’, punto di incontro e dialogo tra cattolici democratici, auspica l’aperto sostegno elettorale ai partiti e alle liste che muovono dal presupposto di dover
contrastare l’azione demolitrice a carattere anti europeo dell’attuale maggioranza di governo”.

“L’assenza in questa competizione elettorale di una forza politica di centro, capace di aggiornare e rilanciare il patrimonio ideale del popolarismo – si legge ancora nell’appello –  non autorizza la fuga dalle responsabilitá,  quindi non permette di coltivare l’opzione astensionista. Il voto questa volta è un dovere per ridare all’Europa slancio e vigore, nonche’ all’Italia il ruolo che le spetta nel panorama politico dell’Unione. Con questo impegno concreto, riaffermiamo il nostro sostegno per l’Europa con il respiro ideale del popolarismo, convinti come siamo che la battaglia del 26 maggio incentiva la ricostruzione di un centro democratico e progressista – De Gasperi lo definiva il ‘centro che guarda a sinistra’ – necessario a garantire un autentico rinnovamento morale, civile ed economico del’Italia”.

L’appello  è ifrmato da Giorgio Merlo e Beppe Sangiorgi, portavoce di Rete Bianca, Lucio D’Ubaldo, Direttore de “Il Domani d’Italia”, Giuseppe De Mita, Coordinatore Italia Popolare e Dante Monda, Coordinatore Circoli Liberi e Forti.

Enzo Carra: Marino e la sindrome di Montecristo

Qualche giorno fa la Corte di Cassazione ha chiuso con un’assoluzione il “caso Marino”. Cacciato con ignominia dal Campidoglio, nell’ottobre del 2015, per la coraggiosa iniziativa dei consiglieri democratici, nell’occasione guidati dall’intrepido presidente del partito, nonché commissario del Pd romano, Orfini, il chirurgo è ritornato a Philadelphia, lasciando l’insicura aula Giulio Cesare per la più accogliente camera operatoria della Thomas Jefferson University.

Il palpitante caso giudiziario derivava da alcuni “scontrini” riferiti a cene pagate da Marino con la carta di credito comunale.  Va a sapere se quei simposi fossero istituzionali o privati. Vallo a sapere perché i pm volevano semplicemente che glielo dicesse lui, Marino, che roba fosse quella. Loro invece, in tanto tempo, non sono riusciti a convincere la Cassazione, supremo giudice che lui, l’ex sindaco, avesse cenato a sbafo. Ciò di cui erano convinti quei consiglieri a Cinque Stelle che si fecero fotografare con le immancabili arance da portare dietro le sbarre allo stesso Marino. Avrebbero fatto bene a tenersene un po’ di queste arance per portarle a Regina Coeli a quello che fino a qualche settimana fa presiedeva il Consiglio Comunale eletto dopo la cacciata di Marino.

Le arance e la gogna mediatica non sono bastate a far condannare Marino. Peccato per Orfini e tutti quelli che per conformismo hanno taciuto vigliaccamente in questi anni. Si difende ora l’ex presidente democratico e dice che non si pente perché, anche senza condanna, resta il “giudizio politico”, ovviamente negativo, sul suo ex compagno di partito.  Marino è stato un cattivo sindaco? Il dibattito è aperto, alla luce delle esperienze successive vissute dai romani. Certo, non è che la candidatura di Marino sia stata decisa da un ente diabolico, alle spalle del Pd romano. Casomai sarebbe bastato scegliere un altro, uno che, decifrando le smorfie dei dirigenti di quel partito, si fosse dimostrato più influenzabile del chirurgo di Philadelphia, Pennsylvania.

La Cassazione, assolvendo le cinquantadue cene di Ignazio Marino, e ustionando il cuore legalitario dei Cinque Stelle romani, degli amici di Orfini e dei Fratelli d’Italia, ha reso un grande servizio alla giustizia. Questa, nella motivazione della sentenza che manda assolto Marino, scrive testualmente che la Corte d’Appello, condannandolo, aveva violato “il principio generale secondo cui l’onere di provare l’esistenza degli elementi costituivi del fatto di reato incombe sulla pubblica accusa”. Come per magia, si sente risuonare nel Palazzo della Giustizia il brocardo secondo cui siamo tutti innocenti fino a prova contraria e condanna in pari tempo  il davighese secondo cui siamo invece tutti colpevoli, fino a prova contraria.

Pochi giorni dopo la sentenza, lunedì scorso, mascherato da Conte di Montecristo, il chirurgo Marino posta su Facebook un messaggio agli italiani. In esso rende noto che “le cene di rappresentanza oggetto di tanta attenzione da parte del Partito Democratico, dei partiti di Centro-Destra e del Movimento 5 Stelle sono state giudicate dall’Alta Corte attività ordinaria di promozione dell’immagine e del prestigio della Capitale.” Il caso dunque è chiuso. Poi, l’ex destinatario delle arance grilline conclude graffiando: “ciò che rimane aperto sono le motivazioni che hanno portato tutti consiglieri del Partito democratico e parte dei Consiglieri del Centro-destra a recarsi da un notaio per interrompere il cambiamento che si stava realizzando. Queste sono le uniche motivazioni che ancora oggi non sono state depositate.”

Chissà se parleremo di una “sindrome di Montecristo”. Di sicuro, il messaggio dell’ex condannato è stato “visualizzato” da oltre 530.000 utenti Fb, e ha riscosso 20.000 like con 2.000 commenti. Infinitamente di più di altre Star della scena Social. Una reazione popolare come questa significa che ci sono tanti italiani che odiano le persecuzioni. Ricordiamocelo.

 

Liliana Ocmin: L’attenzione della Cisl alle politiche di genere tra contrattazione ed azione culturale

Fonte “Conquiste del lavoro”

Il lavoro, la dignità nel lavoro ed il contrasto allo pseudo-lavoro restano per la Cisl questioni prioritarie per il riscatto di quanti vivono sulla propria pelle situazioni di sfruttamento e forme di schiavitù che ancora oggi si frappongono come ostacoli al naturale progresso civile della società e rischiano di riportarci indietro nel tempo. Un grande sindacato riformista come la Cisl – sono le parole della nostra Segretaria generale Annamaria Furlan in occasione del 69° anniversario dell’Organizzazione – che “continua a segnare con i suoi valori e le sue scelte libere ed autonome dalla politica le trasformazioni del nostro Paese”, non può distogliere lo sguardo e l’attenzione da queste realtà, da queste “periferie sociali”, dove povertà, emarginazione, discriminazione e disagio segnano profondamente la vita di tante persone, di lavoratrici e lavoratori, cittadini e cittadine, italiane e italiani, straniere e stranieri.

Il tema delle periferie sociali è uno degli assi portanti del Documento di discussione, presentato durante i lavori dell’ultimo Consiglio generale, per la prossima Conferenza nazionale organizzativa della Cisl che si terrà a Roma dal 9 all’11 luglio. Occorre rilanciare, dunque, il ruolo di prossimità della Cisl per essere sempre più presenti “in quelle periferie esistenziali – ha precisato Annamaria Furlan – che Papa Francesco ha indicato come le nuove frontiere della fraternità, dove il disagio è forte e la dignità delle persone è ogni giorno messa in discussione. Questo significa impegno contrattuale, formativo ed un investimento straordinario per aprire nuove sedi dove la povertà sfocia in disperazione”. Occuparsi delle “periferie” vuol dire aiutare chi è rimasto fuori o ai margini del mercato del lavoro. I giovani, ad esempio, in particolare coloro che rappresentano quella fascia di ragazzi e ragazze che non studiano, non lavorano e neanche lo cercano. Anche i migranti e le migranti, non solo in termini di inserimento lavorativo ma anche di integrazione e inclusione sociale. Nell’alveo delle periferie non mancano, purtroppo, le politiche di genere con le donne relegate spesso nelle aree del disagio, dello sfruttamento, della violenza e della discriminazione socio-lavorativa.

Come Coordinamento nazionale donne, facciamo nostro l’impegno della Cisl per rafforzare in questo senso l’azione concreta quotidiana a tutti i livelli, a partire da quello territoriale e locale, sviluppando alleanze con le diverse associazioni a noi più vicine culturalmente, così come stiamo continuando a fare in lungo e in largo per lo stivale con la Campagna contro la tratta e la prostituzione, in collaborazione con l’Associazione Papa Giovanni XXIII, con la Campagna informativa permanente contro le mutilazioni genitali femminili e con il gruppo di lavoro ad hoc, costituito in seno al Coordinamento, per prevenire e contrastare la violenza e le molestie nei luoghi di lavoro. La contrattazione, già orientata in questa direzione, può fare ancora di più, specie se sostenuta anche da processi formativi dedicati e finalizzati oltre che alla partecipazione femminile, come le “quote”, alla diffusione della cultura di genere, cominciando con la disseminazione di un linguaggio più attento e rispettoso dello stesso, a superamento del solito neutro-maschile.

Noi donne ne siamo sempre più convinte, le quote, anche se strumento non ideale, hanno avuto ed hanno il merito di “rompere” il muro dell’immobilismo sociale e professionale delle donne, ma manca ancora quel salto di qualità culturale, sia al nostro interno che all’esterno, in grado di guardare alla parità e alle pari opportunità non più come ad un obiettivo ma come ad un traguardo. Il linguaggio è un veicolo formidabile per modificare pensiero e comportamenti, perciò anche noi come sindacato dobbiamo dare il nostro contributo per superare tutte quelle “cattive abitudini” che di fatto alimentano stereotipi e discriminazioni rendendo “invisibili” le donne. A proposito di invisibilità femminile, se ne discuterà anche all’evento nazionale, organizzato dal gruppo di lavoro dell’ASVIS sulla parità di genere (Goal 5 Agenda ONU 2030), di cui fa parte la Cisl, che si terrà il prossimo 29 maggio a Roma.

Economia: Istat, nel 2019 il Pil previsto in crescita dello 0,3%

Nel 2019 il prodotto interno lordo (Pil) è previsto crescere dello 0,3% in termini reali, in deciso rallentamento rispetto all’anno precedente.

Nell’anno corrente, la domanda interna al netto delle scorte fornirebbe l’unico contributo positivo alla crescita del Pil (0,3 punti percentuali), mentre l’apporto della domanda estera netta e quello della variazione delle scorte risulterebbero nulli.

Nel 2019, la spesa delle famiglie e delle ISP in termini reali è stimata crescere dello 0,5%, in lieve rallentamento rispetto all’anno precedente.

Nell’anno in corso, il processo di ricostituzione dello stock di capitale rallenterebbe in misura significativa. La riduzione coinvolgerebbe sia gli investimenti in macchinari e attrezzature sia quelli in costruzioni. Nel complesso, gli investimenti fissi lordi sono previsti crescere dello 0,3%.

La decelerazione dei ritmi produttivi inciderebbe anche sul mercato del lavoro. Nel 2019 si prevede che l’occupazione rimanga sui livelli dell’anno precedente (+0,1%) mentre si registrerebbe un lieve aumento del tasso di disoccupazione (10,8%). Le retribuzioni lorde per unità di lavoro dipendente sono attese evolvere in linea con il deflatore della spesa delle famiglie residenti (+0,9%).

L’attuale scenario di previsione è caratterizzato da alcuni rischi al ribasso rappresentati da una ulteriore moderazione del commercio internazionale e da un possibile peggioramento delle condizioni creditizie legato all’aumento dell’incertezza e all’evoluzione negativa degli scenari politici ed economici internazionali.

Sondaggi, Europee: il Ppe primo partito

Al Parlamento europeo che verrà eletto tra il 23 e il 26 maggio prossimo, il Partito popolare europeo (Ppe) dovrebbe confermarsi primo gruppo con 168 seggi, 49 in meno rispetto a quelli ottenuti alle europee del 2014.

È quanto si apprende da un sondaggio pubblicato dal quotidiano tedesco “Frankufrter Zeitung”. Al secondo posto, il Partito del socialismo europeo (Pse) con 146 eurodeputati, in calo di 41 seggi rispetto alla legislatura che sta per concludersi.

Segue l’Alleanza dei liberali e democratici europei (Alde), che guadagnerebbe 37 seggi salendo a 105 eurodeputati. L’Europa delle nazioni e della libertà (Enf) avrebbe 73 rappresentanti (+36 rispetto al 2014), mentre il Gruppo dei conservatori e riformisti europei (Ecrg) perderebbe 18 seggi scendendo a 57 eurodeputati.

I Verdi europei otterrebbero 55 seggi, soltanto 3 in più rispetto al 2014. La Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica (Gue/Ngl) perderebbe un seggio attestandosi a 51 rappresentanti, mentre l’Europa della libertà e della democrazia diretta (Efdd) avrebbe 49 eurodeputati, otto in più rispetto a quelli eletti nel 2014.

Altri partiti avrebbero 40 seggi.

Niki Lauda, un grande europeo

Era forte, Niki Lauda, e si fa fatica adesso a parlarne al passato. E’ una figura familiare presente da tanto tempo, che pare quasi infinito. Sconfitto dalle complicanze di una polmonite, a 70 anni. Figlio di noti banchieri viennesi, un cognome fatto apposta per i titoli delle prime pagine dei giornali. Un “self made man” che si dedica alle corse nonostante la contrarietà della famiglia, da cui si separa bruscamente. Arriva al successo negli anni Settanta, quando la Formula 1 è “un club di ex garagisti inglesi” come da brillante definizione di Gianni Brera. Diventa campione del mondo nel momento del boom televisivo del Circus. E’ il primo pilota moderno, quasi rivoluzionario in temi come sindacato piloti (Grand Prix Drivers Association, che prima non esisteva), contratti, sponsor, sicurezza. Dopo l’incidente del 1976 al Nuerbuergring, da cui esce miracolosamente vivo (portandone però le cicatrici per il resto dei suoi giorni) chiede e ottiene l’istituzione della Safety Commission, realtà che opera ancora oggi per la sicurezza dei circuiti.

