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mercoledì, 14 Maggio, 2025
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Un Comune sardo diventa la prima realtà onoraria del Veneto

Il 12 marzo, a Venezia l’assessore regionale ai flussi migratori Manuela Lanzarin, insieme al presidente del Consiglio regionale Roberto Ciambetti, premierà Arborea come primo comune onorario del Veneto. Un riconoscimento per le iniziative assunte a tutela della cultura e della civiltà veneta.

Nel 2017 la Regione Veneto ha istituito il registro dei Comuni onorari per valorizzare rapporti di reciprocità e di scambio con quelle comunità che sono state meta di emigrazione dei veneti e che hanno conservato, nella loro storia e nelle loro tradizioni, testimonianze significative dell’identità e della cultura locale. Con il registro è stato istituito anche un premio annuale da assegnare al Comune che meglio ha saputo conservare e promuovere il legame con le proprie radici valorizzandone l’apporto culturale.

La scelta è andata al Comune sardo, in provincia di Oristano, già gemellato con il Comune di Zevio (Verona) e Villorba (Treviso), proprio in forza della propria storia e composizione demografica e delle iniziative realizzate nel biennio 2017-18.

Arborea fu fondata come colonia agricola per la bonifica della piana di Marrubiu e il contrasto alla malaria. Grande fu l’apporto degli emigranti veneti che da Treviso, Rovigo, Vicenza, Padova e Venezia si trasferirono nella Piana del Campidano, sulla costa occidentale della Sardegna, per lavorare per la Società Bonifiche Sarde. Ancora oggi tra gli abitanti del piccolo comune sardo si parla il dialetto veneto, oltre all’italiano e al sardo campidanese. Tra le feste popolari di Arborea una delle più importanti è quella della Polenta, a fine settembre, in memoria delle tradizioni del secolo scorso.

La consegna del premio al Sindaco Manuela Pintus e alla comunità di Arborea avverrà in concomitanza con il varo del programma 2019 delle iniziative regionali a favore dei veneti nel mondo, appena approvato dalla Giunta regionale nell’ambito del piano triennale dedicato alla conservazione dei legami regionali di oggi gli emigranti di origine veneta presenti nelle diverse parti del mondo.

Tra le iniziative in corso, finanziate con un budget complessivo di 445.000 euro, vi è anche il piano per promuove manifestazioni ed eventi culturali che facciano conoscere ai giovani la storia dell’emigrazione veneta e favoriscano incontri e scambi tra le comunità. La Regione sosterrà master universitari di primo e di secondo livello per ragazzi e ragazze veneti e oriundi veneti (30.000 euro), stages in aziende venete (35.000 euro), gemellaggi tra comuni veneti e comuni esteri (10.000 euro), premi per tesi di laurea e concorsi scolastici (10.000 euro lo stanziamento complessivo).

Particolare attenzione viene riservata, infine, al rientro dei veneti nel mondo: il programma 2019 sosterrà con 40.000 euro l’organizzazione di soggiorni nel territorio regionale per over 65 che, emigrati in giovane età o figli di emigranti, non abbiano avuto modo di conoscere la loro terra di origine.

“La premiazione di una comunità che ancora parla veneto come Arborea e il sostegno a gemellaggi e scambi tra veneti e discendenti di veneti emigrati all’estero – ha detto l’assessore Lanzarin – rientrano in un disegno unitario di valorizzazione della presenza dei veneti nel mondo: c’è un ‘sistema Veneto’ che si dilata ben oltre i confini regionali e nazionali e arriva ad abbracciare tutti i continenti, grazie alla presenza radicata e operosa di tanti emigranti e dei loro discendenti. Per il Veneto è un ‘valore aggiunto’ sia in termini di identità sia per le ricadute sociali ed economiche. Un valore che non vogliamo disperdere e che anzi intendiamo promuovere e far apprezzare alle generazioni più giovani”.

Dalì a Matera

La Persistenza degli Opposti è un percorso museale pensato per rappresentare i principali dualismi concettuali dell’arte di Dalí. Dalí era un uomo di opposti, e tale fu la sua filosofia. La sua operazione, quella di fondere visualmente e concettualmente idee apparentemente contrarie, è l’espressione stessa del grande dualismo fra razionale e irrazionale che pervade la sua opera. I quattro temi scelti per il percorso museale sono il Tempo, gli Involucri, la Religione e le Metamorfosi.

La mostra è organizzata dalla Dalí Universe, società diretta da Beniamino Levi e specializzata in Salvador Dalí che gestisce una delle più grandi collezioni private di opere d’arte dell’artista al mondo, con l’affiancamento dell’associazione culturale Circolo La Scaletta e del Comune di Matera, impegnato nelle installazioni esterne sul territorio urbano.

Sono circa duecento le opere autentiche di Salvador Dalí in esposizione; tre monumentali, l’Elefante Spaziale, il Piano Surrealista e la Danza del Tempo II sono state montate nelle vie del centro storico di Matera; le altre, che comprendono sculture museali grandi e piccole, illustrazioni, opere in vetro, libri illustrati e arredi, sono state collocate nella cornice suggestiva del complesso rupestre di Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci nel cuore dei Sassi di Matera.

La Mostra si arricchisce di una serie di exhibit multimediali che rendono il percorso multisensoriale e ampliano la percezione emozionale del visitatore, rendendo La Persistenza degli Opposti un evento unico nel suo genere e fortemente innovativo rispetto a tutte le precedenti esposizioni dedicate a Dalí.

Ologrammi, realtà virtuale, proiezioni 3D, video mapping, sono fra gli exhibit di forte impatto sensoriale prodotti dalla società Phantasya srl, che completano la fruizione delle opere dell’artista e definiscono una esperienza completa e totalmente immersiva. La presenza di un’area cinema con la proiezione di un docufilm dedicato alla mostra e di un laboratorio multimediale a scopo didattico rendono la mostra fortemente interessante per un pubblico più ampio e anche più giovane.

Sindrome da fatica cronica. Che cos’è?

La sindrome da fatica cronica (in inglese Chronic Fatigue Syndrome, sigla CFS), anche detta encefalomielite mialgica o malattia da intolleranza sistemica allo sforzo (Systemic exertion intolerance disease – SEID) comunemente indicata come CFS/ME, è una malattia multifattoriale idiopatica che viene descritta da un rapporto dell’Institute of Medicine (IOM) pubblicato nel febbraio 2015 come una «malattia sistemica, complessa, cronica e grave», caratterizzata da una profonda stanchezza, disfunzioni cognitive, alterazioni del sonno, manifestazioni autonomiche, dolore e altri sintomi, che sono peggiorati da uno sforzo di qualsiasi tipo.

I sintomi sono ricondotti essenzialmente a severa fatica, disturbi del sonno e peggioramento dei sintomi a seguito di sforzi, a cui possono aggiungersi problemi cognitivi e di concentrazione, dolore e stordimento.

Essa colpisce in prevalenza le donne e può colpire anche bambini e adolescenti.

Come il già citato rapporto dello IOM, anche una ricerca europea ha dimostrato che i pazienti di CFS/ME patiscono una peggiore qualità della vita rispetto ai malati di molte gravi patologie più conosciute. Questo può spiegare perché, sebbene il tasso di mortalità naturale nella CFS non sia superiore rispetto a quello della popolazione sana, la malattia comporti un aumento di 7 volte nel rischio di suicidi.

Per quanto riguarda la cura non vi è una vera e propria terapia

Un approccio terapeutico che ha mostrato risultati apprezzabili è quello che riguarda la cura della permeabilità intestinale e della disbiosi.

Comunemente vengono molto usati farmaci anti-sintomatici per contrastare rispettivamente i sintomi più invalidanti, come gli antidolorifici, gli antidepressivi e gli antinfiammatori contro i dolori, e gli stimolanti contro la difficoltà di concentrazione e l’astenia.

Il web compie 30 anni: la rete ci ha reso più liberi e solidali? intervista a don Fabio Pasqualetti

Articolo già apparso sulle pagine di Vatican News a firma di Roberta Gisotti

30 anni fa, il 12 marzo 1989, la nascita del World Wide Web, così come era stato concepito dal suo ideatore, l’ingegnere informatico inglese, Tim Berners-Lee, giovane ricercatore del Cern di Ginevra; aveva 34 anni quando propose di organizzare in modo efficiente le innumerevoli informazioni che venivano raccolte durante gli studi nel più grande laboratorio al mondo di fisica nucleare, attraverso un sistema, basato su ‘ipertesti’ e ‘link’, che permetteva di collegare tra di loro diversi documenti contenuti nei computer.

Il mondo intero collegato in tempo reale

Due anni di lavoro e Berners Lee fu pronto, il 6 agosto del 1991, per rendere operativa l’idea: dopo avere scritto il codice del World Wide Web, aveva creato un nuovo linguaggio di programmazione chiamato Html (hypertext markup language), aveva dato ad ogni destinazione del web un nome specifico, chiamato Url (universal resource locator), e aveva progettato l’Http (hypertext transfer protocol): un insieme di regole che permettevano alle informazioni di essere scambiate in tempo reale su internet. I tempi erano maturi per estendere a tutti, gratuitamente, il protocollo del www, fatto storico che avvenne da parte del Cern il 30 aprile del 1993.

Condivisione, apertura, collaborazione

Cosa è rimasto oggi dei principi etici di condivisione, apertura e collaborazione che ispirarono Berners-Lee e tanti altri suoi colleghi che parteciparono a rendere reale un sogno che sapeva di magia? Il world wide web è stata un’innovazione non solo tecnologica ma culturale, che in tempo brevissimo ha globalizzato i saperi, invaso ogni ambito della vita individuale e collettiva, segnando l’inizio – secondo alcuni pensatori – di una nuova era antropologica. Nel frattempo lo scenario di riferimento è profondamente mutato e non offre garanzie adeguate di democrazia, di rispetto dei diritti umani, di sicurezza per gli utenti, come ha denunciato ieri lo stesso Berners-Lee, in un messaggio per l’anniversario. “Sarebbe disfattista – scrive – pensare che il web che conosciamo non possa eesere cambiato in meglio nei prossimi 30 anni. Se rinunciamo a costruire un web migliore ora non sarà il web ad averci deluso ma noi ad aver fallito”.

Un bene comune, senza regole, dominato da pochi soggetti

La rete nel terzo millennio è ormai abitata da oltre metà dell’umanità ma sono pochissimi i soggetti che la dominano e gestiscono, trattano tutti i dati sensibili delle persone e delle attività che vi si svolgono e ne traggono profitti. Ciò è avvenuto in assenza di regole che abbiano chiaramente definito e tutelato la natura di bene comune della rete, salvo poi tentare di legiferare in ritardo, quando i poteri già costituiti risultano un fortino inespugnabile per parlamenti e governi, attraversati da pressioni lobbistiche di interessi mediali, economici e politici collegati. Di questa identità sovranazionale fuori controllo degli Stati, si sono approfittate anche le organizzazioni criminali, insediatesi nel cosiddetto deep web, oltre 500 volte più esteso di quello emerso, dove si traffica di tutto protetti dall’anonimato, contrastati con grande difficoltà dalle Polizie postali, che stentano a collaborare e a trovare strategie comuni di lotta sul fronte informatico.

Dubbi, rischi e sfida da affrontare

La nascita del world wide web ha sollevato un’ondata di eccessivo ottimismo all’inizio che ha lasciato il posto ora ad interrogativi, dubbi e sfide da affrontare, come sottolinea don Fabio Pasqualetti, decano della Facoltà di Scienze della comunicazione alla Pontificia Università Salesiana, esperto di comunicazione e nuove tecnologie,

Ascolta l’intervista a Fabio Pasqualetti

R. – Il problema è che noi prima di tutto abbiamo creato una globalizzazione dei mercati, e la tecnologia l’ha altamente favorita, ma non abbiamo ancora una governance mondiale; si è poi sviluppata anche la globalizzazione dei servizi internet e verso gli anni 2000-2002, quando sono iniziati i blog prima e i social network dopo, abbiamo offerto l’autorialità, la possibilità a chiunque di esprimersi su tutto, ma ciò avveniva senza parametri di riferimento e senza troppi criteri di regolamento. Oggi ci troviamo con delle problematiche non indifferenti sulla privacy e sul controllo degli utenti. Certamente lo scandalo della Nca, sullo spionaggio dei cittadini americani e non, ci ha fatto ben capire quanto sia complessa la rete globale e quanti siano gli interessi in gioco da parte delle multinazionali, delle istituzioni, dei governi, degli eserciti. Quindi certamente è un bel groviglio su cui riflettere e pensare; in più stiamo vedendo che questa tecnologia di accesso al sapere e di grande raccolta di informazione tende a delegare un po’ tutte le funzioni che prima avevamo, come ad esempio quella di memorizzazione: oggi si sa – attraverso studi fatti – che tendiamo a memorizzare di meno perché confidiamo e ci affidiamo sempre di più ai dispositivi che ci danno accesso all’informazione. Poi ci sono tante altre problematiche a livello di apprendimento e di socialità, perché la promessa dei social network spesso è quella di fare incontrare gli altri ma i risultati a volte sono che la gente si sente più isolata e più frustrata di prima. Quindi bisognerebbe capire anche qui il perché. Non credo che sia semplicemente dovuto alla tecnologia; ci sono tanti fattori da analizzare a livello culturale, a livello anche sociale, a livello di quella che è l’onda lunga di una cultura anche molto individualista, che credo sia entrata in gioco e che la tecnologia ha poi potenziato attraverso forme di narcisismo.

Prof. Pasqualetti, come è cambiata invece la comunicazione della Chiesa in questi decenni? Mi riferisco sia all’annuncio della Parola che proprio all’essere in rete.

R. – La Chiesa è stata innanzitutto sfidata principalmente a livello di struttura comunicativa. La Chiesa, potremmo facilmente riconoscere, ha sempre avuto una struttura comunicativa top down, cioè dai massimi vertici verso la base. Internet implica invece una modalità di comunicazione totalmente opposta: tutti a tutti, è orizzontale, non ha centro. Per cui la Chiesa ha dovuto accettare la sfida di entrare nella rete dovendo accogliere il fatto che è una delle voci fra tante voci. Credo che questa sia la sfida più grande, nel senso che effettivamente devi aver qualcosa di interessante da dire perché qualcuno venga a visitare i tuoi siti, faccia riferimento ai tuoi contenuti e quindi in un certo senso trovi anche uno spazio di confronto. Tuttavia non sono ancora molte le istituzioni e i siti ecclesiali che accolgono ancora un confronto diretto; molti accolgono magari dei contributi, ma sempre molto regolati; altri sono dei portali di informazione. Credo che però a lungo andare stia entrando l’idea che la modalità comunicativa – se si accetta di stare in questi ambienti digitali, nei social ad esempio – comporti inevitabilmente l’interazione diretta.

Sicuramente la Chiesa ha saputo, anche profeticamente, richiamare nei suoi documenti magisteriali il ruolo che deve avere la comunicazione internet.

R. – Il principio fondamentale della Chiesa che riguarda tutti i mezzi di comunicazione è che questi dovrebbero aiutarci ad umanizzarci sempre di più; questa è anche la grande sfida. La si può porre in un altro parametro simbolico tratto dal Vangelo: o il sabato è al servizio dell’uomo o l’uomo rischia di esser schiavo del sabato. Oggi, quali sono i nuovi sabati? Potremmo partire dall’economia, dallo sviluppo, dalla tecnologia che se orientate nelle nuove forme al servizio dell’uomo diventano davvero liberanti e si può progredire e crescere come umanità; nel momento in cui invece diventano strumenti di controllo, di potere, di sottomissione degli altri ovviamente schiavizzano. Allora, credo che anche qui la grande sfida è capire oggi in che direzione stiamo andando; capire, ad esempio, tutta la problematica degli algoritmi, del machine learning, di chi li usa, di chi li controlla, di che cosa si sta facendo, proprio per avere una maggiore conoscenza e coscienza di quale direzione stiamo prendendo come società e come umanità.

Le celebrazioni del trentennale

Le celebrazioni del trentennale del World Wide Web sono partite ieri dal Cern di Ginevra con l’evento Web@30, cui presiede Tim Berners-Lee, con la partecipazione di diversi altri esperti e pionieri della rete, che dibatteranno con il pubblico le loro visioni sul modo digitale di oggi e del futuro. Sul sito del Centro di ricerca nucleare è possibile seguire, in diretta streaming per 30 ore, gli incontri pubblici organizzati per l’anniversario in diverse città del mondo.

Centro, serve oggi. Senza nostalgie

Guido Bodrato con la consueta intelligenza e capacità di analisi, ci ha ammonito che un centro in Italia, oggi, può rinascere solo con la “cultura politica” e non sicuramente come una “categoria astratta tra la destra e la sinistra”. Una riflessione intelligente che non ci esime, però, dall’affrontare seriamente la concreta situazione italiana con cui dobbiamo fare i conti, oggi. Soprattutto dopo le primarie del Partito democratico che hanno dato una decisa, e del tutto giustificata, sterzata a sinistra.

Una sterzata politica e culturale interpretata con intelligenza ed autorevolezza dal neo segretario Nicola Zingaretti che, non a caso, proviene dalla antica e gloriosa tradizione del Pci/ Pds/Ds. Ma, al di là di questa filiera, e’ indubbio che se si vuol perseguire l’obiettivo, come ci ricorda appunto Guido Bodrato, di un “centro che guarda a sinistra” non si può fare a meno di ridare sostanza politica e caratura programmatica ad un movimento/partito/forza di centro.

Certo, un luogo politico che non può limitarsi ad essere un luogo puramente geografico o di semplice e banale posizionamento di potere. Ma un dato e’ certo, come ci ha ricordato l’Istituto Cattaneo dopo le primarie del Pd. E cioè, oltre il 60% di chi si è recato ai gazebo lo ha fatto perché rivuole un partito di sinistra. Chiaro, dichiarato, netto, palese e senza titubanze. Cioè, direbbe un commentatore non di parte, vuole una sorta di neo Pds 2.0. E’ del tutto evidente, di conseguenza, che questo partito non potrà non rideclinare un progetto di una forza politica dichiaratamente di sinistra.

E le prime avvisaglie le abbiamo già notate con il ritorno del caravanserraglio dei “testimonial progressisti”: i soliti noti milionari, elitari, aristocratici e alto borghesi. E, oltre a loro, la ricerca del nemico da abbattere, come è capitato per oltre 20 anni contro Berlusconi e il berlusconismo: adesso è il turno di Salvini e del cosiddetto “salvinismo”. Ossia, il progetto politico si basa più sulla demonizzazione politica e morale dell’avversario da distruggere che non sulla credibilità del proprio progetto. Ho voluto ricordare solo due aspetti, peraltro marginali ma significativi, per arrivare ad una conclusione politica.

E cioè, il ritorno della sinistra implica anche il ritorno di un partito di sinistra. Sarebbe inutile e anche un po’ ipocrita, sostenere il contrario o fingere che tutto ciò sia solo una invenzione giornalistica. Detto questo, e se si vuol perseguire il disegno di ricostruire una coalizione ampia e plurale, la questione del “centro” non potrà più essere banalmente elusa.

Certo, un centro anche plurale dove però la componente cattolico democratica e popolare deve essere sufficientemente visibile con un suo profilo politico, culturale e programmatico. Ne’ accessorio e ne’ marginale. Ecco, per arrivare alle “nuove sintesi” richiamata da Bodrato, non possiamo non partire però da queste considerazioni. Per questo motivo la questione di un centro moderato e riformista e’ attuale e pertinente oggi, pur senza nostalgie. E ritorna decisivo per l’agenda politica italiana.

Clima, Mattarella: “Siamo sullʼorlo di una crisi globale”

Rivolgo un saluto di grande cordialità al Presidente della Regione, al Presidente della Provincia, a tutte le autorità, al Vescovo, ai parlamentari, ai tanti sindaci presenti. Vorrei ringraziare in maniera particolare il Sindaco di Belluno per la sua accoglienza, per il suo saluto e confidargli che sono molto legato a questa provincia e alle sue montagne che ho frequentato di continuo durante la mia ormai lunga vita.

È una giornata particolare questa, in cui sottolineiamo eventi che hanno caratterizzato e contrassegnato queste montagne. Il Presidente della Regione e il Presidente della Provincia hanno evidenziato alcuni problemi. Vi sono problemi di cui si stanno occupando Governo e Parlamento, sui quali quindi non posso esprimermi. Ma posso farlo sulle olimpiadi – Presidente Zaia – che considero un’occasione di grande importanza, non soltanto per le Regioni e le città protagoniste ma per l’intera Italia. Le assicuro tutto il sostegno e l’appoggio possibile.

Poc’anzi, i due bambini – bravissimi – ci hanno introdotto con efficacia in quel che è avvenuto in ottobre, e mai come in quell’occasione – la tempesta Vaia – è stato chiaro all’opinione pubblica italiana che i mutamenti climatici in atto nel mondo comportano effetti pesanti anche sull’ambiente del nostro Paese e sulle condizioni di vita della nostra popolazione.

