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lunedì, 12 Maggio, 2025
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Algeria: Abdelaziz Bouteflika candidato al quinto mandato

Abdelaziz Bouteflika ha annunciato la propria candidatura per le elezioni presidenziali in programma il 18 aprile. Per il capo di Stato uscente, in caso di vittoria, si tratterà del quinto mandato.

Nonostante gli 81 anni di età e le gravi condizioni di salute (le rare apparizioni di Bouteflika mostrano un uomo considerevolmente indebolito, dall’ulcera che ha rischiato di ucciderlo nel 2005 e soprattutto dall’ictus che lo ha bloccato per tre mesi a Parigi nel 2013 ) Bouteflika sembra essere insostituibile agli occhi della sua Alleanza presidenziale (una coalizione di quattro partiti), evidentemente incapace di trovare alternative.

“Di certo non ho più le forze fisiche di un tempo – ha detto nel suo messaggio Bouteflika – cosa che non ho mai nascosto al mio popolo, ma la volontà irrefrenabile di servire la Patria non mi ha mai abbandonato e mi consente di andare oltre i problemi legati alla salute, problemi che possono toccare a chiunque nella vita”.

Ora ci sarà tempo sino al 3 marzo per presentare un candidato alternativo.

Comunque, “Boutef”, come lo chiamano molti compatrioti, non deve temere una seria competizione. L’ultima volta, nel 2014, è stato eletto con l’81,5% dei voti.

Papa Francesco alla Fao

Come annunciato il 27 novembre scorso, il Papa si recherà oggi, alla Sede della Fao, per partecipare alla cerimonia di apertura della 42ª Sessione del Consiglio dei Governatori del Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad), Agenzia delle Nazioni Unite a Roma.

Durante la visita, in programma dalle 9 alle 11 – informa la Sala Stampa della Santa Sede – Francesco pronuncerà un discorso al Consiglio dei Governatori, saluterà successivamente un gruppo di rappresentanti delle popolazioni indigene e rivolgerà infine un indirizzo di saluto al personale dell’Ifad.

Il Papa è stato in visita alla Fao due volte: il 20 novembre 2014 e il 16 ottobre 2017. Inoltre, il 13 giugno 2016,  ha fatto visita al Pam (Programma alimentare mondiale).

Zimbabwe: Gli Stati Uniti chiedono al governo la fine dell’uso della forza

Il governo degli Stati Uniti si è detto “seriamente preoccupato” per l’uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza dello Zimbabwe contro la società civile, invitando tutte le parti a partecipare ad un dialogo nazionale “credibile e inclusivo”. “Gli Stati Uniti invitano tutte le parti a riunirsi immediatamente nel dialogo nazionale.

Il processo di dialogo deve essere credibile, inclusivo e mediato da una terza parte neutrale”, si legge in una dichiarazione rilasciata da un portavoce del dipartimento di Stato, Robert Palladino. “Affinché tale dialogo abbia successo, il governo dello Zimbabwe deve porre fine all’eccessivo uso della forza e dell’intimidazione, rilasciare immediatamente gli attivisti della società civile che sono stati arbitrariamente arrestati e perseguire i membri delle forze di sicurezza responsabili di violazioni e abusi dei diritti umani. Ribadiamo anche la nostra richiesta al governo dello Zimbabwe di attuare le riforme politiche ed economiche promesse”, conclude la nota.

L’appello fa seguito a quello lanciato nei giorni scorsi dalla Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc), che ha condannato le violente proteste delle ultime settimane in Zimbabwe contro il caro-carburante, invitando la comunità internazionale a revocare “incondizionatamente” tutte le sanzioni imposte al paese.

Le iniziative cattoliche contro la tratta delle persone

“Le iniziative cattoliche contro la tratta delle persone” è il tema di una conferenza che si terrà presso il Parlamento europeo a Bruxelles il prossimo 19 febbraio. L’iniziativa è della Commissione degli episcopati della Comunità europea (Comece) e di Don Bosco international, insieme all’eurodeputata Teresa Jiménez-Becerril.

L’appuntamento intende riunire “rappresentanti di Chiese e società civile, nonché responsabili politici e altri attori attivi nella lotta contro la tratta di esseri umani”. Padre Michael Czerny, sottosegretario della Sezione migranti e rifugiati della Santa Sede, presenterà il documento “Orientamenti pastorali sulla tratta di persone”, pubblicato il 17 gennaio scorso dal Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale.

Si parlerà anche di prevenzione e dello sfruttamento sessuale, con la presentazione di una iniziativa concreta in questo ambito, il progetto “Fambul” dei salesiani in Sierra Leone.

Rembrandt. I cicli grafici, le sue più belle incisioni

A Cosenza, nel cinquecentesco Palazzo Arnone, è possibile ammirare fino al 24 marzo 2019 Rembrandt. I cicli grafici, le sue più belle incisioni, un focus dedicato all’attività grafica di uno più celebri artisti del Seicento europeo.

L’esposizione, organizzata dall’Associazione N. 9 in collaborazione con il Polo museale della Calabria, presenta oltre trenta incisioni originali provenienti da collezioni private ed è supportata da attività laboratoriali.

La mostra è patrocinata dall’Ambasciata dei Paesi Bassi.

La dottoressa Antonella Cucciniello, dirigente delegato del Polo museale della Calabria, si dice orgogliosa che Cosenza dedichi un tributo a Rembrandt proprio nel 2019, mentre – a 350 anni dalla scomparsa – l’Olanda gli rende omaggio con iniziative diffuse su tutto il territorio nazionale.

Un’occasione per scoprire o riscoprire la Galleria Nazionale di Cosenza, che in Palazzo Arnone ha sede.

Trasporto pubblico locale: 3.89 miliardi alle Regioni

Il titolare del Mit, Danilo Toninelli, ha siglato ieri il decreto interministeriale con il quale vengono ripartiti tra le Regioni a statuto ordinario 3.898.668.289,20 miliardi di euro come anticipazione dell’80% del Fondo nazionale per il concorso finanziario dello Stato agli oneri del trasporto pubblico locale, anche ferroviario. Tra i fondi sono stati conteggiati, e dunque di fatto sbloccati, 300 milioni di euro accantonati dalla legge di Bilancio 2019.

“Potenziare il trasporto pubblico locale è, sin dall’inizio, uno dei miei obiettivi prioritari – ha detto il Ministro – La via maestra per garantire ai cittadini spostamenti adeguati, facendo passi in avanti verso l’intermodalità e l’obiettivo d’incentivare forme di viaggio a basso impatto ambientale. Sono dunque soddisfatto di essere riuscito a sbloccare a tal fine le risorse accantonate in Manovra, perché sul Tpl non è ammissibile risparmiare né tagliare nemmeno un euro”.

L’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto tasso di motorizzazione (con una media di circa 65 auto ogni 100 abitanti). Negli ultimi anni il tasso di motorizzazione medio dei capoluoghi italiani ha mostrato addirittura un incremento. Per controbilanciare questa situazione bisognerebbe quindi puntare sull’attrattività e sull’efficienza del trasporto pubblico locale; settore cruciale per mettere in campo il cambiamento. Dall’ultimo Rapporto dell’Istituto superiore di formazione e ricerca per i trasporti (Isfort) vediamo come nelle grandi città la quota del trasporto pubblico sfiori il 30% degli spostamenti motorizzati (il doppio della media), mentre nei Comuni con meno di 50.000 abitanti si fermi al 4% circa. Questa ampia forbice pone domande su come organizzare in modo ottimale la mobilità collettiva (copertura dei bisogni della domanda in modo economicamente sostenibile) dalle aree urbane dense fino a quelle interne meno popolate e più disperse.

In Italia infatti circa due italiani su tre vivono nei Comuni con meno di 50.000 abitanti, ricadenti o meno nelle aree metropolitane: cittadini che si muovono pochissimo con i mezzi pubblici anche quando devono spostarsi verso i poli maggiori. Secondo i dati Isfort gli italiani vogliono scommettere sulla mobilità sostenibile, chiedendo più investimenti per rendere competitive le soluzioni alternative all’auto, in particolare per il trasporto pubblico, nonchè maggiore determinazione nella messa in campo di misure che favoriscano il riequilibrio modale e la vivibilità delle città. Questo in sintesi il quadro che emerge dallo specifico focus di indagine condotto lo scorso anno sul tema della valutazione delle politiche di mobilità sostenibile.

Le opinioni analizzate, derivanti da altrettante linee di approfondimento di Audimob, sono in primo luogo la propensione al cambio modale, con un intervistato su tre che vorrebbe aumentare l’uso dei mezzi pubblici (in calo di qualche punto tra il 2015 e il 2017, più forte nelle grandi città) e quasi quattro su dieci che vorrebbero implementare l’uso della bicicletta (in sensibile crescita ma con valori più bassi nelle grandi città dove ragioni di sicurezza e di inquinamento scoraggiano un uso più diffuso del pedale); l’automobile registra invece oltre un terzo di “desideri” opposti, nel senso che la si vorrebbe lasciare in garage qualche volta di più. A tale proposito la valutazione dei cittadini va ai mezzi alternativi all’auto, che occorre incentivare. Ed è soprattutto il trasporto pubblico che, secondo gli intervistati, dovrebbe essere sostenuto con investimenti pubblici. Seguono la bicicletta (76%), anche nella versione bike sharing (61%), e più staccati, ma con percentuali comunque superiori al 50%, il car sharing e il car pooling (valori per la sharing mobility in forte crescita dal 2016). L’ultimo focus di Isfort rileva infine l’opinione delle persone in riferimento alle politiche da attivare per ridurre l’inquinamento nelle aree urbane. Il consenso alle diversificate misure sottoposte a valutazione è risultato amplissimo, sempre superiore al 50% con la sola eccezione della tariffazione della sosta. L’opzione per il trasporto pubblico si conferma nettamente come la scelta preferenziale dei cittadini: il 94% degli intervistati considera infatti utile “potenziare e migliorare i servizi di trasporto pubblico” e di questi oltre la metà (57% del totale) valuta questa azione “assolutamente prioritaria”.

Usa: I figli di genitori no-vax che si fanno vaccinare

Ethan Lindenberger, un giovane dell’Ohio, ha chiesto aiuto alla rete come potersi vaccinare contro il parere dei genitori no-vax.

Ha raccolto più di mille risposte e poi allo stesso forum si sono aggiunti altri due ragazzi con lo stesso problema, vorrebbero essere vaccinati ma vivono con famiglie no vax – come ha notato il Washington Post.

Fra le risposte, sono arrivate anche quelle di infermieri ed esperti che spiegano come farsi vaccinare se i genitori non vogliono. Per Ethan ormai il problema non si pone più ma lui ha anche un fratello di sedici anni e una sorellina di due che vorrebbe tutelare.

Ma Ethan non è l’unico, sembra stiano crescendo negli Usa i ragazzi che spaventati da malattie come Morbillo, varicella, HPV, epatite, vogliano vaccinarsi una volta maggiorenni contro il parere dei genitori non vax.

Uniti su cosa? Cattolici e politica

Articolo già apparso sulle pagine di Città Nuova a firma di Carlo Cefaloni

Mentre la Lega di Salvini continua a crescere, il centro sinistra è in crisi di identità e il M5S manifesta segnali di cedimento, si continua discutere sul ruolo dei cattolici in politica. Abbiamo posto apertamente la questione sul numero di gennaio 2019 della rivista  per aprire un forum di discussione sul sito. Per avere un’idea della ricchezza e complessità di un dibattito che si colloca al centro del periodo di transizione della società italiana merita confrontarsi con Sandro Campanini, coordinatore di “Costituzione, Concilio, Cittadinanza – C3dem” una rete di collegamento tra esponenti di un ampio numero di associazioni dell’area cattolica democratica. La ricchezza di contenuti disponibili sul loro sito, attivo dal 2012, testimonia la solidità di una cultura politica feconda.

Andiamo subito al punto. Un partito laico di ispirazione personalista, capace di tenere assieme “quelli della vita con quelli del sociale”, è possibile e auspicabile oggi in Italia? Bisognerebbe chiedersi perché in diversi si fanno questa domanda oggi, mentre fino a qualche anno fa non era così esplicita. È chiaro – semplifico molto – che si sente un senso di crisi generale, una preoccupazione profonda, a cui si vorrebbe dare risposta rendendo più forte e diretto il contributo dei cattolici. È senza dubbio una reazione importante e condivisibile, senza dimenticare, d’altra parte, che nei partiti attuali ci sono non poche persone che hanno radici nel “mondo cattolico”; magari non sempre hanno  visibilità ma sono attivi, anche nei livelli locali (che troppo spesso non consideriamo a sufficienza…). Una prima osservazione un po’ “pratica”: è molto difficile creare partiti “a tavolino”, senza cioè un movimento “dal basso”. È vero che il Movimento 5 stelle è riuscito in pochi anni ad avere risultati che ai tempi dei V-Day di Grillo sembravano impensabili, ma lì siamo di fronte a un caso molto particolare.

Resta però la domanda: è possibile la formazione di un partito che tenga assieme istanze disperse nelle formazioni attuali?
Su alcuni temi fondamentali è possibile che una certa area di cattolici abbia le stesse posizioni – mi riferisco, in generale, ai temi cosiddetti etici (anche se non sarei così sicuro che tutti la pensino esattamente allo stesso modo su ogni questione) e al tema dell’accoglienza delle persone migranti, sul quale, insieme al papa, la Cei, l’associazionismo, molte riviste e siti web e tanti preti e laici impegnati nelle parrocchie si stanno spendendo con grande coraggio. Ma non è detto che su temi politici anche di rilievo – pensiamo, tanto per fare esempi di cronaca, alla Tav o al reddito di cittadinanza – ci siano le stesse idee…perché la mediazione tra fede e politica è sempre un processo complesso e che passa dalla coscienza e la sensibilità di ciascuno, come il Concilio e la dottrina sociale della Chiesa ci ricordano. Va aggiunto che l’esperienza del recente passato non aiuta: il Ppi fondato da Martinazzoli (che in ogni caso rappresentava solo una parte del “mondo cattolico”), si spaccò in due sul problema della collocazione rispetto all’asse centrodestra-centrosinistra e non si trattò certo di un problema  tattico.

C’è poi la questione dei risultati in termini elettorali…
Esatto. Una formazione del genere avrebbe il consenso sufficiente per essere davvero incisiva? Non è infatti scontato che i cattolici – che tra l’altro rappresentano comunque una minoranza – votino per un partito solo perché si definisce loro “rappresentante”. E se quindi dovesse allearsi con altri, non dovrebbe comunque “mediare” tra le proprie posizioni e quelle altrui? A meno che non si rinunci in partenza alla prospettiva di governo e si eserciti solo una forma di testimonianza (“diritto di tribuna”), qualificandosi su alcuni temi specifici: che è una possibilità, certo, ma non so quanto rispondente alle attese.

Quindi?
Sulla scorta di un ragionamento proposto dal presidente dell’Azione Cattolica, Matteo Truffelli, su Avvenire, bisogna porsi la domanda: in un Paese in cui si è sempre propensi alla frammentazione, non è più utile, finché e dove è possibile, essere lievito di unità? Un nuovo partito è la migliore cosa che i cattolici possono fare oggi? Detto ciò, non si può escludere, in assoluto, che un domani non emerga il bisogno di costruire una nuova forza politica, di “ispirazione personalista”. Ma più che un obiettivo o una prospettiva a breve termine, mi sembra una possibilità da tenere aperta ove ne ricorresse davvero la necessità.

L’Italia di Sanremo e quella di Montalbano

Raramente nella storia sociale italiana c’è stato un legame più fortunato e duraturo – 20 anni – tra un personaggio letterario di successo (il Commissario Montalbano, nato dalla penna di Andrea Camilleri) e il suo autore televisivo (Luca Zingaretti, fratello del noto Nicola). L’ultima puntata della serie, intitolata L’altro capo del filo, racconta uno sbarco di migranti sulle coste siciliane e la conseguente reazione delle forze dell’ordine, guidate da un Commissario in giacca e cravatta, senza mai indossare una giubba della Polizia. In un Paese normale, la puntata di una serie tv da 12 milioni di spettatori che si occupa di migranti, sarebbe un tema politicamente “sensibile”. Invece il sismografo politico mostra calma piatta dalle parti di Vigata, dopo le robuste oscillazioni registrate a Sanremo, tra battute innocenti del Direttore Artistico e tweet sarcastici nei confronti del vincitore del Festival, il “nuovo italiano” Mahmood. Nessuno della sala stampa si è preso la briga di replicare alle vibranti proteste del secondo classificato (il cantante Ultimo) che gli ultimi saranno i primi. Per il Festival di Sanremo del prossimo anno, confidiamo nel televoto “puro” (come auspicato anche da uno dei Vicepremier, che ha parlato – emblematicamente – di “popolo contro élites”) oppure in una “giuria di qualità” presieduta da Lino Banfi.

Tornando al Commissario Montalbano, l’attualità del tema degli sbarchi dei migranti lascia in realtà sullo sfondo una Vigata totalmente a-storica, sempre uguale a sé stessa, a cui lo spettatore può accedere ogni volta che vuole, trovando conforto nell’incessante ritorno dell’identico. Il Commissario guida la stessa automobile di 20 anni fa, la “storica” fidanzata è sempre Livia (anche se l’attrice che la interpreta è cambiata nel tempo), la casa di Montalbano è sempre la stessa, così come la terrazza (abusiva) con vista sul mare, da anni meta di pellegrinaggio tra le più note località siciliane. Perfino il linguaggio dei personaggi della fiction non viene minimamente influenzato dai mutamenti linguistici che caratterizzano le lingue “vive”. “E che mi viene a significare?” chioserebbe il Commissario, in una delle sue celebri battute. Viene a significare che la fiction ha un suo ritmo narrativo ormai collaudato e risponde al principio “squadra che vince non si cambia”.

Furlan: “La linea del Governo è assolutamente sbagliata”

Annamaria Furlan, segretario nazionale della Cisl a margine del consiglio regionale del sindacato siciliano dichiara che: “Abbiamo tanti, tanti tavoli per aziende in crisi in cui il Governo è assolutamente silente. Questo Paese da troppo tempo, e in questo ultimo anno in modo particolare, non ha una politica industriale”.