Era un formidabile cinico, un volto con la sua storia esposta, paura compresa, quella che lo fermò in Giappone, sempre nel 1976, consegnando il titolo mondiale a James Hunt, un amico, al contrario di quanto raccontato dal regista Ron Howard nel film “Rush”. Diceva che la sensibilità di guida si sviluppa con il sedere e non era una battuta, ma un’informazione tecnica. Faceva quasi tenerezza con il suo italiano (con forte accento tedesco) farcito di parolacce e sprovvisto di punteggiatura. Tanto lontano e riservato al volante, quanto lucido ed esauriente nel lungo post-carriera, in cui ha inaugurato due compagnie aeree (Lauda Air, Niki) e più di recente è stato presidente del reparto corse della Mercedes. Impossibile non notarlo mentre si aggirava nel paddock, con la giacca a vento e il cappellino rosso (sempre lo stesso). E’ cresciuto in un’epoca in cui gli addetti stampa non esistevano. Luca Cordero di Montezemolo? “Bravo ragazzo, but completely crazy”. Enzo Ferrari? “Dopo Mondiale 1977 noi no parlati per cinque anni. Poi visto lui a Imola e noi abbracciati”. Lewis Hamilton? “Grande pilota, ma io no potere vedere lui con orecchini” (testuale).

E’ stato, sinceramente, un grande europeo, in un’epoca in cui l’europeismo non era di moda. Ragionava concretamente in termini europei, già negli anni Settanta, ritenendo “inutili” i nazionalismi. In definitiva, ci sono campioni che lasciano dietro una scia di successi e altri che ti insegnano a pilotare l’esistenza, sbandate comprese. Niki Lauda ha dimostrato che nella vita si può e si deve andare avanti, imparando a convivere con le proprie cicatrici. Ha scritto la nostra storia, mentre era impegnato a scrivere la sua. Diceva di sè: “Non ho amici, ho solo dei quasi amici”. Tutti noi, ecco. Presi adesso da una tristezza da abbandono che proprio non va giù.

Parma, il 27 maggio parte la sperimentazione della guida autonoma

Si parla spesso di “rivoluzione della guida autonoma”, sebbene il processo di cambiamento sia graduale e non esente da difficoltà, dal punto di vista tecnico, amministrativo e culturale. Allo stato attuale possono circolare solo in alcuni Paesi previa autorizzazione, in piccole aeree urbane ben delimitate e semi chiuse al traffico, al netto di deroghe concesse caso per caso dalle autorità. Lo stato dell’arte è ancora molto lontano dall’affidabilità totale e l’assenza di una legislazione chiara ed uniforme che permetta di far diventare le auto a guida autonoma un mezzo di trasporto di massa, è al momento uno degli ostacoli principali alla diffusione in larga scala. In Italia comincia a muoversi qualcosa: dal prossimo 27 maggio prenderà via a Parma la prima sperimentazione di veicoli a guida autonoma su strade pubbliche, dopo l’autorizzazione rilasciata a inizio maggio dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Il programma verrà avviato nella città ducale, dove – ai sensi del D.M. n. 70 del 28 febbraio 2018, emanato dal Mit (“Decreto Smart Road”) – la società VisLab S.r.l., ha richiesto, al momento unica ad averlo fatto, di essere autorizzata alle prove.

I collaudi consisteranno nell’esecuzione di sperimentazioni del sistema di guida automatica al fine di testare le capacità di circolazione del veicolo nel traffico cittadino. In particolare verranno testati i sistemi di percezione visiva e mediante radar, il sistema di pianificazione del percorso e il comportamento del veicolo nelle intersezioni, negli incroci e nelle rotonde.

La sperimentazione verrà effettuata lungo le tratte stradali adiacenti a Via 9 Novembre 1989, Via Indro Montanelli, Via Caduti di Nassirya, e anche su Viale delle Esposizioni, Via delle Scienze, Parco Area delle Scienze. Il veicolo impiegato per le sperimentazioni è un Ambarella modello L.

Verso il Mondiale: Le azzurre al lavoro a Riscone di Brunico

Un clima rigido, quasi invernale, per la preparazione a Riscone di Brunico (BZ) della Nazionale Femminile, giunta alla terza fase del raduno di preparazione alla Coppa del Mondo FIFA che si disputerà in Francia dal 7 giugno al 7 luglio.

L’elenco delle convocate per la terza fase del raduno

Portieri: Francesca Durante (Fiorentina Women’s), Laura Giuliani (Juventus), Chiara Marchitelli (Florentia), Rosalia Pipitone (AS Roma);

Difensori: Elisa Bartoli (AS Roma), Lisa Boattin (Juventus), Laura Fusetti (Milan), Sara Gama (Juventus), Alia Guagni (Fiorentina Women’s), Elena Linari (Atletico Madrid), Linda Cimini Tucceri (Milan);

Centrocampiste: Greta Adami (Fiorentina Women’s), Lisa Alborghetti (Milan), Valentina Bergamaschi (Milan), Barbara Bonansea (Juventus), Valentina Cernoia (Juventus), Aurora Galli (Juventus), Manuela Giugliano (Milan), Alice Parisi (Fiorentina Women’s), Martina Rosucci (Juventus), Annamaria Serturini (AS Roma);

Attaccanti: Cristiana Girelli (Juventus), Valentina Giacinti (Milan), Ilaria Mauro (Fiorentina Women’s), Daniela Sabatino (Milan), Stefania Tarenzi (Chievo Verona).

Staff – Commissario tecnico: Milena Bertolini; Dirigente accompagnatore: Elide Martini; Segretario: Alessandra Savini Nicci; Assistenti allenatore: Attilio Sorbi e Federica D’Astolfo; Preparatori atletici: Stefano D’Ottavio e Francesco Perondi; Preparatore dei portieri: Cristiano Viotti; Match analyst: Marco Mannucci; Medici: Matteo Guzzini e Marco Scarcia; Fisioterapisti: Maurizio D’Angelo, Roberto Cardarelli e Daniele Frosoni; Nutrizionista: Natale Gentile.

Ciclicità e memoria

Tratto dall’Osservatore Romano a firma di Marcello Filotei

Con la franchezza che non gli ha mai fatto difetto Ezra Pound sentenziò che «ai poeti che non studiano musica manca qualcosa». Del resto dopo che alla fine del xix secolo i simbolisti francesi sperimentarono le proprietà musicali del linguaggio, ispirandosi principalmente alle opere di Edgar Allan Poe, nessun poeta moderno ha potuto più ignorare la stretta affinità che esiste tra queste due arti. Ma se i simbolisti hanno mirato spesso a realizzare un flusso “sonoro” accattivante anche a scapito del significato, è noto che Thomas S. Eliot, che pure deve molto a quell’esperienza, la pensava diversamente.

Nella sua citatatissima opera monografica sull’argomento, The Music of Poetry, del 1942, l’autore dei Quattro Quartetti ha ampiamente chiarito la sua posizione: «La musica della poesia non è qualcosa che esiste al di fuori del significato. Altrimenti potremmo avere poesia di grande bellezza musicale senza alcun senso, e non ho mai incontrato una tale poesia». Al tempo stesso quello che Eliot chiamava «elemento incantatorio» (in particolare in riferimento alle opere di Poe) riesce ad accrescere la possibilità di comprendere lo stile stesso del poema, mentre l’argomento o la “storia” narrata è spesso di minore importanza in questo senso. Anche di questo ci parla ancora oggi uno dei Quattro Quartetti, il primo. «Tempo presente e tempo passato, sono forse presenti nel tempo futuro, il tempo futuro è contenuto nel tempo passato.

Se tutto il tempo è eternamente presente, tutto il tempo non è riscattabile». I celebri versi d’apertura di Burnt Norton, qui nella traduzione di Elio Grasso, pongono l’accento sulla fondamentale questione della memoria. È noto che il componimento, del 1936, fu ispirato da una visita di due anni prima a un castello disabitato nel Gloucestershire e la riflessione prende avvio dalla quantità di testimonianze visibili in quel luogo. Una meditazione sulla ciclicità, sul principio e sulla fine. Il giardino delle rose di Burnt Norton spinge Eliot a guardare quei ruderi con il filtro mentale dell’alternasi delle stagioni, evocando la fecondità e l’aridità, ascoltando i suoni ospitati nel passato, annullando la distanza fra il giorno e la notte: tutto confluisce nella memoria.

Appare significativo che proprio in questo quartetto l’autore faccia diretto riferimento alla musica come arte del tempo. «Le parole si muovono, la musica si muove soltanto nel tempo; ma quanto soltanto vive può soltanto morire». Qui in pochi versi, come sanno fare i poeti, Eliot pare inquadrare la fondamentale essenza della musica, la sua caratteristica distintiva: il fatto di inverarsi esclusivamente nello scorrere del tempo, di non esistere nell’attimo singolo, ma di assumere la sua essenza mettendo in relazione ogni momento con quello precedente e con il suo successivo. Forse per questo il poeta individua «soltanto nella forma» e «nel modello» il mezzo attraverso cui «le parole o la musica possono giungere alla quiete», paragonando questo processo alla staticità attiva del vaso cinese che «si muove perennemente nella sua quiete».

E il verso seguente è forse ancora più chiarificatore quando specifica: «Non la quiete del violino, finché la nota resiste, non soltanto quella, ma la coesione, o diciamo che la fine precede il principio, e la fine col principio erano sempre lì prima il principio e dopo la fine». La «coesione», quindi, il rapporto, la relazione. È vero che i versi di Eliot hanno ispirato anche direttamente molte composizioni musicali. Emblematico il caso del musical Cats interamente poggiato su testi del poeta. «Gli attimi di felicità/ Li abbiamo sperimentati ma non ne abbiamo colto il senso/ E avvicinarsi al significato ne fa rivivere l’esperienza» canta Old Deuteronomy e Grizabella riprende il tema in Memory, basato su Rapsodia in una notte di vento, «ricordo il tempo in cui sapevo cosa fosse la felicità».

Meno seguita appare però l’esortazione a ricercare nuovi significati del modello, nel perenne movimento della quiete, non limitandosi alla «quiete del violino, finché la nota resiste». Forse questa può rappresentare una indicazione per gli artisti di oggi che non vogliono limitarsi a riproporre calchi del passato. L’invito a concentrarsi sulla «forma» è probabilmente uno degli elementi principali dell’attualità di Eliot.

Certosa di Bologna torna l’appuntamento estivo

Dal 23 maggio al 26 settembre 2019 torna l’appuntamento Certosa di Bologna con la rassegna di iniziative curate dall’Istituzione Bologna Musei  Museo civico del Risorgimento, in collaborazione con Bologna Servizi Cimiteriali e realtà associative della città, che da undici anni conduce cittadini e visitatori alla scoperta di uno dei luoghi più suggestivi di Bologna, rivelando ad ogni stagione aspetti e curiosità sempre nuovi sulla storia e sull’arte della città.

Sono oltre sessanta gli appuntamenti proposti – fra spettacoli itineranti, performance audiovisive e rappresentazioni teatrali – che utilizzeranno la Certosa come affascinante palcoscenico, oltre alle ormai consuete visite guidate alla scoperta dell’arte e della storia bolognese. Agli appuntamenti notturni si aggiungono visite guidate diurne e passeggiate al tramonto, laboratori e conferenze.

La novità più rilevante di questa edizione è rappresentata dagli appuntamenti promossi da tre importanti realtà associative cittadine che si occupano di disabilità: Accaparlante – CDH, Istituto dei Ciechi Francesco Cavazza e Fondazione Gualandi A Favore Dei Sordi.

In concomitanza con l’inizio del programma estivo, dal 23 maggio, sarà inoltre online il sito in lingua inglese dedicato alla Certosa.

Le allergie, come evitare che i sintomi si aggravino

Le allergie sono una reazione del corpo ad alcune sostanze esterne che vengono inalate o entrano in contatto con occhi e mucose dando origine ad un’alterata risposta del sistema immunitario alle stesse. Quando gli allergeni all’origine del disturbo sono i pollini delle piante in fioritura, il disturbo è stagionale. Quando invece gli allergeni sono presenti nella vita quotidiana (acari da polvere, piume, pelo animale) il disturbo si cronicizza.