Sentir parlare della desertificazione di alcune regioni africane o dei violenti tifoni nei Caraibi, sulla costa occidentale degli Stati Uniti o in Asia, appariva descrizione di una realtà lontana, remota, che non ci riguardava.

Un evento straordinario – eccezionale, secondo gli esperti – ci costringe a fare i conti con la realtà della vita quotidiana, e a cercare – come ci ha esortato a fare il dottor Thyerry Luciani – di prendere atto dell’esigenza di “una maggiore comprensione dei fenomeni in atto”.

Perché è giusto osservare che limitarsi a evocare la straordinarietà di fatti che si affacciano prepotentemente, per giustificare noncuranza verso una visione e progetti di più lungo periodo, è un incauto esercizio da sprovveduti.

È a Belluno, oggi, che svolgiamo questa riflessione. È giusto farlo sulle Alpi. È giusto che sia la montagna, grande questione nazionale, assieme a quella di tutte le aree interne, a proporci, ancora una volta, il tema delle risorse naturali del nostro Paese, della loro tutela, della garanzia ai cittadini della “sicurezza dei territori”, come ha sottolineato il presidente della Provincia.

Qui in Veneto abbiamo avuto un positivo esempio di come la attivazione, in via preventiva, della rete di Protezione civile abbia potuto mitigare le conseguenze del disastro sulle persone, sulla base di accurate previsioni meteorologiche.

È la conferma di come il modello di collaborazione tra Regione, Prefetture, forze del volontariato, possa giocare un ruolo prezioso non solo nell’emergenza delle catastrofi una volta verificatesi ma, soprattutto, sul terreno della prevenzione per ridurne o evitarne le conseguenze.

È una lezione; che va fatta propria da tutte le istituzioni quando sono chiamate a compiere scelte che riguardano il futuro.

Io desidero – e avverto il dovere – di ringraziare ed elogiare intensamente quanti si sono prodigati in quei giorni con personale sacrificio, senso di solidarietà e abnegazione. Hanno elencato queste realtà, protagoniste di quei giorni, il Presidente della Regio ne e della Provincia e io ringrazio tutti con molto calore per quanto hanno fatto in quei giorni.

Tutto questo ci induce a riflettere che deve essere chiaro che il rapporto con la natura è fatto di rispetto degli equilibri dell’ecosistema, pur se l’umanità ha dimostrato una costante propensione a misurarsi quotidianamente con i limiti conosciuti.

La civiltà montana ha saputo confrontarsi con questi limiti e svilupparsi per millenni, in una competizione quotidiana con condizioni di vita non facili, ma ben inserita in questi ambienti, senza stravolgerli.

Dobbiamo sempre, nel nostro percorso verso il futuro, coltivare insieme innovazione e saggezza antica.

Devono andare di pari passo due atteggiamenti. Anzitutto la costruzione di una attenta regia e di solidarietà internazionali, per affrontare quei comportamenti che contribuiscono a cambiamenti climatici dalle gravi conseguenze.

Gli sforzi compiuti nelle diverse conferenze internazionali, che si sono succedute, hanno, sin qui, conseguito risultati significativi ma ancora parziali e insufficienti.

Siamo sull’orlo di una crisi climatica globale, per scongiurare la quale occorrono misure concordate a livello planetario. È il senso della sollecitazione pubblicamente sottoscritta, nell’autunno scorso, da alcuni Capi di Stato europei.

In secondo luogo – sul terreno delle concrete pratiche da parte delle istituzioni locali e nazionali – vanno respinte decisamente tentazioni dirette a riproporre soluzioni già ampiamente sperimentate in passato con esito negativo, talvolta premessa per futuri disastri.

Opere di contenimento e regimentazione, se non suffragate dall’apprendimento delle precedenti esperienze, talvolta ottengono risultati opposti a quelli prefissati, violando equilibri secolari da difendere.

Diversamente, rischiamo di ritrovarci altre volte a piangere vittime, frutto non della fatalità ma drammatica conseguenza di responsabilità umane.

L’amara e indimenticabile esperienza del Vajont ce lo insegna ogni momento.

Di fronte a tragedie come quella del Vajont la Repubblica è chiamata, anzitutto, a esprimere il proprio dolore a quanti, vittime e sopravvissuti, ne sono stati colpiti.

Ma non si può limitare al cordoglio. Come ho detto questa mattina, al Cimitero di Fortogna, ai rappresentanti delle associazioni che di quella tragedia custodiscono la memoria, la Repubblica è, in qualche modo, responsabile di quanto avviene sul suo territorio e quindi ha motivo di scusarsi con chi ha sofferto le conseguenze di disastri di questo genere.

Ma la Repubblica è anche, al contempo, vittima anch’essa delle scelte e dei comportamenti di coloro che hanno concorso causare immani sciagure come quella e io, rappresentando la Repubblica, nel porgere – come ho fatto questa mattina – le scuse a quei rappresentanti, mi colloco accanto a chi avverte il dolore di quei lutti immani e tra coloro che ne conservano la memoria.

Il territorio del nostro Paese è fragile e le conseguenze dell’abbandono dei territori, verificatosi sulle Alpi e sugli Appennini, vengono pagate, a caro prezzo, da queste zone ma anche dagli insediamenti urbani e produttivi in pianura.

Occorre proseguire sulla strada di iniziative per la salvaguardia degli assetti idro-geologici. Queste iniziative sono state ampiamente delineate dal Parlamento in questi decenni ed è necessario un impegno condiviso delle istituzioni ai vari livelli per svilupparli e attuarli concretamente.

La tutela ambientale e idro-geologica è amica delle persone, ne salvaguarda la vita e difende così il futuro delle nostre comunità, accompagnata, come deve essere, da un uso razionale e sostenibile delle risorse esistenti nell’area.

Il rilancio di una politica per la montagna e le popolazioni che la abitano va non solo nella direzione della effettiva affermazione della eguaglianza fra i cittadini della Repubblica, ma rappresenta una sfida per il recupero pieno di aree abbandonate o sottoutilizzate, preziose per il processo di crescita dell’Italia.

È una consapevolezza che trova diffusione anche a livello continentale, confermata dalla collaborazione nell’ambito di “Euregio senza confini”, della Regione Veneto, di quella del Friùli-Venezia Giulia, con il Land della Carinzia.

Quest’anno, inoltre, sarà esercitata dalla Lombardia la presidenza di Eusalp che costituisce, sin qui, l’ambito più ampio di cooperazione tra Regioni, Stati e Unione Europea in tema di montagna.

Rimane ancora molto strada da fare per un più incisivo impegno delle istituzioni comunitarie in argomento, né, sul tema della montagna, può essere considerato esaustivo il riferimento all’art.174 del Trattato sul funzionamento della Ue.

Ripristinare la buona salute di un territorio – come qui si sta provvedendo a fare – richiede laboriosità e tenacia, qualità che non difettano certo alle popolazioni di queste terre.

Esaurita rapidamente la fase dell’emergenza con il generoso contributo del mondo del volontariato, evocato qui da Ivo Gasperin, le ragioni del recupero, per non provocare alterazioni permanenti e gravi nel tessuto del bosco, si sono fatte imperiose, con il ritorno della buona stagione.

È bene ricordare che la Prima guerra mondiale aveva prodotto devastazioni immani nel Triveneto, anche sul piano ambientale.

Con impegno, in quel dopoguerra, misero radici importanti foreste e boschi divenuti “della memoria”. Sono quelli oggi duramente colpiti, così come quelli sull’altipiano tanto caro a Mario Rigoni Stern, che ha narrato le bellezze di queste montagne.

Appartiene alla vocazione del nostro popolo saper esprimere saggezza, fermezza e industriosità nei momenti più ardui, ed è una tradizione forte della gente di queste contrade.

Sono convinto che, ancora una volta, dalle “Terre alte” saprà venire un esempio di grande valore per tutta la nostra comunità nazionale, frutto del patrimonio di civiltà accumulato nei secoli dalle genti di montagna.

Rivolgo a tutti loro, attraverso i tanti sindaci qui presenti, un saluto cordialissimo e un grande augurio.

Disuguaglianze e postdemocrazia. Intervista a Colin Crouch

Articolo già apparso sulle pagine di www.pandorarivista.it a firma di  Eleonora Desiata

Seppur in declinazioni fra loro diverse, la questione sociale e il tema della disuguaglianze occupano posizioni di primo piano nelle piattaforme programmatiche della maggior parte delle forze politiche contemporanee, a cominciare da quelle che tendiamo a definire “populiste”. D’altra parte, il comportamento elettorale delle democrazie consolidate segnala ormai da qualche tempo un’insoddisfazione diffusa dei cittadini e la volontà di superare gli schemi del passato. In che cosa sono stati maggiormente manchevoli gli stati sociali dell’Europa occidentale, e in particolare quelli delle socialdemocrazie?

Colin Crouch: Il legame fra i cambiamenti che hanno interessato i sistemi di welfare europei e l’ascesa del populismo è molto complesso, di certo le socialdemocrazie ne hanno risentito immensamente. Questi stati sociali erano stati concepiti per rispondere alle problematiche delle società industriali e alle esigenze di famiglie strutturate secondo il modello della male breadwinner-family. Un esempio su tutti: oggi non abbiamo più un solo genere all’interno della forza lavoro. Purtroppo, quando le forze socialdemocratiche cominciarono ad occuparsi di queste trasformazioni sociali lo fecero sotto una forte influenza neoliberale. Ossia lo fecero attraverso riforme che introducevano più workfare, riducevano le tasse e tagliavano la spesa pubblica. Questo fu, a mio avviso, l’errore più grande. 

Nella lettura del conflitto sociale contemporaneo si parla spesso di vincitori e vinti della globalizzazione. Diversi studiosi concordano nel sostenere che la grande linea di demarcazione sia oggi da ricercarsi fra quei cittadini bisognosi di protezione sociale tradizionale (centrata su prestazioni di disoccupazione e pensioni) e coloro che invece necessitano di un welfare esteso ad aree vaste di assistenza, all’istruzione, alla conciliazione dei tempi di vita e lavoro. Che ruolo ha giocato il sistema capitalistico in questo senso?

Colin Crouch: Ritengo che la responsabilità sia soprattutto da attribuire all’interpretazione neoliberale del capitalismo. La risposta più sintetica a questa domanda è che entrambi i tipi di stato sociale sono fondamentali. Se guardiamo per esempio alla Danimarca, vediamo che accanto ad un welfare di natura più “moderna” c’è anche un solido stato sociale vecchio stampo, con sindacati forti in grado di giocare un ruolo preponderante. Al contrario, temendo un incremento complessivo della spesa pubblica, molti governi socialdemocratici riformisti hanno presentato il welfare nel dibattito pubblico come un gioco a somma zero, in cui era del tutto necessario scegliere fra il welfare del social investment e il vecchio stato sociale, l’uno o l’altro. A ciò si aggiunge che, nel momento in cui l’Unione Europea cominciò a promuovere la nozione di social investment welfare, i governi scelsero, sbagliando, di adottare la stessa retorica. È invece proprio la sicurezza del vecchio stato sociale a permettere alle persone di correre i rischi che il welfare del social investment richiede loro. L’ideologia neoliberale ha contribuito in maniera determinante a distorcere queste riforme.

Che lettura dà al fenomeno della disuguaglianza politica, esemplificato dalla porzione crescente di cittadini marginalizzati (disenfranchised) e dal successo delle forze anti-sistema? In che modo pensa che la crisi della rappresentanza sia legata alla frammentazione e al declino delle culture politiche occidentali?

Colin Crouch: C’è una connessione complessa fra le due cose. Partiamo dal presupposto che bassi livelli di disuguaglianza nella storia sono l’eccezione, non la norma. Quello che è strano è che la politica nel suo complesso si stia allontanando sempre di più dall’idea di welfare, che pure in origine era pensato proprio per risolvere questo problema. È successo che i socialdemocratici e alcuni neoliberali riformisti hanno cominciato a definire la disuguaglianza non in termini di classe, ma sulla basse di genere, etnia, orientamento sessuale, disabilità. Tutte questioni della massima importanza, ma così facendo si è lasciata indietro una parte altrettanto importante. Le forze populiste vi si sono interessate, e ne hanno raccolto i frutti. (Con ciò non voglio dire, ad esempio, che Donald Trump sia un egualitario: dichiara di voler proteggere i posti dei lavoratori americani, non parla di garantire loro salari migliori). E in un momento della storia come questo, in cui più che mai ce ne sarebbe bisogno, sembra non riuscire ad emergere un movimento egualitario.

Quali sfide si trovano ad affrontare le diverse forme di azione collettiva (e in modo particolare, le mobilitazioni contro la disuguaglianza) nelle società postdemocratiche?

Colin Crouch: Questa è un’unica questione, ma possiamo scomporla in due parti. Da un lato, c’è il tema della disuguaglianza di reddito. Un fenomeno in crescita, in parte a motivo della predominanza del settore finanziario e di quei settori che generano profitti elevati per pochi. La disuguaglianza è nettamente più alta nell’economia dei servizi di quanto non lo fosse nell’economia manifatturiera. La si può affrontare facendo ricorso alla regolamentazione fiscale. Uno dei problemi maggiori degli ultimi anni è la corsa degli stati a rendersi il più attrattivi possibile per gli investimenti esteri, con il conseguente crollo della tassazione sul capitale delle grandi aziende. Io penso che si possa correggere questa tendenza, ma con tutta probabilità sarà possibile solo attraverso l’internazionalizzazione delle strategie fiscali, sperando che i governi si rendano conto che la situazione attuale non è realmente nel loro interesse. Dall’altra parte occorre restituire forza agli stati sociali, facendo sì che servizi vitali come istruzione e sanità restino fuori dall’economia di mercato. Se sanità e istruzione sono fuori dall’economia di mercato, la disuguaglianza pesa un po’ meno. La seconda questione è il lavoro. L’aumento del lavoro temporaneo, il lavoro illegale o forzato, questi fenomeni generano disuguaglianza nelle condizioni di vita e nel grado di insicurezza, il che a sua volta tende a creare conflitto sociale fra lavoratori con status differenti. È essenziale che i sindacati trovino la maniera di risolvere questo problema, è cruciale trovare il modo di garantire alle persone che il loro reddito non varierà più in queste proporzioni enormi e a questo ritmo così rapido.

L’articolo completo lo si può leggere qui

Mercato residenziale in ripresa

Nel periodo ottobre-dicembre 2018 le compravendite di abitazioni sono state 167.068, con un salto in avanti del 9,3% rispetto allo stesso trimestre del 2017. Dopo la leggera flessione registrata negli ultimi novanta giorni del 2018 (-0,4%), è tornato ad espandersi anche il mercato del settore terziario commerciale, con un aumento delle compravendite (+5,8%) che sfiorano le 30.000 unità. Nel mercato delle abitazioni, tra le grandi città mostrano i risultati migliori Bologna (+20,9%) e Palermo (+18,5%) e continua il trend di crescita a Roma (+10,9%) e Milano (+9,5%). Sono solo alcuni dei dati rilevati dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle entrate, che ha pubblicato le Statistiche relative al quarto trimestre dello scorso anno.

Con gli ultimi tre mesi del 2018 è ormai rilevante il periodo di espansione del mercato delle abitazioni. Il tasso tendenziale di crescita, +9,3% rispetto allo stesso trimestre del 2017, è stato il più alto degli ultimi due anni ed è diffuso su tutto il territorio nazionale, con una crescita accentuata al Nord-est (+12,5%) e al Centro (+12,4%) e più contenuta al Sud (+4,3%). La dinamica positiva si conferma anche per i depositi pertinenziali, per lo più cantine e soffitte, con un volume di compravendite in crescita del 7%, e per i box o posti auto, +9,3%.

Nell’ultimo periodo dello scorso anno, inoltre, è tornato ad avere segno positivo il settore terziario-commerciale (+5,8%) e la dinamica di crescita coinvolge tutto il Paese, con tassi tendenziali di espansione che vanno dal 3% al Sud all’11,5% al Nord-est. La crescita non è comunque uniforme in tutte le tipologie analizzate dall’Osservatorio. In particolare, nelle compravendite di uffici e studi privati ai rialzi di Milano (+10,6%) e di Palermo (+22,7%) corrispondono, in controtendenza, le decise contrazioni di Genova (-16,8%) e di Bologna (-14,2%).

Per quanto riguarda i negozi e laboratori, invece, spicca proprio il notevole incremento del capoluogo emiliano (+75,8%) e l’espansione di Milano (+23%), mentre a Roma, Napoli e Torino i volumi di compravendita sono risultati in calo. La capitale rimane tuttavia, la città con il maggior volume di compravendite relative a depositi commerciali e autorimesse, con un tasso tendenziale di espansione del 12,9%. In questa tipologia, infine, i tassi di crescita maggiori sono stati registrati a Milano (+26,8%) e a Torino (+28,6%).

Laziosound: Il bando scade il 15 marzo

Grande successo per LAZIOSoundil programma di sostegno ai giovani talenti musicali del Lazio. Oltre 450 gli iscritti al concorso lanciato nel mese di febbraio, tutti giovani di età compresa tra 15 e 35 anni che hanno deciso di cogliere questa straordinaria occasione per fare emergere il proprio talento musicale con l’ambizione, la voglia e la concreta possibilità di trasformare una grande passione in una vera e propria professione.

Il bando scade il 15 marzo e prevede la selezione delle proposte migliori su RadioRock e 5 eventi nei migliori locali di Roma. Saranno selezionate, attraverso una giuria di esperti, le migliori 16 band/artisti. Promozione, distribuzione, partecipazione ai migliori festival, anche di caratura internazionale: questi i premi messi a disposizione anche grazie alla collaborazione di realtà musicali ed etichette come Atcl, Meeting delle Etichette Indipendenti, Dominio Pubblico, Marte Live System, Arte2o, Smash, Blond Records e CinicoDisincanto. Ai finalisti sarà offerta anche la possibilità di partecipare a tour di livello internazionale nei migliori locali di Tokyo con la possibilità di esibirsi a Montreal, in occasione del Canadaday.

Molti i generi in cui si sono cimentate le band che stanno partecipando al concorso: duecento hanno scelto l’Indie, il Pop e ancora Country, Unplugged, quasi 90 hanno preferito Rock – Rock’Roll, Reggae, Punk Rock e Heavy Metal. Composizione, Classica, Jazz, Elettronica e ancora Hip-Hop, Rap, R&B, Soul, Funk, sono i settori che hanno catalizzato l’attenzione dei giovani artisti del Lazio.

Joe Petrosino, eroe italo-americano dell’antimafia

Si è svolta, alcuni giorni fa, a Roma, nella Sala Stampa di Montecitorio, la commemorazione della figura di Joe Petrosino a 110 anni dalla scomparsa. La manifestazione, promossa dall’on. Fitzgerald Nissoli (eletta nella Circoscrizione estera – Ripartizione Nord e Centro America) ed organizzata dall’Associazione Joe Petrosino di New York e di Padula (Salerno), con il supporto del responsabile media dell’Associazione Petrosino di New York , Stefano Santoro, è stata introdotta dall’on. Nissoli Fitzgerald e moderata dall’avv. Sabrina D’Elpidio.

L’on. Nissoli, introducendo la manifestazione, ha ricordato che “Joe Petrosino fu il precursore della lotta al crimine organizzato” e proprio grazie “anche a persone come lui, oggi gli italiani possono godere di una alta stima nella società americana”. “Petrosino con il suo impegno per la legalità ha mostrato il volto buono dell’Italia, di quell’Italia che era ed è maggioritaria e che lavora duramente per realizzare i propri obiettivi ed il bene comune – ha detto l’on. Nissoli sottolineando che –  se oggi la cultura italiana in USA è apprezzata ed amata, ed è ormai lontana dall’idea di mafia e mandolino, è anche grazie alla figura di un eroe come Petrosino che ha pagato con la vita il suo impegno per la legalità”.

“L’Italia – ha concluso Nissoli –  deve esserne orgogliosa e celebrarlo come uno dei suoi eroi e questo è possibile anche grazie al Vostro impegno che fate conoscere, a partire anche da questa sede, la figura di Petrosino: un italiano vero!”.

Per l’Associazione Petrosino è intervenuto il Vice Presidente della sede di New York, Jerry D’Amato, che ha evidenziato che “l’Associazione “Joseph Petrosino”, in America, ha come scopo e missione lo sviluppo della lingua italiana, del patrimonio e della cultura italianae, inoltre, di onorare e non dimenticare mai l’ultimo sacrificio fatto da quest’uomo coraggioso.” Poi, D’Amato, richiamando le attività dell’Associazione ha sottolineato l’impegno “per sviluppare immagini positive di italiani e italoamericani”.

Presenti all’incontro anche il luogotenente americano, Pizzo, il pronipote di Petrosino, Nino Melito Petrosino, e il Presidente dell’Associazione Petrosino di Padula, Vincenzo La Manna.