“Il sud è scomparso dalla legge finanziaria”. “E’ come se con il reddito di cittadinanza risolvessimo i problemi del sud che ha bisogno di investimenti e di reti sociali”. Quella dello sviluppo del Mezzogiorno, ha detto ancora, “è una questione che deve essere ripresa, ma il governo l’ha dimenticata”. In particolare la situazione della Sicilia “è una cartina di tornasole assolutamente chiara”, ha aggiunto Furlan, “mancano le infrastrutture e manca un progetto serio di crescita che si fa solo con investimenti in innovazione e ricerca. Tutto quello che ha tagliato la legge finanziaria”.

Che aggiunge: “La linea del Governo sulla Tav, come le tante opere infrastrutturali bloccate, è assolutamente sbagliata. Abbiamo bisogno di far ripartire i cantieri, i lavori nelle infrastrutture per collegare il Sud al Nord e il Nord con tutta l’Europa. Solo così potremo essere un Paese competitivo nella qualità”.

Nasce Tucum, l’app per donare un pasto ai senza dimora

Un’applicazione per dispositivi mobili che dà la possibilità agli utenti donatori di offrire un pasto ai senza dimora e alle famiglie più indigenti sull’esempio della tradizione partenopea del caffè sospeso. Si chiama “Tucum” ed è sviluppata dalla A.P.P. Acutis S.r.l.s. nell’ambito di un progetto svolto con il sostegno di Caritas Italiana. L’app Tucum permette di compiere gesti di carità grazie alla moneta elettronica senza più ricorrere al contante.

Ai beneficiari, individuati dalle Caritas diocesane, è consegnata una particolare tessera a tecnologia Nfc (Near-Field Communication) contenente crediti, e non soldi, con la quale è possibile ritirare al massimo l’equivalente di un pasto giornaliero (colazione con pranzo o cena). “L’iniziativa nasce per alleviare il problema della povertà, affidando a tanti uomini e donne di buona volontà uno strumento innovativo per vivere la carità con più sicurezza e maggiore trasparenza, in grado di coinvolgere e responsabilizzare l’intera collettività, indipendentemente dal proprio credo e stato sociale – si legge in una nota -. Allo stesso tempo il progetto permette ai più bisognosi di essere sostenuti e accompagnati con maggiore dignità in percorsi di promozione umana”.

Gli effetti delle donazioni possono essere anche moltiplicati nel caso in cui i donatori acquistino i prodotti convenzionati al prezzo di mercato, mentre gli esercizi commerciali aderenti al circuito li distribuiscono gratuitamente ai beneficiari, addebitando alla “Tucum – OdV” l’erogazione dei prodotti al prezzo di costo. Tra gli obiettivi dell’iniziativa, anche quello di promuovere l’avvio di nuove attività lavorative e sostenere progetti di promozione umana in Paesi in via di sviluppo.

Cyberattacchi: l’Unione Europea contro la Cina

Alcuni Paesi dell’Unione europea stanno pensando a sanzioni contro la Cina.

Questo per una serie di attacchi realizzati contro reti britanniche il mese scorso da un gruppo conosciuto come Advanced Persistent Threat 10 (APT 10).

APT 10 è salito all’onore delle cronache quando, a dicembre, il Dipartimento alla Giustizia Usa l’ha collocato in un sistema che ha al centro funzionari cinesi ufficiali volto allo spionaggio e all’infiltrazione di compagnie statunitensi e di altri paesi alleati. La Cina, dal canto, suo, ha respinto ogni accusa.

Anche in relazione agli attacchi lamentati dai britannici, la missione cinese a Bruxelles ha respinto ogni addebito. “Chiediamo a tutte le parti in causa – ha affermato – di astenersi dal diffamare la Cina, in mondo da non minare le relazioni bilaterali e la cooperazione con la Cina”.

Parma 2020: il futuro della memoria

Il Consiglio dei ministri,  ha deliberato il conferimento alla città di Parma del titolo di Capitale italiana della cultura per l’anno 2020. Un riconoscimento ufficiale atteso poiché, un anno fa, proprio la città ducale è stata scelta tra dieci diverse candidate per l’attribuzione del titolo. Oltre a Parma le realtà concorrenti erano: Agrigento, Bitonto, Casale Monferrato, Macerata, Merano, Nuoro, Piacenza, Reggio Emilia e Treviso.

Il Sindaco Federico Pizzarotti subito dopo l’annuncio aveva esclamato con orgoglio: “Parma, la nostra bellissima Parma, Capitale italiana della cultura 2020, ce l’abbiamo fatta!. Un lavoro corale – tiene a precisare Pizzarotti – intenso, difficile, appassionato e incessante. Un grande lavoro che ha compiuto insieme tutta la città. Nessuno escluso, e quando Parma resta unita non la batte nessuno. Una città che ha marciato compatta donando tutte le sue energie e le sue forze per ottenere questo importante riconoscimento, giorno e notte impegnata su questa sfida. Se mi guardo indietro – aggiunge – mi viene da pensare questo: che cammino incredibile ha fatto la nostra città. Che cammino incredibile ed entusiasmante. Ringrazio tutti di cuore, davvero: l’Assessorato alla cultura, le forze imprenditoriali e produttive, l’Università, il Comitato scientifico di #Parma2020, le associazioni, i parmigiani stessi, la mia Giunta e tutti i dipendenti comunali che insieme a noi hanno lavorato al grande progetto […]”.

Il Comune di Parma ha quindi avviato tre attività principali: l’elaborazione di una nuova visone di città, una sorta di roadmap con la messa a punto di un piano di iniziative e investimenti; la creazione di una organizzazione locale (Smart City Governance) capace di svolgere un ruolo di raccordo e promozione all’interno del territorio e con gli stakeholder locali; lo sviluppo di competenze e idee progettuali attraverso lo scambio con altre città europee e internazionali. Da alcuni mesi poi, il Comune di Parma ha emanato un avviso pubblico per selezionare i progetti culturali da promuovere attraverso il Programma del 2020. L’obiettivo dell’avviso è stimolare il territorio a esprimere progettualità coerenti con principi, finalità e temi del dossier di candidatura, promuovendo contestualmente la pianificazione culturale integrata.

Le proposte possono essere presentate dagli enti del terzo settore, dagli enti no profit pubblici e privati e dai soggetti privati che, per notorietà e struttura sociale, possano dare garanzia di correttezza e validità dell’iniziativa realizzata. Non saranno considerate ammissibili le proposte presentate da persone fisiche, nè quelle proposte come capofila dai soggetti che hanno già iniziative in essere nel dossier. Saranno prese in considerazione anche proposte progettuali che prevedano iniziative in ambito nazionale e internazionale, al di fuori del territorio parmense o dell’Emilia, purché il legame con Parma e il suo territorio sia ben chiaro ed esplicitato.

La selezione non produrrà una graduatoria, bensì un elenco di progetti valutati idonei o non idonei, in base ai criteri e alle modalità definiti nell’avviso stesso, disponibile online. Per le iniziative non è prevista l’erogazione di contributi da parte del Comune di Parma. Ogni agevolazione avrà natura di vantaggio economico indiretto, non prevedendo il bando erogazioni in denaro. Le iniziative idonee e autofinanziate potranno accedere agli strumenti del Programma, mentre quelle ritenute idonee, ma mancanti del requisito dell’autofinanziamento saranno inserite in un elenco e pubblicizzate, per massimizzare le probabilità di individuare un eventuale interesse da parte di soggetti terzi sponsor, orientati a sostenere Parma 2020. Il bando sarà aperto fino al 31 marzo 2019 e gli esiti relativi ai progetti presentati entro questa data saranno resi pubblici il mese successivo.

Cercando le forme dell’anima

Inaugurata a Roma, nella Sala Dalí dell’Instituto Cervantes, la mostra “Las formas del alma” (Le forme dell’anima), a cura di Susana Blas. La collettiva comprende 109 opere – pittura, scultura, fotografia, video e installazioni – realizzate tra il 2010 e il 2016 da quattordici artisti spagnoli che affrontano il concetto dell’anima.

Filo conduttore di questa rassegna dal grande impatto visivo è la spiritualità e i diversi modi di rappresentarla in rapporto alla natura, all’uomo e alla quotidianità, lasciando che il visitatore si abbandoni ai ricordi, alle intuizioni, alle visioni e ai simbolismi che le opere evocano. L’esposizione parte dalla mostra «Il Bosco Interiore» ideata come conversazione collettiva e atemporale assieme alla scrittrice mistica Teresa de Ávila (1515-1582), già presentata nel 2015 alla Sala Juana Francés di Saragozza e che per questa occasione è stata ulteriormente ampliata. “Le forme dell’anima” si articola in tre aree di confine nelle quali convivono la spiritualità quotidiana (luce, calma, poesia del momento), i rituali di iniziazione (buio, azione, rinascita) e le visioni oniriche (sogni, spirali, immaginazioni), elementi che vogliono generare nel visitatore un’esperienza emozionale che si impone sulle risposte intellettualizzate.

La funzione di questo intreccio collettivo è quella di una guida di viaggio, durante la quale, ogni opera, ogni dettaglio contiene la totalità della mostra. «Ogni opera d’arte va intesa non solo come qualcosa che ci è stato consegnato ma anche come una certa manipolazione dell’ineffabile». La spiritualità va oltre gli opposti risultando sempre contraddittoria: questa esposizione vuole farsi strada attraverso il profondo e il periferico, attraverso l’immenso e l’esiguo, attraverso il non verbale, la solitudine. Centrandosi sulla delicatezza dei dettagli e sull’incertezza dell’amore. La rassegna si potrà visitare gratuitamente dal mercoledì al sabato dalle 16 alle 20, fino al 30 marzo.

Farmindustria: 450mila morti entro il 2050 legate alla resistenza agli antibiotici

Assorted pills

Quasi mezzo milione di morti, per l’esattezza 450mila, entro il 2050. E’ questo il numero dei decessi che, solo in Italia, sarà determinato dall’emergenza ormai globale legata alla resistenza agli antibiotici (Amr), per un costo per il nostro Servizio sanitario pari a 13 miliardi di dollari. E l’Italia è già oggi al primo posto tra i paesi Ocse per mortalità, con 10.780 decessi l’anno a causa di infezioni da uno degli 8 batteri ormai resistenti ai farmaci antibiotici.

A fare il punto sul fenomeno è Farmindustria, in un incontro per focalizzare i numeri di questa emergenza. L’impatto economico della Amr “potrebbe avere nel 2050, nella peggiore delle ipotesi, ripercussioni più pesanti della crisi finanziaria 2008-9, come avverte la Banca mondiale – rileva il presidente Farmindustria Massimo Scaccabarozzi – per un totale di 2,4 mln di morti nei 33 Paesi Ocse entro il 2050”. Insomma, una minaccia crescente che vede tra le sue cause primarie anche l’uso eccessivo di antibiotici negli allevamenti animali, in Italia più che negli altri Paesi. In generale, infatti, fino al 75% degli antibiotici utilizzata per l’acquacoltura può disperdersi nell’ambiente circostante ed il 70% degli antibiotici è oggi impiegato proprio per gli animali. L’Amr, ha avvertito Ranieri Guerra, assistant director general strategic initiatives dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), “rappresenta il maggior rischio per la tenuta dei conti della sanità nei prossimi 10 anni, con un costo mondiale di 120 mld di dollari al 2050”.

Pd: (d)istruzioni per l’uso

Articolo già pubblicato sulle della della rivista il Mulino a firma di Marco Valbruzzi

Doveva essere il momento del riscatto, lo scatto d’orgoglio di una comunità politica dopo il trauma delle elezioni del 4 marzo, quando non solo il Partito democratico (Pd), ma l’insieme delle forze di sinistra hanno toccato il loro punto più basso in 70 anni di storia repubblicana. Doveva essere il momento della verifica di ciò che alle elezioni del 2018 non aveva funzionato e, contestualmente, delle proposte per ridare un rinnovato senso di marcia a un partito in profonda crisi di – in ordine di importanza – identità, organizzazione e leadership. Doveva essere il momento per fare chiarezza sul ruolo ingombrante di Matteo Renzi all’interno del partito: troppo debole per immaginare di tornare ad esserne il leader, ma ancora convinto di avere il potere – per dirla con il regista Sorrentino – “di farlo fallire”. La sfilza dei doveri malamente mancati dal Pd potrebbe continuare a lungo, ma non porterebbe molto lontano. Quello che è certo è che il Pd ha passato un anno a leccarsi le ferite, ripiegato sulle proprie correnti e ritirato in un ingiustificato Aventino a riempirsi la bocca di effimeri pop-corn e la testa di ugualmente effimere teorie sul falso nueve o altre simili amenità da Bar Sport.

Se la situazione politica dell’Italia è drammatica, molto più drammatico è lo stato confusionale nel quale versano le opposizioni all’attuale governo “sovran-populista”. Su Forza Italia, c’è poco da dire: un dead party walking che continua a rimanere aggrappato al suo unico, insostituibile, ma decadente leader. Sul Pd, cioè su quello che era stato spacciato come il “partito della nazione” o, addirittura, nei sogni di Alfredo Reichlin, come un moderno volkspartei, non si può essere altrettanto reticenti. Dopo il tonfo storico del 4 marzo 2018– una Caporetto che al momento non lascia intravedere alcun Vittorio Veneto – ci si sarebbe aspettati un’analisi impietosa delle cause della sconfitta, una discussione profonda sui valori dimenticati della/dalla sinistra e, infine, una competizione accesa tra candidati leader con diverse visioni del partito, considerato non come un fine in sé, ma come lo strumento per governarne l’Italia. E invece è accaduto esattamente l’opposto.

La pratica dell’analisi della sconfitta è stata sbrigata in una mattinata all’hotel Ergife a Roma e poi con qualche rapida comparsata nelle ormai mitologiche periferie delle nostre città. La discussione sui valori e sull’identità del partito è stata subappaltata all’account Twitter di un tecnocrate di per nulla comprovata competenza politica. Basterebbe leggersi il famoso Manifesto di Calenda (& Co.), ad esempio dove si scrive che “laddove esistono alti tassi di conoscenza diffusa e un welfare efficace il populismo non attecchisce”, per capire che di strada da fare il giovanotto (si fa per dire) ex ministro ne ha ancora molta. Se la comprensione del fenomeno del populismo è ferma a questi livelli, non voglio immaginare a che punto sia l’analisi della società italiana e del suo comportamento politico.

Infine, serviva una competizione accesa, autentica, persino spietata tra candidati leader con diverse concezioni dell’organizzazione del partito, nella speranza di ridare una leadership riconosciuta a “una formazione acefala, ossia guidata da una sbiadita oligarchia, priva di carisma, priva di idee, priva di tutto” (copyright: Angelo Panebianco). Priva sempre di più – aggiungo io – anche di iscritti: nel 2019 sono scesi per la prima volta sotto quota 400 mila (vedi Tabella 1) e appena la metà hanno sentito l’urgenza di partecipare al voto interno ai circoli. Questo è il segno più evidente che il Pd non è riuscito a invertire la rotta e si trova a celebrare un rito sempre più logoro al quale neanche i diretti interessati, a partire dai tre candidati alla segreteria, sembrano credere più.

Naturalmente, c’è ancora un mese di tempo per provare a salvare il salvabile, tra cui includo la sopravvivenza stessa del Pd, ma nel frattempo almeno tre condizioni devono essere soddisfatte: 1) i  candidati dicano subito come intendono seriamente ri-organizzare (al centro e in periferia) un partito attualmente in stato comatoso; 2) si fermi la discussione su fantomatiche liste unitarie che sconfesserebbero all’istante lo stesso progetto del Pd; e 3) qualcuno spieghi quali sono gli obiettivi, i valori, gli ideali che tengono assieme la comunità del Pd e ne costruisca progetti e pratiche conseguenti. Unicamente a queste condizioni sarà possibile evitare la triste fine verso la quale il Partito democratico sembra avviato.

I cinque stelle sull’orlo del precipizio

L’Abruzzo è una cosa a se stante perché i comportamenti politici italici divergono a ogni piè sospinto.

Uno che dovesse guardare dall’esterno che cosa è capitato ieri, non riuscirà a trovare un senso delle cose. Ad essere però corretti, l’unica stella polare che non si muove in questo cielo strano è il movimento cinque stelle. Solo era e solo è rimasto. Con un risultato a dir poco mediocre, anzi che rasenta un dimezzamento in un anno, ma almeno si soddisfa nella sua solitudine.

La Lega sicuramente ha vinto, il suo lusinghiero risultato del 25% circa, la proietta al primo posto nella classifica dei partiti; ma il commentatore resterà stordito perché in questa tornata regionale, Salvini riabbraccia nuovamente Berlusconi e la Meloni, ma, uscito di stanza, soggiornerà nuovamente con Di Maio. L’osservatore sarà indotto a consultare qualche libro che lo illumini sui comportamenti schizofrenici: nello stesso tempo essere da una parte ed essere anche dall’altra.

L’unica a essere fortemente inorgoglita dal risultato è Giorgia Meloni, che con una percentuale contenuta, ha collocato in sella alla Regione un romano, suo fedelissimo, il neo Presidente Marsilio.

Berlusconi, per quanto non abbia raggiunto le cifre dell’anno precedente sembra comunque, in discreta salute. È ancora lì, non ha lo scettro del primato ma non è ruzzolato  verso il fondo. Insomma, è ancora pronto per giocarsela alle europee.

Sorprendente il buon risultato del centro sinistra, il 31% segna un netto miglioramento rispetto alla magrezza del 2018. Però, va distinto il risultato ghigliottinato del Pd, che raggiunge il 10-11% e quindi segna una sorta di Caporetto del centro Italia; ma la somma di tutte le altre liste, fa conseguire il secondo posto in Regione del suo candidato Presidente. Anche qui il commentatore sarà indotto a sfogliare il testo di cui sopra. Perché? Il Pd, a differenza di quanto sta accadendo a livello nazionale, qui ha inteso contaminarsi con tutte le espressioni del mondo civico e della sinistra. Solo Dio sa come combinare questi comportamenti in terra di Abruzzo con le politiche promosse da Renzi, Martina, Giachetti e anche Zingaretti, che su questo fronte potrebbe essere più vicino alla esperienza abruzzese, ma che non è stato ancora sufficientemente chiaro su questo fronte politico.