Il decalogo redatto da WAidid (World Association for Infectious Diseases and Immunological Disorders) è un buon metodo per diminuire i sintomi del periodo

  1. Durante i periodi di pollinazione è meglio evitare uscite nelle ore di maggiore concentrazione pollinica, preferendo le uscite in prima mattina o tarda serata.
  2. Tenere chiuse le finestre durante le ore centrali della giornata. 
Sicuramente è importante far cambiare l’aria all’interno dei vari ambineti, ma si consiglia di effettuare tale operazione durante la mattina presto.
  3. Evitare umidità e pioggia perché possono portare a un aggravamento 
dei sintomi nasali e bronchiali. Durante i temporali, i pollini vengono ridotto in frammenti ancor più piccoli rispetto al solito, e in questo modo riescono a penetrare con più facilità nelle vie aeree.
  4. Consultare settimanalmente i calendari pollinici. Questo permette di conoscere il periodo di fioritura delle piante responsabili delle manifestazioni allergiche, e quindi di scegliere con più accuratezza i momenti da trascorrere all’aperto.
  5. Evitare i viaggi in macchina o in treno con i finestrini aperti. Se si viaggia in macchina usare preferibilmente un 
impianto di aria condizionata munito di filtri di aerazione anti-polline/antiparticolato e cambiarli alla fine di ogni inverno.
  6. Lavarsi i capelli e fare la doccia ogni sera. In questo modo, i pollini che si sono depositati sui capelli e sul resto del collo, verranno rimossi e non si rischierà di inalarli durante la notte.
  7. Si consiglia di indossare sempre mascherina e occhiali da sole in occasione di uscite all’aperto.
  8. Evitare l’utilizzo di tappeti in casa e lavare quanto più freqeuntemente possibile i tendaggi dal momento che sono il luogo in cui più facilmente si depositano le particelle allergizzanti.
  9. Evitare le gite in campagna, soprattutto se è presente vento, e non passeggiare nei prati dove sia stata recentemente 
tagliata l’erba. Per evitare che i sintomi si aggravino è possibile utilizzare una mascherina protettiva.
  10. Evitare l’assunzione di farmaci in assenza di un consulto col proprio medico curante.

La società italiana ha bisogno di una Chiesa vitale. Intervista a Giuseppe De Rita.

L‘intervista di Andrea Monda a De Rita appare sul numero oggi in edicola dell‘Osservatore Romano.

Nello stesso momento in cui il Papa rivolgendosi ai vescovi italiani li ha spronati nella direzione della sinodalità, il fondatore del Censis Giuseppe De Rita, che di Italia se ne intende, si lasciava andare ad una riflessione preoccupata sulla stanchezza della chiesa e quindi della società italiana, augurandosi uno scatto, un sussulto da parte della istituzione ecclesiastica, che potrebbe passare anche attraverso l’indizione di un sinodo. «Un sinodo potrebbe servire perché vorrebbe dire che la chiesa si interroga e cerca di fare un passo in avanti. Ci vuole però uno scarto, una mossa ben pensata. Perché un sinodo oggi non può avere il suo punto di partenza in documenti teologici, in testi dall’alto profilo culturale già esistenti; non si può quindi fare un sinodo intellettuale, e lo dice un intellettuale. Non puoi fare nemmeno un sinodo di apertura al mondo, perché il mondo è più povero di te, a chi ti apri, a Trump? Salvini? Macron? Paolo VI poteva aprirsi ai francesi, Wojtyła aveva un occhio preciso verso gli anticomunisti come Blair… ma oggi con chi dialoghi? No quindi alle élite cattoliche intellettuali e no anche all’apertura al mondo; resta una strada che passa attraverso una forte spinta di autocoscienza del corpo sociale. La chiesa si deve chiedere “verso dove sto andando, verso l’accidia, verso l’abbattimento intellettuale, morale senza speranza?”. Ci vuole quindi un cammino di autocoscienza con dei meccanismi di provocazione, penso a una batteria di non più di dieci domande tese a provocare la coscienza del gruppo (parrocchiale, diocesano, dei religiosi…) che si riunisce e che dice: stiamo parlando della nostra società così come la vediamo noi e alla quale vogliamo partecipare cercando di capire. Questo processo deve arrivare a un ultimo momento di incontro, di pensamento che porta alla stesura di un manifesto che non è un documento di sintesi finale ma appunto un manifesto, proteso in avanti.

Più volte il Papa ha precisato che un Sinodo non deve soltanto produrre documenti ma avviare e accompagnare processi.

Esatto. Il Concilio Vaticano II è partito quando è stato messo da parte il documento preparatorio. Ottaviani e Felici avevano predisposto un testo preparatorio, quando gli altri hanno detto “Questo testo noi non lo discutiamo” è lì che è partito il Concilio. Altrimenti avrebbero discusso su quel testo e basta. Il punto cruciale è trovare il modo in cui la cultura si muove con la base, in cui camminano insieme l’alto e il basso, la testa e l’assemblea. L’assemblea ratifica, analizza ma non può fare tutto da sola, bisogna lavorare tutti insieme, il sinodo deve essere un cammino della comunità, non una mera riflessione.

Bergoglio diventa Francesco sei anni fa e in questo periodo il mondo è cambiato. Ora non c’è Obama ma c’è Trump, e nel frattempo è intervenuta la Brexit, sono emersi i sovranismi e nazionalismi: qual è oggi la sfida più grande per Papa Francesco?

Il problema che è emerso in questi anni è quello dell’identità. Non ho alcuna simpatia per tutti questi sovranisti sparsi per il mondo però capisco che loro gestiscono un problema identitario che i vari Obama degli ultimi decenni hanno trascurato in nome della globalizzazione, per questo arrivano Orban e gli altri a dire: “Prima gli ungheresi” (o gli americani, gli italiani…). La Chiesa dovrebbe affrontare seriamente il problema identitario riconoscendone l’importanza senza entrare in polemica con il sovranista di turno. L’identità è una grande questione e si muove su cerchi concentrici: c’è l’identità personale, familiare, locale, etnica, sociale, politica. Bisogna prendere sul serio questo problema partendo dal fatto che la realtà dell’uomo è molto complessa in quanto l’uomo, inteso come persona, è una rete di relazioni (familiari, sociali, politiche…) e qui entrano in gioco le realtà intermedie. È vero che oggi i corpi intermedi sembrano evaporati, per cui il sindacato non c’è più, il partito non c’è più, l’ideologia non c’è più. Però l’identità intermedia c’è, ci deve essere, sarà l’identità del borgo etrusco o della Padania, però è necessaria e su questa bisogna lavorare. Bisogna tener presente che l’identità viene dall’impasto tra interessi e realtà sociali. La classe operaia nacque dall’impasto degli interessi (orario, salario…) e di una mobilitazione sociale magari contro i cannoni di Bava Beccaris. La stessa identità italiana non è nata sui libri dei padri fondatori come Leopardi, Manzoni, Gioberti, ma è nata grazie a Garibaldi e a meccanismi di mobilitazione sociale e di interessi puntuali (“Vogliamo il Mezzogiorno”, “Vogliamo un pezzo di Austria”…). Oggi per fare identità bisogna stare dietro agli interessi e chi segue gli interessi intermedi sono le piattaforme (di servizi, di comunicazione…). Il vero ente intermedio oggi non è un ente ma è la piattaforma in cui si trova il contadino con lo chef stellato di Shanghai, che si ritrovano insieme in una piattaforma che noi chiamiamo “filiera enogastronomica”. Senza inseguire i corpi intermedi, bisogna invece andare a vedere dove sono gli interessi e chi ci sta agendo sopra. Se non si fa questo si finisce per fare molta retorica. Io che sono stato un cantore dei corpi intermedi oggi non ne parlo, li ho difesi anche contro Renzi, fautore della disintermediazione, che è stata una reazione non pensata. Vista la crisi del partito, del sindacato, della comunità montana, della provincia, si è detto “azzeriamoli”, creando un danno peggiore. Togliere tutto ciò che si trova in mezzo tra il leader politico e il cittadino è stata un’assurdità realizzata con l’illusione di poter parlare direttamente al popolo. In assenza di realtà intermedie questa è l’anticamera del populismo.

L’esempio delle Province è emblematico: nessuno aveva mai posto il problema delle province anche perché era la realtà più identitaria di tutte, per cui uno in Italia si sente molto più viterbese che laziale, cosentino che calabrese. A un certo punto scatta il no alle province: “costano troppo”, “troppe poltrone”… un giornalismo d’inchiesta monta quest’onda contro le province. All’epoca io scrissi due articoli per difendere le province ma non ci fu nessun altro con me su questa battaglia. Il corpo politico si lasciò convincere e le province furono abolite, salvo poi qualche anno dopo ripensare l’opportunità di ripristinarle, perché le province contengono entrambe le cose: l’identità e gli interessi e si tratta di identità tradizionali che sfidano il passare del tempo. Possiamo andare indietro di secoli e pensare al conflitto tra i comuni italiani, tra Perugia e Todi ad esempio, come aveva colto Riccardo Misasi nel suo saggio “Storia di un libero comune”.

Oggi il problema identitario si mescola con il fenomeno della paura sociale. Su queste pagine la scrittrice americana Marilynne Robinson ha parlato di “marketing del rancore”.

Il rancore è il figlio, anzi il lutto, di ciò che non è stato. Non c’è nessuno di più rancoroso di un coniuge che si è separato dall’altro: perché il matrimonio è fallito, è venuto a mancare, quella promessa è crollata. Il rancore oggi circola ordinariamente per tanti motivi: un matrimonio fallito, la perdita di un posto di lavoro, un concorso andato male… Questo rancore ordinario diventa un fatto sociale quando diventa collettivo, strutturale. In Italia l’ascensore sociale, che dal 1945 in poi ha fatto crescere praticamente tutti, a un certo punto si è fermato, per cui tutti siamo diventati ceto medio ma nessuno o pochissimi sono diventati classe borghese. La classe borghese è rimasta una piccola fascia elitaria (i figli del ’68, i figli dei professionisti…) ma il salto di qualità non c’è stato. Questo stop dell’ascensore genera un rancore indifferenziato difficile da affrontare. Si possono certo trovare dei capri espiatori: l’Europa, i governi precedenti, i migranti. Ma questo non è affrontare il problema alla radice. Ci vorrebbe invece una classe politica capace di spingere ancora verso quella mobilitazione sociale verticale che ha fatto grande l’Italia. E invece oggi i politici cercano di rassicurare il ceto medio (e facendo così generano ulteriori paure) coccolandolo con provvedimenti come il reddito di cittadinanza. Bisogna rimettere in moto l’ascensore sociale perché se resta fermo cresce la paura dell’impoverimento, della regressione, per cui si cerca solo il colpevole, si fa saltare il sistema europeo, si chiudono i porti.

La chiesa, la religione può giocare un ruolo in questa crisi?

Ho provato a indicare questa strada nel saggio “Il Consolato guelfo”, che era una risposta al saggio di Misasi e prendeva spunto da quello di Paolo Prodi: “Il romano pontefice”. Nell’epoca dei comuni guelfi esistevano due autorità, quella civile e quella religiosa, la prima garantiva la sicurezza, la seconda il senso della vita. Questo sistema è necessario ancora oggi, ci vogliono queste due dimensioni, altrimenti la società non cammina. La persona che garantisce sicurezza non può dare senso alla vita, se chiudi i porti non puoi indicare un futuro ricco di senso. In Russia Putin ha bisogno del patriarca. Dal punto di vista laico si può garantire sicurezza anche abbastanza facilmente, più difficile è garantire quel “di più”. In Iran, dove si uccidono migliaia di persone al mese per garantire sicurezza però c’è anche la Sharia, la legge coranica a offrire un orizzonte di senso. E anche in Cina c’è una riscoperta di Confucio. C’è bisogno di una sicurezza che io definirei materna e non poliziesca, per cui il pedale della sicurezza va mitigato da un senso più umano, appunto materno, per tenere le due cose insieme, sicurezza e senso. Secondo me non lo puoi fare con la stessa persona ma invece la logica italiana, e in parte europea, vuole la concentrazione dei poteri nell’unico leader. In Occidente noi abbiamo un testo che può essere di grande aiuto, la Bibbia, importante però che non sia preso come libro delle risposte. Alcuni amici mi definiscono “talmudico” per dire una cosa in cui credo, che cioè non c’è una verità chiara e distinta che cala dall’alto ma devi andare a cercartela, provando a capire a suon di tentativi. Devi fare come il talmudista che prende un argomento, una frase, ci gira e ci rigira intorno… così anch’io sono 60 anni che faccio questo mestiere di sociologo e di questo ho fatto un mio piccolo talmud. C’è bisogno secondo me di un sano empirismo, non ci servono documenti pontifici o della conferenza episcopale, no, davanti a me la realtà si presenta come un problema concreto e io devo andarlo a vedere, a conoscere, ci passo e ripasso sopra, lo guardo da destra, da sinistra… Ho la sensazione che spesso nella chiesa italiana questo concetto non riesca a passare. Papa Francesco invece è empirista. Penso ai suoi discorsi da vescovo, ad esempio ad Aparecida, pieni di intuizioni geniali, come quello della realtà che non è una sfera ma un poliedro. Questa idea che una realtà sghemba non la puoi inquadrare in una sfera o in una piramide ma la devi rispettare nel suo essere sghemba è semplice quanto formidabile. Bene, questa cosa qui un vescovo italiano fa molta fatica a comprenderla, il vescovo italiano ha bisogno del testo codificato al quale obbedire. Proprio per questo è necessario, direi urgente, un sinodo poliedrico, sghembo, direi talmudico, che abbia una segreteria che non sia di redattori di testi ma di organizzatori di incontri. Da qui può ripartire la vitalità della chiesa italiana di cui tutta la società ha bisogno.

Dal liberalismo di Rosmini al popolarismo di Sturzo

Fonte Servire l’Italia a firma di Rosario Terranova

Nella ricorrenza del 73 esimo anniversario della proclamazione della autonomia siciliana, il Movimento “Siciliani verso la Costituente” ha organizzato a Caltagirone un incontro per riflettere sul tema “L’Autonomia Speciale Siciliana ed il regionalismo differenziato del Nord”.

Il Movimento, libero e svincolato da appartenenze politiche, non ha nel suo programma di organizzarsi in partito o di sostenerne uno in particolare; vuole piuttosto favorire o, in assenza, costituire un tavolo attorno al quale far incontrare i vari corpi dirigenziali (della politica) nelle sue diverse espressioni ed articolazioni, metterli davanti alle loro rispettive responsabilità istituzionali e sollecitarli a svolgere i loro compiti, fornendo sostegno con analisi e proposte.