Tesori ritrovati. Restauri per Gubbio al tempo di Giotto

La mostra al Palazzo dei Consoli di Gubbio lancia un focus sui restauri e sui confronti possibili tra opere e maestri, tra materiali e tecniche esecutive, in un percorso che si dipana tra XIII e XIV secolo. L’iniziativa consente, inoltre, di approfondire gli sviluppi artistici nella cittadina umbra in rapporto con i grandi centri artistici del tempo

Fino al 1º maggio è aperta al pubblico la mostra “Tesori ritrovati. Restauri per Gubbio al tempo di Giotto”, allestita presso la Sala dell’Arengo di Palazzo dei Consoli di Gubbio (Perugia), dedicata ai restauri e ai recuperi e quindi ai confronti possibili tra opere e maestri, tra materiali e tecniche esecutive, tra forme e funzioni del prodotto artistico in un percorso che si dipana tra XIII e XIV secolo.

In esposizione molte delle opere recentemente restaurate: come le due grandi croci dipinte del Museo Civico di Gubbio, le opere del Maestro della Croce di Gubbio, del Maestro espressionista di Santa Chiara, di Pietro Lorenzetti, del cosiddetto “Guiducci Palmerucci” e di Mello da Gubbio.

Quanto conservato e a disposizione, infatti, consente soprattutto di rileggere l’evoluzione dell’arte eugubina tra Duecento e Trecento in rapporto con i grandi centri artistici del tempo. Prima di tutto con Assisi, vero e proprio cratere sismico da cui si propagano impulsi di cultura figurativa la cui intensità registriamo, prima che altrove, proprio a Gubbio.

Francesco Molinari firma una nuova impresa: vince l’Arnold Palmer in Florida

Ancora una fantastica impresa di Francesco Molinari. L’azzurro ha vinto il prestigioso Arnold Palmer Invitational con 276 (69 70 73 64, -12) colpi rimontando nel giro finale dalla 17ª posizione con uno straordinario 64 (-8, otto birdie), miglior score parziale in assoluto del torneo.

Sul percorso del Bay Hill Club & Lodge (par 72) di Orlando in Florida, nel torneo dedicato al grande campione scomparso nel 2016, Molinari ha firmato il suo secondo titolo sul circuito, dopo quello nel Quicken Loans National (2018), superando l’inglese Matthew Fitzpatrick, leader dopo tre turni e secondo con 278 (-10), il suo connazionale Tommy Fleetwood, lo spagnolo Rafa Cabrera Bello e il coreano Sungjae Im, terzi con 279 (-9). Ha ceduto Rory McIlroy, che difendeva il titolo, da secondo a sesto con 280 (-8), e non sono stati mai in partita Hideki Matsuyama, 33° con 286 (-2), Rickie Fowler, 40° con 287 (-1), Bryson DeChambeau, 46° con 288 (par), e Justin Rose, 63° con 293 (+5), al rientro alle gare e che ha mancato la chance di tornare numero uno mondiale.

Le dichiarazioni – “Non ci sono state particolari strategie – ha detto Molinari, che ha dedicato il successo alla moglie Valentina – o piani di gioco. Ieri mi sono reso conto che i green sarebbero diventati duri e veloci e che ci sarebbe voluto un putter caldo come quello che ho avuto io oggi. Ieri avevo accusato delle difficoltà, ma ero comunque riuscito a darmi delle opportunità e a non rimanere troppo indietro, ma mai avrei pensato di poter effettuare un giro simile. No, non sono in grado di indicare qualche parte del mio gioco che mi dia la possibilità di poter ottenere score così bassi: credo sia solo il frutto del gran lavoro fatto in inverno, sia sull’aspetto tecnico, che su quello mentale”.

Impiantata all’Humanitas la prima protesi di ginocchio stampata interamente in 3D

E’ stato realizzato all’Istituto Humanitas di Milano il primo impianto al mondo di una protesi totale al ginocchio personalizzata e interamente stampata in 3D.

L’intervento è stato reso possibile grazie allo studio dei medici e dei ricercatori del Centro per la ricostruzione articolare del ginocchio insieme agli ingegneri ed esperti di Intelligenza Artificiale di ‘Rejoint’, startup bolognese cresciuta all’interno di Almacube, l’incubatore di nuove esperienze imprenditoriali promosso dall’Università di Bologna e da Confindustria Emilia.

Grazie alla tecnologia 3D è stata realizzata una protesi totale di ginocchio in lega di cromo cobalto. Attraverso Tac e risonanza magnetica sono state rilevate le caratteristiche e i parametri anatomici del paziente, sulla base delle quali è stata disegnata la più̀corretta geometria, e in seguito è stata realizzata la protesi attraverso la stampa 3D, ricostruita fedelmente sulle dimensioni specifiche del suo ginocchio.

Inoltre, attraverso una visione computerizzata in 3D e un sistema intelligente di algoritmi è stato effettuato un planning preoperatorio interattivo, fondamentale per facilitare il posizionamento e la definizione della corretta dimensione della protesi. Il paziente è già stato dimesso e sta effettuando il normale decorso post-operatorio. A effettuare l’intervento il professor Maurilio Marcacci, responsabile del Centro per la ricostruzione articolare del ginocchio di Humanitas, il suo team, il dott. Francesco Iacono e il dott. Tommaso Bonanzinga, specialisti in ortopedia del Centro steso.

Se ne è andato un maestro, Sidney Verba

E’ morto nei giorni scorsi Sidney Verba, un maestro della ricerca sociale sui fenomeni politici che ha avuto la peculiarità di studiarli dal lato dei cittadini e non da quello delle istituzioni statuali, cosa tutt’altro che consueta.

Da lui tutti abbiamo imparato e, per quello che mi riguarda, sento un grande debito nei suoi confronti e sono contento di averlo conosciuto e di aver avuto diverse opportunità di discutere con lui.

Ricordo in particolare la sua conferenza a Roma nel 2004, organizzata da Fondaca nel quadro del programma “Colloqui euro-americani sulla cittadinanza”, nella quale Verba, con discussant Stefano Rodotà, ci parlò delle diseguaglianze nel “civic volunteerism” negli Stati Uniti e del modo di superarle.

Un tema non solo americano e della massima attualità che, grazie a lui, conosciamo nei suoi risvolti meno evidenti.

Grazie Sidney.

[Dal profilo Fb dell’autore]

Qui potete leggere l’articolo di “The Harvard Gazette”

Un nuovo centro con spirito degasperiano

L’intervista di Guido Bodrato a questo giornale non può certo lasciare indifferenti. Sia per l’autorevolezza morale e politica di chi l’ha rilasciata, sia per la lucida coerenza interna del messaggio che contiene.

Vi è – nel sottofondo – una architettura di pensiero che non nasconde le contraddizioni e i passi falsi degli ultimi due decenni e non disconosce le radicali novità di questo nostro tempo. Essa è basata su una idea chiara di ciò che necessariamente devono essere, in ogni fase storica, il “senso” del cattolicesimo democratico, la sua vocazione, la sua missione.

Bodrato ci ricorda che il cattolicesimo democratico non può che essere al servizio di una visione aperta, solidale e progressiva della democrazia. Riecheggiano le parole del giovane Aldo Moro: “Lo Stato è – nella sua essenza – il divenire della società nella storia, secondo il suo ideale di giustizia”.

Deriva da questa radice profonda il “posizionamento politico” dei cattolici democratici, che Alcide Degasperi ben riassunse nell’espressione del “centro che guarda a sinistra” e pone un confine invalicabile a destra.

Durante tutta la lunga vicenda della DC, i cattolici democratici italiani hanno trovato in questo partito la loro casa ed hanno concorso in modo determinante, assieme ad altri filoni culturali affini, a dare vita e forza al Centro Politico della Nazione.

Ne sono conseguite la ricostruzione democratica, sociale ed economica del Paese, attraverso una stagione straordinaria di riformismo a tutti i livelli e l’opzione atlantica ed europeista.

Avere piena consapevolezza, oggi, di questa storia dà la cifra del messaggio di Guido Bodrato: il “Centro” non è una astratta costruzione di natura “topografica”. E, dunque, la sua rigenerazione non può essere né frutto di improbabili nostalgie né il portato di convenzioni di tipo tattico.

Deve corrispondere ad una nuova progettazione sociale e politica, coerente con i valori di fondo e con il posizionamento ideale prima ricordato e finalizzata a dare risposte alle impellenti, drammatiche necessità della democrazia italiana ed europea.

Bodrato analizza, da questa angolatura, le contraddizioni e i limiti della fase “post DC” in Italia (oltre che la deriva subita dal PPE a livello europeo). Lo fa senza anatemi ma con il doveroso atteggiamento di chi sa bene che la storia non si fa con i “se” e con i “ma” postumi.

Si fa piuttosto con la faticosa e paziente opera di riflessione e di costante ripartenza dai dati di fatto.

È un dato di fatto che il PD non può, da solo, dare rappresentanza a tutta la domanda politica potenzialmente alternativa alla destra. È inoltre un dato di fatto che oggi, all’appello delle presenze per l’alternativa democratica, manca una voce: quella di un “centro” inteso come lo ha descritto Bodrato.  Con i suoi valori, il suo sguardo degasperiano a sinistra, con il suo confine a destra.

E sopratutto, con la sua vocazione a costruire inclusione sociale e democratica e con la sua opzione europeista. Inutile e fuori luogo pretendere che sia il PD – i suoi dirigenti o i suoi Padri Fondatori – a colmare questo vuoto o a “tenere a battesimo” una nuova formazione politica così fatta. Essi hanno un compito importante – che riguarda tutti – nella loro parte del campo di battaglia. E neppure spetta a loro definire il profilo identitario del “partito” che non c’è.

Tutto questo è compito di chi crede in questo progetto. Di chi crede che esso sia utile alla democrazia italiana. Di chi è disposto ad un lungo cammino, tutto in salita, senza ambiguità e senza scorciatoie. Ci sono in giro tanti fermenti e tante iniziative in questo senso.

Affinché tutto ciò diventi progetto politico, serve tempo, costanza, determinazione. Serve mettere a fattor comune le singole esperienze, con generosità e reciproca esigente disponibilità. Vale la pena di provarci, senza ansie da prestazione, con la consapevolezza che questo progetto richiede tempo, formazione, elaborazione di nuove idee e di nuovi linguaggi, nuova classe dirigente.

 

Ad Alessandria Impegno Liberi e Forti parte dall’immigrazione

Prosegue il percorso del gruppo Impegno Liberi e forti, costituitosi ad Alessandria nel gennaio scorso, proprio in corrispondenza del centenario dell’appello lanciato da don Sturzo nel 1919. Del gruppo fanno parte cittadini impegnati sul territorio interessati a condividere un percorso di partecipazione ed elaborazione politica ispirato ai principi e ai valori del cattolicesimo democratico, una rete che si sta allargando progressivamente, coinvolgendo rappresentanti di vari mondi del volontariato, della cultura e delle istituzioni di tutta la provincia. Il terzo incontro si è svolto la sera di Martedì grasso, il 5 marzo.

I primi due appuntamenti hanno reso evidente la necessità di mettere in campo percorsi in grado di superare l’attuale frammentazione e debolezza che vede una ricca e variegata presenza che testimonia l’impegno di individui e piccoli gruppi, che faticano a costruire un percorso inclusivo, capace di valorizzare la pluralità delle singole esperienze, praticare un dialogo costruttivo ed esprimere una posizione chiara e proposte puntuali sui temi centrali nello scenario politico nazionale e locale.

Su questa analisi condivisa si fonda Impegno Liberi e Forti, che non si è dato finalità partitiche o elettorali, ma si pone l’obiettivo di maturare una presenza incisiva nello spazio pubblico, grazie a un lavoro di studio ed elaborazione politica capace di fare sintesi di diverse proposte e tradurle in azione collettiva per il bene comune.

L’urgenza di un rinnovato impegno ispirato ai valori che fanno parte della tradizione dei cattolici democratici proviene soprattutto dall’analisi condivisa secondo la quale l’attuale crisi economica, sociale, culturale e politica sta conducendo a derive preoccupanti, conducendo il paese a una regressione e alla perdita di valori condivisi. Tale impoverimento costituisce una sicura minaccia alla convivenza civile e democratica.

Tra i temi rispetto ai quali si avverte la necessità di approfondire, condividere sintesi e soluzioni per poi esprimere posizioni chiare e proposte puntuali è emerso come prioritario quello dell’immigrazione. Da qui, dunque, si partirà in un prossimo incontro (data e altri dettagli organizzativi sono in fase di definizione e saranno comunicati in seguito, NdR), in occasione del quale saranno interpellati testimoni ed esperti che, a diverso titolo, sono coinvolti direttamente dal fenomeno, al fine di fondare la riflessione collettiva su dati di fatto e punti di vista fondati su esperienze dirette e significative.

“Su questo tema – ha affermato nel corso della serata Renato Balduzzi – sperimenteremo un metodo di lavoro che potrà essere poi replicato su altri temi. E’ proprio anche grazie un rinnovamento dello stile e del modo di partecipare alla vita della polis che le persone libere e forti potranno contribuire a un salto di qualità nella vita politica italiana, promuovendo la partecipazione democratica, la coesione sociale, politiche che mettano al primo posto il bene comune rispetto agli interessi di parte”.

“Camminando si traccia il cammino – prosegue Agostino Pietrasanta, un altro tra i promotori di Impegno Liberi e Forti di Alessandria – sono certo che proseguendo con fiducia il percorso iniziato sarà possibile acquisire maggiore chiarezza e consapevolezza circa i possibili sviluppi e le direzioni future di questo impegno; il gruppo capirà strada facendo quale potrà essere il suo ruolo se saprà essere coerente con l’obiettivo condiviso in partenza: rinnovare un impegno ispirato ai valori di laicità, partecipazione democratica, sussidiarietà e giustizia sociale del manifesto di Luigi Sturzo”.

Il Presidente Mattarella all’inaugurazione dell’anno accademico 2018/2019 dell’Università di Cassino

Ringrazio il Magnifico Rettore per l’invito ad essere presente a questa inaugurazione, nel 40º anno accademico dell’Ateneo. Un saluto molto cordiale a tutti i presenti e ai Rettori di altri atenei.

Un saluto particolare al corpo accademico di questa Università, al personale tecnico-amministrativo e, in maniera particolarmente intensa, alle studentesse e agli studenti.

Un saluto, attraverso il commissario al Comune di Cassino, il Sindaco di Frosinone e gli altri sindaci presenti, a tutti cittadini di Cassino, di Frosinone e di quest’area del Lazio Meridionale.

Quarant’anni sono un periodo gemello a quello dell’Ateneo della Tuscia, come ha ricordato il Magnifico Rettore. Due settimane fa ho partecipato alla cerimonia di quella università.

Quella scelta, quarant’anni fa, di far sorgere nel Lazio meridionale e Lazio settentrionale due università è stata il frutto della consapevolezza che gli studi universitari non possono essere un fenomeno di élite, ma devono essere il più diffusamente possibile distribuite nel nostro Paese e devono avere un contatto ampio e profondo con il suo territorio.

È un percorso tutt’altro che compiuto. Il nostro Paese è ancora in ritardo nel numero dei laureati rispetto alla media europea e ha bisogno di intensificare questo percorso che non può mai dirsi raggiunto compiutamente ma che ha ancora bisogno di una forte spinta da parte delle istituzioni.

Il Magnifico Rettore poc’anzi ha parlato – non a caso, immagino – del valore della connessione tra le discipline, tra i vari comparti del sapere, ma anche della connessione tra università e territorio, quella che sia qui che nel Nord del Lazio fa toccare con mano quanto la presenza universitaria e la sua attività abbia contribuito allo sviluppo culturale delle aree di riferimento. Ma connessione anche – e del resto è dimostrata dalla presenza del vice Presidente della Regione, del Presidente della provincia, di tanti sindaci in questa occasione – tra la comunità scientifica che supera i confini nazionali. E il richiamo che ha fatto il Rettore alle numerose collaborazioni internazionale con atenei europei ed extraeuropei è di grande significato.

Ringrazio il Rettore: ci ha illustrato con compiutezza e chiarezza lo stato, le intenzioni e le molteplici attività che questa università svolge.

Ringrazio Francesco Cuzzi, rappresentante del personale tecnico-amministrativo, che ha portato qui la voce di questo personale. È importante, anzi decisivo, nella vita degli atenei.

Anche per personale esperienza – peraltro ormai lontana nel tempo – so bene quanto sia decisivo il ruolo del personale tecnico-amministrativo senza il quale i docenti si sentirebbero in mare aperto senza bussola nella vita universitaria.

Ringrazio molto Elena Di Palma, eccellentissima rappresentante degli studenti. Le sue parole mi hanno fatto venire in mente un episodio drammatico: quello di un ragazzino quattordicenne – poco più di un bambino –annegato nel Mediterraneo, e recuperandone il corpo hanno trovato cucito nella giacca del suo vestito la pagella scolastica con i suoi voti.

Questi casi – quelli che conosciamo ma chissà quanti non ne conosciamo, né conosceremo mai – di giovanissimi che attribuiscono alla loro pagella, ai loro risultati scolastici, il valore di un passaporto, o anche più di un passaporto, di un accreditamento di serietà e di impegno verso Paesi in cui speravano di poter sviluppare la loro vita, la loro cultura, il loro benessere, certamente interroga fortemente la nostra coscienza.

L’ho voluto ricordare perché ha un altro significato, ulteriore: quello che lo studio costituisce insieme la spinta e lo strumento per la cultura, per l’interesse e il rispetto verso le culture diverse, verso le altrui opinioni, verso l’esperienza di altri. Lo studio costituisce la spinta e lo strumento per l’apertura, per il dialogo, per l’amicizia.

Elena Di Palma ha collegato il ruolo dello studio alla storia dell’Abbazia che ha definito ‘simbolo di speranza’.

Non c’è dubbio. L’Abbazia è un punto alto della storia e della cultura d’Europa. Insieme ad altre abbazie, con quella rete di riflessione, analisi e grande di studio che si è creata allora, ha consentito il traghettamento della cultura antica verso i nostri secoli.

Nel mese scorso sono ricorsi i settacinque anni dai bombardamenti sull’Abbazia, che è risorta in pieno, ribadendo il senso di speranza. Dal senso di speranza dello studio che l’Abbazia raffigura con tanta efficacia nasce l’evocazione del dovere di generosità, di impegno, di apertura, di dialogo, di preparazione e di competenza.

Questa vocazione si lega al contenuto della lectio magistralis del Professor Recinto che ringrazio molto. Il dibattito sul rapporto tra diritto e realtà è antico. Ce l’ha presentato, con molta efficacia, come scienza pratica che regola la convivenza e, del resto, l’antico brocardo recita che il diritto nasce dal fatto, nasce dalla realtà della vita sociale; traduce fenomeni della vita sociale in regole, le elabora e le ritrasmette alla società.

Questo è un percorso costante che non si interrompe. Il Professor Recinto ha detto di non pensare al diritto come ad una serie di definizioni inerti e ha messo in guardia dal pericolo di generalizzazioni immobili e pericolose, perché il percorso del diritto che raccoglie dalla società e riversa i suoi risultati sulla società è un lavoro costante, a volte lento ma mai interrotto.

Questo compito è affidato alle università. Naturalmente definire le regole è compito del Parlamento, del legislatore. Una parte rilevante è affidata alla giurisprudenza, all’ordine giudiziario, alla magistratura che interpreta e applica, dando anche indicazioni; ma la sistemazione completa, l’elaborazione teorica – non astratta, ma teorica – del diritto è affidata alle università, agli studiosi, agli atenei, come in ogni branca della scienza.

Questo compito, fondamentale per il nostro Paese, è quello che motiva la riconoscenza – che non mi stanco di ripetere – nei confronti delle nostre università. La presenza di tanti Rettori sottolinea quanto sia rilevante questo collegamento tra atenei per questo ruolo fondamentale, più che prezioso, indispensabile per il nostro Paese.

Buon anno accademico!

L’esilio del “Re bambino” e la nascita della monarchia parlamentare italiana

Francesco d’Assisi Maria Leopoldo di Borbone, quando ereditò la corona dal padre Ferdinando II, era poco più di un ragazzino. Lo era caratterialmente, non troppo sotto l’aspetto anagrafico (aveva 23 anni), anche se il suo viso pulito sembrava quello di un adolescente trovatosi d’un tratto catapultato verso una missione difficilissima, quasi oltre le sue possibilità: esercitare un potere ormai barcollante, forse desueto, contestato, accerchiato. Lo era soprattutto per l’avidità di Londra, Parigi e degli altri stati autonomi che componevano il “puzzle” Italia, i quali non disdegnavano affatto l’idea di svuotare delle sue ricchezze e della gestione delle sue strutture un sistema geopolitico secolare, che – pur commettendo molti errori – qualcosa di buono aveva comunque realizzato.