Archiviata anche questa tornata elettorale, attendiamo con interesse, il prossimo evento: tra quindici giorni capiterà l’elezione in Sardegna. Che cosa ci riserverà? Non lo sappiamo ancora, ma i dati di ieri fanno presagire un destino prossimo a quello odierno. Vedremo.

Papa: il 21 giugno sarà a Napoli

Papa Francesco si recherà a Napoli il prossimo 21 giugno, dove prenderà parte all’incontro sul tema “La teologia dopo Veritatis Gaudium nel contesto del Mediterraneo”, promosso dalla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale – sezione San Luigi – di Napoli.

Il programma prevede l’arrivo del Pontefice nel capoluogo campano verso le ore 9: Francesco sarà accolto, tra gli altri, dal cardinale Crescenzio Sepe, arcivescovo di Napoli e gran cancelliere della Facoltà, dal vescovo di Nola, mons. Francesco Marino, e dal preposito generale della Compagnia di Gesù, padre Arturo Sosa Abascal. La seduta pubblica dell’incontro si svolgerà sul piazzale antistante la Facoltà.

Qui il Papa pronuncerà un discorso incentrato sul tema dell’incontro, quindi, dopo il pranzo, farà ritorno nel primo pomeriggio a Roma.

La Resistenza Liberale nelle memorie di Cristina Casana e gli attuali pericoli di una secessione strisciante e occulta

Un bel libro, quello di Rossella Pace, che ha curato la pubblicazione delle memorie sulla Resistenza Liberale di Cristina Casana.

La presentazione del libro, pubblicato nel 2018 per i tipi di Rubbettino, è avvenuta il 5 Febbraio 2019 nell’Istituto Luigi Sturzo di Roma. Ne hanno discusso Luigi Compagna, Fausto Bertinotti, Antonello Folco Biagini, Eugenio Capozzi.

Il dibattito è stato molto interessante anche perché sono stati posti in luce il ruolo del protagonismo femminile di stampo liberale e il significativo coinvolgimento di molti esponenti dell’aristocrazia nella Resistenza.

Le memorie di Cristina Casana sono ricche di episodi importanti che hanno caratterizzato la Resistenza Liberale contro il fascismo e il nazismo. Anche i suoi incarichi, svolti a livello nazionale e internazionale nella seconda metà del ‘900, sono lo specchio del nuovo impegno delle Donne dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana.

Fa bene Rossella Pace a porre l’accento sulla grave “dimenticanza”, anche storiografica, circa il ruolo svolto dai Liberali nella Resistenza. Testualmente, scrive: “Dimenticanza, questa, imputabile in parte alla letteratura scientifica, ma, anche e soprattutto, allo stesso Partito Liberale che non ha mai riconosciuto pienamente il contributo determinante di molte figure femminili a quella che Ercole Camurani in primis, definì la Resistenza Liberale: Non lagniamoci poi se l’antifascismo è stato monopolizzato da comunisti e azionisti quando noi siamo stati così cattivi custodi della memoria. Va sottolineato che immediatamente dopo la liberazione venne meno lo ‘spirito resistenziale’, e molti …preferirono tacere.”

“Lasciare la gloria a chi parlava a voce più alta” è stato non solo un errore, ma un modo per far venire meno lo spirito costituente e per cancellare la memoria di una pagina di storia molto importante e molto significativa.

Invero Rossella Pace auspica che la pubblicazione del suo libro possa essere di stimolo a riscrivere una nuova pagina della resistenza volta al recupero di una memoria comune del nostro recente passato.

Il diario di Cristina Casana è ricchissimo di episodi significativi e di nomi importanti, non solo dell’aristocrazia, tutti impegnati nella Resistenza. Spiega, in concreto e senza teorizzazioni, la motivazione profonda che teneva insieme, durante la lotta partigiana, le forze politiche nascenti dopo i disastri provocati dal fascismo. Ecco alcune parole significative: “Novedrate fu sede delle trasmissioni radio in aiuto ai partigiani, fu luogo di riunioni del governo clandestino dell’Alta Italia. Al di là dei credi politici o religiosi eravamo tutti uniti e solidali. Fu un periodo bellissimo, dove i pericoli non mancavano, ma l’entusiasmo e la gioventù li nascondevano in parte; restava la solidarietà …”

Nelle memorie di Cristina Casana, cattolica e liberale, ci sono tracce di episodi e personaggi, dal ruolo del comunista Dozza poi sindaco di Bologna, ai tanti aristocratici impegnati nella lotta partigiana, rimasti da troppo tempo nell’ombra della storiografia.

Sottolineo che nel diario di Cristina Casana non manca il ricordo della “rabbia ed il pianto alla nostra dichiarazione di guerra festeggiata con canti e bandiere da incoscienti nostri giovani conoscenti!”

Quando Cristina Casana annota gli episodi significativi della caduta di Mussolini e del come il capo del fascismo fosse stato messo dai tedeschi a capo della Repubblica di Salò, appare di tutta evidenza il grado e la consapevolezza dei tanti liberali impegnati nella “lotta clandestina: La Resistenza!”.

Da parte sua, Rossella Pace, nel curare il volume, rivolge ringraziamenti alle persone che hanno “seguito l’intera gestazione dell’opera”: Emma Cavallaro, Antonella Ciuffini, Luigi Compagna, Raffaella Della Bianca, Guido Levi, Cinzia Messori, Letizia Moratti, Stefano Parisi, Laura Pillotti, Florindo Rubbettino, Roberto Sciarrone, Maurizio Serio, Alessandro Vagnini, Eugenio Capozzi, Guido Lenzi Ercole Camurani, e Fabio Grassi Orsini. Alla memoria di quest’ultimo viene dedicato il libro che è stato stampato quando ormai Fabio Grassi Orsini ci aveva lasciato.

Faccio questa precisazione su Fabio Grassi Orsini perché sono rammaricato di non avere avuto il tempo di sviluppare con lui alcuni argomenti che gli stavano a cuore e che mi aveva anticipato lo scorso 22 giugno 2018 quando, in un evento presieduto da lui e da Luigi Compagna, ebbi modo di svolgere una relazione su “Salvatore Valitutti e la crisi dello Stato”. Relazione compresa nel mio libro recentemente pubblicato da Rubbettino col titolo “Pietre”.

So che non è carino che io citi me medesimo e il mio libro in questa recensione. Ma mi preme sottolineare che nei nostri giorni caratterizzati da un presente senza memoria storica, stiamo assistendo ad uno strisciante e quasi occulto tentativo, fortemente influenzato dalla Lega, di pervenire all’approvazione della così detta “autonomia regionale differenziata”. Ciò sta accadendo mentre l’opinione pubblica viene distratta da tensioni crescenti con Paesi europei, a cominciare dalla Francia, e da una ineffabile propaganda razzista e xenofoba. Sono in tanti, e autorevoli, i costituzionalisti che ci avvertono su circostanze volte a determinare, nel giro di poche settimane, la mutazione forse irreversibile della nostra architettura istituzionale e la destrutturazione della nostra Repubblica. Solo per citarne uno, ricordo che recentemente il costituzionalista Massimo Villone, Presidente del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, ha affermato che “la secessione è strisciante e occulta”.

Al riguardo, oso sottolineare che l’unità d’Italia, voluta e costruita dai Liberali, debba ritrovare in questi giorni e nelle prossime settimane l’occasione di un nuovo impegno di tutti innanzi ai pericoli di una secessione non dichiarata ma attivata dal così detto “autonomismo regionale differenziato”.

Ricordo, in proposito, la lotta intensa e non a lieto fine che fece il liberale Malagodi nella seconda metà del ‘900 contro la nascita in Italia dei carrozzoni regionali (i cui principali punti di critica hanno tutti trovato puntuali conferme nei decenni successivi). Ora i Liberali, capaci di saper dare risposte alle esigenze dei primi e degli ultimi, non possono restare in silenzio e, a mio avviso, debbono raccogliere i richiami dei costituzionalisti e dei soggetti che stanno mettendo a fuoco i pericoli di scelte conseguenti anche alla poco accorta, per non dire sciagurata, riforma del titolo quinto della Costituzione. Una riforma, quella del 2001, varata dall’Ulivo a stretta maggioranza delle Camere e poi confermata dal successivo referendum ex art. 138 con la “Casa delle Libertà” non impegnata ad opporsi. Furono prevalenti, in quella occasione, troppe indulgenze e troppe concessioni alle rivendicazioni della Lega che si inventò, fin dalla sua nascita, il culto del “Dio Po”.

 

Perugia diventa Comune Amico della Famiglia

Da oggi Perugia  diventa a tutti gli effetti “Family Friendly”, una città che mette al centro le diverse necessità dei nuclei familiari oltre, naturalmente, alle politiche sociali in generale. Tanti gli spazi attrezzati dedicati ai bambini, le aree progettate per il benessere dei più piccoli e dei genitori, agevolazioni economiche che vanno dai trasporti ai costi della ristorazione, alberghi, nonchè accesso a musei e mostre.  Un risultato che è frutto di un lavoro di squadra tra istituzioni, mondo dell’associazionismo e dell’impresa che scelgono d’investire, oggi più che mai, nella qualità del proprio territorio.

Il network “Amici della Famiglia” costituisce la rete dei Comuni che a livello nazionale intendono promuovere politiche per il benessere familiare sulla base del know-how sviluppato dalla Provincia autonoma di Trento. E’ promosso dalla stessa Provincia autonoma di Trento, dal Comune di Alghero e dall’Associazione nazionale famiglie numerose. Aderire al network significa entrare a far parte di un processo culturale di avvicinamento, di sensibilizzazione e di riorientamento dell’attività delle istituzioni comunali ai bisogni e al benessere delle famiglie. La rete è un moltiplicatore di risorse e di scambi di informazioni esperienze e idee. Consente di conoscere e sperimentare nuove politiche, nuovi modelli organizzativi e di welfare.

Il riconoscimento del capoluogo umbro è la conclusione di un percorso e dell’inizio di un nuovo modo di porre la famiglia al centro delle risorse della città, non come mero oggetto di politiche sociali, ma come soggetto attivo in grado di contribuire attivamente alla costruzione della società. Un ritorno al vero ruolo dell’istituzione familiare, svuotato talvolta del suo significato e indebolito da politiche eccessivamente individualistiche. Questa mattina alla cerimonia di investitura, a Palazzo dei Priori, interverranno tra gli altri il Sindaco di Perugia, Andrea Romizi, il segretario generale dell’Anci Umbria, Silvio Ranieri, e il dirigente dell’Agenzia provinciale per la famiglia, la natalità e le politiche giovanili di Trento, Luciano Malfer. Il Piano delle politiche per la famiglia del Comune di Perugia sarà presentato dal dirigente Area Servizi alla persona, Roberta Migliarini.

Assisi: nasce il videogiornale diocesano

Un videogiornale a cura della diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino, che si arricchisce di un nuovo strumento di informazione: si intitola “Chiesa Insieme, Famiglia Insieme”.

La prima puntata, disponibile sul sito della diocesi e sui suoi canali social, è dedicata all’avvio della visita pastorale del vescovo, mons. Domenico Sorrentino, e ad altri eventi della vita diocesana, anche meno recenti, tra i quali l’apertura del “Museo della Memoria, Assisi 1943-1944” nei locali del vescovado.

L’iniziativa permetterà di raccontare i momenti più salienti e significativi della visita pastorale e anche di conoscere le attività, gli appuntamenti e i programmi che vengono svolti in diocesi.

Le notizie, divulgate con cadenza settimanale, saranno illustrate brevemente e accompagnate da immagini inedite e significative dei vari momenti raccontati. Il format verrà pubblicato e condiviso sul sito della diocesi (www.diocesiassisi.it) e sui canali social tra i quali Facebook (Diocesi Assisi-Nocera-Gualdo) e Youtube (diocesidiassisi).

Bambino Gesù: una scuola per l’epilessia

Circa il 30% delle crisi epilettiche si manifesta in classe; inoltre, il 40% delle chiamate ai numeri di emergenza 112 e 118 che partono dalle scuole è proprio per casi di crisi epilettica. I dati confermano l’appropriatezza di iniziative – come quella del Bambino Gesù – ideate per insegnare a gestire le crisi in sicurezza riducendo gli accessi impropri al pronto soccorso. Il 90% delle crisi dura meno di 2 minuti, in alcuni casi possono durare di più e rendere necessaria una assistenza d’urgenza anche con il ricovero in terapia intensiva. In tutte queste situazioni la somministrazione corretta e tempestiva dei farmaci specifici interrompe la crisi, può evitare il ricovero e soprattutto gravi conseguenze per il paziente.

Il progetto dell’Ospedale Pediatrico della Santa Sede prevede un appuntamento formativo annuale presso l’Auditorium di Roma San Paolo (in concomitanza con Giornata Mondiale dell’epilessia) e una serie di lezioni interattive negli istituti scolastici che aderiscono all’iniziativa. Sono stati già educati più di 1000 operatori in varie scuole di Roma e del Lazio.

Dal monitoraggio delle scuole formate nelle tre precedenti edizioni, è emerso che il 46% degli insegnanti ha uno studente con epilessia in classe; oltre 1/3 degli istituti (37%) ha avuto a che fare con almeno un episodio di crisi epilettica; dopo la formazione è raddoppiato il senso di sicurezza e quindi la disponibilità a somministrare i farmaci d’urgenza ai bambini/ragazzi in preda alle convulsioni e il 100% delle crisi (17 in totale) è stato gestito in classe dal personale formato che ha messo in atto le corrette manovre di assistenza, evitando, così, ospedalizzazioni inappropriate. Per la gravità della situazione, il ricovero si è reso necessario solo in 2 casi.

Elezioni regionali Abruzzo: vince il centrodestra

Con il 50% circa dei voti scrutinati (799 sezioni su 1.633), il candidato presidente per il centrodestra Marco Marsilio è avanti nelle elezioni regionali in Abruzzo con il 49,48%. Seguono il candidato del centrosinistra Giovanni Legnini con il 31,96% e quella del Movimento 5 stelle Sara Marcozzi con il 18,03%. Lega primo partito con il 28,90%. Pd all’11,64%.

Nella coalizione di centrodestra che ha il 48% dei consensi, Forza Italia è accreditata del 9,5%, mentre Fratelli d’Italia è data al 6,2%. Nel centro sinistra, la lista più votata è il Pd al 10% seguita da quella Legnini presidente col 8,6%. Il centrosinistra complessivamente è al 31,2%.

L’anno scorso il centrosinistra in Abruzzo, compreso Leu,  aveva conseguito un risultato del 17,6%, 10 punti in meno rispetto ad oggi.

Mentre  il 4 marzo, i Cinquestelle che erano arrivati al 39,8% sono oggi costretti ad un 18,03%.

Un risultato che aumenta, teoricamente, il “potere” della Lega all’interno dell’alleanza di governo.

Dovuto sicuramente all’esperienza di governo dei 5S e che potrebbe portare l’ala ortodossa del movimento a farsi sentire, già nelle prossime ore, su voti cruciali, come quelli sul caso Diciotti o sulle autonomie.

 

 

I Liberi e forti di Roma

In questo periodo non sono pochi i tentativi di articolare una proposta politica coerente e capace di suscitare un impegno democratico, sostenibile, partecipato.
Abbiamo di fronte a noi una sfida che riguarda il declino o la rinascita dell’Italia. La “rivoluzione” del 4 marzo ha creato l’illusione di una “felicità” a buon mercato. Tutto si risolve con la forza dell’evocazione, del’illusione populista certamente ambigua, del facile rifiuto di ogni mediazione. Si respira aria di violenza: vale, cioè, la formula del “sovranismo psichico” (Rapporto Censis) come moto profondo della società. Ecco, dobbiamo reagire.  

Per questo siamo tutti chiamati a misurarci con un contesto di ripiegamento identitario a diversi livelli. Anzitutto, nei confronti dell’altro e del “diverso”, del futuro, così come dell’Europa e del resto del mondo. Anziché cercare mediazioni e progetti condivisi, la politica tende a esasperare le contrapposizioni, alimentando la lotta dei penultimi contro gli ultimi. Oggi il semplice dissenso non basta più. Occorrono soggetti “liberi e forti” che elaborino proposte concrete per qualcosa che possa essere chiaramente alternativo rispetto all’esistente e capace di coagulare il consenso della “maggioranza silenziosa” della società civile. Del resto anche l’Appello ai Liberti e Forti di don Luigi Sturzo si presentava come alternativo rispetto alle proposte politiche in auge ai suoi tempi.

Occorre, dunque, far emergere proposte nuove e a questo si concorre tutti insieme.

Non ignoriamo affatto le difficoltà esistenti. Al tempo stesso, come Circolo dei Liberi e Forti di Roma, sentiamo il bisogno di far parte di un processo che possa contribuire ad armonizzare queste realtà.

Avvertiamo l’esigenza, diffusa all’interno della società civile, di una presenza territoriale viva e organizzata sulla base di una novità sostanziale.

I “liberi e forti” devono aprire spazi affinché i gruppi possano crescere grazie a una progressiva assunzione di responsabilità nella costruzione del “bene comune”, seguendo l’insegnamento della Dottrina Sociale della Chiesa con un’attenzione particolare a chi è socialmente ai margini. È proprio la capacità di promuovere la partecipazione dei più deboli che legittima uno Stato democratico. Per questo è fondamentale che un’Europa che si pone alla ricerca di una identità “popolare”, sappia mettere al centro delle sue politiche il “pilastro sociale”.

Il cambiamento di cui oggi avvertiamo l’esigenza sarà possibile soltanto se i “liberi e forti” che popolano la società italiana sentiranno ancora il desiderio di stare insieme e la necessità di cooperare alla crescita di un progetto comune.