L’incontro è stato presieduto dall’on. avv. Antonio Carullo il quale, dopo la presentazione degli illustri relatori, ha sottolineato come il discorso sull’Autonomia speciale Siciliana debba avere come obiettivo principale la ricerca dei mezzi e delle modalità che consentano di perseguire il raggiungimento del benessere della Sicilia e dei siciliani nel contesto del benessere dell’Italia e dell’Europa tutta.

Oggi, accanto al rispetto delle prerogative, dei diritti e degli interessi sociali, economici e civili del popolo siciliano, lo Statuto siciliano deve tenere conto anche dello sviluppo e della trasformazione della società. A distanza di 73 anni dal suo riconoscimento, esso cioè va modificato per riadattarlo ai tanti bisogni emergenti ma tenendo conto, anche, dell’insorgere di nuovi egoismi regionali che subdolamente si profilano all’orizzonte. Se è vero che ciascuna regione ha il diritto di avere riconosciute le proprie prerogative, differenzianti e distintive, questo deve avvenire però nella considerazione che ogni diversità deve essere non divisiva ma arricchente per tutto il paese. Ogni richiesta di riconoscimento di singola identità regionale deve, cioè, avere carattere di accrescimento di opportunità senza ridurre o danneggiare le altre.

Questo in sintesi il senso dell’incontro interessante perché molto ricco di interventi e con relatori di grande qualità. Hanno portato il loro apprezzato contributo il sindaco di Caltagirone, città ospitante, on. avv. Gino Ioppolo, l’on. prof. Nicola Cristaldi, l’on. dott. Salvo Fleres, l’on. prof. Maurizio Ballistreri, l’on. Attilio De Doni, on. dott. Salvatore Grillo e il prof. Carmelo Rapisarda.

Particolarmente significativa la relazione introduttiva del costituzionalista prof. Andrea Piraino, il quale ha avviato le sue riflessioni rifacendosi a quanto scriveva don Sturzo nel giornale di Caltagirone “la Croce di Costantino” del 22 dicembre 1901. Lo statista, auspicando ed anticipando ciò che sarebbe avvenuto nel paese, così si esprimeva a proposito della importanza che lo Stato deve riconoscere alle singole istituzioni territoriali:

“… a proposito del riscatto del mezzogiorno, lasciate che nel meridione possiamo amministrarci da noi; da noi disegnare il nostro indirizzo finanziario, distribuire i nostri tributi, assumere le responsabilità delle nostre opere, trovare le iniziative ed i rimedi ai nostri mali, e le sproporzioni via via si abbatteranno seguendo una strada senza ingiustizie e senza rancori”.

L’autonomia, cioè, per don Sturzo non era “la ricerca e la celebrazione della autoreferenzialità delle singole istituzioni quanto la ricerca delle condizioni di base per la realizzazione di rapporti inter istituzionali collaborativi, cooperativi, federativi”.

Questa precisazione è stata sottolineata dal prof. Piraino per ricordare che la necessaria attualizzazione dello Statuto siciliano non dovrebbe essere operata secondo una logica meramente rivendicazionista ed autoreferenziale, fermo restando il diritto per la Sicilia ad avere riconosciute forme di compensazione adeguate in funzione dei torti storicamente subiti.

È indispensabile altresì un cambio di passo, nel senso che deve esserci una maggiore voglia di autogoverno e l’assunzione di responsabilità dei governanti e dei governati. Deve essere, cioè, il cittadino siciliano a voler trovare la strada da percorrere insieme ai suoi rappresentanti, in un momento in cui la Regione ha perso ormai i connotati che fino ad oggi l’hanno caratterizzata, dal momento che le Città metropolitane sono già realtà e le Macroregioni in divenire. Nuove istituzioni già si configurano andando oltre le tradizionali realtà territoriali richiedendo di superare vecchie e nuove separatezze, per trovare inedite opportunità e fruttuose convergenze con tutte quelle realtà con le quali c’è affinità e consonanza di interessi e storie. Vi sono macroregioni, già individuate dal Parlamento europeo che hanno dimensioni che addirittura superano per quantità la stessa popolazione italiana, con obiettivi e possibilità di crescita impensabili.

Di fronte a questi nuovi scenari sarebbe ridicolo pensare alle cose di casa nostra con la mentalità della rivendicazione o del riconoscimento di competenze che andavano bene 75 anni fa. Diventa necessario, invece, guardare la Regione con una visione più congrua con i contesti e i problemi del terzo millennio, tenendo conto delle continue migrazioni in corso che già oggi stanno producendo tali e tante trasformazioni culturali e aggregative che sarebbe folle pensare di riuscire a fermare o limitare.

Siamo chiamati, quindi, non soltanto a pensare a nuove linee di aggregazione e cooperazione, di ampio respiro e più fruttuose, ma anche a pretendere tutti quei servizi infrastrutturali che possano renderle attuabili e funzionali. In un mondo globalizzato, immaginare una Sicilia separata e priva di connessioni efficienti che la colleghino alle macroaree con cui può e deve interfacciarsi ed interagire, in assenza di infrastrutture significa stabilire la sua scomparsa.

Oggi la governabilità della Sicilia non è possibile senza una riforma dello Statuto che introduca nel suo corpo normativo la possibilità di avere competenze legislative ed amministrative adeguate al nuovo passo che le macroregioni necessitano. Ma importantissima diventa, anche, l’elevazione qualitativa degli amministratori siciliani e dell’intera struttura burocratica. È questa la condizione necessaria per poter attingere efficientemente alle fonti di finanziamento, esplorare ed utilizzare le ricchezze autoctone, nel nostro caso elevatissime, senza inseguire o copiare modelli di sviluppo economico e sociale estranei alle nostre caratteristiche ambientali e culturali.

Tantissimi altri interventi si sono succeduti, ciascuno aggiungendo argomenti a completamento della ossatura del discorso di fondo contenuti nella relazione del prof. Piraino.

Molto interessante quello del presidente della Regione siciliana on. Musumeci il quale ha sottolineato tra l’altro come sia assolutamente necessario il coinvolgimento del popolo siciliano e la sua responsabilizzazione per la crescita economica, culturale e sociale della Regione. Obiettivo non facile oggi a causa di una generale disarticolazione politica che rende il cammino da percorrere particolarmente arduo. Suo impegno e auspicio è quello di lasciare, a fine mandato, una Sicilia con una organizzazione complessiva migliore rispetto a quella trovata all’inizio della sua esperienza governativa.

Con molto interesse è stato accolto anche l’intervento conclusivo dell’incontro della dott. Antonella Marsala, la quale non ha nascosto tutti i pericoli e le difficoltà che si frappongono all’obiettivo di tirarsi fuori dalle secche in cui la Sicilia è immersa. Problemi antichi ma anche nuovi sbarrano la strada per la crescita della Sicilia e non servono piagnistei o lamentazioni ma analisi serie, capacità politiche e grandi professionalità per gestire le nuove realtà internazionali. Senza passione, impegno e creatività non si possono raggiungere realtà che hanno forti ritmi di crescita, elevate competenze scientifiche e tecnologiche ed efficienza organizzativa. Non è pensabile, pertanto, ricorrere alla politica del cosiddetto “copia e incolla”. Serve piuttosto una politica che sappia sviluppare le competenze e le capacità intellettive presenti nella nostra regione, aggregare tutto ciò che è complementare per evitare la perdita di ricchezza, prima fra tutte quella di risorse umane. L’aspetto demografico è stato ampiamente analizzato per le complesse ricadute che questo ha per il presente e per il prossimo futuro.

A Caltagirone, la ricorrenza del 73 esimo dello statuto non è stata l’occasione per fare discorsi nostalgici ma si è parlato soprattutto di prospettive. Tutto si è svolto all’insegna di analisi dure, finalizzate a guardare il presente ed il prossimo futuro con responsabilità e profonda serietà di giudizio. Il richiamo ad una impegnativa assunzione di compiti è stato il motivo ricorrente degli interventi, tutti svolti all’insegna della voglia di cambiamento e corredati da riferimenti e riflessioni approfondite e realistiche. Si è avvertito un nuovo vento per la Sicilia perché i numeri, duri e reali, non sono stati esorcizzati ma seriamente presi in considerazione ed affrontati, senza nascondersi la posizione di retroguardia esistente e accettando la sfida del presente e del futuro.

La riforma del diritto di famiglia

Fonte rivista “Il Mulino” a firma di Raffaella Sarti

“Storica riforma del diritto di famiglia: diventa assoluta la parità tra i coniugi”, titolava un articolo su “La Stampa” del 23 aprile 1975, commentando l’approvazione, il giorno prima, di quella che sarebbe divenuta la Legge 19 maggio 1975, n. 151. Dopo un iter di quasi nove anni, la riforma arrivava in porto. Senza dubbio, per molti versi la legge rappresentava una “rivoluzione in famiglia”, come recitava un altro articolo sullo stesso giornale. “Le famiglie italiane diventeranno più moderne e più libere”. “Ad essere ‘liberati’ saranno le donne e i figli, spiegava il giornalista: “l’‘oppressore’ del quale vengono limitati i diritti e i poteri, è il padre, finora capo famiglia assoluto”. La famiglia “non è più vista come piramide, che ha al vertice il marito, ‘capo’ e monarca assoluto”, gli faceva eco un articolo su “l’Unità”. In effetti, la legge cancellava quasi completamente il ruolo di capofamiglia, erede per tanti versi della figura plurimillenaria del paterfamilias del diritto romano.

La riforma modificava molti articoli del codice civile del 1942, e – a ventisette anni dalla sua entrata in vigore – faceva un deciso passo verso l’attuazione dell’art. 29 della Costituzione, secondo il quale “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”. Fino ad allora le leggi, più che tale principio, avevano attuato quanto previsto nella parte finale dell’articolo che subordinava l’uguaglianza alla “garanzia dell’unità familiare”, prevedendo a tali fine limiti di legge. E i limiti, per decenni, erano stati molti e pesanti. Sino alla riforma, infatti, il marito-padre era “il capo della famiglia”: “la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”, recitava l’art. 144 del codice civile.

Con la riforma, l’obbligo di coabitazione tra coniugi non veniva meno. Si stabiliva, tuttavia, che la residenza della famiglia e l’indirizzo della vita familiare fossero decisi insieme da moglie e marito. Non solo: i coniugi avrebbero potuto avere ciascuno un proprio domicilio nella “sede principale dei propri affari o interessi” (nuovo art. 45 del codice civile). Insomma, si passava da una legislazione che aveva mantenuto una forte preminenza del marito a leggi che garantivano maggior parità tra i coniugi. Non era, però, una parità assoluta. Certo la riforma stabiliva che “con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri” (nuovo art. 143). Ma permanevano delle asimmetrie. Ad esempio, ora la moglie poteva mantenere il suo cognome. Doveva però aggiungervi quello del marito (art. 143-bis) mentre per il marito non era previsto nulla di simile. Né era previsto che i figli nati in seno al matrimonio potessero avere il cognome della madre. Senza dubbio, comunque, la legge rendeva la moglie meno dipendente dal coniuge: ad esempio, la donna che sposava uno straniero ora non perdeva più la cittadinanza italiana (art. 143-ter).

La riforma metteva i coniugi su un piano di maggiore parità anche grazie alle disposizioni economiche. Il codice del 1942 aveva stabilito che il marito avesse il dovere di “proteggere la moglie, di tenerla presso di sé e di somministrarle tutto ciò che è necessario ai bisogni della vita in proporzione delle sue sostanze”. La moglie doveva contribuire al mantenimento del marito solo se questi non aveva “ha mezzi sufficienti” (art. 145). In base alla riforma, invece, entrambi i coniugi erano “tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia” (nuovo art. 143). Un’altra norma che appariva “rivoluzionaria” riguardava il regime patrimoniale. Fino ad allora era stata in vigore la separazione dei beni tra marito e moglie, mentre la nuova legge introduceva la comunione dei beni, a meno di diversa scelta da parte dei coniugi. Coerentemente, aboliva la dote che, seppur in disuso, per secoli aveva condizionato la vita delle ragazze e delle loro famiglie. Per quanto riguarda gli aspetti economici, la riforma riconosceva inoltre i diritti, fino ad allora disconosciuti, di moglie, figli e altri parenti che lavoravano stabilmente in famiglia o nell’impresa familiare: anzitutto il diritto al “mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia” e poi quello a partecipare “agli utili dell’impresa familiare”. Con una virata in senso democratico, prevedeva anche che le decisioni fossero “adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa”. E ridimensionava le gerarchie di genere: “il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo”, recitava l’art. 230-bis.

La tendenza a smussare le gerarchie di genere e generazionali riguardava anche il rapporto tra genitori e figli. La potestà esercitata dal padre veniva sostituita da una potestà “esercitata di comune accordo da entrambi i genitori” (nuovo art. 316). E i genitori non avevano più solo l’obbligo “di mantenere, istruire ed educare la prole”, ma dovevano farlo anche “tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli” (nuovo art. 147). D’altra parte, se permaneva l’obbligo, per la prole, di rispettare padre e madre, veniva meno quello di onorarli. Era poi previsto che i figli contribuissero “in relazione alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia” finché avessero convissuto con essa.