Il 22 maggio 1859, quando ascese al trono, il fragile Francesco II trovò nel suo stesso ambiente familiare un clima ostile, irrispettoso della sua persona e scettico sulle sue capacità di portare avanti un governo che veniva progressivamente abbandonato anche da molti dei suoi più stretti collaboratori. A un ragazzo cresciuto con un’educazione rigorosamente cattolica, fatta di studi, raccoglimento, una scarsissima frequentazione di donne e della mondanità nobiliare, tutto ciò suscitò un senso di estraneità terribilmente avverso. Trame, congiure, diserzioni, contrattazioni tra ambienti militari perché i vecchi ufficiali borbonici entrassero per via breve a far parte dell’esercito piemontese; erano una minima parte di quello che le più importanti stanze del potere della diplomazia europea stavano pianificando da tempo.

Ma quel timido giovane non era uno stupido, non lo era affatto; a dispetto di coloro che gli consigliarono di rinunciare alla corona, preparò invece i lavori perché la resa fosse quanto più onorevole possibile. Allertò l’esercito (o ciò che ne rimaneva) e abbatté l’imposta sul macinato per dare sollievo alle fasce più deboli, e benché sapesse che il regno napoletano stesse avviandosi verso il malaugurato tramonto (sembrava fosse un soggetto fortemente fatalista), trovò il tempo e la forza di varare una serie di riforme di ispirazione liberale: tra queste, il rafforzamento delle autonomie comunali, l’istituzione di apposite commissioni per migliorare le condizioni carcerarie e la riduzione delle tasse doganali. Considerati gli appena 22 mesi di mandato, non era poco.

La resa di Gaeta – avvenuta il 13 febbraio 1860 dopo molto spargimento di sangue e uno scontro impari contro i sabaudi – rappresentò solo l’appendice dei tentativi di destituire la corona di Napoli che contraddistinsero alcune fasi della politica internazionale nel corso della prima metà del XIX secolo. La mattina del 13 febbraio Francesco II si accingeva a lasciare il suo vecchio regno per raggiungere Papa Pio IX, il quale restituì “la cortesia” dopo il suo esilio a Gaeta dell’autunno 1848, quando fu accolto con devozione da Ferdinando II. Il giovane re ricevette ospitalità nell’esilio dorato di Palazzo Farnese, ma la sua Napoli, benché a neanche 200 km da Roma, gli sembrò molto più lontana di quanto fosse. Neanche la Chiesa, forte del suo millenario potere, così vicino (non solo geograficamente) alla dinastia borbonica, riuscì a mediare per impedirne la deposizione e l’espulsione forzata dalla sua terra.

Quel giorno, mentre Franceschiello (soprannominato tale sia dal punto di vista affettivo che in senso irrisorio) e la sua consorte Maria Sofia, detta “Spatz”, sorella della più celebre Sissi, si imbarcavano sul piroscafo francese che li avrebbe condotti a Roma, molti dei suoi soldati e dei suoi sudditi piansero. E tra la commozione dei gaetani, nel momento in cui i cannoni tiravano a salve rendendo gli onori al re deposto, quasi mille chilometri più a nord fervevano i preparativi per dare luogo alla istituzione della prima Monarchia Parlamentare del Regno d’Italia, forma di governo che sancì la transizione dall’assolutismo a uno Stato liberale. Nella fredda Torino, il 41enne Vittorio Emanuele II, cugino di sangue di Franceschiello (la madre del Borbone era una Savoia), pianificato ante litteram con le diplomazie anglo-francesi il programma che avrebbe condotto all’istituzione del Regno, il 17 marzo 1861 fu proclamato “re d’Italia per grazia di Dio e volontà della nazione”. Camillo Benso di Cavour, di Cellarengo e di Isola Bella divenne il primo Presidente del Consiglio dopo l’Unità. Il Parlamento, di tipo bicamerale, fu guidato da una maggioranza legata alla Destra Storica, la quale costituì dieci ministeri, di cui uno senza portafoglio e due a interim (Cavour agli Esteri e alla Marina).

La prima fase del processo risorgimentale si era compiuta.

Unicef: Solo nel 2018, in Siria, 1.106 bambini sono stati uccisi

“Solo nel 2018, in Siria, 1.106 bambini sono stati uccisi nei combattimenti, il più alto numero di bambini uccisi in un solo anno dall’inizio della guerra. Questi sono solo i numeri che l’Onu è stato in grado di verificare, ma le cifre reali sono probabilmente molto più alte”. È quanto dichiara oggi Henrietta Fore, direttore generale dell’Unicef.

“Oggi – denuncia Fore – c’è un allarmante equivoco che il conflitto in Siria stia rapidamente per concludersi: non è così. I bambini in alcune parti del Paese rimangono in pericolo come in qualsiasi altro momento durante gli otto anni di conflitto. Sono particolarmente preoccupata per la situazione nella Siria nordoccidentale di Idlibin, dove un’intensificazione della violenza ha ucciso 59 bambini solo nelle ultime settimane”.
“La situazione delle famiglie di Rukban, vicino al confine giordano, continua ad essere disperata – aggiunge il direttore generale dell’Unicef – con accesso limitato a cibo, acqua, riparo, assistenza sanitaria e istruzione. Sono anche allarmata dal peggioramento delle condizioni del campo di Al Hol, nel nord-est del Paese, dove vivono più di 65.000 persone, tra cui si stima che ci siano 240 bambini non accompagnati o separati. Da gennaio di quest’anno, quasi 60 bambini sono morti lungo i 300 chilometri di cammino da Baghouz al campo”.

Inoltre, “il destino dei bambini dei ‘foreign fighters’ in Siria rimane poco chiaro”, per cui “l’Unicef esorta gli Stati membri ad assumersi la responsabilità per i bambini che sono loro cittadini o nati da loro cittadini, e ad adottare misure per evitare che i bambini diventino apolidi”.

Riunita in Kenia l’Assemblea Onu per la salvaguardia dell’ambiente

La kermesse ambientale più importante del mondo ha come obiettivo la resilienza pianeta di fronte al cambiamento climatico e al sovra sfruttamento. Il 15 marzo, poi, i capi di Stato e ministri dell’Ambiente, insieme alle Ong, agli attivisti e agli amministratori di multinazionali si incontreranno per discutere e assumere impegni, nella prospettiva di un patto globale per la salvaguardia ambientale. Tra i temi in agenda: le innovazioni geoingegneristiche per rispondere alle sfide climatiche; l’economia circolare legata alla crescita produttiva sostenibile; il contrasto allo spreco alimentare; il sostegno alla decarbonizzazione abbandonando i combustibili fossili per puntare invece su energie da fonti rinnovabili, efficienza e risparmio energetico; la riduzione dei rifiuti plastici in mare. Un altro tema importante è infine quello delle nuove tecnologie, dalle soluzioni per rimuovere la CO2 dall’atmosfera ai nebulizzatori iniettati nella stratosfera per bloccare i raggi solari.

All’Assemblea di Nairobi verrà proposta una risoluzione giuridicamente vincolante per fermare l’inquinamento plastico. Il WWF ha infine lanciato una mobilitazione per chiedere un Trattato che comprenda tutti i Paesi del mondo finalizzato ad un’azione collettiva in difesa dei beni comuni. La stessa Associazione ambientalista ha pubblicato la scorsa settimana il report intitolato “Inquinamento plastico: di chi è la colpa?” dove viene tracciato un percorso per proteggere il Pianeta. Le cifre contenute nel documento danno triste conferma in riferimento al problema e impongono un’attenta riflessione. Basti pensare che dal 1950 ad oggi è andato perso il 75% di tutti i polimeri plastici fossili prodotti a livello globale contaminando flora e fauna. Nel 2016 poi, la produzione di plastica ha raggiunto 396 milioni di tonnellate, l’equivalente di 53 chili per ogni persona, traducendosi in circa due miliardi di tonnellate di anidride carbonica (quasi il 6% delle emissioni complessive di CO2 l’anno). La Strategia sulla plastica della Commissione europea, adottata il 16 gennaio 2018, si è inserita nel processo di transizione verso un’economia circolare, con lo scopo di proteggere l’ambiente dall’inquinamento da materiali polimerici, promuovendo crescita e innovazione. Con la strategia sulla plastica, la Commissione ha adottato un quadro di monitoraggio, costituito da una serie di dieci indicatori chiave che coprono le varie fasi del ciclo per misurare i progressi compiuti nella transizione verso un’economia circolare a livello nazionale ed europeo.

Rendere il riciclo redditizio per le imprese, ridurre i rifiuti di plastica, fermare la dispersione dei rifiuti in mare, orientare gli investimenti e l’innovazione, stimolare il cambiamento in tutto il mondo sono gli obiettivi chiave di questa strategia a lungo termine. Con lo scopo di fornire contributi, pareri e dati per gli sviluppi futuri della strategia sulla plastica in relazione ai rifiuti marini, in particolare quelli costituiti da plastica monouso e attrezzature da pesca.

Sui lavori dell’Assemblea grava il lutto per le 157 vittime dell’incidente aereo di ieri, in cui hanno perso la vita anche diversi delegati.

Cannabis light: Al Senato due mozioni contrapposte

Proponiamo le due mozioni che il Senato dovrà affrontare

La mozione di FI impegnava il Governo su 5 punti: emanare urgentemente un provvedimento per la sospensione della commercializzazione di tutti i prodotti della cannabis light; attivarsi con urgenza prevedendo una regolamentazione più stringente delle modalità di coltivazione e commercializzazione della canapa; alutare l’opportunità di destinare in altro modo le risorse economiche di cui al comma 1 dell’articolo 6 della legge n. 242 del 2016 (aiuti di Stato fino ad un massimo di 700.000 euro, per favorire il miglioramento delle condizioni di produzione e trasformazione nel settore della canapa); emanare urgentemente il decreto ministeriale per definire i livelli massimi di residui di Thc ammessi negli alimenti; e verificare se le condotte della “Cannabis businnes school” siano conformi alle prescrizioni di legge.

La mozione del Pd impegnava il Governo su 4 punti: provvedere alla riorganizzazione organica della materia relativa alla filiera agroindustriale della canapa per garantire a tutti gli operatori del settore una normativa certa cui attenersi, nonché confutare falsi timori in materia, derivanti da pregiudizi senza alcun fondamento scientifico; definire, con decreto del Ministero della salute, i livelli massimi di residui di Thc ammessi negli alimenti; favorire il reale sviluppo di intese sia per quanto riguarda le produzioni alimentari, sia quelle tessili, sia quelle impiegate nel settore della bioingegneria; e adottare ogni iniziativa finalizzata all’assegnazione delle risorse individuate dalla legge n. 242 del 2016 (aiuti di Stato fino ad un massimo di 700.000 euro, per favorire il miglioramento delle condizioni di produzione e trasformazione nel settore della canapa) alle finalità dalla stessa indicate.

Pio Cerocchi: “Non mi convince il metodo di Zingaretti. Dovrebbe dimettersi, per altro, da Presidente del Lazio”

“Le dichiarazioni di Zingaretti sulla opportunità di “sbaraccare” il Nazareno, rese nel corso della trasmissione domenicale di Fabio Fazio, mi confermano nelle mie convinzioni sul metodo della democrazia rappresentativa, che può essere interpretata solo dai partiti costituiti su basi ideali e programmi condivisi con metodo democratico come raccomanda la Costituzione”.

Queste le parole con cui Pio Cerocchi parla dell’intervista al presidente del PD.

“Così gli iscritti attraverso lo strumento della delega attraverso i diversi livelli di rappresentanza – continua Cerocchi -si riuniranno a congresso per determinare i contenuti della linea politica e il gruppo dirigente, Segretario, compreso scelto per realizzarla.

Nel Pd, invece, continua ad avvenire il contrario: una base elettorale indefinita, soprattutto non iscritta, elegge un Segretario senza definiti impegni programmatici discussi e condivisi con il diritto di fare del partito quello che vuole.

Per questo non ho votato e ancora per questo penso che Zingaretti abbia l’obbligo di moralità politica di dimettersi da Presidente della Regione Lazio”

Essere al centro o dare centralità a una nuova proposta politica?

Ho letto con interesse l’intervista (Il Domani d’Italia, 10 marzo) a Guido Bodrato e seguo con eguale interesse il dibattito sulla ipotetica costruzione di un centro politico.

Sono d’accordissimo con Bodrato sulla esigenza che un possibile nuovo centro abbia bisogno prima di una cultura politica. Perché, come afferma lo stesso intervistato, “il Centro non è una categoria astratta tra dx e sx”.

Bene, mi pare però che qui ci sia la debolezza del dibattito giacché, al di là dei retorici – mi scuso col termine che non vuole offendere i soggetti interessati – richiami ai valori cristiani di solidarietà e del bene comune, non si va. Contenuti programmatici e politici non ne vedo, proposte di rinnovamento istituzionale o sociale neppure.

Quindi questo centro, per evitare che si riduca ad un centrino, che spazio deve occupare? Lo spazio tra destra e sinistra (che, si sa, è evaporato rispetto ai cliché del Novecento)? No, pure Bodrato lo ha bocciato. Oppure lo spazio che si richiama ai valori cristiani? Io non lo credo sufficiente, anzi ritengo sia velleitario, perché la secolarizzazione in atto e le spinte populiste offrono altri esempi per intendere i valori cristiani: Salvini se ne fa portavoce a modo suo! E Di Maio, col reddito di cittadinanza ai poveri, ne dà un altra versione.

Insomma, pure i cristiani non hanno più il monopolio dei valori solidali, che si offrono a vari soggetti. Quindi? Bella domanda. Insomma, gli elettori oggi non votano per i cristiani o per gli atei o per gli agnostici (e meno male!), ma, giustamente, votano per una politica. Ecco perché io insisto nel ritenere che il centro, per essere attraente, deve avere una politica “centrale”, utile al Paese, per cambiarne il vestito istituzionale e di governance.

Cristiani o no.

Esercizi spirituali all’insegna di Mario Luzi e Giorgio La Pira

Articolo già apparso sulle pagine di http://www.frammentidipace.it  a firma di Antonio Gaspari
Per predicare gli Esercizi Spirituali della Quaresima alla Curia, Papa Francesco ha chiamato don Bernardo Francesco Maria Gianni, abate di San Miniato al Monte a Firenze.
In una intervista pubblicata su “L’Osservatore Romano” del 9-10 marzo, il benedettino don Bernardo ha raccontato di aver accolto la decisione del Pontefice “con immensa trepidazione, una buona dose di incredulità e con grande gratitudine al Signore e al Papa. Mi ha colto un profondissimo senso di inadeguatezza che Francesco ha apprezzato, quando mi ha chiamato. Mi sono reso disponibile alla sua offerta, perché mi sono sentito chiamato, ma ho fatto presente di sentirmi molto inadeguato. E il Papa mi ha risposto che questa è un’ottima premessa per far bene gli Esercizi”.
Alla domanda sul perché la scelta di ispirarsi a Mario Luzi per gli Esercizi Spirituali, don Bernardo ha spiegato di averlo scelto “perché con la poesia esprimeva molto bene il tema sul quale potevo mettere a disposizione al meglio la mia anima e la competenza della mia vita monastica, cioè lo sguardo sulla città che la basilica di San Miniato al Monte permette. È assimilabile allo sguardo con cui Gesù guarda Gerusalemme. Non a caso sulla facciata della basilica c’è il volto di Cristo che benedice tutta Firenze. Siamo convinti che da mille anni la nostra presenza benedettina serva a rendere quello sguardo vivo riconoscibile, percepibile, desiderabile. La poesia di Luzi ha il grande pregio di aver interpretato tutto questo, parlando di memoria, di speranza, di fuoco degli antichi santi. Certamente, c’è il rischio che il fuoco si attenui nel tempo, ma con la forza dello spirito si può riattizzare”.
È a questo punto che subentra il riferimento a Giorgio La Pira. Secondo l’Abate, “questo è il senso dell’immagine degli ardenti desideri: cercare di dare continuità al grande sogno di La Pira. Che era il sogno con cui immaginava Firenze una nuova Gerusalemme, una città piena di bellezze teologali, capace di attirare tutte le nazioni per un progetto di pace e di giustizia”.
Una delle prime meditazioni è intitolata “Il sogno di La Pira” e don Bernardo ha precisato: “Si comprende bene come il riferimento alla città non è politico, sociologico, cioè meramente civile, ma teologale, biblico, spirituale. Bisogna cercare di testimoniare, interpretare dal punto di vista mistico come quello di La Pira. Nelle meditazioni vi aggiungo anche quei numeri di ‘Evangelii gaudium’ in cui il Papa invita a cercare Dio nella città. Questa è una prospettiva che per noi è estremamente eloquente e significativa, perché da San Miniato contempliamo la città e dalla città siamo invitati a cercare il suo mistero, la sua vocazione”.
Ma chi è don Bernardo?
L’Abate di San Miniato ha raccontato di aver passato gli anni liceali e universitari lontano dalla Chiesa. “Poi, nella notte di Natale del 1992, ho avuto la grazia di una vera e propria conversione e vocazione nella chiesa delle benedettine di Rosano. Essa resta per me come il santuario del mio incontro con il Signore. Proprio lì sono stato fortemente invitato dalla bellezza, dalla profondità e dall’intensità della liturgia del mistero del Natale, a entrare in una dimensione tutta per me: essere desiderato e cercato da un Dio che ti conquista con la sua piccolezza, con la sua infanzia, che in qualche modo si arrende alla sua forza per venirti incontro, sperando che a tua volta anche tu ti arrendi alla sua potenza di amore”.
“Quella celebrazione ha cambiato radicalmente la mia vita – ha continuato – tanto da farmi immediatamente pensare alla possibilità di diventare monaco, cioè di dedicare tutta la vita a cercare quelle orme, quelle tracce del Signore che quella notte ho trovato: finalmente le avevo ritrovate sul mio cammino”.

Doping e corruzione inquinano lo sport

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

sono lieto di accogliere i partecipanti al Congresso Annuale dell’Unione Ciclistica Europea, che, in questa occasione, ospita anche l’Assemblea della Confederazione Africana di Ciclismo. Saluto, in particolare, il Presidente dell’Unione Ciclistica Internazionale, il Sig. David Lappartient, e lo ringrazio per le parole che ha voluto rivolgermi.

Il rapporto tra Chiesa e sport ha una lunga storia e, nel tempo, si è sempre più consolidato. Lo sport può rivelarsi di grande aiuto per la crescita umana di ogni persona perché stimola a dare il meglio di sé, in vista del raggiungimento di una determinata meta; perché educa alla costanza, al sacrificio e alla rinuncia. Pensiamo, ad esempio, ai lunghi e impegnativi allenamenti o all’osservanza di una esigente disciplina di vita. La pratica di uno sport poi insegna a non scoraggiarsi e a ricominciare con determinazione, dopo una sconfitta o dopo un infortunio. Non di rado diventa l’occasione per esprimere con entusiasmo la gioia di vivere e la giusta soddisfazione per aver raggiunto un traguardo.

Il ciclismo, in particolare, è uno degli sport, che mette maggiormente in risalto alcune virtù come la sopportazione della fatica — nelle lunghe e difficili salite —, il coraggio — nel tentare una fuga o nell’affrontare una volata —, l’integrità nel rispettare le regole, l’altruismo e il senso di squadra. Se, infatti, pensiamo a una delle discipline più diffuse, il ciclismo su strada, vediamo come durante le gare tutta la squadra lavora unita — gregari, velocisti, scalatori — e spesso deve sacrificarsi per il capitano. E quando un compagno attraversa un momento di difficoltà, sono i suoi compagni di squadra a sostenerlo e ad accompagnarlo. Così anche nella vita è necessario coltivare uno spirito di altruismo, di generosità e di comunità per aiutare chi è rimasto indietro e ha bisogno di aiuto per raggiungere un determinato obiettivo.

Tanti ciclisti sono stati di esempio, nello sport e nella vita, per la loro integrità e coerenza, dando il meglio di sé in bicicletta. Nella loro carriera hanno saputo coniugare fortezza d’animo e determinazione nel raggiungere la vittoria, ma anche solidarietà e gioia di vivere, a testimonianza di aver scoperto quelle potenzialità dell’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, e la bellezza di vivere in comunione con gli altri e con il creato. Gli atleti hanno questa straordinaria possibilità di trasmettere a tutti, soprattutto ai giovani, i valori positivi della vita e il desiderio di spenderla per obiettivi alti e nobili.

Questo ci fa capire l’importanza, per chiunque pratica uno sport — dai praticanti occasionali, agli amatori, ai professionisti — di saper vivere sempre l’attività sportiva a servizio della crescita e della realizzazione integrale della persona. Quando, al contrario, lo sport diventa un fine in sé e la persona uno strumento al servizio di altri interessi, ad esempio il prestigio e il profitto, allora compaiono disordini che inquinano lo sport. Penso al doping, alla disonestà, alla mancanza di rispetto per sé e per gli avversari, alla corruzione.

Vorrei anche dire una parola sulle nuove specialità, nell’ambito del ciclismo, che si diffondono fra le nuove generazioni e che, come tutte le novità, possono suscitare resistenze e rappresentare una sfida per le discipline più tradizionali. Anche per voi vale l’impegno che la Chiesa ha assunto di volere ascoltare i giovani, di prendere a cuore le loro attese, i loro modi di esprimere il desiderio di vivere e di realizzarsi. È necessario accompagnare le nuove generazioni senza perdere di vista le sane tradizioni e la cultura popolare che, in tanti paesi del mondo, accompagnano il ciclismo e i suoi campioni.