Le elezioni Europee del 26 maggio ci porranno una domanda sempre più cruciale: quale Europa vogliamo? E quale Italia al suo interno? A queste domande speriamo, con il contributo di molti, di poter rispondere nei prossimi mesi.

 

Per coloro che volessero approfondire:

La Rete Bianca, uno schema di lavoro 

L’esodo del ricordo verso il perdono

Sessantacinque anni, un bel salto nella vita. Tanti ce ne sono voluti a Mariuccia, mia madre, per sentire ben oltre la superficie delle ferite il potere rigenerante di Cristo. Ne aveva ottanta, infatti, quando è ritornata a Parenzo, la città dell’Istria che la vide nascere, crescere, e poi, a sedici anni, andar via con poche cose tra le mani. Ci siamo andati insieme, ed è stato come un pellegrinaggio nella memoria. No, non era la prima volta che ci tornava dai tempi dell’ “Esodo”.

Ci andò con papà quando era ancora Jugoslavia, e fu difficile. Ci venne altre volte, e fu un dolore acuto e insopportabile dover oltrepassare due frontiere, quelle della Slovenia e della Croazia. E aveva giurato di non farlo più, come moltissimi hanno giurato e fedelmente compiuto. Ma lei non aveva previsto l’imprevisto, l’amore di Dio che bussa quando meno te lo aspetti, ed è capace di sconvolgere, in bene, ogni vita.

E quella di mia madre, incontrandola, l’aveva sconvolta, eccome. Ho avuto la grazia di poterlo vedere, e oggi, “Giorno del ricordo” istituito dal Governo Italiano nel 2004 per commemorare le vittime dei massacri delle foibe e dell’Esodo giuliano-dalmata, non posso tener ferma la penna. Devoraccontare quello che ho visto in mia madre; lo devo a lei e ai miei parenti, lo devo ai tanti che hanno sofferto e non ci sono più e a quelli che ci sono ancora, ai loro figli e nipoti. E lo devo a molti altri italiani che, mi rendo conto scrivendo, non sanno neppure dove o cosa sia l’Istria, e poi le foibe e l’esodo forzato di 350.000 istriani. Non lo sanno i giovani, come per tanto tempo non l’hanno voluto sapere troppi anziani. Ma oggi capisco anche questo.

Non è facile per nessuno affrontare la realtà, specie se è così dura da sconvolgere le proprie certezze. Quelle dei vincitori e quelle dei vinti, quelle dei carnefici e quelle delle vittime. Per questo sento di dover scrivere quello che ho visto in mia madre, nella speranza che sfiori i cuori di tutti, da qualunque parte siano stati. Anche di quanti non sanno nulla di quello che è accaduto in Istria dal 25 aprile del 1945. Mia madre suole dire che per lei e la sua famiglia la guerra è iniziata proprio il giorno della Liberazione. Guerra che è durata più di mezzo secolo, e forse per molti dura ancora. In politica innanzitutto, tra gli storici, e nei cuori. Almeno così è stato in quello di mia madre. Perché quando vedi ingiustizie brutali piombarti addosso, stroncare la vita di amici e conoscenti, azzerare d’un colpo speranze e certezze, beh ditemi in quale cuore non si innescherebbe la guerra. L’ingiustizia, infatti, è sempre un detonatore inarrestabile di conflitti.

Lo è in famiglia, al lavoro, figuriamoci tra le Nazioni e i popoli. Eppure non è di questo che devo parlare. Vi sono libri e studi che raccontano bene come sono andate le cose. E un’altra storia di dolore non aggiungerebbe nulla, se non qualche fascina al fuoco del risentimento. E dal risentimento non può sorgere la pace, mai. Mentre è proprio della pace che devo parlarvi, quella firmata da mia madre nella Basilica Eufrasiana di Parenzo, la magnifica cattedrale bizantina patrimonio dell’Unesco che impreziosisce la già bellissima cittadina. E non è partigianeria eh, andate su Google e fatevi un viaggetto virtuale, vedrete che meraviglia. La Pace dunque, con la maiuscola sì, perché è uno dei nomi propri di Dio fatto carne. E quel giorno mamma ha finalmente sperimentato la Pace nel suo cuore. In quel momento è stato solo un vagito, ma ormai era fatta.

Mai avrebbe pensato di tornare un giorno insieme a suo figlio prete nella chiesa dove era stata battezzata e aveva ricevuto Prima Comunione e Cresima, e dalla quale era stata violentemente strappata. Mai avrebbe pensato di essere un giorno accanto a lui a celebrare l’amore e la fedeltà di Dio intorno a quell’altare. E’ stato come una saetta, un segno di fuoco nel cuore che ha cominciato a cuterizzare nell’intimo la ferita che sino ad allora aveva sputato veleno, sporcando pensieri e gesti di quel senso d’ingiustizia patita che ti porti addosso e non sai come liberartene. In quella Chiesa aveva passato i momenti più belli della sua infanzia, quelli più puri e innocenti. A poche decine di metri aveva studiato e giocato. Se stai attento, dalle sue navate puoi sentire il rumore del mare e il fischio dei vaporetti, sapori, odori e suoni della sua infanzia e adolescenza che un giorno, senza un perché, le erano stati sottratti. E in quei pochi ma intensi minuti è stato come se tutto quel passato tornasse in vita, ma non era un peso.

Non era più solo nostalgia. I giorni della sua fanciullezza accompagnati da tutti quelli che li hanno seguiti si presentavano a lei con un vestito nuovo. Era bella ora la sua storia; amara come le lacrime che le solcavano il viso, ma non per questo meno bella. Perché uno dei segreti che Dio svela ai suoi amici è proprio questo, che il dolore non è nemico della pace e della felicità autentiche. Anzi, proprio le lacrime sono un segno del paradosso che è una vita toccata da Cristo. Anche quando sono di commozione gioiosa non perdono il loro sale amaro. E quelle che le scendevano sul viso dicevano a mia madre che finalmente la sua storia aveva svestito gli abiti del risentimento e del rancore per indossare quelli del perdono. E non era stata lei accidenti, non era nulla di magico o moralistico. Era la Grazia che l’aveva abbracciata una ventina d’anni prima con l’annuncio del Vangelo e non l’aveva più lasciata. E ora, nel cuore della sua storia, dava alla luce il suo frutto più bello. Mamma stava vivendo la sua Messa più vera, perché il Mistero celebrato si era fatto carne in lei. E’ solo in Cristo crocifisso, morto e risorto, infatti, che la storia, qualunque storia, può essere illuminata e trovare senso.

Quante volte aveva sperimentato il perdono, non si contavano. Dio l’aveva attesa con pazienza e misericordia, sino a farsi vicino attraverso la predicazione della Chiesa. Aveva ascoltato le catechesi del Cammino Neocatecumenale insieme a papà, dopo lunghi anni nei quali avevano invece avversato e contestato il Cammino. Io c’ero entrato a 15 anni, e per molto tempo le mie attitudini e i miei comportamenti non gli avevano fatto buona pubblicità, anzi… Ma poi, anche quella volta per pura grazia, è successo qualcosa tra noi: Dio ci aveva profondamente riconciliati in un perdono mai sperimentato prima. E tutto è cambiato. La nostra relazione innanzitutto, autenticamente risuscitata dalle macerie del mio orgoglio. Il Cammino Neocatecumenale dunque dava frutti, eccome; e allora, da quel perdono, è iniziato il cammino di mia madre. Lunghi anni immersi nella Parola di Dio e nei sacramenti, seguendo le orme di Gesù che la conducevano pian piano dentro i vicoli oscuri della sua storia, quelli macchiati dal risentimento e dall’ingiustizia patita. Passo dopo passo la luce della Pasqua rischiarava le tenebre, e quello che agli occhi della carne bruciati dal rancore sembrava un sepolcro senza speranza cominciava a brillare come un giardino all’aurora. Perché la storia visitata da Cristo risorto è proprio come un deserto trasformato in giardino, e ogni suo frammento si rivela indispensabile. Non aveva Gesù annunciato più volte ai suoi discepoli che, per risorgere, sarebbe “dovuto” andare a Gerusalemme e lì essere crocifisso, morire e scendere nella tomba? Non ha scritto mille volte San Paolo che l’unico vanto di un cristiano è la Croce? Certo, è proprio così, e così mia madre ha sperimentato.

Era necessaria quella Croce piantata nel suo cuore adolescente. Era necessario che scendesse sino in fondo – e che dolore – per svelare quello che aveva lì, nel cuore. Perché tutti, quando urtiamo contro l’ingiustizia, abbiamo la stessa identica reazione, ben diversa da quella dell’Agnello di Dio. E per questo soffriamo e non troviamo pace, non avendo da offrire al male che altro male. Non scandalizzatevi se potete, anche se lo so, la Croce è scandalo e stoltezza per tutti, religiosi e atei o agnostici razionali. Per questo oggi devo raccontare il miracolo legato a questo giorno speciale per tutti gli istriani. Devo annunciare attraverso la storia di mia madre che la Croce è l’unica porta che si apre sul Cielo, il destino preparato per ogni uomo. Che non è un cumulo di parole oppiate inventate dai preti per ingannare e sottomettere le masse. La Croce che si faceva manto di misericordia e presenza viva di Cristo nel baldacchino della Basilica di Parenzo abbracciava mia madre mostrandole con dolcezza ogni istante della sua vita come un frammento degli splendidi mosaici che ne rivestono le pareti. Eccone uno, c’è dentro la foto di quando era uscita in fretta sotto gli occhi velenosi dei finanzieri di Tito.

Eccone un altro, racconta di quando aveva dovuto viaggiare sui treni di notte attraverso la sua Italia, la Patria per la quale aveva lasciato la sua terra; nessuno doveva vederli quegli istriani, erano di sicuro infettati dal veleno del fascismo se sfuggivano dal paradiso comunista. Un altro ancora, ci sono impresse le impronte digitali che le presero neanche fosse una criminale. E molti altri, sino a quelli più recenti, che fissano i momenti umilianti di quando, per rinnovare il passaporto o la carta di identità, per prenotare le analisi o un biglietto d’aereo, nel dire il proprio luogo di nascita ha dovuto (e deve…) sgolarsi in inutili spiegazioni. Parenzo non esiste più, ora è Porec, Croazia; ma mia madre non è nata in Croazia… E allora? Sarebbero state necessarie tutte queste umiliazioni? Dai, non scherzare, il “Giorno del ricordo” è stato istituito proprio per non dimenticare e far conoscere a tutti gli italiani questa storia di ingiustizie. E così, forse, certi crimini non si ripeteranno. Forse, appunto… Non basta il ricordo, guarda quello dei lager appena celebrato. Ti sembra che in Europa siano cambiate le cose? No, per nulla, anzi peggiorate, perché ora quello che si sperimentava nel segreto dei campi di concentramento si fa alla luce del sole, benedetto da leggi di Stati che si ritengono all’avanguardia della civiltà. No, non basta il ricordo, abbiamo bisogno invece di imparare a vivere un “memoriale”. E’ questo che ho visto in mia madre, una “memoria – reale”, i fatti di dolore che si facevano contemporanei ma trasfigurati nel perdono. Nella Bibbia ebraica il verbo “ricordare” descrive innanzitutto il comportamento di Dio. Per un ebreo il “memoriale” è lasciare che Dio entri di nuovo nella storia attraverso lo stesso modo in cui si è comportato nel passato.

Così il presente si fonde con il passato ed è accolto nell’eternità di Dio, che significa, essenzialmente, il suo amore. E il momento più importante della Storia di Israele – il “memoriale” più prezioso – è la Pasqua che si distende nell’Esodo sino all’ingresso nella Terra Promessa. Gli ebrei lo celebrano solennemente in quella che chiamano la “notte delle notti”. In essa tutta la famiglia riunita in casa torna sulle sponde del Mar Rosso, posa i piedi all’asciutto mentre lo attraversa, si volta a guardare i carri del faraone sprofondare nelle acque; ogni ebreo cammina nel deserto, si ferma alle falde del Sinai, e, finalmente, entra nella Terra che Dio ha preparato per lui. Ogni padre ha il dovere di raccontare ogni evento dell’Esodo ai propri figli, perché siano immersi nelle opere di Dio, sperimentarne la presenza nella loro storia, e crescere nella fede. Ancora oggi, infatti, durante il Seder pasquale dice ai suoi figli che “Ognuno è tenuto a vedersi come essendo proprio lui uscito dall’Egitto” (Haggadah). Ecco, accolta e formata nella Chiesa, quel giorno a Parenzo mia madre ha vissuto, proprio come un ebreo, il suo “memoriale”; diverso certo, perché era quello del compimento della Pasqua Ebraica, ovvero l’Eucarestia.

Il Mistero della morte e risurrezione di Cristo si era compiuto in ogni istante della sua vita, sino a quella Messa: Cristo, infatti, era sceso a prenderla nella tomba del dolore e del risentimento, l’aveva perdonata e risuscitata, per accompagnarla sino alla Terra promessa della Pace del cuore, anticipo e primizia del Paradiso. E’ così, è la realtà, quello che avvelena il cuore non sono gli alimenti che mandiamo giù, ma quello dal cuore esce perché è già lì. Non è la storia che ci uccide, per quanto triste e piena di ingiustizie. E’ il peccato che ha fatto la sua tana dentro di noi che ci fa soffrire, perché frustra il desiderio di bene e di amore che in tutti Dio ha seminato. Per questo è un’illusione credere che la giustizia umana possa donarci pace. Falso! Checchè raccontino film e libri, politici e filosofi, ogni giustizia umana ha partorito sempre nuove ingiustizie. Con ciò non voglio dire che essa non debba fare il suo corso, e punire i responsabili dei crimini. Ma che essa ha dei limiti, e non può guarire il cuore. Per questo è necessario il perdono, impossibile agli uomini se prima non l’hanno sperimentato, immeritato, nella propria vita.

Il perdono che tagli alla radice il peccato che ci impedisce di perdonare e amare, ed essere finalmente persone libere che vivono e annunciano la Pace. In quell’Eucarestia mia madre ha visto la sua storia redenta nello stesso perdono che aveva sanato il suo cuore. Solo in questa luce si può comprendere come anche il dolore che l’ha accompagnata per cinque decenni sia stato necessarioper curarla nell’incontro decisivo con l’amore di Cristo più forte di ogni ingiustizia. Era volontà di Dio la guerra, e poi le foibe e quell’ingiustizia macchiata di sangue innocente? Era volontà di Dio che tante famiglie venissero strappate dalla propria terra? No, assolutamente, come non lo fu la disobbedienza di Adamo ed Eva. Eppure, dal giorno in cui Cristo è salito sulla Croce ed è entrato nel sepolcro, Dio ha come allargato le maglie della sua volontà, assorbendo anche gli orrori della storia e le nostre cadute. Cristo infatti è sceso con ogni uomo ucciso barbaramente nelle foibe, per fare di quelle cavità carsiche il suo sepolcro e risuscitare quei morti e per lasciare su quelle rocce il suo sangue perché anche gli assassini avessero speranza. La volontà di Dio, infatti, è una sola: che nessuno vada perduto e tutti gli uomini siano salvati.

E così è stato: da quella messa mia madre è uscita trasformata. E’ accaduto l’impensabile di poter abbracciare in un segno di Pace autentico tanti fratelli croati; di ascoltare le loro storie e i loro dolori, e di sentire dentro nascere amore vero per ognuno. Al punto di ospitarli a Roma, e lasciar loro il suo letto. Sino a pregare ogni giorno per Tito e i suoi partigiani, insieme ovviamente a tutti i suoi fratelli istriani. Certo ancora molto cammino l’attende. Nessuna beatificazione anticipata, ci mancherebbe. Mia madre è, come tutti, una persona debolissima, e certo non è insensibile alle immagini e ai racconti di quegli anni, anzi. Il dolore è lì, come quello di chiunque abbia perso un figlio o una persona cara, e quella “terra benedetta” come la chiama lei, le è cosa molto, molto cara. Ma Dio è stato fedele con lei, e oggi è Lui che devo celebrare, offrendo una testimonianza che sia un segno di speranza per tanti, per chi ha vissuto la stessa esperienza, per chi ne vive altre simili, e per chi non conosce questa storia italiana.

Una cosa è certa, mia madre mai avrebbe potuto entrare nella Pace della riconciliazione se non avesse percorso con Cristo il suo Esodo dal rancore al perdono, trasfigurando in esso quello che oggi ogni italiano è chiamato a celebrare.

Cibo: Gli italiani preferiscono l’origine nazionale

Boom del +8,6% in un anno dei prodotti che espongono la scritta “100% italiano” con una confezione di prodotti alimentari su quattro (25,1%) che sugli scaffali dei supermercati richiama l’origine nazionale con scritte e bandiere tricolori. E’ quanto emerge da un’analisi di Coldiretti sugli ultimi dati Osservatorio Immagino della Nielsen nel 2018. L’italianità – sottolinea la Coldiretti – è il fenomeno di maggior richiamo con le vendite dei prodotti alimentari identificati come nazionali che sono arrivate a superare i 6,4 miliardi di euro nell’anno di analisi.

Addio dunque alle mode esterofile del passato, dai formaggi francesi alla birra tedesca, a tavola vince il sovranismo alimentare con il patriottismo che si evidenzia dal fatto che i 2/3 degli italiani disponibili a pagare almeno fino al 20% in più per garantirsi l’italianità del prodotto secondo l’indagine Coldiretti/Ixè. Per tutelare i consumatori contro gli inganni con l’approvazione definitiva del DL Semplificazioni da parte del Parlamento è diventato finalmente legge l’obbligo di indicare in etichetta l’origine di tutti gli alimenti per valorizzare la produzione agroalimentare nazionale e consentire scelte di acquisto consapevoli. La norma – sottolinea la Coldiretti – consente di estendere a tutti i prodotti alimentari l’obbligo di indicare in etichetta il luogo di provenienza geografica ponendo fine ad una situazione contradditoria in cui ¼ della spesa è anonima. L’obbligo vale infatti per la carne fresca ma non per quella trasformata in salumi, per l’ortofrutta fresca ma non per succhi, marmellate e legumi in scatola, per il miele ma non per lo zucchero.