“Finiscono le crudeli discriminazioni tra bambini”, sosteneva uno degli articoli apparsi il 23 aprile 1975 su “l’Unità”. Un aspetto importante della legge riguardava, in effetti, le differenze tra figli legittimi e illegittimi, di cui ora si parlava solo come di figli “naturali”. L’art. 30 della Costituzione aveva stabilito che la legge dovesse assicurare “ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale”, ma aveva circoscritto la portata del principio alla tutela “compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima”, prevedendo anche limiti per la ricerca della paternità. Di fatto, profonde differenze avevano continuato a caratterizzare la condizione dei figli nati dentro e fuori del matrimonio. La riforma le avrebbe ridotte, non cancellate. Sino ad allora un genitore sposato non poteva riconoscere i figli nati da un rapporto adulterino; ora il riconoscimento era possibile (nuovo art. 252). Prima della riforma, i nati fuori del matrimonio che non potevano essere riconosciuti non avevano il diritto di sapere di chi fossero figli. A parte i casi di incesto, la nuova legge permetteva la ricerca della paternità e della maternità (nuovi artt. 269, 270, 278). Infine, la riforma cancellava molte delle discriminazioni, quanto a diritti successori, dei figli naturali, pur senza equipararli completamente ai figli legittimi.

Il nuovo diritto di famiglia, che interveniva su molti altri aspetti della vita familiare, recepiva l’orientamento favorevole alla democratizzazione dei rapporti di genere e generazionali di una parte crescente della società italiana. Per molti versi rappresentava davvero una discontinuità. Nelle pieghe della legge, tuttavia, si annidavano elementi di continuità. In base al nuovo art. 316, ad esempio, “se sussiste un incombente pericolo di un grave pregiudizio per il figlio, il padre può adottare i provvedimenti urgenti ed indifferibili”. Insomma, “l’ultima parola spetta sempre al padre”, notava Danielle Turone sulla rivista femminista “Effe” già nel 1973, analizzando il progetto della legge in un articolo intitolato, significativamente, Dopo anni di gestazione nasce già vecchio il nuovo diritto di famiglia. Cacciato dalla porta, il capofamiglia rientrava, in alcune occasioni, dalla finestra.

Peraltro restava aperto il rapporto tra leggi e più vaste trasformazioni sociali e culturali. “Non basta togliere dal codice la parola ‘patria-potestà’ lasciando integro concetto, o concedere alla donna di mantenere il proprio cognome ‘aggiungendo quello del marito’, per credere di aver dato alle donne la parità”, continuava Danielle Turone. A suo avviso, la donna avrebbe potuto raggiungere la parità “solo quando, oltre ai rapporti inter-familiari, muterà tutta l’organizzazione sociale, quando le sue possibilità di studio, di lavoro saranno uguali a quelle degli uomini, quando il ‘costo’ di una maternità non verrà addebitato al solo nucleo familiare ma diverrà un costo ‘sociale’, quando alloggi, servizi sociali ed assistenziali organizzati, toglieranno la donna dal ghetto delle quattro mura domestiche”. “La nuova legge sulla famiglia dà alle donne nuovi diritti”, ammetteva. “Ma la parità è ancora lontana”. Era il 1973. Da allora le leggi hanno riconosciuto alle donne italiane numerosi altri diritti, importantissimi. Ma molti dei problemi che Turone elencava restano drammaticamente attuali e la parità resta, anch’essa, ancora lontana.

Confini

Fonte Associazione Popolari a firma di Giuseppe Ladetto

Oggi, la parola confine sembra essere diventata una parolaccia, un qualche cosa che mettono in campo le destre reazionarie e razziste per ragioni oscure e comunque sempre negative. “Vogliamo un mondo senza confini” è lo slogan che accomuna anarchici, libertari, liberal, esponenti del mondo finanziario, tecnocrati, molti cattolici ed altri ancora.

Ricordo che Limes è la denominazione di una stimata rivista di geopolitica. Ai tempi di Roma, il limes era quell’insieme di strade militari, di torri, di mura, di fossati, di palizzate che contrassegnava il perimetro dell’impero: era quindi un confine. Perché una tale denominazione per una rivista? Ci dicono gli esperti di geopolitica che al centro dell’interesse della disciplina c’è il territorio, che è appunto delimitato da un confine. Aggiungono che, nella più parte dei conflitti e dei contrasti fra gli Stati, c’è ancora oggi il territorio e i suoi confini, un territorio che per le grandi e medie potenze include anche aree, al di fuori del confine politico propriamente detto, dalle quali esse traggono risorse e sulle quali impongono i loro interessi e la loro influenza.

Questa attenzione al territorio e ai suoi confini, che attraversa la storia del mondo, è una componente della natura umana oppure un prodotto dell’avidità di potere o di ricchezza caratteristico di determinate culture?

Il territorio è al centro della vita non solo degli esseri umani, ma della più parte degli animali. In esso, questi si garantiscono gli alimenti, i luoghi sicuri da pericoli vari, lo spazio in cui trovare i partner sessuali e riprodursi. I suoi confini vengono marcati periodicamente imprimendo odori su alberi e rocce, o emettendo segnali vocali, per segnalare agli altri conspecifici che quello è il loro spazio vitale in cui non c’è posto per un numero di individui superiore a quello già presente.

Si dirà che ciò non riguarda gli esseri umani: essi non sono semplici animali; dispongono di razionalità e cultura in base alle quali sono in grado di sottrarsi ai condizionamenti di ordine genetico. Attenzione a pensare che gli esseri umani, possedendo razionalità e cultura, possano prescindere o ignorare la loro dimensione biologica: è come credere che di un edificio si possano demolire le fondamenta lasciandolo in piedi.

La ricerca etologica, l’antropologia evolutiva e le acquisizioni delle neuroscienze mostrano che la nostra specie è ancora guidata da complesse emozioni ereditarie e da canali di apprendimento prestabiliti. I condizionamenti genetici non sono un male oscuro, inutile retaggio di epoche lontane. Sono frutto di un processo selettivo teso alla nostra sopravvivenza che ha consentito la nostra evoluzione. In tema di territorio, la fondamentale differenza degli esseri umani rispetto agli animali è che, mentre questi ultimi difendono lo spazio loro indispensabile per sopravvivere, non quindi uno spazio superiore alle loro esigenze, gli umani tendono a conquistare territorio per sottomettere e sfruttare altri membri della propria specie. Domini e imperi sono una prerogativa dei soli uomini. Comunque possiamo ritenere che l’attenzione al territorio ci appartenga in quanto esseri umani, e che solo in parte l’evoluzione culturale consenta di ridimensionarla o reindirizzarla.

La nostra specie è costitutivamente sociale. È riuscita ad affermarsi grazie alla capacità di collaborare fra  membri di una comunità circoscritta, inizialmente legata da vincoli di sangue. Anche in seguito, con lo sviluppo della società, superata la dimensione familiare, la solidarietà e la reciprocità, sempre indispensabili, hanno richiesto e tutt’oggi richiedono il sentirsi parte di una comunità non solo territoriale, ma durevole nel tempo che leghi fra loro le generazioni.

Chi vorrebbe la scomparsa dei confini si dichiara “cittadino del mondo”. A proclamarsi tali (come ci hanno detto Zygmunt Bauman e Christopher Lasch) sono persone dinamiche, sicure di sé, disponibili ad andare ovunque intravedano l’opportunità di trovare lavori gratificanti e ben retribuiti o di far carriera. Esse non manifestano più alcun sentimento di appartenenza alla società in cui momentaneamente si trovano a vivere, perché questa non offre loro nulla che già non abbiano o che non possano ottenere autonomamente. Sentendosi cittadini del mondo, non ritengono di avere doveri verso alcuna comunità territoriale.

Tuttavia una società non può essere un semplice aggregato temporaneo e mobile di individui. “Una società dura nel tempo: è erede del passato e prepara l’avvenire”, recita il catechismo, ma oggi i confini si indeboliscono, sia nello spazio, sia nella dimensione temporale.

Infatti, la globalizzazione, nelle modalità in cui si sta realizzando, pone questioni che vanno oltre il discorso sui confini come comunemente intesi. Con i processi di globalizzazione, espressione della modernità ultima, i confini si dissolvono o comunque si indeboliscono, ma la perdita di confini chiari (come messo in luce da Anthony Giddens e da Zygmunt Bauman) riguarda sia lo spazio geografico, sia quello temporale, due ambiti che la modernità collega sempre più. Lo spazio fisico perde in un certo senso di importanza perché si sviluppano contatti e connessioni tra mondi geograficamente lontani, per le crescenti relazioni economiche, sociali e culturali. Quello temporale si appiattisce sulla contemporaneità poiché il presente (come ha scritto Agnes Heller) non collega più passato e futuro, ma è diventato uno spazio da vivere ed esplorare, senza mantenere memoria e avere attese, senza capacità di prevedere e di programmare e senza continuità fra le generazioni.

Si perde in tal modo ogni sentimento di appartenenza e si cade in un individualismo sempre più marcato. Di qui, vengono le culle vuote che in misura maggiore o minore caratterizzano i Paesi europei (non certo solo imputabili alla scarsità di asili-nido e all’inadeguatezza degli assegni familiari, come si sente diffusamente dire).

Torniamo ai confini spaziali propriamente detti. Si dice che oggi il mondo è diventato il “villaggio globale”, ma ci ricorda Zygmunt Bauman che in realtà non è così, perché questo mondo globalizzato non conosce né la solidarietà, né la tradizione del villaggio, non possiede un centro e manca di integrità. E aggiunge che la globalizzazione divide tanto quanto unisce, anzi divide proprio in quanto unisce. La dilatazione dei confini degli Stati, infatti, fa tornare il bisogno di nuovi confini, di piccole patrie. Localismi politici, etnicismi, fondamentalismi religiosi, ma anche i neo-tribalismi metropolitani rispondono a questo bisogno.

Konrad Lorenz scriveva, già negli anni Settanta, che nelle periferie urbane delle moderne metropoli (dove il vincolo comunitario è stato spezzato e l’uomo vive in solitudine, privato della sua dimensione sociale), l’istinto di aggregazione spinge giovani sradicati, privi di riferimenti culturali, a riunirsi in bande che assumono come criterio di appartenenza vuoti simboli e bandiere e si compattano nella lotta contro gli altri (tipico il caso degli ultras nel mondo calcistico, dei gruppuscoli neofascisti e di quelli sedicenti alternativi tipo Black block): nascono così la violenza gratuita, il teppismo, la diffusa propensione all’illegalità e alle attività criminali, fenomeni che caratterizzano sempre più le società industrializzate.

Nel frattempo, altri confini compaiono e si rafforzano diventando barriere: c’è il mondo di chi è povero e quello di chi è ricco, di coloro che decidono e quello di quanti subiscono, di chi ha accesso ai beni, all’informazione, alla conoscenza e chi no. Ci dice Bauman che l’idea di universalizzazione racchiudeva in sé la speranza di dare un ordine al mondo, ma non è stato così perché la globalizzazione si presenta come disordine e caos.

E la confusione va oltre la realtà fisica tangibile e penetra nella sfera delle idee, nelle parole, nei concetti che diventano sempre più sfumati oppure risultano dilatati e quindi non tali da definire quanto racchiudono: definire infatti vuol dire porre un confine, tracciare un perimetro che separa quanto vi sta all’interno da ciò che gli è esterno e quindi estraneo. Ad esempio, voler essere cittadini del mondo, non crea una cittadinanza universale, ma semplicemente rende vuoto e sterile lo stesso concetto di cittadinanza: in pratica significa che non ci sono più cittadini ma solo individui privi di appartenenza. Lo aveva capito già duecento anni fa Giacomo Leopardi allorché scriveva: “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini, e quando cittadino Romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo”.

Oggi, anche i valori si fanno incerti, mutevoli per adattarsi alle mode, alle necessità contingenti, valori fra cui scegliere di volta in volta quelli più convenienti al momento, direi “alla carta” come capita nei ristoranti con le portate. A ben vedere anche il rifiuto dei limiti in ogni ambito, una caratteristica dell’uomo contemporaneo, è strettamente associato al venir meno dello stesso concetto di confine, un rifiuto pericoloso alla base dell’hybris che ci sta conducendo verso un possibile disastro planetario.

Questa rappresentazione ci mette sull’avviso. Se dalle contese per le frontiere sono derivate guerre devastanti, dobbiamo tuttavia evitare di attribuire ai confini solo aspetti negativi gettando così via il bambino con l’acqua sporca.

Carmelo Miceli: “Mai si era visto un Governo che fa fuori per decreto il magistrato che ha chiesto il processo per il vicepremier “

Il deputato del Partito democratico Carmelo Miceli, componente della commissione Giustizia della Camera e segretario dem di Palermo, in riferimento all’articolo 3 del Decreto che affiderebbe le indagini sui migranti esclusivamente alle procure di Palermo e Catania ha dichiarato:  “La norma ad personam contro il capo della procura di Agrigento, reo di aver indagato Salvini sul caso Diciotti e di non eseguire i diktat fuori legge del Governo in tema di migranti, sarebbe un atto di gravità inaudita, dagli evidenti profili incostituzionali, e richiamerebbe i tempi delle leggi ad personam di Berlusconi, stavolta col timbro M5s. Vigileremo sul Dl Sicurezza bis, se dovesse esserci una schifezza del genere ricorreremo in tutte le sedi”.

“Il Movimento 5 stelle si prepara davvero – a dare il via libera ad un provvedimento così senza precedenti? Si scontrano, per finta, su tutto, ma non su questo. Mai si era visto un Governo che fa fuori per decreto il magistrato che ha chiesto il processo per il vicepremier e ministro dell’Interno. La legalità cinque stelle si ferma, come al solito, alla poltrona”.