Vi auguro, in questi giorni di incontro, un proficuo lavoro e, mentre vi chiedo di pregare per me, di cuore vi benedico. Grazie.

Papa all’Angelus: con il diavolo non si dialoga, si risponde con la Parola di Dio

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo di questa prima domenica di Quaresima (cfr Lc 4,1-13) narra l’esperienza delle tentazioni di Gesù nel deserto. Dopo aver digiunato per quaranta giorni, Gesù è tentato tre volte dal diavolo. Costui prima lo invita a trasformare una pietra in pane (v. 3); poi gli mostra dall’alto i regni della terra e gli prospetta di diventare un messia potente e glorioso (vv. 5-6); infine lo conduce sul punto più alto del tempio di Gerusalemme e lo invita a buttarsi giù, per manifestare in maniera spettacolare la sua potenza divina (vv. 9-11). Le tre tentazioni indicano tre strade che il mondo sempre propone promettendo grandi successi, tre strade per ingannarci: l’avidità di possesso – avere, avere, avere –, la gloria umana e la strumentalizzazione di Dio. Sono tre strade che ci porteranno alla rovina.

La prima, la strada dell’avidità di possesso. È sempre questa la logica insidiosa del diavolo. Egli parte dal naturale e legittimo bisogno di nutrirsi, di vivere, di realizzarsi, di essere felici, per spingerci a credere che tutto ciò è possibile senza Dio, anzi, persino contro di Lui. Ma Gesù si oppone dicendo: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”» (v. 4). Ricordando il lungo cammino del popolo eletto attraverso il deserto, Gesù afferma di volersi abbandonare con piena fiducia alla provvidenza del Padre, che sempre si prende cura dei suoi figli.

La seconda tentazione: la strada della gloria umana. Il diavolo dice: «Se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo» (v. 7). Si può perdere ogni dignità personale, ci si lascia corrompere dagli idoli del denaro, del successo e del potere, pur di raggiungere la propria autoaffermazione. E si gusta l’ebbrezza di una gioia vuota che ben presto svanisce. E questo ci porta anche a fare “i pavoni”, la vanità, ma questo svanisce. Per questo Gesù risponde: «Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai» (v. 8).

E poi la terza tentazione: strumentalizzare Dio a proprio vantaggio. Al diavolo che, citando le Scritture, lo invita a cercare da Dio un miracolo eclatante, Gesù oppone di nuovo la ferma decisione di rimanere umile, rimanere fiducioso di fronte al Padre: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore tuo Dio”» (v. 12). E così respinge la tentazione forse più sottile: quella di voler “tirare Dio dalla nostra parte”, chiedendogli grazie che in realtà servono e serviranno a soddisfare il nostro orgoglio.

Sono queste le strade che ci vengono messe davanti, con l’illusione di poter così ottenere il successo e la felicità. Ma, in realtà, esse sono del tutto estranee al modo di agire di Dio; anzi, di fatto ci separano da Dio, perché sono opera di Satana. Gesù, affrontando in prima persona queste prove, vince per tre volte la tentazione per aderire pienamente al progetto del Padre. E ci indica i rimedi: la vita interiore, la fede in Dio, la certezza del suo amore, la certezza che Dio ci ama, che è Padre, e con questa certezza vinceremo ogni tentazione.

Ma c’è una cosa, su cui vorrei attirare l’attenzione, una cosa interessante. Gesù nel rispondere al tentatore non entra in dialogo, ma risponde alle tre sfide soltanto con la Parola di Dio. Questo ci insegna che con il diavolo non si dialoga, non si deve dialogare, soltanto gli si risponde con la Parola di Dio.

Approfittiamo dunque della Quaresima, come di un tempo privilegiato per purificarci, per sperimentare la consolante presenza di Dio nella nostra vita.

La materna intercessione della Vergine Maria, icona di fedeltà a Dio, ci sostenga nel nostro cammino, aiutandoci a rigettare sempre il male e ad accogliere il bene.


Dopo l’Angelus

Cari fratelli e sorelle,

ieri a Oviedo, in Spagna, sono stati proclamati beati i seminaristi Angelo Cuartas e otto compagni martiri, uccisi in odio alla fede in un tempo di persecuzione religiosa. Questi giovani aspiranti al sacerdozio hanno amato così tanto il Signore, da seguirlo sulla via della Croce. La loro eroica testimonianza aiuti i seminaristi, i sacerdoti e i vescovi a mantenersi limpidi e generosi, per servire fedelmente il Signore e il popolo santo di Dio.

Rivolgo un cordiale saluto alle famiglie, ai gruppi parrocchiali, alle associazioni e a tutti i pellegrini venuti dall’Italia e da diversi Paesi. Saluto gli studenti di Castro Urdiales (Spagna) e i fedeli provenienti da Varsavia; come quelli di Castellammare di Stabia e Porcia. Saluto i Piccoli cantori di Pura (Svizzera), i ragazzi del decanato di Baggio (Milano), quelli della professione di fede di Samarate, i cresimandi di Bondone e di Paullo, i giovani di Verona e gli alunni della scuola “Emiliani” dei Padri Somaschi di Genova.

Auguro a tutti che il cammino quaresimale, da poco iniziato, sia ricco di frutti; e vi chiedo un ricordo nella preghiera per me e per i collaboratori della Curia Romana, che questa sera inizieremo la settimana di Esercizi Spirituali.

Buona domenica! Buon pranzo! E arrivederci!

World Kidney Day: la giornata di sensibilizzazione che si celebra il 14 marzo

World Kidney Day è una  campagna di sensibilizzazione globale  finalizzata a sensibilizzare sull’importanza dei nostri reni.

Il World Kidney Day ritorna ogni anno. In tutto il mondo si svolgono centinaia di eventi dalle proiezioni pubbliche in Argentina alle maratone di Zumba in Malesia. 

Consapevolezza dei comportamenti preventivi, consapevolezza dei fattori di rischio e consapevolezza su come convivere con una malattia renale. 

Gli obbiettivi sono:

  • Aumentare la consapevolezza dei nostri “reni” il diabete e l’ipertensione sono fattori chiave di rischio per la malattia renale cronica (CKD).
  • Incoraggiare lo screening sistematico di tutti i pazienti con diabete e ipertensione per CKD.
  • Incoraggiare comportamenti preventivi.
  • Educare tutti i  medici sul loro ruolo chiave nel rilevare e ridurre il rischio di insufficienza renale cronica, in particolare nelle popolazioni ad alto rischio.
  • Sottolineare il ruolo importante delle autorità sanitarie locali e nazionali nel controllo dell’epidemia di CKD. 
  • Incoraggia il trapianto come opzione ottimale per l’insufficienza renale e l’atto della donazione di organi come iniziativa salvavita.

Suor Alessandra Smerilli: «L’economia ripensi se stessa per ritrovare la sua anima»

Articolo già apparso sulle pagine del “Il sole 24 ore” a firma di Paolo Bricco

L’Occidente ha ridotto la povertà. La globalizzazione trainata dall’Europa e dagli Stati Uniti ha creato le condizioni per la crescita economica di pezzi interi del mondo. Ora, però, l’Occidente deve diminuire le disuguaglianze. Gli oligopoli economici e reddituali, tecnologici e culturali hanno aumentato la concentrazione di risorse, di potere e di influenza nelle mani di poche strutture e di poche persone».

Suor Alessandra Smerilli è una delle economiste più ascoltate dalla Cei – i vescovi italiani, radunati nella Conferenza episcopale italiana – e dal Vaticano al tempo di Bergoglio. Siamo al ristorante Sanacafé, quartiere Prati, a un quarto d’ora a piedi dalla Via Conciliazione in cui si trova il Pontificio Consiglio della Cultura (Suor Alessandra fa parte della consulta femminile) e a cinque minuti dalla Lumsa, dove dopo il nostro pranzo lei andrà a condurre un esperimento basato sulla teoria dei giochi finalizzato a comprendere se esistono diversità sostanziali nei comportamenti economici fra i religiosi e i laici.

Oggi Suor Alessandra non ha il velo, indossa un maglioncino blu e ha una camicia bianca con una costina centrale azzurra con sopra il rosario. Ha i capelli corti e il viso tondo, gli occhiali e uno Swatch verde e marrone al polso («Me lo hanno regalato degli amici svizzeri»). Ha una simpatia naturale e una naturale propensione a trasformare il sorriso in riso. Vive i normali affanni di tutti, «Chi ritiene che essere suora sia riposante pensando alla vita contemplativa, non sa quanto invece possa essere faticoso e impegnativo nella vita attiva». Su questo, nel 2013, ha scritto un libretto non privo di autoironia per le edizioni di Città Nuova intitolato appunto Suore.

«Papa Bergoglio – dice – nella sua enciclica Laudato Si’ ha espresso il messaggio profetico secondo cui tutto è connesso: l’ecologia e l’economia, il lavoro e la spiritualità. Esiste una continuità con la Caritas in Veritate di Papa Ratzinger. La questione non è avere più o meno mercato. Il nodo è la natura del mercato e anche la sua declinazione reale, nelle diverse fasi storiche. Papa Ratzinger si è soffermato sul tema cruciale della vocazione del mercato, definendolo come istituzione, se c’è fiducia generalizzata, che permette l’incontro tra le persone. I pontefici non sono economisti. I pontefici sono pastori che dichiarano la loro visione del mondo e manifestano le loro preoccupazioni. Come, di fronte ad alcune forme inaccettabili di realizzazione del mercato, ha fatto nella Evangelii Gaudium Papa Bergoglio, con il concetto molto forte del no all’economia che uccide, l’economia delle diseguaglianze, e del sì, per citare le sue parole “all’economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione”».

Al Sanacafé, un locale di gusto internazionale senza il timbro da osteria e senza la cifra anni Ottanta che ancora oggi perdura a Roma nei locali più pretenziosi e ben frequentati, la cucina è biologica, i tavoli sono delle tavolate in cui si consuma il pasto con i propri commensali a fianco di sconosciuti, il marketing e la comunicazione si fondono con un’idea comunitaria del desinare e con una prospettiva ultrasalutista ma non penitenziale del cibo.

Suor Alessandra, prima di scorrere il menù, si sofferma diverse volte sulle differenti declinazioni della diseguaglianza. Diseguaglianze economiche. Ma anche diseguaglianza fra uomo e donna. Pure nella Chiesa. «Nella Chiesa c’è poco spazio per le donne a livello di struttura e di gerarchia. Papa Francesco sta facendo molto per aumentare questo spazio. La diversità dello sguardo garantisce scelte più universali». Il tema delle diseguaglianze è il perno del pensiero e delle attività di questa suora dell’Istituto Figlie di Maria Ausiliatrice Salesiane di Don Bosco che è cresciuta in Abruzzo, ha un diploma di maturità al liceo scientifico Raffaele Mattioli di Vasto, è figlia di una parrucchiera (Lucia) e di un operaio della Magneti Marelli (Nicola) oggi in pensione e ha un fratello di nome Giuseppe, chef a Ningbo, a 300 chilometri da Shanghai, che è spesso ospite della televisione cinese dove insegna come si fanno il pane e la pasta.

Dal 13 al 16 marzo, Suor Alessandra sarà al seminario di Treviso della pastorale sociale della Cei su “Giovani, lavoro, sostenibilità”, dove avrà l’incarico di coordinare appunto il laboratorio su giovani e lavoro. Lo scorso ottobre, Papa Francesco l’ha nominata uditrice al sinodo dei vescovi sui giovani, dove ha tenuto un intervento. In quella occasione, Suor Alessandra aveva appena detto in sala stampa «economia ed ecologia hanno la stessa radice. Non si può ascoltare il grido dei poveri, e dei giovani fra i poveri, senza ascoltare il grido della terra, perché sono lo stesso grido», quando il suo account twitter è stato preso di mira da dei troll: «È stata una cosa pesante. Ma si è trattato di un episodio».

Suor Alessandra a fine febbraio ha svolto in Vaticano una relazione su ecologia, economia e politica in un seminario in preparazione del sinodo sull’Amazzonia, che si terrà a ottobre. L’Amazzonia, il Sud America. Uno dei cuori emotivi e culturali del pontificato di Bergoglio. Ma, anche, una delle metafore – fra propositi e azione, politica e scelte individuali – del pensiero economico del Santo Padre, «che è stato accolto molto bene dagli studiosi, per esempio Jeffrey Sachs e Paul Krugman, Joseph Stiglitz e Partha Dasgupta, ma che stenta a essere fatto proprio in maniera convinta e profonda dai cattolici: basta pensare alla poca attuazione, nei comportamenti di tutti i giorni, della ecologia integrale. È importante, per esempio, ricordare le parole di Papa Francesco nella Laudato Si’ sulla responsabilità sociale dei consumatori: “Acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico”. Per questo “il tema del degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi”». Suor Alessandra lo dice mentre iniziamo a mangiare come antipasto lei una insalata verde con spinacini e finocchi e io delle polpettine di melanzane.

Il tema evangelico della visione dell’economia all’interno della missione della Chiesa si incrocia con il profilo culturale della ricerca economica. C’è una relazione fra il magistero ecclesiale e la critica ai metodi classici della costruzione del pensiero della e sulla economia. Suor Alessandra ha due dottorati di ricerca (il primo alla Sapienza di Roma e il secondo alla University of East Anglia di Norwich), è professore ordinario all’Auxilium (l’unica università pontificia affidata alle donne) e visiting professor alla University of Pennsylvania. «Ci sono alcuni fondamenti culturali dell’economia che non persuadono. Penso innanzitutto all’idea che l’economia sia come la fisica, regolata da leggi naturali, quasi che sia una scienza esatta. Quindi, al principio di razionalità, secondo cui gli operatori economici assumono le proprie decisioni sempre in maniera razionale. Oppure, al concetto di equilibrio ottimale dell’allocazione delle risorse che ne discende. È interessante notare che l’idea secondo cui il soggetto non è una persona, ma il soggetto è una monade che pensa a sé ed è opportunista non è soltanto alla base della teoria economica classica, ma viene anche trasmessa agli studenti, condizionando la loro cultura e plasmando la loro visione del mondo».

Il dubbio di fondo sulla costruzione del pensiero economico nasce in Suor Alessandra al terzo anno di università. Ne parla come di una vera e propria illuminazione culturale, mentre passiamo al secondo: lei dei calamari croccanti e io un rollè di branzino. «Allora ho conosciuto l’economia di comunione di Chiara Lubich, la fondatrice del Movimento dei Focolari, e l’economia civile, studiata da Stefano Zamagni e da Luigino Bruni. Il dottorato italiano è stato sulla we rationality, la razionalità del noi. Il dottorato inglese sulla community of advantage, il vantaggio della dimensione comunitaria. Ho lavorato a Norwich con Robert Sugden, che nel solco della tradizione di Hume, Mill e Hayek ha sviluppato una nuova concezione dell’economia comportamentale, unendo esperimenti e teoria dei giochi, con la prospettiva di fare dialogare la scienza economica e la filosofia morale. La ricerca di una alternativa culturale o, meglio, di una critica nel metodo prima che nei contenuti, è oggi meno minoritaria di una volta. Anche se il mainstream, la corrente principale e dominante, è sempre il mainstream. Il grande blocco inscalfibile, nella diffusione di una concezione provvidenzialistica del mercato, è stato a lungo la Scuola di Chicago».

Sarà forse un caso, ma la prima – e l’unica – donna a vincere il Nobel per l’Economia – Elinor Ostrom – si è occupata di beni comuni. Mentre cediamo alla tentazione e dividiamo in due un tortino di cioccolata, Suor Alessandra racconta come tutto ebbe inizio: «La mia vocazione all’economia nasce all’interno del percorso di obbedienza. Io pensavo di iscrivermi a psicologia o a scienze dell’educazione, per lavorare con i ragazzi delle periferie. La mia madre superiora Vera Vorlova, una ceca molto lungimirante, mi chiese di pensare alla facoltà di economia perché, a suo avviso, l’economia sarebbe stata sempre più centrale. Non mi era mai venuto in mente. Di primo acchito mi sentii persa. Poi, però mi fidai e mi affidai. Dissi di sì, facendo notare che se si pensava a compiti gestionali non avrei garantito nulla, dato che non ho spirito pratico. E, così, eccomi qui».

Eccola qui, dunque: «Sono donna, sono suora e mi occupo di economia. Più fuori dal mainstream di così», sorride.

Il centro ha bisogno di cultura politica, non può essere un’invenzione di comodo

La sobrietà non va confusa con la negligenza. Guido Bodrato, parlamentare e ministro negli anni ‘80, figura eminente della sinistra democristiana e tenace assertore dell’autonomia del cattolicesimo democratico e popolare, interviene nel dibattito politico a cadenza regolare, ma con un giusto distacco intellettuale. Il suo ragionare conserva la severa essenzialità dei tempi lungamente spesi nelle lotte in prima linea.  Certo, il principio di sobrietà non si traduce, da parte sua, in un’analisi improvvisata. “Mi piace andare all’essenziale – dice – non mi piacciono i giri di parole. Per me il “centro” non è una categoria astratta tra la destra e la sinistra. Queste categorie debbono calarsi nella storia e nelle sue contraddizioni”.

Prodi è intervenuto, a riguardo, riconoscendo la necessità di una nuova formazione politica di centro. Ha parlato di un soggetto liberal moderato. 

Conosco Prodi, lo considero un amico. Quindi conosco il suo modo di pensare. Una volta mi interruppe affermando di non essere “un’anima bella,  essendo in politica per vincere”. Voleva andare oltre la Dc. Ora, nella vecchia Dc rimproveravamo ai dorotei l’inclinazione a stare comunque dalla parte del potere, pensando che il potere logora chi non ce l’ha. Comunque Prodi ha un’idea precisa di Europa e quindi è un interlocutore obbligato.

Secondo te non crede – o almeno non crede fino in fondo – a ciò che pure ha dichiarato?  Prodi non scommette sinceramente sul centro? 

Devo ricordare che fu la lista dell’Asinello alle europee del 1999 a dare il colpo di grazia a quel centro rappresentato dal Ppi, generosa formula di prosecuzione, dopo la caduta della Prima Repubblica, del  cattolicesimo popolare e democratico. Tuttavia non ci sono motivi per irrigidirsi sul dissenso maturato in anni ormai lontani; nei quali, tuttavia, cercavamo di rinnovare la tradizione del “partito di ispirazione cristiana”.

Beh…morì il Partito popolare ma nacque la Margherita. Non fu una risposta, in circostanze sempre più difficili, alla crisi di un partito ridotto al lumicino?

Non mi convinse l’idea di una democrazia caratterizzata dal rapporto diretto del leader con l’opinione pubblica, la polemica implicita con la forma partit. Arturo Parisi, interprete della linea post-referendaria “alla Segni”, era convinto che si trattasse di seguire un elettorato che aveva già scelto il bipolarismo. Io invece pensavo che in quella fase, di svolta storica, una nomenclatura – ovvero ciò che restava della Prima Repubblica –  stava perdendo il radicamento con il suo elettorato, al centro come a sinistra. Di fatto l’esperimento della Margherita non ha retto e dovette riproporsi, con altro indirizzo strategico, sotto il mantello del Partito democratico.

Non ti convince neppure il Partito democratico? 

“Ero assolutamente favorevole all’alleanza con la sinistra, non al “partito unico” (poco più che una scorciatoia). Oggi quell’idea riprende a circolare, ma in una situazione radicalmente cambiata. Non penso si possa semplicemente tornare indietro. Molti pensano – almeno così pare – di affiancare un centro democratico a una sinistra riformista. Da sola, infatti, dove va la sinistra? E dove andrebbe il centro? Nessuna forza politica può ambire in solitudine alla piena difesa dell’europeismo. La situazione è degenerata, basti osservare come sia stata mortificata la lezione degasperiana – sempre più valida – sull’integrazione economica e politica del Vecchio Continente. Giocare sulla semplificazione del messaggio politico, portando il Partito democratico nel campo del socialismo europeo, non ha sciolto i nodi, li ha semplicemente ignorati.

Tuttavia i Popolari europei sono collocati irrimediabilmente a destra. È un problema non da poco.

Tant’è che sono stato tra i propugnatori dell’uscita dei popolari italiani dal Ppe, quando la maggioranza degli europarlamentari Popolari, guidata dai tedeschi, ha scelto di archiviare la propria radice “democratica e cristiana” per far posto ai Conservatori europei e a Forza Italia. E ciò con il solo obiettivo di conquistare la pole position nel parlamento di Strasburgo. Ma l’idea di dare vita, nel 2004, al Partito Democratico Europeo, è stata abbandonata. Poi c’è stata la Brexit e ora è arrivato Orbán, il sovranista ungherese, di cui il Ppe si vorrebbe liberare, poiché in questa nuova fase storica, lo scoglio contro cui l’Unione europea potrebbe naufragare è esattamente il sovranismo, una drammatica regressione al nazionalismo

Sì, ma nel frattempo manca in Italia il partito di radice autenticamente popolare su cui far leva ai fini di questa nuova costruzione politica europea. Da noi, appunto, manca il centro. Che fare?