Una scelta giustificata dai primati qualitativi e di sicurezza conquistati dell’agroalimentare nazionale che secondo la Coldiretti chiude il 2018 con un bilancio di 5056 prodotti tradizionali censiti dalle Regioni, 294 specialità Dop/Igp riconosciute a livello comunitario e 415 vini Doc/Docg, la leadership europea nel biologico con oltre 60mila aziende agricole bio, 40mila aziende agricole impegnate nel custodire semi o piante a rischio di estinzione, la più vasta rete mondiale di mercati degli agricoltori sotto l’unica insegna con Campagna Amica e il primato della sicurezza alimentare mondiale con il maggior numero di prodotti agroalimentari con residui chimici regolari (99,4%).

La ricchezza enogastronomica territoriale si evidenzia attraverso la diffusione delle indicazioni regionali sulle confezioni con il Trentino-Alto Adige al primo posto sia per numero di prodotti in cui viene indicato in etichetta sia per il valore delle vendite che superano i 327 milioni di euro, +5,8% in un anno, grazie soprattutto a spumante, vini, mele e speck. Al secondo posto si trova il “marchio” Toscana, con 217 milioni di euro di vendite (+9,4%) grazie a vino, derivati del pomodoro e affettati. Vende anche l’immagine della Sicilia che è terza in classifica con oltre 246 milioni di euro di vendite (+4,4%) realizzate in particolare grazie a vino, yogurt e gelati. Ma un vero e proprio boom lo hanno vissuto i prodotti con l’indicazione di origine legata alla Puglia che hanno fatto registrare una crescita del +12,7% con vendite per 79 milioni di euro in particolare su vini, mozzarelle e taralli. Balzo in avanti importante anche per il Piemonte (+9,7%) per un valore di oltre 184 milioni di euro con le vendite di carne bovina, acqua minerale gassata e vini.

Il 2018 anno nero per ritardi dei treni ad alta velocità

Il 2018 si conferma anno nero per i treni veloci. Secondo il Portale informativo circolazione di Rfi, si sono registrate più di 18mila ore di ritardo, 4.460 in partenza e 13.687 a destinazione. E all’arrivo il peggioramento è del 50,5% rispetto al 2017, 2,5 volte quelli del 2014. Per ciascuno dei 111.387 treni effettuati lo scorso anno il ritardo medio è di 7 minuti e mezzo. Solo il 34,8% dei treni sono arrivati a destinazione in orario.

I bilanci finali del 2018 confermano che i treni veloci, Frecce e Italo, peggiorano di 5-6 punti percentuali medi.

Meglio a dicembre (40,9%) e poi a gennaio 2019 (36,9%) dopo l’allarme lanciato dal neoamministratore delegato di Fs, Gianfranco Battisti, che ha chiesto alla controllata Rfi, società di gestione della rete, un pacchetto di misure straordinarie di emergenza.

E anche se il miglioramento c’è stato ma le stesse Fs definiscono queste misure non sufficienti.

Una svolta importante sarà l’ utilizzo del sistema di controllo elettronico della marcia del treno, Ertms, anche sulla Direttissima Roma-Firenze e, nella versione Ertms High Definition, nei nodi urbani di Milano e Roma.

Io non mi volto 101 ritratti contro la violenza sulle donne

mercoledì 13 febbraio alle 18.30 al Teatro Parenti di Milano, Sala Testori, sarà presentato il libro del fotografo Paolo Spadacini edito da Skira, Io non mi volto 101 ritratti contro la violenza sulle donne.

Una galleria di 101 ritratti di un grande fotografo italiano contro la violenza sulle donne.

Paolo Spadacini dopo la laurea in Scienze Politiche diventa assistente di alcuni dei più grandi fotografi degli anni settanta. Successivamente apre un suo studio fotografico e si specializza in moda e still life, senza abbandonare la sua grande passione, il reportage, che lo porta a viaggiare in tutto il mondo per fotografare non tanto i luoghi quanto la gente. Nel 1990 apre una sua agenzia di pubblicità, la Show up e nel 2003 la sua attuale agenzia The Beef.

Con un po’ di nostalgia si trova dall’altra parte della scrivania a parlare con fotografi e registi, come Tornatore e Muccino, insieme ai quali realizza alcune delle più importanti campagne pubblicitarie internazionali. Sempre nel 2003 riprende anche la professione di fotografo, diventando il ritrattista delle celebrities.

Vive e lavora a Milano.

Parte dei fondi raccolti con il libro verranno devoluti alla Fondazione Doppia Difesa Onlus che offre sostegno e tutela alle vittime di violenza, oltre a sensibilizzare l’opinione pubblica.

In 30 anni dimezzati i fumatori europei

La ricerca ha coinvolto i fumatori di 17 paesi europei ed è stata pubblicata sulla rivista PLOS ONE. Lo studio rientra nell’ambito del progetto Alec, Ageing lungs in european cohorts, coordinato dall’Imperial College di Londra ed è finanziato dall’Unione europea attraverso il bando Horizon 2020.

In Europa quasi la metà dei fumatori ha perso il vizio tra il 1980 e il 2010: esattamente il 43% di 50 mila fumatori europei tra i 16 e i 60 anni.
È la buona notizia che arriva da uno studio europeo che vede coinvolta anche l’Università degli Studi di Verona.

“I nostri risultati – spiegano i ricercatori dell’ateneo scaligero coordinati da Simone Accordini – indicano che in Europa c’è una consapevolezza crescente degli effetti nocivi del fumo, soprattutto in gravidanza. Infatti, la maggior parte delle donne smette di fumare attorno ai 30 anni, probabilmente in seguito alla prima gravidanza: 50 fumatrici su 1000 smettono ogni anno in Europa meridionale e 80 su 1000 in Nord Europa, e l’età in cui si smette tende a coincidere con l’età media della prima gravidanza nelle diverse regioni europee considerate (26-27 anni in Est Europa, 30-31 in Europa del Sud). Questo indica che proteggere il bambino durante la gravidanza è la motivazione più forte nella decisione di smettere di fumare per le donne”.

Gli europei del Sud, però, restano meno consapevoli sui danni del fumo: in Scandinavia e Regno unito, ogni anno, 50 su 1000 fumatori smettono di fumare mentre in paesi quali Italia, Spagna, Portogallo, e dell’Est e dell’Ovest Europa, sono solo 30 su 1000 a dire addio alle bionde. “Serve, quindi – commenta Alessandro Marcon, tra gli autori dello studio – mettere in atto politiche più efficaci per ridurre ulteriormente il numero di fumatori in Italia e nel Sud Europa. Occorre inoltre aumentare gli sforzi per diminuire l’accesso al fumo nei più giovani, visto che, da quanto emerge dalle nostre ricerche, iniziare a fumare durante la prima adolescenza porta a una dipendenza più forte”.

Open Arms e i sindaci d’Europa firmano il manifesto delle “città solidali”

Articolo già pubblicato sulle pagine del Redattore Sociale

“Il futuro dell’Europa riparte dai sindaci”: per questo Open Arms ha chiamato a raccolta proprio “i sindaci e le sindache,per salvare l’Europa da se stessa”. E lo ha fatto con la proposta di un  “manifesto condiviso di città solidali che riaffermi una volta per sempre i valori democratici e il rispetto dei diritti umani in Europa”. La presentazione è avvenuta questa mattina a Roma, nel corso di una riunione informale tra realtà municipali spagnole e italiane: Barcellona, Madrid, Zaragoza, Valencia, Napoli, Palermo, Siracusa, Milano, Latina, Bologna. Il Manifesto si articola in sette punti:

  1. Il Mar Mediterraneo è stato la casa comune di civiltà millenarie nelle quali l’interscambio culturale ha significato progresso e prosperità.Oggi è divenuto la fossa comune di migliaia di giovani che vi trovano la morte per l’assenza di canali d’ingresso legali e sicuri. Le città, luogo di convivenza di uomini e donne di origini molto diverse tra loro e rifugio di migranti e richiedenti asilo, guardano con stupore alla deriva (all’atteggiamento?) degli stati europei nei confronti dei diritti delle persone che cercano di attraversare il Mediterraneo.
  2. Riteniamo legittimo l’obiettivo di fuggire dalla violenza o dalla mancanza di opportunitàe libertà democratiche, e crediamo che la soluzione sia la pace e la democrazia, così come riteniamo che le migrazioni debbano essere gestite in maniera ordinata sotto il coordinamento di diversi organi  governativi. Riconosciamo altresì che i nuovi arrivati e le nuove arrivate debbano avere gli stessi diritti e gli stessi doveri di ogni altro cittadino.
  3. La chiusura dei porti italiani e maltesi alle navi di soccorsoe il recente blocco burocratico nei porti spagnoli e italiani delle navi Open Arms, Aita Mari, SeaWatch3, insieme a quello dei porti francesi, sono esempi pratici di come anche l’Europa stia naufragando.
  4. Riteniamo che l’Europa naufraghi quando viola la legge del mare, quando riduce i mezzi della  propria guardia costiera, quando accusa di traffico di esseri umani chi li soccorre, facendo ciò che dovrebbero fare gli stati, quando cerca di annullare i meccanismi di solidarietà nelle nostre città. Naufraga  quando i governi europei, nascosti dietro le proprie bandiere e presunte soluzioni pratiche, rifiutano di aiutarsi in modo solidale nell’affrontare il tema dei flussi migratori dovuti a conflitti regionali. Naufraga il progetto europeo, quando si vendono armi e si alimenta il conflitto a  Sud e a Oriente del Mediterraneo senza assumersene alcuna responsabilità, quando si sceglie  di alzare muri per creare zone di buio informativo e umanitario, quando si chiudono le frontiere comprando governi terzi e pagando eserciti stranieri affinché  facciano il lavoro sporco. Naufraga  quando si confondono le vittime dei conflitti con i loro assassini, come sta facendo l’estrema destra europea.
  5. Dobbiamo salvare l’Europa da se stessa.Rifiutiamo di credere che la risposta europea di fronte a questo orrore sia la negazione dei diritti umani e l’inerzia di fronte al Diritto alla Vita. Salvare vite non è un atto negoziabile e negare la partenza alle navi o rifiutarne l’entrata in porto, un crimine. Costringere  le persone a vivere in un clima crescente di disuguaglianza su entrambe le sponde del mare è una soluzione a breve termine che non garantisce alcun futuro, soprattutto quando i flussi migratori più imponenti si producono seguendo altre rotte, non quelle marittime.
  6. Le città presenti vogliono riconoscere l’azione e il coraggio della società civilerappresentata dalle navi di Open Arms, SeaWatch, Mediterranea, Aita Mari, SeaEye, del peschereccio di Santa Pola,  del sindaco di Riace, della Guardia Costiera italiana e dello spagnolo Salvamento Maritimo, così come di tutte le organizzazioni umanitarie che operano alle frontiere. Esigiamo che il governo italiano e quello spagnolo nonché la Commissione Europea abbandonino la strategia di bloccarle e criminalizzarle.
  7. Oggi ci siamo riuniti a Roma per sigillare un’alleanza tra città europee che diano appoggio alle organizzazioni umanitariee alle navi europee di soccorso nel Mediterraneo. Allo stesso tempo, le città europee continueranno a lavorare insieme per combattere l’involuzione dei principi fondativi della UE e riportare il progetto europeo a galla. Un’alleanza in mare e una in terra per un Mediterraneo che abbia un futuro.

 

Mattarella ricorda gli eccidi delle foibe

Benvenuti al Quirinale. Rivolgo un saluto al Presidente della Camera dei Deputati, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente della Corte costituzionale e al Vice Presidente del Senato.

Un ringraziamento a quanti sono intervenuti, contribuendo in maniera efficace a illustrare, a far rivivere e a comprendere il senso di questa giornata del Ricordo.

Celebrare il Giorno del Ricordo significa rivivere una grande tragedia italiana, vissuta allo snodo del passaggio tra la II guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda. Un capitolo buio della storia nazionale e internazionale, che causò lutti, sofferenza e spargimento di sangue innocente. Mentre, infatti, sul territorio italiano, in larga parte, la conclusione del conflitto contro i nazifascisti sanciva la fine dell’oppressione e il graduale ritorno alla libertà e alla democrazia, un destino di ulteriore sofferenza attendeva gli Italiani nelle zone occupate dalle truppe jugoslave.

Un destino comune a molti popoli dell’Est Europeo: quello di passare, direttamente, dalla oppressione nazista a quella comunista. E di sperimentare, sulla propria vita, tutto il repertorio disumanizzante dei grandi totalitarismi del Novecento, diversi nell’ideologia, ma così simili nei metodi di persecuzione, controllo, repressione, eliminazione dei dissidenti.

Un destino crudele per gli italiani dell’Istria, della Dalmazia, della Venezia Giulia, attestato dalla presenza, contemporanea, nello stesso territorio, di due simboli dell’orrore: la Risiera di San Sabba e le Foibe.

La zona al confine orientale dell’Italia, già martoriata dai durissimi combattimenti della Prima Guerra mondiale, assoggettata alla brutalità del fascismo contro le minoranze slave e alla feroce occupazione tedesca, divenne, su iniziativa dei comunisti jugoslavi, un nuovo teatro di violenze, uccisioni, rappresaglie, vendette contro gli italiani, lì da sempre residenti. Non si trattò – come qualche storico negazionista o riduzionista ha voluto insinuare – di una ritorsione contro i torti del fascismo. Perché tra le vittime italiane di un odio, comunque intollerabile, che era insieme ideologico, etnico e sociale, vi furono molte persone che nulla avevano a che fare con i fascisti e le loro persecuzioni.

Tanti innocenti, colpevoli solo di essere italiani e di essere visti come un ostacolo al disegno di conquista territoriale e di egemonia rivoluzionaria del comunismo titoista. Impiegati, militari, sacerdoti, donne, insegnanti, partigiani, antifascisti, persino militanti comunisti conclusero tragicamente la loro esistenza nei durissimi campi di detenzione, uccisi in esecuzioni sommarie o addirittura gettati, vivi o morti, nelle profondità delle foibe. Il catalogo degli orrori del ‘900 si arricchiva così del termine, spaventoso, di “infoibato”.

La tragedia delle popolazioni italiane non si esaurì in quei barbari eccidi, concentratisi, con eccezionale virulenza, nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945.

Alla fine del conflitto, l’Italia si presentava nella doppia veste di Paese sconfitto nella sciagurata guerra voluta dal fascismo e, insieme, di cobelligerante. Mentre il Nord Italia era governato dalla Repubblica di Salò, i territori a est di Trieste erano stati formalmente annessi al Reich tedesco e, successivamente, vennero direttamente occupati dai partigiani delle formazioni comuniste jugoslave.

Ma le mire territoriali di queste si estendevano anche su Trieste e Gorizia. Un progetto di annessione rispetto al quale gli Alleati mostravano una certa condiscendenza e che, per fortuna, venne sventato dall’impegno dei governi italiani.

Certo, non tutto andò secondo gli auspici e quanto richiesto e desiderato. Molti italiani rimasero oltre la cortina di ferro. L’aggressività del nuovo regime comunista li costrinse, con il terrore e la persecuzione, ad abbandonare le proprie case, le proprie aziende, le proprie terre. Chi resisteva, chi si opponeva, chi non si integrava nel nuovo ordine totalitario spariva, inghiottito nel nulla. Essere italiano, difendere le proprie tradizioni, la propria cultura, la propria religione, la propria lingua era motivo di sospetto e di persecuzione. Cominciò il drammatico esodo verso l’Italia: uno stillicidio, durato un decennio. Paesi e città si spopolavano dalla secolare presenza italiana, sparivano lingua, dialetti e cultura millenaria, venivano smantellate reti familiari, sociali ed economiche.

Il braccio violento del regime comunista si abbatteva furiosamente cancellando storia, diversità, pluralismo, convivenza, sotto una cupa cappa di omologazione e di terrore.

Ma quei circa duecentocinquantamila italiani profughi, che tutto avevano perduto, e che guardavano alla madrepatria con speranza e fiducia non sempre trovarono in Italia la comprensione e il sostegno dovuti. Ci furono – è vero – grandi atti di solidarietà. Ma la macchina dell’accoglienza e dell’assistenza si mise in moto con lentezza, specialmente durante i primi anni, provocando agli esuli disagi e privazioni. Molti di loro presero la via dell’emigrazione, verso continenti lontani. E alle difficoltà materiali in Patria si univano, spesso, quelle morali: certa propaganda legata al comunismo internazionale dipingeva gli esuli come traditori, come nemici del popolo che rifiutavano l’avvento del regime comunista, come una massa indistinta di fascisti in fuga. Non era così, erano semplicemente italiani.

La guerra fredda, con le sue durissime contrapposizioni ideologiche e militari, fece prevalere, in quegli anni, la real-politik. L’Occidente finì per guardare con un certo favore al regime del maresciallo Tito, considerato come un contenimento della aggressività della Russia sovietica. Per una serie di coincidenti circostanze, interne ed esterne, sugli orrori commessi contro gli italiani istriani, dalmati e fiumani, cadde una ingiustificabile cortina di silenzio, aumentando le sofferenze degli esuli, cui veniva così precluso perfino il conforto della memoria.

Solo dopo la caduta del muro di Berlino – il più vistoso, ma purtroppo non l’unico simbolo della divisione europea – una paziente e coraggiosa opera di ricerca storiografica, non senza vani e inaccettabili tentativi di delegittimazione, ha fatto piena luce sulla tragedia delle foibe e sul successivo esodo, restituendo questa pagina strappata alla storia e all’identità della nazione.

L’istituzione, nel 2004, del Giorno del ricordo, votato a larghissima maggioranza dal Parlamento, dopo un dibattito approfondito e di alto livello, ha suggellato questa ricomposizione nelle istituzioni e nella coscienza popolare.

Ricomposizione che è avvenuta anche a livello internazionale, con i Paesi amici di Slovenia e Croazia, nel comune ripudio di ogni ideologia totalitaria, nella condivisa necessità di rispettare sempre i diritti della persona e di rifiutare l’estremismo nazionalista. Oggi, in quei territori, da sempre punto di incontro di etnie, lingue, culture, con secolari reciproche influenze, non ci sono più cortine, né frontiere, né guerre. Oggi la città di Gorizia non è più divisa in due dai reticolati.