Rapporto UNICEF-OMS, ancora alta nel mondo la percentuale di bambini sottopeso alla nascita

Nel mondo 1 bambino su 7 (20,5 milioni di neonati, dato 2015) nascono ogni anno sottopeso, ossia con un peso inferiore a 2,5 kg.

A rivelarlo è il nuovo studio “Low Birthweight Estimates 2019”realizzato dai ricercatori della London School of Hygiene & Tropical Medicine, dell’UNICEF e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che ha preso in esame i dati relativi a 148 Stati e a 281 milioni di nascite, ed è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista medica internazionale The Lancet Global Health,

Quasi 3/4 di questi bambini nascono in Asia meridionale e in Africa Subsahariana, i continenti per i quali disponiamo anche dei dati statistici più limitati.
Il fenomeno rimane tuttavia presente anche nei Paesi ad alto reddito come quelli di Europa, Nord America e Oceania, nei quali non si è verificato praticamente alcun progresso nella riduzione dei tassi di nascita sottopeso dal 2000 a oggi.

Nel 2012, tutti i 195 Stati membri dell’OMS si erano impegnati a ridurre del 30% la percentuale di nascite sottopeso entro il 2025.
Secondo le stime del rapporto (le prime di questo genere) questa percentuale è diminuita solo lievemente, a livello globale, passando dal 17,5% del 2000 (22,9 milioni di nati vivi sotto i 2,5 kg) al 14,6%del 2015 (20,5 milioni).
Secondo il rapporto, con i tassi di progresso registrati negli ultimi 15 anni – ossia, una diminuzione del fenomeno pari a -1,2% annuo – non si raggiungerà il traguardo prefissato a livello globale, che avrebbe richiesto invece un tasso di riduzione annua del -2,7% tra il 2012 e il 2025.

Preoccupa inoltre il fatto che i progressi stiano decelerando: nel quinquennio 2010-2015 il tasso di riduzione annuo delle nascite sottopeso è stato dell’1%, rispetto all’1,4% del quinquennio precedente e all’1,33% del 2000-2004.

Oltre l’80% dei 2,5 milioni di neonati nel mondo che muoiono ogni anno sono anche sottopeso in quanto nati prematuri oppure poco sviluppati rispetto all’età gestazionale.
I bambini con basso peso alla nascita che sopravvivono hanno un rischio maggiore di soffrire di ritardi nella crescita e di avere problemi di salute, incluse disfunzioni croniche come diabete e malattie cardiovascolari.
Gli autori della ricerca sottolineano che in 47 Stati (fra cui 40 paesi a basso e medio reddito nei quali si verifica circa un quarto di tutte le nascite a livello globale) si hanno insufficienti dati a disposizione sul fenomeno.
Le regioni che compiono i progressi maggiori sono anche quelle con il numero più alto di neonati sottopeso: Asia meridionale e Africa Subsahariana fanno registrare un declino annuale nella percentuale di nascite sottopeso rispettivamente dell’1,4% e dell’1,1%.

Ciononostante, a causa dell’incremento demografico, il numero assoluto di neonati sottopeso è aumentato nell’Africa Subsahariana, passando da 4,4 milioni a 5 milioni l’anno. Per le medesime ragioni, a causa del suo peso demografico, l’Asia Meridionale conta tuttora circa metà delle nascite sottopeso globali, circa 9,8 milioni annue.

Secondo la ricerca, i tassi minori di nascite sottopeso (dato 2015) è quello della Svezia (2,4%), decisamente inferiore rispetto a Stati Uniti (8%), Gran Bretagna (7%), Australia (6,5%) e Nuova Zelanda (5,7%).

In Italia il dato è pari al 7%: nel 2015 sono nati sottopeso circa 34.500 dei 495.200 neonati dell’anno.

Sono proprio gli i paesi ad alto reddito a registrare i progressi più lenti, con un tasso di riduzione media dello 0,01% annuo, nonostante un’incidenza del fenomeno del 7%, non molto inferiore rispetto a quella dei Paesi in via di sviluppo.

In alcuni paesi industrializzati si registra persino una tendenza al peggioramento: le nascite sottopeso stanno infatti aumentando nella Repubblica Ceca (+2% annuo), Irlanda (+1,3%), Portogallo (+1,2%) e Spagna (+1,1%).

Il Regno Unito ha registrato dal 2000 a oggi una diminuzione annua dello 0,3%, mentre in Italia la diminuzione è stata di appena lo 0,1% in 15 anni (dal 7,1% del 2000 al 7% del 2015)-

Questi dati evidenziano la l’urgenza di maggiori investimenti e interventi per accelerare i progressi, attraverso la conoscenza del fenomeno e affrontandone i fattori chiave: l’età troppo avanzata della madre, le gravidanze multiple, le complicazioni ostetriche, le condizioni croniche durante la maternità (ad es. ipertensione), le infezioni (come la malaria), lo stato nutrizionale delle donne e l’esposizione a fattori ambientali quali l’inquinamento dell’ambiente domestico e uso di alcol, tabacco e droghe.

Nei paesi a basso reddito, la causa principale del basso peso alla nascita è lo scarso sviluppo dell’utero dovuto all’età troppo bassa della madre.

In Occidente, invece, il basso peso alla nascita è spesso associato alla prematurità del parto (prima della 37° settimana di gravidanza).

Assistente vocale: La Cina è il nuovo leader

Il mercato degli smart speaker ha un nuovo leader: la Cina. Come riferiscono gli analisti di Canalys, il Paese asiatico ha superato gli Stati Uniti grazie ai 10,6 milioni di altoparlanti con assistente vocale integrato consegnati nel primo trimestre del 2019

Stando a quanto affermano gli esperti, la Cina detiene il 51% di un mercato in costante crescita come quello degli smart speaker, che tra gennaio e marzo ha toccato quota 20,7 milioni di dispositivi consegnati in tutto il mondo, il 131% in più su base annua. Negli Stati Uniti sono stati spediti invece 5 milioni di unità, ovvero il 24% del mercato complessivo.

Per quanto riguarda le aziende produttrici, in testa, stabile, c’è ancora Amazon con i suoi altoparlanti Echo: nei primi tre mesi del 2019, il gruppo di Jeff Bezos ha spedito 4,6 milioni di unità, pari al 22,1% del mercato, in crescita rispetto ai 2,5 milioni dello scorso anno. Al secondo posto Google, con 3,5 milioni di dispositivi (nel 2018 erano 3,2). Sul gradino più basso del podio si è posizionata la cinese Baidu, con 3,3 milioni di altoparlanti, seguita da Alibaba e Xiaomi, entrambe a quota 3,2 milioni. Male, invece, HomePod di Apple, finito nella categoria ‘Altri’ del report di Canalys.

Tutti pazzi per il cicloturismo

La bici non è solo un mezzo per stare in buona salute, ma anche uno strumento di coesione  sociale che rivitalizza i territori, risveglia il commercio, rilancia la cultura dei luoghi e del paesaggio. Su questo slancio torna così la nuova edizione di Albergabici, la campagna di adesioni al portale della Federazione italiana ambiente e bicicletta (Fiab), che comprende oltre 650 strutture ricettive italiane tra alberghi, b&b,  agriturismi e ostelli, attrezzati per rispondere alle esigenze dei cicloturisti, e di coloro che vogliono farsi conoscere nel mondo degli appassionati della due ruote a pedali.

La nuova campagna adesioni Albergabici 2020 si rivolge a tutte le strutture ricettive bike-friendly, o a quelle che desiderano diventarlo grazie all’aiuto di Fiab, interessate ad entrare nel circuito peculiare, intercettando il target dei cicloturisti. Tre i requisiti minimi per poter essere ammessi nella rete: accettare pernottamenti anche di una sola notte (escluso agosto); disporre di un posto chiuso e sicuro per bici e attrezzi per la manutenzione di base; garantire ai propri ospiti una prima colazione sostanziosa con alimenti adatti ai ciclisti. Diversificate le formule di affiliazione al circuito, che garantirà la presenza della struttura sul portale dedicato fino al 31 ottobre 2020 e una pagina descrittiva corredata da una galleria fotografica. Il servizio offerto da Albergabici, inoltre, è integrato con il sito Bicitalia e consente di visualizzare la posizione di ogni struttura ricettiva presente, segnalando le migliori piste ciclabili nell’area di riferimento.

“Il cicloturismo è una realtà in costante crescita in tutto il vecchio continente – ha sottolineato Michele Mutterle, della segreteria nazionale Fiab e responsabile Albergabici – In Italia muove un indotto di 3,2 miliardi di euro e, in tutta Europa, di 44 miliardi, dato superiore a quello prodotto dal settore delle crociere che si ferma a 39,4 miliardi. Da considerare, inoltre, la ricaduta sul territorio: il cicloturista spende il 40% in più della media dei turisti di massa, cerca le soluzioni che lo portano vicino alle emozioni e non per forza le più economiche e spende capillarmente ovunque si trovi alimentando la piccola economia locale”.

A conferma di ciò i dati di uno studio Eurovelo, secondo il quale ogni chilometro di ciclabile, inserito in una valida rete cicloturistica, costa tra 30 e 300.000 euro e produce un indotto medio di 110.000 euro all’anno, che ricade in buona parte sulle strutture ricettive e di accoglienza.

Esame abilitazione Medicina. Prima sessione il 18 luglio

È stato pubblicato sul sito del MIUR il Decreto con cui vengono indette per l’anno 2019 la prima e la seconda sessione degli Esami di Stato di abilitazione all’esercizio della professione di medico-chirurgo.

La domanda di ammissione deve essere presentata per la prima sessione non oltre il 5 giugno 2019 e per la seconda sessione non oltre l’8 ottobre 2019, presso la segreteria dell’università presso cui i candidati intendono sostenere gli esami. I candidati possono presentare la domanda di ammissione in una sola delle sedi elencate. L’indicazione di più di una sede è causa di esclusione.

L’Esame consiste in un tirocinio pratico, della durata di tre mesi, e in una prova scritta. Il tirocinio per la prima sessione ha avuto inizio lo scorso 10 aprile, quello per la seconda sessione inizierà il 5 novembre 2019.

La prova scritta, a cui si accede previo superamento del tirocinio, si svolgerà il 18 luglio 2019 per la prima sessione e il 28 febbraio 2020 per la seconda sessione.

Vincent Lambert: la Corte d’appello di Parigi ordina la ripresa dei trattamenti

La Corte d’appello di Parigi ha ordinato la ripresa delle cure per Vincent Lambert.

I trattamenti che tenevano in vita Lambert erano stati interrotti solo stamattina, all’ospedale di Reims. La decisione che ripristina le cure è stata assunta dopo un ennesimo ricorso dei famigliari, contrari alla stessa sospensione.

Nel pomeriggio, la Corte europea dei diritti umani aveva invece respinto il ricorso dei genitori, in assenza di “nuovi elementi”. Mentre il presidente, Emmanuel Macron, aveva detto che la decisione non spettava a lui.

Una decisione provvisoria della durata di sei mesi, che però consente comunque al comitato delle Nazioni Unite di studiare il caso.

Perché bisogna distinguere tra il rosario ed il comizio

Fonte http://www.ildemocristiano.it

Il rosario esibito di Salvini è, insieme, clericale e blasfemo. Più blasfemo che clericale, viene da dire. Come ha osservato giustamente padre Spadaro, l’esibizione così disinvolta e strumentale di simboli religiosi in una contesa politica ed elettorale mette in questione quel “dare a Dio quel che è di Dio, e a Cesare quel che è di Cesare” su cui si fondano un paio di migliaia di anni di insegnamenti civili e religiosi.

Si dirà che non è la prima volta, ed è vero. E tuttavia si potrebbe anche osservare che i democristiani, con tutti i loro difetti, seppero sempre distinguere tra il rosario e il comizio, e che quando si pensò (La Pira) di promulgare la Costituzione “in nome di Dio”, l’argomento fu laicamente lasciato cadere.

Il fatto è che Salvini sta giocando la sua partita con una inquietante spregiudicatezza, fino ad immaginare di poter schierare un Papa contro l’altro, come se la sua guida politica fosse fonte di ispirazione. E tende sempre più a giocarla così mano a mano che si accorge che la sua presa sui destini del paese comincia forse un po’ ad allentarsi. Sicché viene da pensare che la sua parabola discendente non sarà, alla fine, una passeggiata su un letto di rose neppure per i suoi avversari.

Muro contro muro Lega-M5s, Salvini: pronto al voto

Fonte Askanews

Nessuno cede, le posizioni dei duellanti restano le stesse. Dopo due ore e mezzo di discussione in Consiglio dei ministri Lega e M5s non si muovono di un passo, il confronto rimane teso e di fatto è un muro contro muro. Dopo che il premier Giuseppe Conte ha espresso dubbi sul “dl sicurezza bis”, spiegando che perplessità ci sarebbero anche al Quirinale, è stato il leader della Lega Matteo Salvini a prendere la parola per incalzare il premier e M5s, sfidandoli a spiegare quali sarebbero le “criticità” insuperabili del decreto.

Un braccio di ferro che ha portato alla sospensione del Consiglio dei ministri, su richiesta di Matteo Salvini. Il leader della Lega ha spiegato che non intende fare “marcia indietro” e ha chiarito di essere “pronto a votare in cdm”.

La pausa è stata voluta dal ministro dell’Interno per ottenere chiarimenti sulle perplessità che lo stesso Quirinale, secondo Conte, avrebbe sollevato.