“Il centro ci sarà o non ci sarà a seconda della ricchezza di contenuto ad esso attribuibile. Senza cultura politica, non prenderà forma alcun centro credibile. De Gasperi ci ha obbligato a riflettere sul “centro che guarda a sinistra”. Lo statista trentino era intransigente nel chiudere il varco a una declinazione in senso conservatore e moderato del cattolicesimo politico. Storicamente, infatti, il centro alleato della destra ha finito ben presto per essere assorbito dalla destra. Ricordo che Jaime Valdés, leader cileno della Dc, diceva: “Se vai con la destra, è la destra che vince”.

E quando il centro guarda a sinistra? Alcuni rovesciano l’accusa, perché contestano la cedevolezza alle forze di sinistra.

Fino a quando è durata l’esperienza del Ppi siamo riusciti a preservare una identità, che tuttavia doveva e deve misurarsi con vari mutamenti radicali. Ralf Dahrendorf invitava a riflettere, sin dagli ultimi anni del ‘900, sul fatto che la globalizzazione avrebbe favorito la competitività a danno della solidarietà, l’autoritarismo a danno della democrazia. Poi è venuta la rivoluzione digitale e tutto è diventato più difficile. E sembra anche riemergere, dalle ceneri del ‘900, la suggestione che sia la violenza la matrice della storia.

La sinistra vuole fare la sinistra. Soffre di solipsismo….

Eppure la sinistra, nei momenti migliori, ha tratto giovamento dal confronto con il cattolicesimo democratico. È la ragione che induce a rinverdire questa attitudine al dialogo, sale della democrazia,  provando a illuminare i molti risvolti positivi di una storia che comincia con i “liberi e forti” di Luigi Sturzo e arriva fino alla “democrazia difficile” di Aldo Moro.

E dunque, come ricominciare? A quali condizioni e per quali sentieri?

Non ci sono scorciatoie. Un polo liberal moderato, così come lo definisce Prodi, non è il nostro destino. La moderazione fa parte dello stile di governo, non segna la figura del cattolicesimo democratico. Dei liberali, infine, abbiamo l’idem sentire di un discorso sulla società, benché l’ispirazione cristiana ci sproni a cogliere sempre l’ansia di giustizia e il vincolo della solidarietà. Si può ricominciare – non lo escludo – a patto però che la fatica di “nuove sintesi” accompagni costantemente il duro lavoro di ricostruzione. Da un piccolo seme spunta e cresce una pianta: questa è la fiducia che ci deve sostenere. In seguito, per trascinamento, verrà anche il tempo dell’organizzazione.

Dalla A (Abruzzo) alla Z (Zingaretti)

Le elezioni prima in Abruzzo e poi in Sardegna, e le successive primarie del PD hanno fornito elementi concreti per un’analisi dell’evoluzione politica nel nostro Paese.

Le due consultazioni regionali hanno dato in sostanza gli stessi responsi.

L’affluenza dei votanti è calata sensibilmente in Abruzzo (53% contro 63% regionali 2014 e 75% politiche 2018) e ha tenuto meglio in Sardegna (54% contro 52% regionali 2014 e 63% politiche 2018). La disaffezione alle urne rimane preoccupante, con un astensionismo al di sopra del 40%.

Vince il centrodestra a trazione leghista. Da notare la capacità di intendersi sul piano locale tra forze sui fronti opposti in Parlamento. Il richiamo del potere nei territori rimane molto forte ed è un collante che unisce la nuova destra sovranista (Salvini-Meloni) con i vecchi “berluscones”.

Tracollo del Movimento 5 Stelle. In Sardegna da 370.000 voti a 85.000: in soli 12 mesi 285.000 sardi sono fuggiti dal M5S. Meno 77%, cioè più di tre elettori su quattro hanno abbandonato Di Maio & C. Gli elettori delle due regioni hanno dimostrato di aver ben compreso l’inconsistenza dei grillini impietosamente dimostrata nei pochi mesi di governo. Chi li aveva votati con spirito qualunquista di destra ha fatto in fretta a preferire Salvini, dimenticandone in fretta i toni antimeridionali. Chi invece li aveva eletti a paladini della giustizia sociale, della trasparenza, dell’onestà contro la corruzione delle caste, li ha pesati, oltre che sull’imbarazzante incompetenza, anche su scivoloni familiari e politici, come il salvataggio dell’alleato Salvini dal processo. E la conclamata debolezza elettorale dei pentastellati li consegna ancor più nelle mani del furbo alleato, visto che la prospettiva di elezioni anticipate in caso di rottura significherebbero il probabile dimezzamento dei voti e degli eletti. Prospettiva che fa inorridire sia i peones sia i capataz del Movimento: “E quando mai ci ricapita?”, potrebbero dire in coro da Di Maio e Toninelli in giù.

Il centrosinistra rialza la testa. Resta lontano dai vincitori, ma ottiene risultati nettamente migliori delle pessimistiche previsioni della vigilia, grazie a candidati presidenti di Regione stimati e inclusivi, con un PD a basso profilo e la proliferazione di liste civiche a varie sfumature, di orientamenti culturali diversi e capaci di dare spazio alla corsa di molti candidati stimolati a ben figurare.

La vitalità a sinistra è poi stata anche confermata dalle primarie del PD. Le basse aspettative della vigilia (tutti e tre i candidati si auguravano un milione di votanti) hanno fatto ritenere un successo l’affluenza di circa 1.600.000 persone (fonte www.partitodemocratico.it): si tratta comunque di un risultato inferiore di circa 250.000 unità rispetto alle ultime primarie del 2017 che avevano incoronato Renzi per la seconda volta (e lì si erano persi un milione di votanti rispetto al 2013).

Più che nell’affluenza, il dato significativo sta nelle proporzioni del successo di Nicola Zingaretti, con i due terzi dei consensi. Non è un mistero per nessuno che l’ultimo PD era una creatura di Renzi, il partito del capo. Da domenica 3 marzo i gruppi dirigenti cambieranno per effetto delle primarie, e il partito inizierà una nuova fase. Ma i gruppi parlamentari restano gli stessi, formati in larghissima parte dai nominati del fiorentino, prima docili esecutori e oggi orfani in cerca di riferimenti. Renzi, ulteriormente indebolito dalle vicende familiari, si sta ritagliando un ruolo extra PD – presentatore televisivo, scrittore, conferenziere – ma pare al momento avere accantonato l’idea di farsi un suo partito (“In cammino”, stile Macron) per i deludenti sondaggi commissionati. È destinato comunque a rimanere un ingombrante convitato di pietra nel PD, anche se le urne dem hanno dato una indicazione netta.

Nelle primarie si sono misurati i renziani duri e puri (con il duo Giachetti/Ascani) i renziani pentiti (sostenitori di Martina) e i non-renziani che hanno puntato su Zingaretti. Il popolo delle primarie è riuscito a compiere la necessaria svolta che la classe dirigente dem ha evitato accuratamente per un anno: la resa dei conti con il renzismo. Il governatore del Lazio si è formato negli enti locali, si è conquistato credibilità vincendo elezioni amministrative dall’esito non scontato, ha tenuto un profilo distaccato negli anni di Renzi superstar e non si è cimentato nel salto sul carro del vincitore. Tutti meriti che giustificano ampiamente l’ottimo risultato ottenuto.

Intravediamo però due debolezze nella sua leadership.

Anche lui non si potuto sottrarre dall’abbraccio dei “renziani di comodo”, quei leader che, pur lontani per indole e cultura dal rottamatore, sono saliti opportunisticamente sul suo carro permettendogli di fare tutti i danni poi evidenziati dal tempo galantuomo. Giorgio Merlo ha già fatto il nome di Piero Fassino, cui possiamo aggiungere quelli di Dario Franceschini, forse il miglior “governativo” di estrazione cattolica, e Cesare Damiano, altro esempio di “governativo” con radici a sinistra.

Con appoggi di tal sorta, la “svolta” rappresentata da Zingaretti si scolorisce in partenza.

Il secondo limite sta nella sua proposta politica mirata al ricompattamento della sinistra. Se è certamente vero ciò che scrive Ilvo Diamanti sul fatto che non si passerà dal PdR (Partito di Renzi) al PdZ (Partito di Zingaretti), con altrettanta convinzione possiamo dire che si prospetta un ritorno dal PdR non al PD ma a un nuovo PdS, il Partito della Sinistra. Il limite che ha avuto il PD prima della deriva renziana, è stato proprio quello di non riuscire a superare le tentazioni egemoniche dei post-comunisti. Come fatto emblematico, ricordo la foto sul palco di Bersani con tre giovani da lui arruolati per arginare la novità Renzi nel 2012, Speranza, Giuntella e la Moretti: nell’euforia per la vittoria era ricomparso il saluto a pugno chiuso. Un gesto caduto in disuso persino tra i militanti di rifondazione comunista ma uscito dal cuore ai giovani dirigenti PD.

Il “partito del capo” ha fatto una brutta fine, ma anche il “partito plurale” ha avuto i suoi bravi limiti. Riuscirà Zingaretti dove hanno fallito l’americano Veltroni e l’ecumenico Bersani? È lecito dubitarne. Dopo tutto, con una legge elettorale d’impianto proporzionale che porta a un ritorno delle identità per trovare successive intese e alleanze di governo, lo stesso Zingaretti si è dato il compito di ricompattare la sinistra, rinunciando a vocazioni maggioritarie.

In questo scenario, cosa possono fare i democratici popolari di ispirazione cristiana?

Ci sarà chi cercherà di conservare uno spazio nel partito del nuovo vincitore: un Delrio, tanto per fare un nome, da colonnello di Renzi, poi sponsor di Martina alle primarie, dopo neppure 48 ore si è già detto convinto sostenitore di Zingaretti…

Uscendo dalle umane miserie e parlando di politica, appare evidente che esiste lo spazio per una nuova forza di centrosinistra, per un nuovo partito dei “liberi e forti”, ancorato ad un programma concreto di riforme, laico nell’agire ed evangelicamente ispirato.

Il difficile sarà passare dalle parole ai fatti, in un’epoca caratterizzata dal leaderismo mediatico. Dato che di Sturzo e De Gasperi non se ne vedono in giro, bisogna rimboccarsi le maniche e partire dal basso.

Fonte http://www.associazionepopolari.it/

Se la sinistra guarda l’elefante sbagliato

Articolo già apparso sulle pagine di http://www.libertaeguale.it a firma di di Giorgio Armillei e Stefano Ceccanti

Trump, Brexit, le elezioni italiane del 4 marzo 2018 hanno squassato gli equilibri tra elettori e partiti della sinistra euroatlantica e messo in moto un vasto processo di ripensamento. Un ripensamento cha va delineando un mainstream fatto da alcuni leader della sinistra “della grande recessione”: Corbyn, Sanders, Ocasio-Cortez. Collocarsi nel mainstream non significa ovviamente andare d’accordo su tutto.

Il neoliberismo è la causa della marea populista?

Tuttavia, un’aria di famiglia si respira, qualcuno lo chiama il millennial socialism.

La diagnosi ridotta all’osso è semplice: il neoliberismo sponsorizzato dalla “terza via” dei Clinton, dei Blair, degli Schroeder e, in quota, dei Renzi, è la causa della crisi della sinistra, prima ancora è la causa dei danni della globalizzazione, e in conclusione è la causa della marea populista.

Anche la terapia è semplice: più stato contro il mercato e la globalizzazione, più sovranità politica contro i processi incontrollabili dell’economia, più tasse sui redditi dei ricchi, più pianificazione dirigista per proteggere l’ambiente: nel linguaggio dei socialist democrats il green new deal. Insomma, stato e slowbalisation al posto di mercato, società e globalizzazione.

Anche l’Unione europea non se la passa tanto bene dentro questo schema: troppo ordoliberale.

Il millennial socialism assomiglia troppo al populismo

Anche se i millennial socialist si pongono all’opposizione delle tendenze populiste e sovraniste, è francamente difficile distinguere le loro diagnosi e le loro ricette da quelle dei partiti populisti e sovranisti. Provate a distinguere le ricette di Corbyn da quelle di Wauquiez. Lo stesso Zingaretti ha detto no al CETA come tutti i partiti populisti e nazionalisti. Ovviamente la sovrapposizione non è totale ma il mood è il medesimo.

Non tutti vanno in questa direzione che potremmo definire di polarizzazione populista: un populismo con matrici di sinistra accanto a un populismo con matrici di destra.

Macron, l’area liberale intermedia di CDU e SPD, alcuni tra i partiti Verdi, la sparuta (ancora?) truppa di The Indipendent Group nel parlamento UK. E se vogliamo dilettarci in letture “elitarie” i pochi economisti liberali che nel Boston Review Forum smontano le tesi ortodosse di Rodrik o Alberto Mingardi che prova a spiegare come della dittatura neoliberista non si riesca a trovare traccia nel nostro paese. Gli avversari dei nazionalpopulisti sono dunque in campo ma certo non sanno cosa farsene della vecchia distinzione tra destra e sinistra. Se usano quella mappa i loro localizzatori rischiano di non vedere nulla.

Oltre l’asse destra-sinistra

Anche il dibattito teorico internazionale nella sinistra sembra un pochino più articolato e complesso delle semplificazioni del millennial socialism.

Andrew Gamble in UK, che pure non è tenero nei confronti delle politiche degli anni Novanta, fa propria l’idea per la quale il conflitto politico si è oggi ridisegnato abbandonando l’asse destra sinistra e collocandosi lungo quello che vede contrapposti populisti e progressisti, tra i quali ultimi con certezza si possono annoverare parti del cosiddetto centrodestra.

E l’australiano Rob Manwaring, in una sorta di istantanea comparativa tra anglosfera ed Europa continentale, pur richiamando la sinistra al dovere di mettere a fuoco con lucidità la minaccia che grava sul sistema delle politiche sanitarie e sociali del welfare, non manca di notare come la via corbyniana sia tutt’altro che chiaramente identificabile come il nuovo brand della sinistra.

La scintilla di Provenzano

Tra gli analisti italiani non sembra invece avere dubbi Giuseppe Provenzano con il suo “La sinistra e la scintilla” da poco uscito per Donzelli. Il libro si distende su un’ampia quantità di temi ma anche in questo caso lo schema principale è abbastanza semplice. Parte con una dichiarazione manifesto: il governo gialloverde è il più a destra della storia della Repubblica. Da questa convinzione deve ripartire la sinistra in Italia. Nessun dubbio per Provenzano, nessun sospetto “album di famiglia”: il reddito di cittadinanza è di destra, anticipare la pensione è di destra, ridurre la flessibilità in entrata del mercato del lavoro è di destra.

Provenzano sembra non cogliere le radici a sinistra di gran parte di queste politiche e finisce curiosamente con il rovesciare e confondere i piani. Il governo gialloverde è di destra, la sinistra deve tornare a fare la sinistra, i moderati debbono pensare a riorganizzarsi per puntare ad un’alleanza a sinistra.

Ma il crinale su cui colloca la sua sinistra, finalmente liberata dai complessi di inferiorità verso l’egemonia neoliberale, è esattamente quello su cui si collocano i governi e i partiti nazionalpopulisti. Con le connesse ricette: sovranità politica e democrazia economica, interesse nazionale, interventismo per combattere i monopoli e orientare l’innovazione.

Per dare gambe alla sua proposta Provenzano ha bisogno così di due antiche ricette togliattiane: annullare la distinzione tra riformisti e radicali e stringere un patto con i moderati per far fronte al comune avversario di destra. Ma al di là della implicita e complessa eredità togliattiana, quello che appare difficilmente riproducibile è l’intreccio tra stratificazione sociale e sistema politico che innervava lo schema togliattiano. Come se il tramonto della “sinistra di centro” del trio Clinton, Blair, Schroeder potesse significare il ritorno puro e semplice allo schema dei gloriosi trenta.

La vecchia moneta socialista

Provenzano è per altro coerente: il suo obiettivo, in perfetto allineamento con il mainstream internazionale, è rimettere in circolazione la moneta del socialismo. Cos’è per lui socialismo, oltre all’interventismo e alla sovranità economica? Nulla di nuovo. Eguaglianza, lavoro, valore della cosa pubblica, redistribuzione di risorse economiche e di potere politico, progressività fiscale e welfare state.

E come può il PD tornare a queste nobili radici? Non certo costruendo o peggio ancora sciogliendosi dentro indistinti fronti comuni di tutte le forze che si oppongono al nazionalpopulismo, superando quindi la distinzione tra destra e sinistra. Può farlo se diventa la casa di una sinistra plurale, superando non la sinistra ma la distinzione tra riformisti e radicali, lavorando per definire una nuova idea di socialismo.

L’elefante di Milanovic o quello di Lakoff?

A suggello della sua ricostruzione Provenzano chiama, come era facile prevedere, l’elefante di Milanovic, il mantra di ogni rifondatore della sinistra che si rispetti. Qui Provenzano fa largo uso del pregiudizio sociologico: la scomparsa del centro moderato nel sistema politico è la conseguenza della ritirata del ceto medio nella stratificazione sociale. Attenzione però a non sbagliare bersaglio, dice Provenzano: l’avversario della classe media occidentale non sono le classi povere dei paesi emergenti ma i «plutocrati globali», del mondo ricco e di quello emergente. Ancora una volta è difficile non sorprendersi di fronte a tanta obiettiva convergenza tra le posizioni di questi rifondatori della sinistra e quelle dei nazionalpopulisti.

Potremmo dire che Provenzano, come molti rifondatori, sbaglia elefante. L’elefante da osservare con attenzione non è quello dei grafici di Milanovic ma quello delle analisi linguistiche di Lakoff: don’t think of an elephant.

Milanovic ci racconta come la globalizzazione incida sulla distrribuzione dei redditi. E racconta tutta la storia della globalizzazione, i costi come i benefici. Non ne racconta solo una parte: le difficoltà del ceto medio nei paesi avanzati, difficoltà che per altro molti studi (Norris Inglehart tra gli altri) negano connessa all’emergere del populismo.

Lakoff ci racconta invece come andare sul terreno dell’avversario per negarne la plausibilità delle posizioni sia in realtà concedergli un vantaggio formidabile. Don’t think of an elephant ci invita a rimuovere l’elefante: ma negare un frame in realtà attiva il frame.

In breve, la sinistra non può pensare di rifondarsi usando lo stesso frame dei nazionalpopulisti, come finisce per fare Provenzano, immaginando ingenuamente di negarne la fondatezza e di dare risposte diverse agli stessi problemi. La sinistra deve imparare a ragionare in uno schema nuovo che rompa l’egemonia del racconto nazionalpopulista. Altrimenti il voltare pagina sarà solo e sempre un guardare indietro.

Dovere

Dopo l’Abruzzo anche in Sardegna, nonostante sia migliorata la partecipazione al voto, si segnala l’astensione come primo partito; dovrebbe preoccupare di più dei voti di protesta. Non è pigrizia, ma una scelta di elettori che non sanno nè come nè perché scegliere. Mi sembra che tutte le forze politiche da tempo si concentrino sul loro ombelico anziché sul Paese, se non per parlare alla sua ‘pancia’ con risultati effimeri di successo. L’elettorato è volubile; è finita la stagione delle appartenenze e delle fidelizzazioni. I clic non sostituiscono le persone. Il popolo è un sostantivo generico. E’ vero che gli Italiani sono 60 milioni e che le Istituzioni nazionali sono rappresentative di tutti; tuttavia non vale quando si pretende di attribuire a tutti i 60 milioni i programmi dei propri partiti, addirittura i punti del ‘contratto’ di Governo. Il voto è un diritto ma anche un impegnativo e responsabilizzante dovere. Evidentemente da qualche anno gli Italiani non sono persuasi da promesse che si capiscono inattuabili.

Si sentono ripetere che il Governo si interessa di quello che serve a L’Aquila o a Cagliari, non di quello che dice Bruxelles. Purtroppo gli Italiani, col loro Paese, sono inseriti nell’ampio mondo delle relazioni internazionali, del mercato globale e non meritano di “essere tagliati fuori “per il neonazionalismo che chiamano sovranismo, come fosse una grande opportunità. La politica estera puntella la politica interna, perché gli scambi commerciali, e non solo, sono saldamente ancorati alle alleanze come accade con la Francia, con la quale gli scambi valgono 10 miliardi; non è il caso di offendere i ‘cugini’ di Oltralpe. La politica estera, buona, si sostanzia anche con accorgimenti di galateo istituzionale come è accaduto per l’intervista rilasciata dal Presidente Macron ad una rete TV italiana, un appello a tutti i popoli dei 28 Paesi in vista delle elezioni europee, come i messaggi sempre pacati ma precisi del Presidente Mattarella quando parla anche ai giovani studenti e non solo nelle sedi più formali.