Al loro posto c’è l’Europa, spazio comune di integrazione, di dialogo, di promozione dei diritti, che ha eliminato al suo interno muri e guerre. Oggi popoli amici e fratelli collaborano insieme nell’Unione Europea per la pace, il progresso, la difesa della democrazia, la prosperità.

Ringrazio gli ambasciatori di Slovenia, di Croazia e del Montenegro per la loro presenza qui, che attesta la grande amicizia che lega oggi i nostri popoli in un comune destino. Ringrazio l’on. Furio Radìn, Vice Presidente del Parlamento Croato, in cui è stato eletto come rappresentante della Comunità nazionale italiana di Croazia; e l’on. Felice Ziza, deputato all’Assemblea Nazionale Slovena, ove è stato eletto come rappresentante della Comunità nazionale italiana di Slovenia.

Desidero ricordare qui le parole di una dichiarazione congiunta tra il mio predecessore, il Presidente Giorgio Napolitano, che tanto ha fatto per ristabilire verità su quei tragici avvenimenti, e l’allora Presidente della Repubblica di Croazia Ivo Josipović del settembre 2011:

“Gli atroci crimini commessi non hanno giustificazione alcuna. Essi non potranno ripetersi nell’Europa unita, mai più. Condanniamo ancora una volta le ideologie totalitarie che hanno soppresso crudelmente la libertà e conculcato il diritto dell’individuo di essere diverso, per nascita o per scelta”.

L’ideale di Europa è nata tra le tragiche macerie della guerra, tra le stragi e le persecuzioni, tra i fili spinati dei campi della morte. Si è sviluppata in un continente diviso in blocchi contrapposti, nel costante pericolo di conflitti armati: per dire mai più guerra, mai più fanatismi nazionalistici, mai più volontà di dominio e di sopraffazione. L’ideale europeo, e la sua realizzazione nell’Unione, è stato – ed è tuttora – per tutto il mondo, un faro del diritto, delle libertà, del dialogo, della pace. Un modo di vivere e di concepire la democrazia che va incoraggiato, rafforzato e protetto dalle numerose insidie contemporanee, che vanno dalle guerre commerciali, spesso causa di altri conflitti, alle negazioni dei diritti universali, al pericoloso processo di riarmo nucleare, al terrorismo fondamentalista di matrice islamista, alle tentazioni di risolvere la complessità dei problemi attraverso scorciatoie autoritarie.

Molti tra i presenti, figli e discendenti di quegli italiani dolenti, perseguitati e fuggiaschi, portano nell’animo le cicatrici delle vicende storica che colpì i loro padri e le loro madri. Ma quella ferita, oggi, è ferita di tutto il popolo italiano, che guarda a quelle vicende con la sofferenza, il dolore, la solidarietà e il rispetto dovuti alle vittime innocenti di una tragedia nazionale, per troppo tempo accantonata.

Il 10 febbraio si celebra il “Giorno del ricordo” in tutta Italia La tragedia delle foibe e l’esodo giuliano – dalmata ignorata per troppi anni!

Nel nostro Paese il 10 febbraio di ogni anno si celebra il “Giorno del ricordo”.

La solennità civile nazionale italiana (istituita con la legge n°92 del 30 marzo 2004) per commemorare le vittime dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano – dalmata. Questa travagliata legge, che ha visto la luce dopo oltre mezzo secolo, dalla fine dalle vicende della seconda guerra mondiale, dimostra quanto sia stato difficile trovare un giudizio storico condiviso, nel Parlamento italiano, su fatti e accadimenti, che sono rimasti nell’ombra per troppo tempo, sconosciuti e ignorati,  e spesso anche negati.

Lo spirito e il senso della legge, che istituisce il “Giorno del ricordo,” è quello “ di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo (circa 300.000 persone), dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.

Questa ricorrenza assume un valore anche culturale e didattico particolare, perché occorre ricordare come nel 2015, decennale della celebrazione del 10 febbraio, fra le molte iniziative programmate,  ha assunto un significato particolare la determinazione emanata del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Infatti si affermava che: “In occasione di questa giornata, le scuole di ogni ordine e grado sono invitate, nella piena autonomia organizzativa e didattica, a prevedere iniziative volte a diffondere la conoscenza dei tragici eventi che costrinsero centinaia di migliaia di italiani, abitanti dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, a lasciare le loro case, spezzando secoli di storia e di tradizioni”.

Inoltre veniva sottolineata l’ importanza della: “ Collaborazione con le Associazioni degli esuli, le quali potranno fornire un importate contributo di analisi e di studio, a sensibilizzare le giovani generazioni su questi su questi tragici fatti storici, al fine di ricordare le vittime e riflettere sui valori fondanti della nostra Costituzione. Il Concorso Nazionale “10 Febbraio”, dell’anno scolastico 2018/2019, promosso dal MIUR, ha come tema: “Le vicende del confine orientale  e il mondo della scuola”. Un progetto che è finalizzato all’educazione europea e la cittadinanza attiva.

Le foibe, l’esodo e perché tanto silenzio? Perchè tanto buio per decenni, su fatti storici che ci riguardano? Dare risposte e cercare di capire, è fondamentale per fare memoria, in una fase della vita della nostra società che spesso valuta per “sentito dire” o non conosce, purtroppo, la storia.

Le foibe sono delle cavità naturali, dei pozzi, presenti sul Carso (altipiano alle spalle di Trieste e dell’Istria). Alla fine della Seconda guerra mondiale i partigiani di Tito vi gettarono migliaia di persone, alcune dopo averle fucilate, altre ancora vive, colpevoli di essere italiane o contrarie al regime comunista.

Ma quanti furono gli infoibati? Purtroppo è impossibile dire quanti furono gettati nelle foibe, circa 1000 sono state le salme esumate, ma molte cavità sono irraggiungibili, altre se ne scoprono solo adesso (60/65 anni dopo) rendendo impossibile un calcolo preciso dei morti.

Approssimativamente si può parlare di circa 11.000 persone uccise fra foibe e persone scomparse nei gulag (campi di concentramento) di Tito in Jugoslavia.

Chi erano gli infoibati? Erano prevalentemente italiani. In generale tutti coloro che si opponevano al regime comunista titino, vi erano anche sloveni e croati. Tra gli italiani vi erano non solo ex fascisti, ma podestà, segretari e impiegati comunali, carabinieri, partigiani, sacerdoti, guardie campestri, esattori delle tasse e ufficiali postali, un segno questo, della diffusa volontà di spazzare via chiunque potesse fare ricordare l’amministrazione italiana. Ma  soprattutto gente comune, colpevole solo di essere contro il regime comunista.

“Le vittime venivano condotte, dopo atroci sevizie, nei pressi delle foibe – racconta un fortunato sopravvissuto, nel libro di Gianni Oliva, Foibe, 2002 – bloccavano i piedi e i polsi tramite filo di ferro ad ogni singola persona con l’ausilio di pinze e successivamente, legavano gli uni agli altri, sempre con fili di ferro, poi sparavano al primo malcapitato del gruppo, che trascinava con se gli altri rovinosamente nelle viscere delle cavità naturali.” La foiba di Basovizza, una frazione nel comune di Trieste, luogo simbolo del martirio degli italiani, che in origine era un pozzo minerario, divenne dal maggio 1945, un luogo di esecuzioni sommarie per prigionieri, militari, poliziotti e civili da parte dei partigiani di Tito. A guerra finita, divenne il memoriale per tutte le vittime degli eccidi, dal 1943 al 1945.

Il primo omaggio ufficiale delle più alte cariche dello Stato italiano, giunse solo nel 1991, dopo oltre 45 anni dalla fine della guerra, (periodo dell’inizio della dissoluzione della Jugoslavia e dell’Unione Sovietica) con i Presidenti della Repubblica Cossiga e successivamente con Scalfaro.

Inoltre va richiamato che, il fenomeno dei massacri delle foibe, è da inquadrare storicamente nell’ambito della secolare disputa, fra italiani e popoli slavi, per il possesso delle terre dell’Adriatico orientale. Nelle lotte intestine fra i diversi popoli, che vivevano in quell’area, e nelle grandi ondate di epurazioni jugoslave del dopoguerra, che colpirono centinaia di migliaia di persone in un paese nel quale, con il crollo della dittatura fascista, andava imponendosi quella di stampo filo-sovietico, con mire sui territori di diversi paesi confinanti.

Il buio sulla “tragedia negata” delle foibe e dell’esodo, alla fine del secolo scorso “si schiarì” con la pubblicazione di una decina di libri (1988/2005) di testimonianze, di documenti, di racconti con nomi e luoghi, su fatti e storie fino allora ignorate. Poi la legge sul “Giorno del Ricordo”, dopo 60 anni. Significative le parole, nel 2006, del Presidente Ciampi durante le celebrazioni del 10 febbraio dichiarò: “L’Italia non può e non vuole dimenticare: non perché ci anima il risentimento, ma perché vogliamo che le tragedie del passato non si ripetano in futuro”.

Il discorso venne ripreso nel 2007, da Giorgio Napolitano, che attribuì l’origine delle foibe ad “.. un moto di odio e furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica” e sostenne come “La disumana ferocia delle foibe fu una delle barbarie del secolo scorso, in cui si intrecciarono in Europa cultura e barbarie.” Ricordando infine che l’Europa “è nata dal rifiuto dei nazionalismi aggressivi e oppressivi, da quello espresso nella guerra nazifascista a quello espresso nell’ondata di terrore jugoslavo in Venezia Giulia.”

 

Cgia: nel 2019 lavoreremo per pagare le tasse fino al 4 giugno

In seguito all’aumento della pressione fiscale, che secondo il ministero dell’Economia nel 2019 è destinata ad attestarsi al 42,3% (+0,4 rispetto all’anno scorso), si sposta di un giorno, al 4 giugno, il cosiddetto “tax freedom day”, il giorno di liberazione dal fisco. Il calcolo è stato effettuato dall’Ufficio studi della Cgia di Mestre.

Dopo più di cinque mesi dall’inizio del 2019, pari a 154 giorni lavorativi, il contribuente medio italiano smetterà così di lavorare per assolvere a tutti gli obblighi fiscali dell’anno, mentre dal 4 giugno inizierà a guadagnare per se stesso e per la propria famiglia.

Considerando che la giornata lavorativa inizia convenzionalmente alle 8:00, ogni giorno l’italiano medio lavora per pagare tasse e contributi fino alle 11:23, quasi tre ore e mezza al giorno, mentre gli rimangono quattro ore e mezza per “costruirsi” il reddito o la retribuzione netta.

Istat, oltre 60 milioni i residenti in Italia

L’Istituto nazionale di statistica ha stimato che, al 1° gennaio di quest’anno la popolazione si sia attestata a 60 milioni 391mila residenti, oltre 90mila in meno sull’anno precedente (-1,5 per mille). Le persone di cittadinanza italiana sono scese a 55 milioni 157mila unità (-3,3 per mille). I cittadini stranieri residenti sono 5 milioni 234mila (+17,4 per mille) e rappresentano l’8,7% della popolazione complessiva.

Nel 2018 sono state conteggiate 449mila nascite, ossia 9mila in meno del dato registrato nel 2017. Se poi si confrontano le cifre con i bambini venuti alla luce nel 2008, a distanza di due lustri si contano 128mila neonati in meno. Sempre in riferimento alle nascite, il numero medio di figli per donna (1,32) risulta invariato rispetto all’anno precedente e l’età media al parto continua a crescere, toccando per la prima volta la soglia dei 32 anni. Lo scorso anno i decessi sono stati 636mila, 13mila in meno rispetto al 2017. In rapporto al numero di residenti, nel 2018 sono mancati 10,5 individui ogni mille abitanti, contro i 10,7 di due anni fa. Il saldo naturale nel 2018 è stato negativo (-187mila), risultando il secondo livello più basso nella storia dopo quello del 2017 (-191mila).

Nel 2018 è stato registrato un nuovo aumento della speranza di vita alla nascita. Per gli uomini la stima è di 80,8 anni (+0,2 sul 2017) mentre per le donne è di 85,2 anni (+0,3). Il saldo migratorio con l’estero, positivo per 190mila unità, ha registrato un lieve incremento sull’anno precedente, quando risultò pari a +188mila. Ad aumentare sono state sia le immigrazioni, pari a 349mila (+1,7%), sia le emigrazioni, 160mila (+3,1%). I flussi in ingresso, dovuti principalmente a cittadini stranieri (302mila), hanno toccato il livello più alto degli ultimi sei anni e soltanto 40mila emigrazioni per l’estero, su 160mila complessive, hanno interessato cittadini stranieri. Ma il dato che dà da pensare è quello degli espatri che vede grandi numeri tra gli italiani di tutte le età, risultando più numerose le partenze che non i ritorni. Nel 2018 infatti,  sono stati 47mila i rimpatri e 120mila gli espatri.

Focolaio di morbillo a Rimini

L’Istituto per la sicurezza sociale, intervenendo sui 17 casi di morbillo registrati tra ragazzi non vaccinati delle scuole superiori della provincia di Rimini. ricorda che L’allerta morbillo resta alta nel Riminese.

Ma la priorità più importante adesso è evitare l’epidemia. Molti dei malati sono studenti delle scuole superiori. Per questo l’Ausl, fin dai primi casi conclamati, sta chiamando tutti coloro che sono stati a contatto con i soggetti contagiati, per verificare il loro stato di salute e per invitare a vaccinarsi. Sono circa 600 le persone sotto osservazione fin qui.

Intervento di Annamaria Furlan alla manifestazione nazionale unitaria Cgil Cisl Uil

“Grazie, grazie di cuore di essere qui a riempire questa piazza che per il popolo del lavoro ha un significato grande. Quello di oggi, lo diciamo con orgoglio, è un momento importante per la storia sindacale del nostro Paese”.

Così la Segretaria generale della Cisl, Annamaria Furlan, nel suo intervento dal palco di Piazza San Giovanni nel corso della Manifestazione unitaria #FuturoalLavoro indetta da Cgil, Cisl, Uil per cambiare la linea economica del Governo e  “per chiedere interventi concreti per lavoratori e pensionati, per i giovani, per lo sviluppo, la crescita ed i diritti sociali”.

“Centro”, no a Pd e Forza Italia

Già pubblicato su Huffingtonpost

No al Pd e no a Forza Italia. Si potrebbe riassumere in queste poche parole la necessità, ormai richiesta a gran voce da autorevoli opinionisti e commentatori, di ricostruire un “centro” politico nel nostro paese. Un centro dinamico e riformista, non statico o puramente geografico. Certo, la richiesta non parte da vecchi ex democristiani e da inguaribili nostalgici ma da intellettuali e opinionisti estranei a tutto ciò che è seppur lontanamente riconducibile ad ogni ipotesi di politica di centro. E, nello specifico, ad un centro cattolico democratico e popolare.

La recente analisi di Angelo Panebianco, seguita a quella di Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera, confermano che il sistema politico italiano e’ alla vigilia comprensibilmente di una ennesima trasformazione. Del resto, il mutamento profondo del profilo politico del Partito democratico – ormai avviato con Zingaretti a ridiventare un rinnovato ed aggiornato Pds, al di là della ennesima e anche un po’ patetica benedizione di Prodi – da un lato e il progressivo riassorbimento di Forza Italia nella Lega salviniana dall’altro, modificano radicalmente l’offerta politica a cui eravamo abituati da anni. E proprio Panebianco ha centrato il punto quando ha evidenziato che una cultura politica di centro quasi si impone in un sistema ormai proporzionale e soprattutto dopo l’avvento del governo giallo verde. Serve, cioè, un luogo politico, ovviamente non identitario, che sappia riproporre e recuperare ciò che ha rappresentato storicamente il miglior centro politico nella storia politica italiana. E cioè, cultura della mediazione, senso delle istituzioni, no alla radicalizzazione della dialettica politica, classe dirigente autorevole e competente, capacità di comporre gli interessi e riconoscimento pieno del pluralismo politico, sociale e culturale. Insomma, un luogo politico che ormai non può più essere banalmente rimosso come è stato fatto per lunghi 20 anni dominati dal dogma del bipolarismo e dalla democrazia maggioritaria. Ma, come dice sempre Panebianco, adesso il contesto è mutato e occorre prenderne atto. Sotto questo versante, un nuovo centro e’ destinato inesorabilmente a cambiare da un lato i partiti che avevano l’ambizione di rappresentare quel mondo culturale e quell’area elettorale e, dall’altro però, non può non tener conto dell’apporto decisivo della cultura cattolico democratica e popolare in quest’opera di ricostruzione. E questo non solo per motivazioni culturali e programmatiche ma anche perché nella concreta esperienza politica italiana la “politica di centro” e la “cultura di centro” sono sempre coincise con la tradizione e la cultura dei cattolici. E oggi, onestamente, proprio i principali detrattori storici e accademici di quella tradizione evocano e auspicano, seppur in forma aggiornata e rivista, il ritorno di un centro politico e riformista seppur, e giustamente, non identitario, che sappia garantire l’equilibrio democratico e costituzionale nel nostro paese.

Questo è il compito, oggi, di tutti i cattolici democratici e popolari che sono oggettivamente disorientati e senza rappresentanza politica. Cioè senza una casa politica. Al riguardo, è perfettamente inutile, se non anche un po’ ridicolo, che Zingaretti da un lato e Berlusconi dall’altro sostengano che i rispettivi partiti sono gli eredi del popolarismo sturziano e dell’ormai celebre “appello dei liberi e forti”. Dichiarazioni che si elidono reciprocamente perché, come tutti sanno, sono 2 partiti – Pd/Pds e Forza Italia – che ormai hanno cambiato profilo, ruolo e prospettiva rispetto al passato. Per questo la politica di centro e la cultura di centro devono, da adesso in poi, essere declinati con un nuovo soggetto politico, una nuova classe dirigente e un nuovo progetto politico.