 

I cattolici e Salvini, non basta più lamentarsi

La recente, ed ennesima, “scomunica” di alcuni settori autorevoli della Chiesa italiana nei confronti del leader della Lega Salvini, il profondo e palpabile disorientamento di moltissimi cattolici praticanti e osservanti che vanno regolarmente in Chiesa e poi votano in massa proprio la Lega, la crescente dissociazione fra ciò che si predica e si ascolta e ciò che si pratica concretamente nella vita di tutti i giorni, sono all’origine di una confusione che continua a caratterizzare il rapporto controverso e complesso tra i cattolici e le scelte politiche. Come, temo, anche in vista della ormai prossima consultazione elettorale.

Ora, al di là di queste scaramucce a cui siamo abituati da tempo – il famoso titolo di copertina di Famiglia Cristiana contro Salvini risale ad un anno fa – resta sul tappeto un punto che non si può aggirare facilmente ed irresponsabilmente. Ovvero, ciò che emerge da questa ennesima polemica tra alcuni settori religiosi, appunto della Chiesa italiana e la Lega di Salvini, e’ l’assenza, colpevole ed inspiegabile, di una forza politica laica che, con l’appoggio di altre altre culture e altri filoni ideali, sappia intercettare e rappresentare istanze e domande che rischiano, invece, di riconoscersi stancamente in partiti e movimenti del tutto estranei alla loro cultura di fondo. Del resto, come si fa a non prendere atto che nei luoghi tradizionali e storici di maggior consenso della Democrazia Cristiana – parlo soprattutto delle “zone bianche” del Nord – da svariati lustri e’ la Lega che miete consensi paragonabili a quella stagione che ormai viene solo più ricordata nei libri di storia? E’ chiaro a tutti, e lo confermano da tempo tutti i sondaggi, che la stragrande maggioranza dei cattolici praticanti vota la Lega. E sono quelle persone che più ascoltano la parole del Vangelo e l’esortazione e l’insegnamento dei padri della Chiesa. Perché siamo di fronte, quindi, ad una dissociazione così profonda tra ciò che si predica e ciò che si pratica? Non perdiamo tempo a chiederci il perché altri partiti e altri movimenti, seppur lontani dal “credo” leghista, non riescono ad essere interlocutori di quel mondo variegato, complesso e molto articolato qual è il mondo cattolico. Certo, e’ un mondo molto articolato e non mancano, come ovvio, settori che si riconoscono nei partiti della sinistra o in altri movimenti. Ma sono, comunque sia, realtà marginali e non particolarmente incisive.

La vera sfida politica, quindi, e sempre nel massimo rispetto delle posizioni che vengono espresse dai vari settori della Chiesa, dai suoi organi di informazione e da esponenti autorevoli dell’episcopato, resta quella di saper giocare oggi un ruolo politico protagonistico e più visibile. Non da parte della Chiesa, com’è ovvio, ma di quel laicato che si straccia le vesti a giorni alterni sulle posizioni leghiste e poi si nasconde puntualmente un minuto dopo quando si tratta di “scendere in campo”. In gioco, infatti, non c’è la riproposizione – che sarebbe ridicola e sciocca – di un movimento confessionale o, peggio ancora, clericale come qualcuno auspica e proporne anche nel nostro paese. No, la ricetta continua ad essere quella di dar vita ad un movimento/partito laico, plurale, riformista e di governo che sappia, però, recuperare e riattualizzare quel cattolicesimo democratico, popolare e sociale che continua ad essere latitante da troppi anni e quindi complice dell’irrilevanza politica, culturale e progettuale dei cattolici italiani nella concreta vita pubblica. E, per capirci, si tratta di mettere in campo quella forza che giornalisticamente viene definita di “centro” ma che, nello specifico, va intesa come una forza laica che sappia recuperare e tradurre nella contesa politica contemporanea gli ingredienti basilari di quella tradizione. Che resta moderna e di una bruciante attualità. E cioè, cultura della mediazione, cultura di governo, composizione degli interessi contrapposti, rispetto delle istituzioni, cultura dello Stato, rifiuto della radicalizzazione della lotta politica e degli “opposti estremismi” molto cari alla destra di Salvini e alla sinistra di Zingaretti, capacità di fare sintesi delle varie proposte in campo e difesa della qualità della democrazia. Un centro non statico o di potere ma un luogo politico innovativo, moderno, creativo e profondamente democratico e riformista.

Un luogo, cioè, che sappia anche e soprattutto recuperare ed inverare la miglior stagione del cattolicesimo democratico, popolare e sociale del nostro paese. Senza nostalgia e senza lo sguardo rivolto all’indietro. Perché delle due l’una.

O la minaccia leghista e’ reale e quindi ci si deve attrezzare al di là delle attuali forze politiche in campo, oppure si tratta solo e sempre della solita litania propagandistica e carica di retorica destinata a sciogliersi come neve al sole nell’arco di pochi giorni. Come, purtroppo, avviene da tempo. E lo dico anche rivolto a quei settori del mondo cattolico che urlano a squarciagola contro i “barbari” e poi cadono misteriosamente e puntualmente in letargo quando qualcuno li avvicina o gli chiede di impegnarsi in prima persona. Perché, come ci ricordava già Papa Montini nella enciclica Octogesima Adveniens, i cattolici non possono continuare ad essere accusati del “peccato di omissione”. Ovvero, per tradurlo in termini più convenzionali, di essere complici di questa assenza e di questa colpevole non presenza nella concreta dialettica politica. Cioè, in quel “paese reale” che da troppi anni non registra un punto di vista, seppur laico, della cultura cattolico democratica, popolare e sociale. Praticamente dopo la fine della Dc prima e del Partito popolare italiano poi. Forse è arrivato il momento di trascurare le denunce moralistiche e di comodo e di privilegiare l’azione politica concreta. Come, del resto, ci hanno insegnato i nostri padri nelle diverse fasi storiche che li hanno visti protagonisti.

Giù le mani dal Santo Rosario

C’è un vecchio e rispettoso detto che recita più o meno così  “scherza con i fanti, ma non con i santi”.

E’ del tutto evidente che Salvini non ne è a conoscenza o, più probabilmente, devastato dal delirio di onnipotenza che lo attraversa in questa fase ed esaltato dalle affacciate da balconi imbarazzanti come quello di Forlì, ha semplicemente optato per un inquietante “me ne frego”.

L’accostamento del sacro al profano e peggio ancora l’uso strumentale della fede per bassi interessi terreni di tipo elettorale segna un degrado della politica che non ha riscontri nella storia di forze politiche che indicavano già nel nome le loro radici culturali cristiane; non a caso il Cardinale Parolin (Segretario di Stato Vaticano) è intervenuto in modo deciso per invitare a non mescolare fede e politica, ricordando che “invocare Dio per se stessi è sempre molto pericoloso”.

E’ intollerabile – per credenti e non credenti – ascoltare Salvini che dal palco di Piazza Duomo a Milano (dopo aver invocato un elenco di santi) dice testualmente di volersi “affidare al cuore immacolato di Maria, che son sicuro ci porterà alla vittoria”. Perché chiamare in causa la Madonna Immacolata in un discorso elettorale?

E’ una deriva pericolosa che non va sottovalutata perché prefigura scenari in cui qualcuno tenta di auto-assegnarsi anche funzioni di rappresentanza dell’ultraterreno ponendosi a cavallo tra sovranismo, difesa dell’identità e religione, esibendo simboli ed oggetti sacri durante degli sgangherati comizi fatti a base di insulti e minacce nei confronti di chi osa pensarla diversamente.

Piena condivisione del pensiero espresso dal direttore di Civiltà Cattolica Spadaro che ha ricordato come nominare il nome di Dio invano è peccato; per non parlare della strumentalizzazione che ne vorrebbe fare qualche mercante di odio per una manciata di voti in più!

Quindi giù le mani dal Vangelo e dal Santo Rosario, soprattutto se quelle mani sono sporche del sangue di uomini, donne e bambini abbandonati al loro terribile destino perché non salvati e lasciati annegare.

La Svizzera dice addio a mosignor Grab

L’ex vescovo di Coira Amédée (Amedeo) Grab è deceduto domenica pomeriggio all’età di 89 anni a Roveredo Grigioni dove risiedeva.

Originario di Svitto, monsignor Grab era nato il 3 febbraio del 1930 a Zurigo ma aveva trascorso l’infanzia a Ginevra. Aveva in seguito studiato presso il collegio dell’abbazia svittese di Einsiedeln, dove era entrato nell’ordine benedettino con il nome di Amedeo. Ordinato sacerdote nel 1954, si era dedicato all’insegnamento dapprima a Einsiedeln, poi – dal 1958 al 1978 – al collegio Papio di Ascona, con un breve intermezzo (1965-66) all’Università di Friburgo.

Nel 1983 era stato nominato segretario della Conferenza dei vescovi svizzeri (CVS) e nel 1987 vescovo ausiliare della diocesi di Losanna, Ginevra e Friburgo, di cui aveva assunto la guida nel novembre 1995, fino al suo trasferimento a Coira nell’agosto 1998. All’inizio dello stesso anno aveva assunto la presidenza della CVS, carica che ha esercitato fino alla fine del 2006.

Fino al febbraio 2007 era stato a capo della Diocesi di Coira nonostante avesse dato le sue dimissioni nel febbraio 2005 al compimento del 75esimo compleanno. Nel luglio del 2007 papa Benedetto XVI aveva nominato Vitus Huonder alla successione di Grab.

Girardengo: il primo Campionissimo nella storia del ciclismo italiano

Durante queste giornate di catene e sudore, in cui il giro d’Italia entra nella sua fase più accesa, il pensiero non può non volare verso Costante Girardengo, il Campionissimo.

Infatti, prima che lo attaccassero a Coppi, il soprannome “Campionissimo” era  stato di Costante Girardengo, ciclista della prima metà del Novecento.
Questo appellativo gli venne dato da Emilio Colombo, direttore della Gazzetta dello Sport, mentre stava dominando il Giro d’Italia del 1919, dove vinse 7 tappe su 10 e restò leader dal primo all’ultimo giorno.

Il Corriere di lui scrisse che era “il più talentuoso ciclista che il suolo italico ha mai visto pedalare”.

Nato il 18 marzo 1893 a Novi Ligure, in una cascina in cui i genitori facevano i contadini, era il quarto di sette figli e andò a scuola fino alla sesta elementare.

Quelli furono gli anni in cui i novesi iniziarono a costruire la pista ciclistica in paese.

Forse proprio per questo, fin dai primi anni di vita, il bimbo dimostrò grande interesse per il ciclismo.

E pensare che la famiglia non condivideva questa passione e ci volle molto prima che il padre si convincesse ad acquistargli la prima bici nuova del costo di 160 lire pagata in 7 rate.   

A 18 anni iniziò subito a vincere battendo campioni già famosi .
In una sola annata vinse 22 corse. Per poi passare al professionismo.E anche qui iniziò ad inanellare quell’inimitabile collezione di successi che lo avrebbero fatto entrare nella leggenda.

Luigi Ganna, il vincitore del primo Giro d’Italia, quello del 1909, disse che era “Spettacolare, una tal supremazia in tutti i campi di una gara ciclistica mai si era vista”.

Nel 1914 fa registrare un nuovo titolo italiano per professionisti, ma soprattutto vince la tappa Lucca-Roma del Giro d’Italia che, con i suoi 430 chilometri, costituisce la più lunga tappa mai disputata nella competizione.

Quel giro fu ricordato come il Giro più duro dell’epoca eroica del ciclismo. Con cinque tappe oltre i 400 km di percorrenza.

Il maggior tempo di percorrenza di una tappa, 19.20’47” nella Bari-L’Aquila e il minor numero di corridori al traguardo finale, 8 su 81 partiti.

Ma Girardengo era un esempio di volontà e di onestà sportiva che  lo portarono ad essere leader dello sport dell’epoca.

Tra i suoi successi: 9 tricolori (record imbattuto), 6 Sanremo (la prima nel 1918, l’ultima nel 1928), 2 Giri d’ Italia (il primo cento anni fa’, nel 1919), 3 Lombardia, 5 Giri dell’ Emilia, 5 Milano-Torino, 2 Giri del Veneto.

Tra le vittorie anche il trionfo in Francia nel Gp Wolber del 1924. Una prova che veniva considerata campionato del Mondo ufficioso (il primo titolo ufficiale venne assegnato dall’ Uci nel 1927 in Germania, ad Adenau, e lo conquistò Binda).

Insomma, un uomo che riuscì a fare la storia del ciclismo, che lasciò un segno indelebile nella mente dei tanti amanti di questo sport.

E che dal maggio 2015, è ricordato nella Walk of Fame dello sport italiano al parco olimpico del Foro Italico.

Cosa cambia per gli smartphone Huawei dopo il bando di Google

Fonte AGI

Il bando di Trump non era un terremoto ma il primo sasso della slavina. Eccoli i suoi effetti: Google non fornirà più ad Huawei (e quindi neppure al marchio controllato Honor) “hardware, software e servizi”. Cioè niente Android (fatta eccezione per la versione open source) e – soprattutto – niente Google Play Store e app sviluppate da Mountain View. Le conseguenze, come ha spiegato anche il gruppo americano a Reuters, sono ancora da definire, anche perché il bando potrebbe non essere definitivo. E non è detto che l’unica a rimetterci sia Huawei.

La rottura con Android
Gli effetti della decisione di Google sono due, intrecciati ma distinti. Il primo riguarda il sistema operativo Android, che potrà essere utilizzato solo nella sua versione “pubblica”.