Il Paese ha bisogno di serenità ma le difficoltà economiche che anche i dati statistici, purtroppo, confermano, non inducono i vice presidenti del Consiglio – “fratelli coltelli” – ad evitare trionfalismi e, anzi, continuano a cercare diversivi per non entrare nel merito delle situazioni urgenti da risolvere. Le infrastrutture – e non solo la TAV – sono fonte di modernizzazione del Paese e di lavoro. Ci soni i fondi accantonati, ma occorre capacità decisionale lungimirante che, oltre a modificare il codice degli appalti, attivi modalità procedurali per cui i lavori non durino decenni.

Si comprende poi la critica di chi può affermare che molte opere si completano quando oramai sono superate. Mi piace ricordare un ritornello che mi sta a cuore: l’autostrada del Sole, Milano Napoli, fu ultimata in 6 anni, 1958-1964! Magnifici cavalcavia e gallerie, che non sono crollati. Imparate! Forse erano onesti, incorruttibili e coraggiosi i decisori, i tecnici e le imprese di allora. Non si spiega perché oggi non può essere così e si rinuncia alle Olimpiadi. La lungimiranza dei politici riguarda anche come dare significato alla frase corretta, quando non è pronunciata con sufficienza, “aiutarli nei loro Paesi”. Ciò comporta una ampia azione di politica estera, conoscenza delle situazioni geopolitiche e assunzioni di gravi responsabilità. Potremmo citare solo due esempi, Nigeria e Congo. Due colossi africani ricchi di ogni materia prima, eppure sono all’origine di migrazioni vergognose. La maggior parte dell’opinione pubblica forse non conosce il Coltan ma è il materiale prezioso che dal Congo fornisce tutte le grandi imprese produttrici di strumenti informatici. Aiutarli là, significa non rapinare i loro beni ma insegnare a lavorarli là e a costruire fabbriche là!

C’è questa consapevolezza e, soprattutto, un grande lavorio internazionale per ottenere questi risultati? Una grande Europa – gli Stati Uniti d’Europa – sarebbe una grande potenza mondiale economica, ma anche di diritti di libertà e di democrazia, e potrebbe attivare Piani strategici per migliorare i rapporti del nord del mondo con l’Africa e valorizzare i Paesi a sud del Mediterraneo, annullando le migrazioni economiche e impedendo una neocolonizzazione cinese di quel continente, che è stato la culla dell’umanità. Una politica di vedute alte e lunghe appartiene anche all’elaborazione delle forze di opposizione all’attuale maggioranza di governo. Gli oltre 1.700.000 cittadini italiani che si sono presentati alle primarie, si sono sentiti chiamati a dare un segnale al Partito Democratico, impegnando, con un grande consenso, il nuovo segretario, Nicola Zingaretti, a far vivere una attiva opposizione in Parlamento e nel Paese, per offrire ai cittadini proposte alternative e il gusto della partecipazione civile. Quando si offre una vera occasione di partecipazione, la reazione arriva. A Milano il 2 marzo centinaia di migliaia di cittadini si sono espressi a favore di una visione di società solidale, coesa e fiduciosa nelle proprie capacità.

Vale forse la pena di sottolineare che è un popolo più numeroso dei 52.000 clic per decidere sì o no ad un’opera importante per 60.000.000 di Italiani, e sono molte centinaia di migliaia di più delle decine che hanno incoronato i capi dei due partiti di governo. Tuttavia il PD non si illuda che gli elettori di domenica 3 marzo siano il lavacro del drammatico 4 marzo 2018. Chi si è pentito e chi non aveva votato, ora si aspetta molto. Innanzitutto l’unità del partito; basta divisioni interne. Gli iscritti non ne possono più e gli elettori si aspettano di essere loro ad avere diritto di essere i destinatari di una politica che offra una visione, un programma di governo, una classe dirigente idonea.

Perso un anno con dibattiti tutti interni, ora si attivi una struttura riconoscibile (ottimo sarebbe un governo ombra), e si recuperi rappresentanza vera e non virtuale della società: competenza, cultura (i danni dell’ignoranza sono sotto gli occhi di tutti ), intergenerazionalita’ (siamo un paese di anziani) per non confondere attenzione e speranza per i giovani con giovanilismo. Valorizzare la presenza femminile a tutti i livelli e non solo per motivi statutari, ma perché rappresentano il nuovo, sempre rinnovantesi della società (sono ‘care giver‘ per tutto). Nelle code di domenica sembravano essere la maggioranza. Non tradire quel popolo. Gli iscritti al PD sono 400.000, tutti gli altri erano elettori che hanno riposto fiducia in un partito che sperano sia all’altezza delle sfide che la comunità italiana affronta.

Priorità esplicite: riempire le culle, definire chiaramente gli aiuti contro la povertà (favorevoli al reddito e al salario minimo, ma razionali e non bandiere), welfare che consenta l’accesso ai servizi perché nessuno rinunci alle cure; ambiente e infrastrutture (grandi e manutenzioni) che siano regolate con procedure facili, trasparenti, veloci (esistono anche le penali pesanti). Si può lavorare anche di notte e giorni festivi: avviene in altri settori, perché no quando occorre servire. con minori disagi possibili, i cittadini? Soprattutto Europa! Ogni programma sia nel quadro di un’Europa che unisce i popoli e faciliti la posizione dell’Italia tra le potenze mondiali come protagonista e non subalterna. Il risultato di domenica non è un arrivo; è il primo passo per una scalata dell’Everest, per cui se non si sta in cordata si muore.

Aspirare ad essere esemplari. Urge una classe dirigente consapevole che servire il popolo significa avere più oneri e più doveri dei singoli cittadini. Chi fa politica smetta la civetteria di ‘essere prestati alla politica’. Chi si fa eleggere, fa politica! e ha il dovere di comportarsi di conseguenza: con linguaggio consono e in buon italiano (la lingua ci fa ‘uni di patria’), lingua ricchissima che non ha bisogno di inglesismi; atteggiamenti e
vestiti adeguati, non servono griffe, basta essere “ad onor del mondo“ (per tradurre una espressione milanese, dopo quella “scappati di casa”). “A me, me ne frega” è una volgare espressione e pure sintatticamente sbagliata.

Ai politici è chiesto di guardare avanti e il PD lo dimostri senza rivangare continuamente il passato. Registrati i successi e ‘imparati’ gli i successi per non cadere negli stessi errori, serve rammendare sia il Partito che il Paese. I ministri del Governo Gentiloni siano pure orgogliosi del passato ma ora si mettano al servizio del futuro. Rimpiangere o rinfacciare non costruisce niente ed anzi rafforza la cultura rancorosa che viene distribuita a piene mani dalla maggioranza: a lei bisogna contrapporre idee e atteggiamenti opposti, da opposizione! E’ dovere di governare da parte della maggioranza ma, con diversa modalità, anche delle opposizioni. Chi governa, chi parla in pubblico, faccia lo sforzo di ricordarsi che ci sarà chi imparerà e copierà esempi non esaltanti. Gli altri sono quelli che vanno all’estero! Un grande uomo, maestro di giovani, un politico esemplare e uno statista martire non poteva lasciarci un’esortazione più forte ed incisiva: “Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti si rivelerà effimera se in Italia non rinascerà il senso del dovere”.

(Aldo Moro, 28 febbraio 1978, ultimo discorso ai Gruppi Parlamentari della DC)

Pastori, ora occorre vigilare sul rispetto dell’accordo

Serve ora vigilare attentamente sul rispetto dell’accordo per fare in modo che si trasferiscano ai pastori gli effetti positivi sul mercato del pecorino determinati dall’intervento pubblico e dall’aumento delle vendite stimato pari al 30% dalla grande grande distribuzione, per effetto delle campagne promozionali. E’ quanto afferma la Coldiretti nel commentare l’accordo sul prezzo del latte ovino raggiunto a Sassari dopo quasi un mese di negoziati iniziati al Viminale con il Vicepremier Matteo Salvini dopo la manifestazione della Coldiretti guidata dal presidente Ettore Prandini in piazza Montecitorio.

Da allora circa tre milioni di litri di latte sono stati lavorati per essere dati in beneficienza, dati in pasto agli animali o gettati in strada per colpa di una situazione insostenibile che – ricorda la Coldiretti – ha portato i pastori all’esasperazione. Abbiamo firmato per ultimi con senso di responsabilità un accordo che – sottolinea la Coldiretti – aumenta del 20% l’acconto sul prezzo del latte consegnato dai pastori rispetto all’inizio del negoziato, con l’obiettivo però di arrivare a quotazioni finali di un euro per effetto della griglia di indicizzazione che è stata impostata.

Restiamo impegnati per ottenere nuove regole che valorizzino il lavoro dei pastori nella formazione del prezzo e vigileremo affinché, dopo le evidenti disfunzioni,  si arrivi al piu’ presto una corretta gestione del Consorzio di tutela del pecorino Romano che veda protagonisti i pastori, ai quali devono essere assegnate le quote di produzione. In gioco – conclude la Coldiretti – ci sono 12mila allevamenti della Sardegna dove pascolano 2,6 milioni di pecore, il 40% di quelle allevate in Italia, che producono quasi 3 milioni di quintali di latte destinato per il 60% alla produzione di pecorino romano (Dop)”.

Protezione civile: il Consiglio europeo adotta norme per rafforzare il sostegno nelle catastrofi

L’UE rafforza le proprie capacità di protezione civile al fine di potenziare la prevenzione dei rischi e prestare un sostegno tempestivo agli Stati membri e agli altri paesi partecipanti ogni volta che si verifica una catastrofe naturale o provocata dall’uomo. Il Consiglio europeo ha adottato una decisione che modifica il meccanismo di protezione civile dell’UE. L’atto prevede l’istituzione di un pool di risorse supplementari, rescEU, per fornire assistenza nelle situazioni in cui l’insieme delle risorse esistenti non è sufficiente. rescEU includerà in particolare mezzi aerei per la lotta agli incendi boschivi nonché risorse per la risposta sanitaria d’emergenza e per la risposta a incidenti di tipo chimico, biologico, radiologico e nucleare. La decisione rafforzerà anche pool volontario di risorse nazionali esistente.

“Dal 2001 il meccanismo di protezione civile dell’UE è stato attivato più di 300 volte, fornendo sostegno supplementare ai paesi che affrontano emergenze di ogni tipo e aiutando a proteggere i cittadini da esse colpiti. Grazie a queste norme aggiornate saremo meglio attrezzati a prestare assistenza più velocemente, assicurando che l’aiuto arrivi in tempo anche quando dobbiamo rispondere contemporaneamente a catastrofi multiple” (Carmen Daniela Dan, ministra dell’interno della Romania). In base alle nuove norme gli Stati membri saranno tenuti a sviluppare ulteriormente la valutazione della capacità di gestione dei rischi e la relativa pianificazione, migliorando così la prevenzione dei rischi. Saranno potenziate anche la formazione e la condivisione di conoscenze. La Commissione sarà incaricata di istituire una rete di conoscenze in materia di protezione civile dell’UE che riunisca gli attori coinvolti nella protezione civile e nella gestione delle catastrofi.

La decisione sarà firmata ufficialmente dal Consiglio e dal Parlamento europeo la prossima settimana. Il testo firmato sarà poi pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’UE ed entrerà in vigore il giorno seguente. Il meccanismo di protezione civile dell’Unione europea è stato istituito nel 2001. Ha contribuito a migliorare la cooperazione tra gli Stati membri e facilita un maggiore coordinamento nel settore della protezione civile. Ogni paese del mondo, nonché le Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali pertinenti, può fare richiesta di assistenza mediante tale meccanismo in caso di catastrofe. Ciononostante, la recente esperienza ha dimostrato che le offerte volontarie di assistenza reciproca, coordinate e agevolate dal meccanismo, non sempre bastano a garantire che i mezzi messi a disposizione in caso di catastrofe siano sufficienti. Tale constatazione è ancor più valida quando più Stati membri sono colpiti contemporaneamente da catastrofi dello stesso tipo.

La mostra di Escher al PAN di Napoli

La grande retrospettiva dedicata al genio olandese e intitolata Escher, si terrà nelle stanze del PAN fino al 22 aprile 2019. Presenterà oltre alle opere del visionario artista anche un’ampia sezione dedicata all’influenza che il suo lavoro e le sue creazioni esercitarono sulle generazioni successive, dai dischi ai fumetti, dalla pubblicità al cinema. Il percorso espositivo è di oltre 200 opere; si parte da Escher per arrivare ai giorni nostri. La mostra è prodotta e organizzata dal Gruppo Arthemisia.

Relatività (1953), Vincolo d’unione (1956),Metamorfosi II (1939) e Giorno e notte (1938) sono solo alcune delle opere iconiche che hanno reso celebre Maurits Cornelis Escher (1898-1972) e che, in occasione della mostra partenopea, sono affiancate da un’inedita selezione di opere prodotte dall’artista durante il suo viaggio – avvenuto nella primavera del 1923 – lungo la Costiera Amalfitana fino a Ravello. Un viaggio lungo la penisola che lo segna profondamente anche a livello personale: in Campania conoscerà infatti la giovane svizzera Jetta Umiker che, l’anno dopo, diventerà la sua moglie. A far da cornice ai due sposi in una foto storica, una veduta mozzafiato dall’alto di Atrani con la sua chiesa che troneggia su uno sperone a strapiombo sul mare. Una chiesa che è un motivo ricorrente nelle opere di Escher tanto da trovarsi anche alla fine della famosaMetamorfosi II. In questo viaggio a più riprese, nel 1931 Escher visita Vietri sul Mare, Amalfi, Ravello, Scala, Positano, Praiano e Conca dei Marini. Da qui nascono disegni che si tradurranno in ben 15 stampe tra cui Atrani, Costa di Amalfi (1931), Case in rovina ad Atrani(1931), San Cosimo, Ravello (1932) e Il Borgo di Turello (1932).

Nel Sud Italia Escher maturò buona parte di quelle idee e suggestioni che caratterizzano, nel segno della sintesi tra scienza e arte, la sua matura produzione e gli studi sulle forme che lo hanno reso unico nel suo genere.

Piemonte: meno diagnosi di tumore

Per la prima volta in Piemonte si registra un calo delle nuove diagnosi di tumore. Nel 2018 sono stati stimati 30.850 casi, 50 in meno rispetto al 2017 (erano 30.700 nel 2016 e 28.128 nel 2015). Il tumore più frequente nella nostra regione è diventato quello della mammella: nel 2018 sono stati stimati 4.350 nuovi casi (erano 4.200 nel 2017), anche grazie all’estensione dei programmi di screening mammografico.

Seguono il cancro del colon-retto (4.050, erano 4.350 nel 2017), che nel 2017 era il più diagnosticato, e del polmone (3.450, erano 3.500 nel 2017). E 280mila cittadini vivono dopo la scoperta della malattia, un dato in costante aumento. La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi raggiunge il 63% fra le donne e il 53% fra gli uomini, in linea con la media nazionale.

Cerco un centro di gravità permanente… Cosa possiamo fare noi?

E’ persino banale pensare alla canzone di Franco Battiato seguendo il dibattito che riprende nuovamente sulla creazione di un “ centro” politico.
Tema annoso. La canzone risale al 1981, la questione politica è molto più antica.
La nascita del Zentrum tedesco, il Partito di Centro Tedesco, ispirato cristianamente, risale al 1870.

Fu la prima organizzazione a nascere con questo riferimento a una “ centralità” da assumere in una realtà parlamentare già allora tracciata tra le istanze socialdemocratiche progressiste e quelle feudali o liberal conservatrici.
La conferma di quanto lunga sia la ricerca di una collocazione che interessa i cristiani sensibili alla realtà politica e intenzionati a dispiegare, anche nella cosa pubblica, la forza vivificatrice del messaggio evangelico.

Come hanno dimostrato l’esperienza popolare e quella democratico cristiana italiane, non si tratta di una mera alchimia di posizione “ a metà”, di mera equidistanza geometrica tra destra e sinistra. Bensì, di metodo politico e di costruzione di una progettualità capace di aggregare sempre più larghe parti del corpo sociale.
Siamo di fronte ad una lettura specifica delle cose del mondo e delle esigenze dell’uomo, della loro complessità, con la certezza che la tavolozza dei colori conosce e rende possibile una gamma infinita di tonalità.

Non è possibile racchiudersi in una sola dimensione economicistica, così come non solo in quella sociale. La sostanza del pensiero popolare e dc va alla Persona, alla famiglia, ai nuclei naturali intermedi di una società non delineata e ridotta a solo dato statistico o a corpo indistinto, ma sommatoria di esigenze concrete legate alla dignità umana, alla crescita economica, alla dimensione etica di una vita da dispiegare e favorire nella sua integralità, tendenzialmente indirizzata verso la ricerca della felicità, per quel poco e quel tanto che può consentire la dimensione dell’uomo.

Questo credo possa voler dire veramente costruire un “ centro” politico. Altrimenti il termine, così come l’altro, altrettanto magico, altrettanto usato ed abusato di “ moderato”, non sortisce alcunché perché resta vuoto di sostanza.

La costruzione di un partito di centro richiede l’dea di un progetto capace di portare ad un livello superiore di sintesi costruttiva le istanze diffuse nella società, nella struttura economica produttiva, nella vita culturale, nella realtà delle autonomie. Attorno a una feconda e condivisa scelta sui problemi che richiamano le attese di una gran parte della popolazione, del mondo del lavoro, della produzione, dello scambio commerciale, dei servizi.
Il muoversi nella sola logica degli schieramenti rischia di rivelarsi inane e limitata se non è riempita di contenuti rigeneratori e di prospettiva.
L’esperienza di tanti gruppi e gruppuscoli, non solo cattolici, che hanno provato a guadagnare il “ centro” dello schieramento politico in termini di semplice giochetto dei quattro cantoni non è stata solo minata dalla sciagurata scelta bipolare degli ultimi venticinque anni.

Le insufficienze sono venute soprattutto dall’incapacità di elaborare progetti e presentare proposte a sostegno del ceto medio, delle categorie economiche e sociali, della piccola e media impresa.

Il mondo cattolico su questo ha mostrato tutti interi i propri limiti con un silenzio assordante in campo legislativo e nella gestione della cosa pubblica.
La rete da costruire, da ricostruire, dunque richiede un salto di qualità.
In primo luogo, deve essere diretta a far riaffiorare il “ sapere” in grado di individuare le questioni su cui richiamare l’interesse degli italiani e degli europei. Tutto ciò deve trovare, poi, una dimensione politico istituzionale grazie alla definizione di provvedimenti ed interventi da trasferire in proposte di legge, nelle necessarie trasformazioni dell’apparato istituzionale, nell’adeguamento delle autonomie alle nuove esigenze della partecipazione e del coinvolgimento nella cosa pubblica.

Solo così, un giorno, ci troveremo un “ centro” capace di dare una più realistica e sostenibile direzione di marcia a un Paese impossibilitato a trovare da anni quella stabilità di una prospettiva, altrimenti destinata a essere parcellizzata e indirizzata secondo gli interessi egoistici e parziali, ma alla fine più forti e più spregiudicati.

I difetti degli italiani

“Molti italiani aspettano tutto da Roma e maledicono la lentezza romana; i siciliani aspettano tutto da Roma e da Palermo, e maledicono Roma e Palermo. Anche provincie e comuni sono abituati a ricevere tutto dal centro. Non domandano autonomia e mezzi propri, forse perché pensano di non poterli mai ottenere. Domandano aiuti, favori, sussidi, concorsi, creando così clientele, cointeressi e soggezioni che mortificano ogni vera autonomia”.

(Politica di questi anni – pag. 125). “Noi latini, più degli altri paesi, soffriamo di astrattismo teorico per colpa di quelle generalità di idee e di quella facilità di intuizioni, che mal suppliscono alla mancanza di studi pratici e accurati dei problemi tecnici. Così è facile cadere dagli enunciati teorici alla demagogia delle promesse. I programmi concreti si perdono nel mare magno delle parole. Se a ciò aggiungiamo l’asprezza delle polemiche, che distraggono dalla visione dei problemi pratici, tanto più quanto gli stessi problemi sono di difficile soluzione, si vedrà che il corpo elettorale si troverà con una serie di promesse di felicità avvenire che i Dulcamara politici forniscono come infallibili elisir di lunga vita”. (Politica di questi anni – pag. 89-90).

“L’italiano medio, che ha fatto l’esperienza della demagogia e della dittatura pagandola assai cara, dopo la guerra non è caduto nella trappola del comunismo, anch’esso demagogo e dittatoriale. Ma si è fermato a metà strada: non gli dispiace una demagogia spicciola, che gli prospetti la soluzione rapida di tutti i problemi; non gli dispiace un paternalismo di Stato al quale appoggiarsi, con un Tesoro pronto a sborsare per tutti, creando un parassitismo che va dalla grande industria agli enti statali e parastatali, e con una finanza che moltiplica le esenzioni fiscali con ritmo accelerato. Non gli dispiace l’intervento statale in tutte le occasioni e per tutte le necessità. Per questo lo Stato comunista, che è il più povero e il più tiranno di tutti, sollecita le fantasie popolari e diviene un mito. Sulla via degli interventi statali, la scivolatura demagogica porta a un tale statalismo, che può paragonarsi ad un comunismo larvato. È questo il lato più tragico di un Paese esasperatamente individualista, ma che allo stesso tempo aspetta molto dal ‘dio Stato’”. (Politica di questi anni – pag. 347- 348).