Futuro al lavoro. Perché credere alla piazza sindacale del 9 febbraio

Articolo già pubblicato sulle pagine di /www.c3dem.it

Purtroppo, per un’influenza trascurata che rischiava di trasformarsi in polmonite, sabato non potrò essere a Roma alla manifestazione unitaria di Cgil Cisl e Uil.
Oggi, rileggendo il volantone della manifestazione mi sono tornati alla mente i miei primi mesi in Via Po, nella sede nazionale della Cisl, nell’estate del 2007.

Venivo dall’esperienza del Cesos, dalla ricerca, pur nel campo economico e sociale, venni catapultato subito nella “politica sindacale”, proprio nei giorni caldi dell’accordo con il Governo Prodi attraverso il c.d. “procollo welfare” del 23 luglio (data scelta non a caso…) .
Non tutti lo ricordano, ma quell’accordo fu sottoposto a “consultazione certificata” da Cgil, Cisl e Uil tra milioni di iscritti e lavoratori nelle aziende e nelle sedi sindacali. All’epoca l’unica grande organizzazione ad opporsi al protocollo fu la Fiom di Gianni Rinaldini che di lì a non molto avrebbe ceduto lo scettro di segretario generale a Maurizio Landini. Questo per dire che fu una consultazione non formale. I temi del protocollo del 2007 erano diversi, alcuni contribuii a sintetizzarli in un fondo in prima pagina per il quotidiano Europa intitolato: “Il nostro 23 luglio per i giovani”, concentrandomi soprattutto sulle facilitazioni della totalizzazione dei contributi per il lavoro non standard. Tornando all’oggi, ho pensato ad una domanda che mi ha fatto un amico, non ostile, ma nemmeno entusiasta verso la Cisl e il sindacato: Perché, per te, sabato è importante scendere in piazza?

Se dovessi sintetizzare, io credo che il tema principale sia: “per ridare dignità al lavoro”.
Combattere i tagli su salute e sicurezza, impegnarsi (al netto delle stortura che anche in questi giorni ci ha regalato una distratta Commissione Europea) per la tutela negli appalti e nei subappalti, per un impegno sociale e istituzionale contro il lavoro nero e lo sfruttamento, perché il lavoro sia strumento di integrazione sociale a 360° gradi. Certo, è un lavoro che cambia, velocissimamente. Pone nuove domande e necessita di nuove, non facili, risposte. Non di populismo, nemmeno sindacale e nemmeno di individualismo tardo-reaganiano.

Il lavoro necessita di investimenti e di visione, a partire, forse, non solo dalla mistica delle grandi opere, ma soprattutto da quell’immenso necessario piano di tutela del territorio e del patrimonio edilizio pubblico (scuole, ospedali, ponti) di cui ha tanto bisogno il nostro paese, a partire dalle già dimenticate periferie.
Ecco, io non ci credo proprio nella disintermediazione.
Certo, il sindacato deve cambiare e molto, dobbiamo cambiarlo.

Tanto tempo è passato da quell’estate del 2007, in cui ero entusiasta operatore alle prime armi del mercato del lavoro e della formazione in Cisl nazionale. Come tantissimi miei colleghi e amici ero e sono felice di poter dare un piccolissimo contributo. Nella Cisl, come nella cornice unitaria, che, nel 2007, di lì a non molto, purtroppo, si sarebbe perduta.
No, non credo in un sindacato unico.
Credo in un percorso e in un progetto unitario che parta dal basso, dal lavoro che si crea e che cerca nuove tutele e nuovi spazi di associazione, da un sindacato che, trasparentemente, può rappresentare un “super navigator”, nell’accompagnare e supportare le transizioni lavorative.

Credo in un sindacato che sappia affrontare la grande questione delle professionalità nel mondo produttivo in trasformazione e farsi ponte per l’ingresso tutelato e consapevole dei giovani nel lavoro.
Credo anche, a partire dai temi del lavoro e del modello sociale europeo, in un sindacato che sappia dare il proprio contributo urgente a cambiare nettamente questa Unione Europea, rafforzandone la missione oltre le false illusioni nazionaliste così forti anche tra i propri iscritti, non solo in Italia.
Per questo, per le persone e per il lavoro, occorre sabato essere in piazza. Incontrarsi in piazza. In un arcobaleno inclusivo di colori che sappia non solo chiedere, ma dare futuro al lavoro. Pronunciando parole chiare e nette, quando serve.

Se dovessi rispolverare uno slogan userei quello del congresso Cisl del 1969 (molto dibattuto all’epoca anche nell’organizzazione) di un “potere contro potere”. Che significa semplicemente che il sindacato confederale, unito, non ha paura, nel confronto con una politica, non da ora smarrita, di contribuire a delineare, a partire dal lavoro e dalla contrattazione, una società più equa e più giusta.
A partire da chi sta sotto, non da chi sta sopra. Come, tra gli altri, ci ha insegnato don Lorenzo Milani.
Buon viaggio a tutte e a tutti verso Roma (anche per me), per una Piazza San Giovanni unita, gremita e rivolta al futuro!

Francesco Lauria

Richiedesi primario da Nobel

Mi sto chiedendo fino a quando il popolo italiano accetterà questo stato di cose che sembra condurci alla rovina. Non credo di essere eccessivo perché, sentendo commenti provenienti da tutte le parti, facciamo pure la tara che alcuni lo facciano per partito preso, ma vista la vastità che converge su questa preoccupazione relativa agli atteggiamenti politici espressi da esponenti del governo nazionale, non si può non pensare che qualche verità veleggi all’interno di questa marea crescente.

Le condizioni economiche dimostrano, ogni giorni, quanta pesantezza gravi sul nostro presente e sul nostro prossimo futuro. Intrecciando confusione politica con fragilità economica, viene fuori un micidiale piatto al curaro.
Che cosa mai esprime tutto questo malessere?
Non può essere solo una sorta di imbecillità politica, almeno così io penso. Ci deve essere qualcosa di più profondo che è capitato e quanto si sta manifestando dovrebbe essere il sintomo di una rottura nel cuore dell’essere del nostro Paese. Non posso spiegarmi diversamente questi segnali così preoccupanti e, soprattutto, da molti anni non si intravveda una terapia che li sovverta, che li guarisca.

Amaramente devo considerare il male che, entra con questa violenza sulla scena con segnali così intensi e a tutti quanti visibili, un male di struttura. Come se il al nostro Paese si fosse incrinata l’ossatura di fondo del suo essere. Quindi, non si può stare solo a trovare rimedi immediati sul piano di superficie e quindi criticare Di Maio, criticare Di Battista, criticare Renzi e altri soggetti che negli ultimi tempi, sono apparsi sulla scena ma analizzare quell’oscuro male che ho definito male di struttura, senza un’analisi e un rimedio su quel piano. Perché domani, risolto il caso Di Maio, come è stato risolto il caso Renzi, riemergerà senza alcuna incertezza, un personaggio con le stesse fattezze.

Quindi, al Paese si deve chiedere un ripensamento globale della sua intelaiatura etico, politica ed economica che permetta, se ancor possibile, di uscire non dal raffreddore momentaneo ma da una malattia che sembra averne intaccato gli organi più delicati del suo corpo.

Le grandi responsabilità di chi ha favorito l’arrivo di Chavez e Maduro (e dei nostri attuali Robespierre)

La pessima politica economica dei governi di Chavez e di Maduro ha ridotto alla fame il 90% della popolazione venezuelana. E non è bastato l’esodo di 3 milioni di persone negli ultimi due anni per convincere alcuni governi, tra i quali l’Italia, a disconoscere la legittimità di Maduro a mantenere il potere. Alcuni giornalisti venezuelani, costretti a espatriare per continuare a scrivere in libertà, hanno dichiarato che partiti populisti come il M5S e Podemos hanno ricevuto a suo tempo generose “donazioni” da Maduro per esprimere la loro “simpatia” nei confronti del governo di Caracas.

Ma è importante risalire alle vere responsabilità di chi ha aperto la strada a tanto malgoverno. Risalgono ai governi degli ultimi decenni dello scorso secolo guidati sia da un partito di ispirazione cristiana (Copei) sia da un partito socialista (Accion Democratica). Entrambi non sono stati capaci di mantenere al servizio dello sviluppo economico del Venezuela i capitali dei grandi capitalisti, che hanno preferito dirottarli in gran parte verso la Florida (i lussuosi grattacieli di Miami, si dice, sono quasi tutti di proprietà dei ricchi venezuelani). Il disgusto di gran parte della popolazione per tali fughe di preziosi capitali è stato tale che nel 1998 il potere è passato nelle mani di Chavez.

Il Venezuela è così caduto dalla padella del malgoverno del Copei e dell’Accion Democratica nella brace dello chavismo, un misto di marxismo, di socialismo terzomondista d’ispirazione castrista e di teologia della liberazione. Gli Stati Uniti sono stati prima complici e poi avversari di almeno 50 anni di malgoverno in Venezuela. Ovviamente l’ispirazione cristiana promessa dal Copei è stata del tutto disattesa e tradita. Così per l’ennesima volta la Storia dimostra di non essere affatto, come invece spesso si dice, “maestra di vita”. Non lo fu, ad esempio, con la giusta protesta di Marx, che tuttavia voleva ottenere la giustizia sociale con la “medicina” sbagliata; non lo fu con Leone XIII, che diede la giusta “medicina” con la Rerum novarum, ma sempre rifiutata dai grandi capitalisti e dai sindacati; non lo fu con don Sturzo, sconfitto prima dal fascismo (aiutato a nascere dai grandi capitalisti) e poi sconfitto dallo statalismo (favorito dai partiti di sinistra e dai sindacati).

E’ comunque incoraggiante che sull’Osservatore Romano di domenica scorsa si sia letto un “mea culpa” del giornale della Santa Sede che praticamente dice: nel capire la pericolosità del fascismo aveva visto giusto don Sturzo, non il nostro giornale e la rivista Civiltà Cattolica. Lo stesso corretto “esame di coscienza” sta avvenendo nei confronti dello statalismo: l’apertura a sinistra non ha creato giustizia sociale (né la successiva apertura a destra). Se non vogliamo che anche l’Italia finisca come il Venezuela con l’opera di chi ora desidera creare giustizia sociale con la decrescita felice, è urgente realizzare quella rivoluzione culturale invano tentata dal popolarismo sturziano. L’Italia ne ha oggi un gran bisogno. Con il voto dato a un nuovo movimento politico popolare ed europeista si deve mandare in “pensione” non solo chi ha favorito – con il loro malgoverno – l’arrivo degli attuali
Robespierre, ma anche questi dannosamente (per l’Italia) regnanti.

 

(Fonte Servire l’Italia)

Frena la crescita nell’Unione europea e a livello globale

L’economia globale sarà più debole di quanto atteso e “l’impatto sul sentimento dell’aumentata incertezza di politiche e le condizioni di finanziamento del settore privato potranno portare ad un calo protratto”. Insomma uno scenario con luci ed ombre. La Commissione europea ogni anno pubblica due previsioni complessive (primavera e autunno) e due previsioni intermedie (inverno ed estate). Le proiezioni intermedie riguardano i livelli annuali e trimestrali del Pil e dell’inflazione per l’anno in corso e quello successivo per tutti gli Stati membri e per la zona euro, nonché i dati aggregati a livello dell’Ue.

In base all’ultima analisi, nel corso di quest’anno, l’economia europea dovrebbe continuare a crescere, con ipotesi di espansione in tutti gli Stati membri. Tra le previsioni di Bruxelles, tuttavia, anche una possibile frenata del ritmo di crescita rispetto ai tassi elevati degli ultimi anni, con prospettive soggette a forte incertezza. Del resto, l’attività economica ha già subito un rallentamento nella seconda metà del 2018 a seguito della riduzione della crescita del commercio mondiale, in un contesto in cui la fiducia è minata dall’incertezza e il prodotto in alcuni Stati membri ha risentito negativamente di fattori interni temporanei quali perturbazioni nella produzione automobilistica, tensioni sociali e incertezze della politica di bilancio. Di conseguenza, la curva del prodotto interno lordo sia nella zona euro che nell’Ue è andata all’1,9 % nel 2018, in calo rispetto al 2,4 % del 2017 (previsioni d’autunno: 2,1 % per l’Unione a 28).

L’economia europea dovrebbe seguitare a beneficiare del miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro, di finanziamenti favorevoli e di una politica di bilancio leggermente espansiva. Secondo le previsioni il Pil della zona euro dovrebbe crescere dell’1,3 % nel corso di quest’anno e dell’1,6 % nel 2020 (previsioni d’autunno: 1,9 % nel 2019 e 1,7 % nel 2020). Anche le prospettive di crescita del Pil dell’Unione sono state riviste al ribasso all’1,5 % nel 2019 e all’1,7 % nel 2020 (previsioni d’autunno: 1,9 % nel 2019 e 1,8 % nel 2020).

Le revisioni al ribasso della crescita di questi mesi, sono state consistenti per la Germania, l’Italia e i Paesi Bassi. L’inflazione del valore al consumo nella zona euro è scesa verso la fine del 2018 a causa di un forte calo dei prezzi dell’energia e di un’inflazione dei prezzi dei prodotti alimentari più bassa. L’inflazione di fondo, che esclude i costi dell’energia e dei prodotti alimentari non trasformati, è stata modesta nel corso dell’anno appena trascorso, nonostante la crescita più rapida dei salari. L’inflazione generale (Iapc) è stata in media dell’1,7 % nel 2018, in aumento rispetto all’1,5 % del 2017. Con ipotesi sui prezzi del petrolio per quest’anno e per l’anno prossimo attualmente più basse rispetto a quelle formulate in autunno, l’inflazione della zona euro dovrebbe rallentare, attestandosi all’1,4 % nel 2019, prima di risalire leggermente all’1,5 % nel 2020. Nell’Ue invece l’inflazione dovrebbe raggiungere in media l’1,6 % quest’anno e poi salire all’1,8 % nel 2020.

Le prospettive economiche sono caratterizzate da un elevato livello di incertezza e le proiezioni sono soggette al rischio di revisione al ribasso. Le tensioni commerciali, che pesavano sul clima da un po’ di tempo, si sono in qualche misura affievolite ma continuano a destare preoccupazione. L’economia cinese potrebbe rallentare in modo più netto del previsto, in un contesto di vulnerabilità dei mercati finanziari mondiali e di molti mercati emergenti soggetti ai bruschi cambiamenti della percezione del rischio e delle aspettative di crescita. Occorre inoltre ricordare che per l’Ue il processo della Brexit rimane una fonte di incertezza.

Alla luce del processo di recesso del Regno Unito dall’Unione, le proiezioni per il 2019 e il 2020 si fondano sull’ipotesi puramente tecnica dello status quo in termini di relazioni commerciali tra l’Ue a 27 e lo stesso Regno Unito. Si tratta di un’idea adottata a fini di previsione, che non ha tuttavia alcuna incidenza sul processo in corso. Le previsioni si basano su una serie di ipotesi tecniche relative ai tassi di cambio, agli indici d’interesse e ai prezzi delle materie prime, aggiornate al 25 gennaio 2019. Per tutti gli altri dati, le previsioni di Bruxelles tengono conto delle informazioni disponibili al 31 gennaio.

#MakingEurope2019, concorso fotografico per celebrare i 70 anni dell’istituzione

“Settant’anni che hanno fatto l’Europa” è il tema del concorso fotografico lanciato dal Consiglio d’Europa per celebrare il 70° di questa istituzione nata nel 1949 e che riunisce 47 Paesi e 840 milioni di persone.

Il concorso (https://70.coe.int/photo-competition) intende “stimolare la riflessione su ciò che lega questi paesi e persone, la loro realtà, le sfide, le aspettative e le speranze per un futuro migliore”, spiega il bando del concorso.

Fino al 30 aprile prossimo si potranno caricare su Instagram le immagini che dovranno fare riferimento a uno dei cinque temi indicati dalla giuria (persone, luoghi, momenti, sfide, bianco e nero); dovranno essere caricate con l’hashtag #MakingEurope2019, con il tag del Consiglio d’Europa (@councilofeurope).

Sarà selezionata una immagine vincitrice per ogni ambito più una “assoluta”. Gli autori vincitori saranno invitati a partecipare all’evento commemorativo che si terrà ad ottobre a Strasburgo, mentre una selezione tra gli scatti migliori sarà esposta in una mostra fotografica nella sede del Consiglio.

Autismo: nuovo progetto regionale

Il progetto, che dovrà concludersi nell’ottobre del 2020, punta a identificare e sperimentare interventi di continuità per accompagnare i percorsi di crescita dei ragazzi affetti da sindromi dello spettro autistico, dall’istruzione al lavoro, valutando anche le migliori soluzioni residenziali e semiresidenziali

Per la realizzazione del progetto di ricerca il ministero ha stanziato un milione di euro, suddivisi tra le cinque regioni partner: Liguria (capofila), Veneto, Marche, Umbria e Campania. Al Veneto, e in particolare al centro di riferimento veronese, sono stati assegnati 240 mila euro.

Incontro con Maurizio Martina

Maurizio Martina scrive a Macron: “gli italiani non sono il governo”

Maurizio Martina, in una lettera inviata al primo ministro francese Emmanuel Macron scrive: “Gentile Presidente Macron, le scrivo sapendo del sentimento che unisce tantissimi italiani oggi che non si riconoscono negli attacchi ingiustificati e gratuiti dell’attuale governo del nostro paese alla Francia”.

“Un governo scellerato e ministri incompetentistanno giocando sul destino dei nostri paesi la loro pericolosa campagna elettorale permanente, rinunciando ogni giorno a rappresentare gli interessi collettivi, a vantaggio di polemiche e provocazioni pensate solo per alimentare rancori e divisioni. Fino alle ultime mosse oltralpe di un vicepremier disperato ossessionato dalla ricerca di visibilità. A loro il passato non deve avere insegnato proprio nulla”.