Come tre smartphone su quattro sul pianeta, anche quelli di Huawei hanno a bordo Android. Il sistema operativo di Google ha una base “libera”. Un “pacchetto” di codice (Android Open Source Project, Aosp) cui tutti possono attingere. I produttori lo prendono e ci mettono mano, adattandolo ai propri prodotti e costruendo delle versioni “proprietarie” (cioè non libere e condivise). È il caso, per Huawei, del sistema Emui. È un po’ come se dagli Stati Uniti arrivassero abiti già pronti, che Huawei modifica per renderli “su misura”. Qualche punto qui, qualche taglio là. Tutto questo con il supporto di Google, che (da subito e per tutti dispositivi del marchio cinese) non ci sarà più.

Vuol dire che Android scomparirà dagli smartphone Huawei? No. Di sicuro, ogni aggiornamento richiederà maggiore sforzo da parte di Huawei, perché la versione pubblica di Android è più povera e l’integrazione di nuove funzionalità potrebbe essere più lenta. Il gruppo di Shenzhen non avrà più un canale diretto con Mountain View e dovrà aspettare che gli aggiornamenti arrivino su Aosp prima di utilizzarli. Il tempo, in un mondo nel quale gli aggiornamenti sono fatti non solo per migliorare il servizio, ma anche per tappare delle falle nella sicurezza, è un fattore tutt’altro che secondario. Se fino a ora Google ha riempito l’armadio di Huawei, adesso si limiterà a spedire stoffa e disegno. Al resto ci dovranno pensare in Cina. Difficile, però, dire quali saranno le ripercussioni sugli utenti.

Cosa cambia se hai un Huawei
Il secondo punto riguarda i servizi e le app di Google. Sugli smartphone in circolazione dovrebbe cambiare poco o nulla: resta l’accesso a Google Play (il negozio di app di Android) e restano le protezioni di Google Play Protect (il “vigilante” di quel negozio). Nei nuovi Huawei, invece, niente servizi di Google. Ed è questo, probabilmente, il nodo che potrebbe pesare di più sulle vendite dei prossimi mesi.

Non avere a disposizione Google Play vuol dire non aggiornare le app (tutte le app). Perché le nuove versioni entrano nello smartphone passando dal negozio digitale. Vuol dire che non si potranno scaricare e utilizzare le applicazioni più popolari? Non esattamente. Huawei ha già una propria piattaforma di distribuzione, AppGallery, che funziona in modo simile a Google Play. Quello che mancherà saranno i servizi di proprietà di Big G. L’integrazione con Android fa infatti spesso dimenticare quante applicazioni che già troviamo sullo smartphone siano proprietà di Mountain View. Basta andare sul Play Store e digitare “Google app”. Viene fuori una lunga lista, che tra le altre cose include: il motore di ricerca, il browser Chrome, l’assistente digitale, le gallerie di giochi, film e musica, Google Earth, Calendar, Foto, Lens, Android Auto, Trips, Hangouts, Google Drive, News, Documenti. Ma soprattutto Gmail, Maps e Youtube. Non dovrebbero essere a disposizione sui nuovi Huawei.

La contromossa: diventare autarchici
Per Huawei, non c’è che dire, il colpo è duro. La società ha fatto sapere che “continuerà a fornire aggiornamenti di sicurezza e servizi post-vendita a tutti gli smartphone e tablet Huawei e Honor esistenti”. Cioè sia quelli già venduti, sia quelli in magazzino. Neanche la voce ufficiale, però, si sbilancia sul futuro.

Negli ultimi mesi, comunque, il gruppo si è mosso per cercare di ammortizzare il peggio (che adesso sembra essere diventato concreto). Huawei ha una gamma di servizi (già disponibili) che in parte puntano a sostituire quelli di Google. Che però, soprattutto in Europa, hanno una popolarità molto minore. Sono comunque un tentativo di smarcarsi, che ha proprio in AppGallery, lanciato all’inizio del 2018, una chiara dimostrazione.

Capitolo sistema operativo. A marzo Richard Yu, il ceo della divisione consumer, ha detto a Die Welt di avere “un piano B” nel caso le cose si fossero messe male: “Preferiamo lavorare con gli ecosistemi di Google e Microsoft, ma abbiamo preparato il nostro sistema operativo”. Huawei starebbe lavorando al progetto dal 2012, ma non è dato sapere a che punto sia. In ogni caso, sarà difficile compensare l’assenza di servizi Google, molto usati soprattutto in Europa e nei paesi in via di sviluppo. Sono questi i mercati cui Shenzhen dovrebbe guardare con più preoccupazione: in Cina, infatti, il divorzio con Google – che da quelle parti è bloccata – potrebbe non avere un effetto deflagrante. Così come negli Stati Uniti, dove Huawei non vende i propri smartphone. Discorso diverso in Europa, dove Huawei cresce intrecciandosi con l’ecosistema Google.

Il guaio dei chip
I guai non finiscono né ai servizi né agli smartphone. Stanno sospendendo le forniture a Huawei Intel, Qualcomm e Broadcomm, cioè alcuni dei produttori di chip più grandi del mondo. L’impatto, anche qui, è da valutare. Ma potrebbe avere una portata globale.

I tagli potrebbero colpire gli smartphone di fascia media (che usano i processori Qualcomm) e i portatili Huawei (che montano Intel). E se anche Microsoft si adeguasse alla Casa Bianca? Sarebbe una mazzata simile (anche se di minore portata) a quella di Google, perché i portatili Huawei usano Windows.

Anche in questo caso, varrebbe il “piano B” indicato da Yu. Ma a quale prezzo e con quali tempi? Tra le altre società americane che riforniscono Huawei c’è Micron Technology. I suoi tagli potrebbero impattare sullo sviluppo del 5G. Secondo Bloomberg, Huawei si è già mossa per ammortizzare il taglio dei chip, facendo scorte che gli permetterebbero di andare avanti per almeno tre mesi. A questo si aggiunge l’accelerazione della società cinese nella produzione di proprie componenti. Sui sui top di gamma monta il processore Kirin e a gennaio ha battezzato il modem Balong 5000. Arricchire la gamma di semiconduttori avrebbe un doppio valore: da un lato sarebbe un tentativo di affrancarsi dai produttori americani; dall’altra amplierebbe un segmento fino a ora praticamente inesplorato, quello di Huawei come fornitore di aziende terze. Che però, a questo punto, non potranno essere statunitensi (cioè Apple).

La Cina e i danni collaterali

Chi ci guadagna? Nell’immediato, nessuno. Per Huawei non è certo una bella notizia. Senza i servizi di Google, gli utenti potrebbero decidere di comprare altri smartphone. E il gruppo potrebbe ritrovarsi a corto di chip, ritardando le consegne. Google però taglia un produttore che, nel primo trimestre 2019, ha avuto una quota di mercato del 19%. È vero che è alimentata dal mercato cinese, dove i servizi Google non hanno accesso, ma è pur sempre una fetta consistente. Che vuol dire applicazioni, sviluppatori, utenti, fatturato.

Pare fantasioso, al momento, ipotizzare che di un eventuale calo di Huawei possano beneficiare i Pixel (gli smartphone di Big G). Ancora più problematica potrebbe essere la situazione dei fornitori di chip. Huawei è un cliente forte, difficilmente sostituibile, al quale rinunciano. Non a caso, già nella seduta di venerdì (dopo il bando firmato da Trump, ma prima che le singole società si accodassero), le azioni di Qualcomm e Intel (così come quelle Google) hanno chiuso in calo. In apertura di settimana ha invece festeggiato Samsung (+1,94%): la società coreana è – per varietà di gamma – uno dei concorrenti più diretti di Huawei.

Diverso è il discorso di Apple. Sia perché la fascia di mercato della Mela (i top di gamma) tocca solo una porzione delle vendite di Huawei. Sia perché Cupertino si espone a rappresaglie commerciali da parte della Cina. A risentirne sarebbero anche i fornitori locali, ma le ultime trimestrali stanno evidenziando quanto la debolezza in Asia possa pesare sugli iPhone e sul bilancio di Apple.

Per tornare al motivo del bando da parte di Washington: la sicurezza avrebbe comunque la priorità sui conti economici, ma al momento gli Stati Uniti non ha fornito prove certe dei legami tra Pechino e Huawei. Trump sta quindi facendo la sua mossa: penalizzare anche le imprese americane è un danno collaterale che gli Stati Uniti accettano pur di colpire Shenzhen, rilanciare sul tavolo dei dazi e procedere nella nuova guerra fredda tecnologica.

 

Vincent Lambert: cominciato l’arresto delle cure. La madre, “non è alla fine della sua vita”. I vescovi, “perché tanta fretta?”

Fonte Agensir

L’arresto della somministrazione delle cure che tengono in vita Vincent Lambert è cominciato questa mattina. “È una vergogna, uno scandalo assoluto, i genitori non sono nemmeno riusciti ad abbracciare il loro figlio”, ha detto all’Afp Jean Paillot, avvocato dei genitori. I medici interromperanno la nutrizione e l’idratazione artificiale, attuando una “sedazione profonda e continua” fino alla sua morte. Ma i genitori di Vincent Lambert hanno l’intenzione di non arrendersi e tentare il tutto per tutto per tenere in vita il loro figlio. Dopo aver implorato il Presidente della Repubblica, i loro avvocati hanno annunciato l’intenzione di presentare tre nuovi appelli per cercare di fermare la cessazione delle cure dell’ex infermiere di 42 anni, iniziata oggi, lunedì 20 maggio. Il caso Vincent Lambert irrompe nella campagna per le europee. L’uomo in stato vegetativo da 11 anni è al centro di una battaglia legale tra la moglie Rachel Lambert, che ha chiesto più volte di sospendere le terapie, e i genitori da sempre contrari. Dopo i vari ricorsi respinti, da oggi i medici di Reims dovrebbero cominciare a interrompere l’alimentazione artificiale e sedare Lambert, vittima di un incidente stradale nel 2008 che ha provocato danni cerebrali “irreversibili”. Il via libera è arrivato dal Consiglio di Stato il 24 aprile in base alle volontà espresse da Lambert, già infermiere, prima dell’incidente. I genitori, Pierre e Viviane Lambert, hanno lanciato un ultimo appello a Emmanuel Macron, contro quella che definiscono una forma di “eutanasia mascherata”. Ma Jean Leonetti, padre della legge del 2016 sul fine vita, ha risposto che “il Presidente della Repubblica non può sostituirsi al potere dei tribunali e alle decisioni dei medici”.

Ieri 200 persone si sono riunite davanti all’ospedale di Reims dove è ricoverato l’uomo. A fianco dei genitori, erano presenti alla manifestazione anche personalità del mondo medico, come membri della l’Union Nationale des Associations de familles de traumatisés crâniens (Unaftc), nonché la dottoressa Catherine Kiefer, specialista in pazienti la cui coscienza è compromessa. “È un’eutanasia mascherata”, ha detto alla stampa Viviane Lambert, ovviamente molto provata. “Vincent non è alla fine della sua vita. Non è un’ostinazione irragionevole”, ha aggiunto, denunciando le “calunnie” della squadra medica sulla situazione di suo figlio. Sulla vicenda è intervenuto anche il Comitato internazionale dell’Onu che si occupa dei diritti delle persone disabili, chiedendo alla Francia di non interrompere il mantenimento in vita del quarantaduenne tetraplegico. Nei giorni scorsi erano scesi in campo l’arcivescovo di Reims, mons. Éric de Moulins-Beaufort (da poco eletto anche presidente della Conferenza episcopale francese), e il suo vescovo ausiliare mons. Bruno Feillet. “Gli specialisti sembrano essere d’accordo – si legge nella dichiarazione – che Vincent Lambert, nonostante sia in stato di dipendenza dal suo incidente, non è tuttavia in fine della sua vita”. Sorprende pertanto la decisione di non trasferirlo in un’unità specializzata nel supporto di pazienti in stato vegetativo e di minima coscienza.

Sulla stessa linea, è la posizione molto forte presa dal gruppo di bioetica della Conferenza episcopale francese guidata dal vescovo Pierre D’Ornellas che in un comunicato subito afferma: “Vincent Lambert ha diritto ad una protezione adeguata, proprio come qualsiasi persona disabile. Ogni persona disabile, non importa quanto fragile, ha gli stessi diritti per tutti gli altri”. E ricordando il parere espresso dal Comitato Cidph dell’Onu, chiede: “Perché tutta questa fretta nel condurlo alla morte? Si può riaffermare che la decisione presa riguarda ovviamente solo il signor Vincent Lambert perché la sua situazione è unica e complessa. Ma chi garantirà che tutte le persone che condividono una disabilità simile alla sua, saranno effettivamente protette dallo Stato che, pur impegnandosi ufficialmente, ad oggi però non avrebbe rispettato il suo impegno? La credibilità dello Stato dipende dal rispetto della parola data”.

 

Tac con radiazioni dimezzate

Due giovani ingegnere cliniche di Napoli che con il loro algoritmo permetteranno di effettuare tac più sicure.

Michela D’Antò, della Fondazione G. Pascale e Federica Caracò, dell’Università degli studi Federico II, hanno vinto il Primo premio assoluto dell’Health technology challenge (Htc), consegnato durante il XIX Congresso dell’Associazione nazionale degli ingegneri clinici (AIIC) che si è svolto a Catanzaro.

Nel loro progetto hanno verificato l’efficacia di un protocollo per poter garantire una buona qualità di immagini da una Tac, con maggior sicurezza e minor invasività per i pazienti, dimezzando in pratica la dose di radiazioni.