“A me sembra che i partiti e i sindacati abbiano inoculato nelle vene degli italiani una infantile fiducia nel potere magico delle leggi. Nelle due passate legislature sono state varate migliaia di leggi. È legittimo dubitare che una tale grande mole di leggi possa essere facilmente attuata, mentre si ha l’impressione che molte leggi siano state fatte ad personam o ad categoriam con vero carattere privatistico”. (Scritti giuridici – pag. 283).
“La mia esperienza mi ha sempre provato che i cattolici che entrano in partiti strettamente politici non solo perdono il senso dell’apostolato sociale e morale che si dovrebbe trovare nei partiti di ispirazione cristiana, ma si attaccano troppo agli aspetti materiali e utilitari della politica e non riescono più a distinguere tra i mezzi onesti e quelli che chiameremo discutibili. Questi cattolici finiscono per diventare una minoranza isolata e senza influenza in mezzo a una maggioranza troppo materialista. Un partito per i cattolici non deve essere soltanto uno strumento politico, ma deve avere un programma ideale e morale”.

di Luigi Sturzo (Coscienza e politica. Note e suggerimenti di politica pratica. – pag.106).

Elezioni europee: studio della Fondazione Adenauer, Ppe cala ma resta primo partito

Alle prossime elezioni il gruppo dei Popolari al Parlamento europeo continuerebbe ad essere il più consistente, pur perdendo tra l’1,2 e il 4,6% dei seggi. Oggi appartiene al Ppe il 28,9% degli eurodeputati; dopo il 26 maggio il gruppo potrebbe occupare ancora il 24,3%-27,7% dei seggi dell’Eurocamera.

A offrire questi dati è il “partito-barometro” pubblicato dalla fondazione Konrad Adenauer che guarda alla situazione attuale del gruppo Ppe e offre qualche ipotesi sugli sviluppi elettorali. I Socialdemocratici passerebbero dal 25 al 19,4% dei seggi. L’estrema destra e l’estrema sinistra sarebbero al 20%, con l’incognita sul posizionamento dei 5 Stelle o l’eventuale creazione di un gruppo autonomo.

“Il 64-72% dei parlamentari apparterrebbero comunque a un gruppo politico moderato (Ppe, S&D, Liberali+movimento di Macron, Verdi)”. I sondaggi mostrano che il Ppe “rimane più o meno stabile”, liberali (con Macron) e l’estrema destra Enf crescono leggermente. Il documento prospetta inoltre tre scenari, in relazione al comportamento di Macron e dei 5 Stelle. I sondaggi nazionali dicono che un partito appartenente al Ppe è in testa in 10 Paesi dell’Ue, i Socialisti in 9, l’Alde in 4, l’Ecr (Conservatori) in 3, indipendenti e populisti di destra in un Paese ciascuno. La famiglia Ppe, sempre secondo i sondaggi, è oltre il 30% in Germania, Ungheria, Romania, Austria, Croazia, Bulgaria, Slovenia, Portogallo, Grecia, Irlanda, Lituania, Malta e Cipro.

Theresa May: se bocciate la mia proposta potremmo non uscire mai dallʼUe

Il premier britannico, Theresa May, avverte sui possibili rischi in caso di mancato accordo sulla Brexit. Martedì, infatti, la Camera dei Comuni è chiamata a votare la proposta di uscita dall’Ue del premier, e in caso di bocciatura “nessuno sa cosa potrà succedere”. Secondo la May, in caso di mancato accordo “potremmo non uscire dall’Ue per molti mesi, potremmo uscire senza le protezioni che il deal prevede e potremmo non uscire del tutto”.

“Tutti – ha detto tra l’altro – vogliono adesso che un accordo sia chiuso e che si possa andare oltre le polemiche e le asprezze del dibattito per uscire dall’Ue come un Paese unito e pronto a fare del suo futuro un successo”. Quindi ha ribadito che i contatti con Bruxelles proseguiranno anche nel weekend, non senza tornare a invocare ulteriori rassicurazioni sul backstop ed evidenziare come l’atteggiamento dei 27 nei prossimi giorni sia destinato ad avere “un grande impatto sull’esito del voto” di ratifica ai Comuni di martedì 12 marzo.

Il primo ministro finlandese si è dimesso

Il primo ministro Juha Sipilä ha presentato la richiesta di dimissioni al presidente Sauli Niinistö a Talludden alle 10 di ieri.

La caduta del governo arriva a circa un mese di distanza dalle elezioni politiche, che si terranno il 14 aprile. Da quattro anni la Finlandia era governata da una coalizione formata dalle tre principali forze politiche del paese: il Partito di Centro, guidato da Sipilä, i Veri Finlandese e il Partito di Coalizione Nazionale, di cui fu segretario anche Alexander Stubb, l’ex primo ministro.

Sipilä avrebbe dato le dimissioni a causa dell’incapacità di trovare un accordo per la riforma del sistema sanitario, la classica goccia che fa traboccare il vaso.

Infatti già da diverso tempo l’azione di governo ha incontrato una crescente resistenza nell’elettorato, che, dai sondaggi, si è tradotta in una progressiva erosione di consensi. Al calo di consensi del Partito di Centro si è contrapposta la crescita significativa del Partito Socialdemocratico, grande sconfitto delle elezioni 2015 e al momento favorito dai pronostici per le prossime elezioni.

Parte il Progetto pilota sulla Blockchain

Si terrà al Mise il 13 marzo l’incontro di avvio del Progetto pilota per promuovere il ricorso alla tecnologia Blockchain a tutela del made in Italy. Affidato a IBM, il progetto prevede uno studio di fattibilità che costituirà un modello base per i settori di riferimento del made in Italy, al fine di cogliere a pieno i vantaggi della tecnologia Blockchain in termini di tracciabilità dei prodotti lungo la filiera, certificazione al consumatore della loro provenienza, contrasto alla contraffazione, garanzia della sostenibilità sociale e ambientale delle produzioni nazionali italiane.

Lo studio di fattibilità parte con il workshop divulgativo sul valore aggiunto della Blockchain all’interno della filiera del tessile-abbigliamento, al quale seguiranno una fase di esplorazione e design thinking con l’individuazione, assieme alle imprese, di casi specifici per analizzare alcuni processi produttivi ai quali applicare la Blockchain, e infine la realizzazione di uno studio di riepilogo delle condizioni di fattibilità per le filiere del settore sulla base delle risultanze dell’esplorazione. Prenderanno parte all’evento, 26 imprese del settore tessile insieme alle associazioni di categoria.

SpaceX fa rientro sulla Terra

La capsula Crew Dragon costruita dalla SpaceX di Elon Musk ha fatto ritorno sulla Terra, carica di materiali frutto di oltre 200 esperimenti portati a termine sull’Iss.
Sganciata dalla Stazione Spaziale Internazionale, Crew Dragon è atterrata tuffandosi nell’Oceano Atlantico.

La capsula è stata lanciata il 2 marzo 2019 dalla piattaforma 39A di Cape Canaveral, nota per avere dato il via alle missioni di Apollo, dal 1966 al 1972 e dello Space Shuttle, dal 1981 al 2011. Crew Dragon, spinta dalla propulsione del razzo Falcon 9, dopo aver percorso ben 18 orbite si è agganciata con successo alla Stazione Spaziale Internazionale (Iss)

A bordo della capsula, senza equipaggio, c’era un capitano bizzarro divenuto simbolo della missione: un manichino ispirato a Ellen Ripley, protagonista del noto film di fantascienza Alien, dotato di appositi sensori in grado di rivelare le sollecitazioni durante il lancio e nell’intero viaggio.

Giovani insieme: nuovi contributi per gli oratori lombardi

Si chiama “Giovani insieme” il progetto che Regione Lombardia finanzierà con quasi 900mila euro per il sostegno a iniziative di aggregazione dedicate ai giovani negli oratori lombardi. La funzione sociale che questi ultimi svolgono ancora oggi, in Italia e in Lombardia, non può che trovare il supporto delle istituzioni, come nel caso specifico, dove la giunta guidata da Attilio Fontana ha individuato le finalità, i criteri e le tempistiche per scegliere le iniziative meritevoli di contributo.

Un indirizzo chiaro, che nasce dalla consapevolezza che gli oratori della nostra regione (2.307 quelli attivi) rappresentano luoghi di proposta educativa che coinvolgono oltre 400mila giovani fino ai 30 anni: una fetta consistente della nostra gioventù. Le proposte finanziabili dovranno prevedere l’inserimento di giovani capaci di animare e sollecitare la voglia dei ragazzi di stare insieme, attraverso attività legate allo sport e alla cultura, e attraverso occasioni che mettono in gioco creatività e talenti. Le attività negli oratori si svolgeranno dal 1° settembre 2019 al 31 agosto 2020.

Le donne italiane sono le prime donatrici di organi in Europa

Le donne italiane sono le prime donatrici di organi per trapianti da vivente in Europa: su una media del 58%, in Italia rappresentano il 70%. Non solo, anche nel nostro Paese risultano essere le più generose con il doppio delle donazioni rispetto agli uomini. Il dato emerge da una rilevazione del Centro nazionale trapianti sulle differenze di genere nelle donazioni. A livello europeo, l’Edqm (European Directorate for the Quality of Medicines) riporta la più alta percentuale di donatrici italiane rispetto a Spagna (65%), Gran Bretagna e Turchia (55%) e Francia (48%).

Dal 2001 al 2017 sono state 3.487 le persone che hanno scelto di donare un rene o una porzione del fegato: 2.322 donne (il 66,6%) e 1.165 uomini (33,4%). Un divario ancora più accentuato per quanto riguarda il solo trapianto di rene: in questo caso la percentuale di donatrici sale al 68,9% (2.151 donne contro 973 uomini). Il sistema informativo trapianti consente di osservare alcune differenze anche tra le tipologie di relazione tra donatore e ricevente. In quasi un caso su tre a donare l’organo sono le madri ai propri figli (1.017, il 29,2%) mentre i padri rappresentano il 12,7% del totale (442 donazioni). Allo stesso modo le mogli donatrici sono oltre il doppio dei mariti, rispettivamente il 19% e l’8,1% (662 le donne e 281 gli uomini). Maggioranza femminile anche nelle donazioni tra fratelli: nel periodo in esame l’organo è arrivato da 401 sorelle (11,5%) mentre e 240 maschi (6,9%). Nessuna differenza, invece, nelle donazioni dei figli verso i genitori: donatrici sono state 92 e i donatori 101. La prevalenza femminile è una peculiarità della donazione da vivente: nello stesso arco di tempo i donatori deceduti utilizzati sono stati in maggioranza uomini (9.912 su 17.980, il 55% del totale). Questo anche a causa di una marcata polarizzazione di genere (73% uomini, 27% donne) tra i decessi per trauma cranico, che da soli rappresentano un quarto delle cause di morte dei donatori. Anche per quanto riguarda le liste d’attesa gli uomini sono decisamente in maggioranza, rappresentando il 64% degli 8.809 pazienti bisognosi di trapianto al 31 dicembre 2018. La differenza di genere varia sensibilmente in base all’organo atteso ed è dovuta alla diversa distribuzione nella popolazione delle patologie per l’inserimento in lista d’attesa: le insufficienze renali, cardiache ed epatiche sono molto più diffuse tra gli uomini che tra le donne.

Anche Prodi auspica la nascita di un partito più al centro rispetto al PD

Ormai si fatica a conteggiare gli auspici che accompagnano le chiacchiere sulla necessità di una nuova formazione politica sul versante dell’opposizione al sovran-populismo. Tanto più s’indebolisce il governo, fino a manifestare l’incombenza della paralisi operativa, tanto più si rafforza il ragionamento sulla ricostruzione di un centro democratico, innovativo e solidale.

Oggi è la volta di Romano Prodi. In un colloquio con il direttore del Foglio, Claudio Cerasa, il Professore parla chiaro, senza mezze metafore. “Lo spazio per un altro partito – sostiene – c’è e con una legge elettorale come quella che abbiamo oggi, immaginata solo per non rendere governabile il paese, bisogna augurarsi che qualcosa di nuovo nasca e che prima o poi accanto al Pd ci sia una nuova forza per così dire liberal moderata”.

Non serve chiosare per qualche puntiglio lessicale, ma sforzarsi d’intendere, semmai, la sostanza di questa impegnativa dichiarazione del fondatore dell’Ulivo. Se fosse concepita come l’ennesima ricerca di un orpello per dare alla sinistra maggiore equilibrio e consistenza, sarebbe davvero poca cosa. Finora tutti i ricorsi alla cosmesi della tattica su sono rivelati improduttivi. Se invece mirasse a ricomporre, in modo più ordinato, il sistema politico italiano, ci sarebbe più di un motivo per sostenerne le ragioni.C’è da chiedersi, comunque, quale possa essere l’attrazione esercitata da una proposta di segno puramente liberal-moderato, come vagheggia Prodi.

Andiamo al concreto. Limitarsi a fornire accoglienza o riparo ai profughi del berlusconismo non sembra suscitare particolare entusiasmo. In realtà, sotto la “domanda di centro” preme il vasto discorso inerente la ripresa d’iniziativa dei cattolici democratici. Fino a che punto il Pd ne costituisce lo sbocco? Con Zingaretti il “ritorno a Itaca” della sinistra si fa più eloquente. Per questo c’è uno spazio fuori dal Pd, voglia o non voglia, dentro questo involucro, il nobile drappello di matrice democristiana o popolare.

Dunque quale prospettiva avanza, quella di un nuovo partito liberal-moderato? Non è così convincente. Di fatto il centro, se vuole essere vitale, non può che incrociare la ripresa del popolarismo d’ispirazione cristiana. Ogni giorno che passa, tra auspici e dilemmi, si accorcia però il tempo della decisione. L’uscita di Prodi certifica l’esistenza di questo punto all’ordine del giorno. Bisogna affrontarlo con lucidità e determinazione, senza pretendere che una parola spesa oggi esaurisca per intero la discussione. Le elezioni, europee e amministrative, sono alle porte.

Il pluralismo dei cattolici in politica non ha prodotto buoni frutti

Su Avvenire del 1° marzo Luca Diotallevi ci ha ricordato che il Concilio Vaticano II considerò naturale che “in materia politica vi sia un grado incomprimibile di legittimo pluralismo tra credenti”. Con questo egli sembra dire che non dobbiamo sorprenderci, se dopo la fine della DC si è arrivati alla diaspora dei cattolici impegnati in politica, facendo perdere al loro prezioso patrimonio culturale la forza che si poteva esprimere bene solo in presenza di una coerente e convinta unità di intenti, cioè con un forte “idem sentire”, con una chiara e doverosa identità di pensiero. Prima fra tutte la forza dei comportamenti morali posti alla base dei loro ideali di giustizia e di libertà.

Fu la mancanza di una coerente e convinta unità di intenti (apertura dell’ala destra del PPI al fascismo) che causò la prima sconfitta di don Sturzo nel 1923. E fu la stessa mancanza (apertura della DC alla sinistra e allo statalismo) che poi causò la seconda sconfitta del pensiero sturziano, espulso perché ritenuto “scaduto”, non più valido per la politica italiana. Non è quindi vero – come scrive Padre Francesco Occhetta sull’ultimo numero di La Civiltà Cattolica

– che “in questi 100 anni il pensiero di Sturzo è stato una sorta di stella polare per i cattolici impegnati in politica”. Se lo fosse stato, oggi l’Italia sarebbe ben diversa! Purtroppo quelle due aperture (la prima a destra e la seconda a sinistra) sono costate molto agli italiani, credenti e non credenti. Ed è incredibile che oggi vi siano ancora nostalgie e desideri di ritorno al passato, ossia a quelle culture di destra e di sinistra che nella storia del nostro Paese si sono sempre dimostrate fallimentari.

La vera cultura vincente sarebbe stata quella del popolarismo, che affondava le sue radici nella difesa dell’integrità della famiglia, nella libertà di scelta educativa, nel primato delle autonomie locali per evitare i danni dello Stato accentratore, corrotto e corruttore, nella stretta alleanza tra capitale e lavoro per evitare devastanti conflitti sociali, e nel promuovere riforme economiche, fiscali e della burocrazia che avrebbero dovuto incoraggiare e non ostacolare l’iniziativa privata. Era una cultura “unificante” contraria alla nascita di correnti divisive nel partito, come purtroppo è poi avvenuto all’interno del PPI e della DC.

Negli ultimi decenni i governi di centro-sinistra e di centro-destra sono “scivolati” sulla questione morale e sulla pessima gestione della politica economica. Così il M5S ha avuto gioco facile. Finché non si capirà questa semplice verità, invano edificheranno i costruttori.

(Fonte Servire l’Italia)

Carlo Donat-Cattin uomo di governo

Il nome di Carlo Donat-Cattin, protagonista della Prima Repubblica è l’espressione di quel cattolicesimo sociale che ha contribuito alla ricostruzione dopo il fascismo e allo sviluppo della società italiana, con una costante fedeltà ai valori della tutela delle classi più deboli e dei diritti dei lavoratori, è legato – tra le altre – a due vicende cruciali nella storia sociale e politica della seconda metà del Novecento del nostro Paese.

Proprio per questo , giovedì 14 marzo, presso la sala Koch del Senato della Repubblica, il Convegno “Carlo Donat-Cattin uomo di governo e leader DC (1919 – 2019)” avvierà le celebrazioni del centenario della nascita di Carlo Donat-Cattin. La relazione introduttiva, che tratteggerà il profilo storico del leader nel quadro del secondo dopoguerra italiano, sarà tenuta dal prof. Francesco Malgeri, a cui seguiranno significative testimonianze. Porterà un indirizzo di saluto il Presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati, e sarà presente il Presidente della Repubblica.

Milano, un servizio di consegne a domicilio con mezzi 100% green

Tra Porta Romana e Vettabbia parte a Milano la sperimentazione del primo servizio di trasporto merci fatto esclusivamente con mezzi elettrici. Il test durerà fino a dicembre 2020 e prevede l’utilizzo di furgoni totalmente elettrici, oltre a due bici cargo a pedalata assistita, che si occuperanno della logistica dell’ultimo miglio per i clienti degli undici punti vendita della grande distribuzione presenti nell’area, che comprende zone già inserite nel progetto europeo “Sharing Cities”.

I mezzi copriranno una superficie di circa venti chilometri quadrati e serviranno circa 2.000 clienti, per un totale di circa 50.000 consegne annue, di ordini effettuati online o presso i punti vendita, con una particolare attenzione alle esigenze delle persone anziane e di quelle con disabilità. E’ prevista una autonomia di circa 70 ore di viaggio oltre a un risparmio di circa 22 tonnellate di Co2 annue immesse nell’atmosfera.

Il servizio di logistica “green” è sviluppato da For-Services, che si è aggiudicata il bando indetto dal Consorzio Poliedra – Politecnico di Milano, responsabile della misura nell’ambito del progetto Sharing Cities di cui il Comune di Milano è partner.

“Diamo avvio ad una piccola rivoluzione – ha commentato l’assessore alle Politiche per il lavoro, Attività produttive con delega alle Smart City Cristina Tajani – diamo avvio ad una piccola rivoluzione nel complesso mondo della logistica e nel contempo ampliamo le azioni dell’Amministrazione per migliorare la qualità dell’aria in città”. “Si tratta – ha proseguito Tajani – di un progetto che rientra nella più ampia strategia del Comune per fare di questa zona il primo quartiere cittadino a basso consumo energetico rispondendo ad una delle più importanti sfide del nostro tempo: quella del clima. Un sfida resa possibile grazie ai contributi messi a disposizione dall’Europa che siamo stati capaci di intercettare e impiegare”.

Sicurezza: come e quando usare lo spray al peperoncino

“Lo spray al peperoncino ha già dato prova di rappresentare un importante strumento di difesa per chi si trova in condizione di pericolo principalmente per le donne esposte a tentativi di aggressione e violenza”. Così il sottosegretario all’Interno, Luigi Gaetti, ha risposto il 5 marzo in aula alla Camera ad un’interrogazione sulle iniziative per disciplinare le modalità di vendita degli spray per l’autodifesa personale. Gaetti ha quindi ribadito che non è in discussione l’utilizzo del dispositivo, quanto piuttosto l’uso distorto che può essere fatto, soprattutto in particolari contesti, che sarà però perseguito dalle Forze dell’ordine.

Sulle limitazioni a questo strumento di autodifesa, già oggetto di disciplina nel nostro ordinamento, il sottosegretario ha ricordato che sono state individuate alcune caratteristiche tecniche come il quantitativo massimo di miscela, le percentuali di principio attivo contenuto nella gittata utile, che non deve essere superiore ai tre metri, per non arrecare danno alla persona. E’ inoltre previsto il divieto di vendita ai minori di 16 anni.