“Sappia, signor Presidente- prosegue Martina- che il nostro paese non e’ questo. Italia e Francia sono e saranno paesi fratelli. Italiani e francesi condivideranno sempre lo stesso futuro. Come accade ogni giorno, quando migliaia di nostri connazionali vivono e lavorano fianco a fianco: nelle nostre città, nelle nostre imprese, nelle nostre università e scuole.
Queste persone non sono rappresentate dagli attacchi sguaiati di questo governo. Non sono rappresentate da una politica cinica pronta a consumare tutto nella logica dello scontro, del nemico, della provocazione. Non ci stiamo ad essere rappresentati cosi’ perché non siamo cosi’. Ed è soprattutto per questo, che e’ compito di ciascuno di noi fare un’Europa più forte e più giusta ora. Lottare insieme per sconfiggere il cancro degli estremismi nazionalisti e condividere soluzioni avanzate per garantire una nuova sovranità europea come unico orizzonte di pace, protezione e cooperazione tra i popoli europei. I rapporti tra gli Stati, a maggior ragione quelli tra due Paesi fratelli come sono Italia e Francia, hanno basi solide che vanno al di la’ dei Governi”.

“Signor Presidente, gli italiani non sono il governo che ha ordito e consentito questi attacchi. L’Italia e’ un grande paese fratello della Francia. E anche per questo ci battiamo e ci batteremo sempre per il nostro futuro comune”.

Dalla libertà alla sorveglianza

Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano

Vincoli al libero esercizio dei culti che mostrano un implicito sospetto nei loro confronti e, allo stesso tempo, tradiscono lo spirito «di apertura e libertà» della legge del 1905: ha espresso «inquietudine» la Conferenza dei responsabili del culto in Francia (Crfc) riunitasi martedì scorso per riflettere sulle misure di modifica della legge sulla separazione fra le Chiese e lo Stato. Una riforma che è ancora in fase di costruzione ma di cui si conoscono i principali obiettivi: trasparenza dei finanziamenti, rispetto dell’ordine pubblico, responsabilizzazione degli amministratori delle associazioni cultuali. Se all’inizio erano stati i dirigenti musulmani a esprimere al governo contrarietà su misure che apparivano studiate esclusivamente per controllare più da vicino la comunità islamica, ora sembra che le perplessità sulle modifiche coinvolgano tutte le religioni, i cui rappresentanti sono stati ricevuti un mese fa all’Eliseo.

Intervistato dal quotidiano «La Croix», monsignor Olivier Ribadeau-Dumas, portavoce della Conferenza episcopale francese, ha spiegato che, se è vero che lo scopo dell’esecutivo è di inquadrare meglio l’islam, è altrettanto vero che «ciò che riguarda un culto riguarda, di rimbalzo, tutti i culti». Pur non prendendo una posizione ufficiale comune, la Crfc avrebbe pareri convergenti: «Si può toccare la legge del 1905 solo per dei giusti motivi e ciò che ci è stato presentato dal governo non ci sembra legittimo. Inoltre, nel contesto attuale, è proprio opportuno?», si domanda il rappresentante cattolico. Per il presidente della Federazione protestante, François Clavairoly, le modifiche «non sono nello spirito di apertura della legge» e «tendono a restringere più che a estendere la libertà di culto». Conferma i suoi dubbi anche il presidente del Consiglio francese del culto musulmano, Ahmet Ogras: «Si passerebbe da un approccio di libertà di esercizio del culto a un approccio di sicurezza, è ciò è inammissibile». Tra le misure più criticate figurano l’obbligo, da parte delle associazioni cultuali, di dichiarare i finanziamenti stranieri superiori a 10.000 euro, e la presentazione preventiva di una “certificazione di qualità” delle stesse.
All’incontro del 5 febbraio non hanno partecipato i rappresentanti della comunità ebraica.

Gilet gialli, una protesta che ci interpella: l’editoriale di Aggiornamenti Sociali

Dal 17 novembre scorso, ogni sabato in Francia si ripropone la protesta dei gilet gialli contro il Governo di Macron. Nell’editoriale del numero di febbraio di Aggiornamenti Sociali, rivista dei gesuiti italiani, il direttore Giacomo Costa SJ prova a mettersi in ascolto di questo complesso fenomeno cercando di capire qual è la carta d’identità dei manifestanti, come sta reagendo la classe politica francese e soprattutto che cosa questa esperienza può insegnare agli altri Paesi europei.

Dopo avere chiarito che «l’approccio alla protesta dei gilet gialli richiede di mettere da parte una serie di categorie, stereotipi e proiezioni interpretative, che lo iscriverebbero immediatamente in una traiettoria populista piuttosto che in una antagonista o rivoluzionaria», l’editoriale approfondisce alcune delle motivazioni principali che animano i manifestanti, come la convinzione di essere vessati da un carico fiscale iniquo e il desiderio di essere rispettati e riconosciuti in quanto cittadini. Un elemento interessante, secondo padre Costa, è anche il fatto che, «a differenza ad esempio degli indignados spagnoli, i gilet gialli non sono portatori di una critica ideologica al sistema, alle grandi imprese, alle banche o alla finanza. (…) Ciò che li unisce è una esperienza concreta di vita, non una collocazione ideologica o la coscienza di far parte di una classe sociale in conflitto con altre. Per questo sono anche poco sensibili ad altre questioni che agitano lo spazio politico, prima fra tutte quella dell’immigrazione».

«Non per questo – precisa però l’editoriale – sono da considerare apolitici: la loro “rivolta” ha chiaramente un segno e un’intenzione politica, pur insistendo nel rimarcare la distanza dalle élite politiche, di cui non si fidano, e anche dai partiti di opposizione».

Dopo avere analizzato un aspetto delicato quale il ricorso alla violenza da parte di alcuni manifestanti e avere ricordato le risposte del presidente Macron e del governo francese (in particolare il “Grande dibattito nazionale”, iniziativa sulla carta apprezzabile che appare però viziata da paternalismo e astrattezza), la parte finale dell’editoriale amplia lo sguardo: infatti, scrive Costa, «quanto sta accadendo oltralpe ci consente di identificare alcuni fattori che possono portare all’inceppamento della democrazia».

In particolare, un «tema che appare con forza è la necessità sempre più concreta di conciliare la questione della sostenibilità ecologica, che ha una prospettiva intergenerazionale, con quella della sostenibilità sociale, che riguarda l’inclusione e l’equa ripartizione degli oneri per la generazione presente. Il rischio, drammatico, è quello di non riuscire a offrire a tutti i cittadini un quadro convincente in cui inserire le scelte politiche perseguite, finendo per generare la convinzione che gli obiettivi sul versante ecologico siano una minaccia per l’equità sociale e viceversa. (…) In radice, la crisi dei gilet gialli ci dice che davvero stiamo toccando con mano che lo stile di vita occidentale non è più sostenibile per tutti, senza scaricare sul futuro i costi del presente».

Ancora più in profondità, «le tensioni che stanno dietro il fenomeno dei gilet gialli sono probabilmente solo l’antipasto di quello che il futuro riserva a un’Europa sempre meno capace di generare crescita e di guardare al futuro». Non esistono, naturalmente, facili scorciatoie, ma l’editoriale prova a individuare alcune vie di uscita. «Da conflitti sociali di questo genere non si esce se non attraverso il dialogo sociale. Perché questo sia efficace, però, è necessario che la società disponga di un know-how e di istituzioni o forme organizzate di mediazione, che evitino la polarizzazione del confronto tra pretese individuali (o al massimo di gruppi molto omogenei) irriducibili tra loro. È la funzione che tradizionalmente si riconosce ai “corpi intermedi”».

«È proprio sulla capacità di aprire spazi di mediazione all’interno della società – conclude padre Costa – che si gioca il senso di una leadership politica che non voglia ridursi a tecnica di gestione del consenso a vantaggio degli interessi di alcuni: è questa la sfida che hanno di fronte Macron in Francia e tutti i suoi colleghi negli altri Paesi».

Normalità cercasi

È certo che siamo oramai in campagna elettorale per le Europee e lo si comprende benissimo stante il modo in cui si muove il Governo nazionale. C’è una evidente fretta nel dar corso ai due più importanti provvedimenti della finanziaria: reddito di cittadinanza e quota cento. Non si parla d’altro e le conferenze stampa non mancano, anzi se ne fanno a iosa per essere certi che i cittadini abbiano capito l’importanza dei provvedimenti.

Repetita iuvant non solo per essere sicuri che si capisca ma anche per far capire quale sarà la campagna elettorale che, da qui a maggio, ci attenderà. Non si parla d’altro, come se altre questioni (lavoro, disoccupazione giovanile e non, investimenti e sviluppo) non esistessero. Anzi si assiste a un deplorevole, quanto misero, balletto di attribuzione delle responsabilità all’uno o l’altro partner di governo per cui le grandi opere infrastrutturali siano in gran parte ferme (ben 400 cantieri fermi, quindi, non solo la Tav).

Da tutto ciò emerge con chiarezza che le due anime del Governo sono in disaccordo su quasi tutto e che rimangono in sella solo per attaccamento al potere e per mero calcolo elettorale. Cercano quotidianamente di addossarsi le responsabilità per una possibile ed eventuale caduta del governo. Subito dopo l’esito delle elezioni europee tireranno le conclusioni e inizieranno la battaglia finale precostituendo le ragioni e i tempi per elezioni politiche anticipate.

Intanto, chi ci rimette sono i cittadini italiani che sempre di più si preoccupano del loro futuro e dei loro risparmi, nell’attesa di qualche seria iniziativa politica capace di disegnare un progetto che guardi al futuro della società italiana nel contesto europee e mondiale. Ma fino a ora non si vede all’orizzonte nulla di tutto questo. Gli attuali governanti parlano continuamente dei punti previsti da questo famigerato “contratto” che, diciamolo con chiarezza, non ha nulla di istituzionale ma solo una convenienza tra i due contraenti di governo.

C’è da chiedersi fino a quando continuerà questo misero balletto tra Lega e Penta Stellati che confliggono tra loro al solo scopo di recuperare consenso elettorale, tra l’altro stabilito dai sondaggi che non sempre corrispondono alle effettive risultanze provenienti dalle urne. Insomma la situazione non è delle migliori per mancanza di progettualità e, certamente, preoccupa questo andazzo che non porta a un futuro di sviluppo economico, sociale e culturale.

Bisogna che presto si creino le condizioni per un ritorno alla normalità, ahimè oggi perduta, che passa attraverso il recupero del buon senso e, specialmente, di un sistema istituzionale che garantisca governabilità con coalizioni basate su programmi, non certo su contratti. Ci vuole anche una opposizione per assicurare una effettiva alternanza ma che, purtroppo, oggi non c’è.

Paola Brianti ed il suo Parmigianino

“… Era rapito in un sogno di gloria. Il futuro gli stava davanti pieno di promesse, avrebbe fatto opere grandiose, avrebbe celebrato la bellezza pura, la bellezza che attesta l’esistenza di Dio, l’amore di Dio per l’uomo, la mano invisibile del Creatore nel mondo visibile. Avrebbe aggiunto ai sei trionfi del Petrarca, il settimo Trionfo, il più alto, il più divino, il Trionfo della Bellezza. …”

Così Paola Brianti nel suo libro Parmigianino (sottotitolo “Il mistero di un genio”), edito di recente da Albatros, ci descrive lo stato d’animo di un giovane artista che, senza neppur salutare la sua Laura, parte per Fontanellato.
È la stessa cittadina da cui l’autrice si è allontanata da giovane per intraprendere con passione la sua carriera di giornalista e scrittrice alla ricerca, nelle strade del mondo, anche di una Bellezza che va oltre l’estetica visiva e s’inserisce tra le pieghe dell’anima, nei binari del treno della vita. Una vita che per il Parmigianino si è rivelata troppo breve per consentire alle sue ispirazioni artistiche geniali di evolversi appieno (Geronimo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino, nasce il 1503 e muore nel 1540).

Il libro racconta la vita dell’eccentrico pittore del Cinquecento italiano, secolo turbolento e gravido di trasformazioni. Momenti salienti e personaggi fondamentali dell’epoca fanno da preziosa cornice al protagonista, che l’autrice fa muovere con garbo ed eleganza, descrivendo minuziosamente fatti dell’epoca nonché aneddoti significativi ed episodi della vita dell’artista. Conseguentemente, il lettore si ritrova a condividere, passo dopo passo, una storia appassionante e, grazie all’atmosfera intensa e colma d’immagini, partecipa a sentimenti ed esperienze. Come, ad esempio, la prima visita alla Rocca di San Vitale quando egli “… affidò al cameriere la borsa di cuoio con gli abiti di ricambio, ma rifiutò di consegnargli la cartella. …”. Sembra di vedere il pittore che strappa con forza il materiale indispensabile per la sua arte, da cui non si vuole mai staccare, neppure quando va a caccia.

Nella trama, scorci di esistenza e peculiarità quotidiane si mescolano, facendo capire al lettore come quel giovane “… era bello e ne era consapevole, amava l’eleganza…” essendo anche consapevole di essere “… giovane d’anni e vecchio di mestiere…”.
Con questa alternanza di fatti privati e pubblici, in virtù di una scrittura agile ed erudita e di una narrazione coinvolgente, le pagine scorrono con piacevolezza, seguendo l’artista nelle sue vicende e descrivendo le sue mirabili opere.
Riferimenti dotti, frutto di studio ed approfondita ricerca, sono intercalati con dialoghi mai banali. Tra uno sguardo ed una battuta il lettore apprende, ad esempio, che a quell’epoca era stato pubblicato a Venezia “L’Asino d’oro” di Apuleio ed arriva ad avere addirittura visione del tomo. Visioni come questa, del resto, sono il frutto di una particolare scrittura a tratti cinematografica, da cui si deduce la passione dell’autrice per il linguaggio delle immagini. Ella descrive, infatti, in maniera tanto reale i costumi e la società dell’epoca al punto che spesso sembra di presenziare ad una cena, sostare di fronte ad un affresco oppure essere accanto ai numerosi personaggi che popolano la narrazione, siano essi nobili, papi, o semplici garzoni.

Non mancano storie d’amore e magiche atmosfere (tra volti di languide donne e rime poetiche), che riportano alla mente l’emozione che suscitano le opere del Parmigianino, il quale non ha alcuna ambizione di essere filosofo, medico o scienziato ed afferma “… Io sono soltanto un artista…”. Un artista che per tutta la vita cercò nell’arte la verità, un pittore per il quale la sfera alchemica non fu pura magia, ma l’essenza stessa della vita. Egli, infatti, dipinge in modo magistrale, ma sempre con la consapevolezza dei propri limiti (“… Io non dipingo mai quello che non capisco…”), riproducendo la realtà come la vede.
Le sue opere sono descritte con acuta capacità critica e manifesta passione. L’intero testo, del resto, è una fonte imperdibile storica e bibliografica, grazie agli studi d’archivio ed alle ricerche che l’autrice ha protratto per anni.

Nel libro, tra velati amori dai toni carnali, ragionamenti sulle cose da fare ed istinti creativi, il mistero della vita e dell’arte anelano al fascino impalpabile della Bellezza. A volte, si affrontano temi filosofici, come quando Sanvitale, Delfini, Russiliano e l’artista emiliano discettano sulla trasformazione della materia (“…Francesco entrò nel salone con i suoi abiti ancora macchiati e le mani imbrattate di calce e di tempera…”), e sul rapporto Dio-perfezione.
Il Parmigianino raccontato dall’autrice è un giovane uomo che ascolta, ipotizza e sperimenta, un artista che mette in discussione non la validità della scuola Rinascimentale, ma i suoi limiti.

Società, cultura ed arte s’intrecciano quasi creando una atmosfera di suspense come quando Francesco Mazzola, cercando una risposta plausibile ai suoi quesiti ed alle sue aspirazioni, mormora… “Mi hanno avvelenato” ed alla richiesta di chi sia il colpevole l’amico architetto Damiano De Pleta risponde semplicemente: “Parma”.

Alla fine del romanzo, non può non venire alla mente l’Autoritratto entro uno specchio convesso, realizzato intorno al 1524, in cui l’espressione del volto vaticinante del giovane artista sembra voler sintetizzare il suo breve futuro caratterizzato da intensa ricerca, forte vitalità, acuto dolore e gioia creativa.

Minnetti: la fraternità non è equidistanza

Articolo già pubblicato da Città Nuova a firma di Carlo Cefaloni

È stato uno tra i sindaci più giovani in Italia, la politica ce l’ha nel sangue, come si dice. Abita nelle Marche, una delle regioni operose che non fanno notizia, tranne quando esplodono, come con i fatti di cronaca di Macerata del febbraio del 2018, le contraddizioni presenti nella pancia del Paese.

Su cittanuova.it si trovano i suoi densi contributi mensili di cultura politica ed economica. Parliamo di Silvio Minnetti, rieletto a inizio gennaio per un triennio alla presidenza italiana del Movimento politico per l’unità e cioè di un percorso originale generato dal Movimento dei Focolari ma da questi distinto. Non è un partito, né il braccio politico di una realtà ecclesiale e neanche un ambito ristretto ai credenti. Non controlla voti o cura interessi, ma cerca solo di promuovere e sostenere la fraternità dentro la vita sociale delle città e delle nazioni. Praticamente appare come un forte segno di contraddizione dentro le divisioni politiche che attraversano anche le comunità cristiane.

Come è organizzato il movimento a livello nazionale?
Esiste un nuovo centro nazionale, composto da 9 persone, appena rieletto attraverso un processo partecipativo dal basso, a livello regionale. In tale gruppo sono rappresentate più sensibilità politiche, oltre a persone di diversa età e provenienza geografica. Praticamente ha una funzione di servizio al bene comune dell’Italia, mirando a garantire l’unità nella diversità, nei diversi contesti dove siamo presenti. Dalla dimensione locale a quella nazionale ed europea.

Che significa in concreto? Essere per la fraternità vuol dire non prendere mai posizione?
Teniamo presente che il Movimento politico per l’unità nasce dall’ideale di Chiara Lubich di promuovere l’amore scambievole tra i popoli, introducendo una luce nel buio del ‘900. Dal carisma dell’unità – che guarda l’agire politico come “l’amore degli amori” e sollecita tutti a spendersi per l’umanità –, nasce un laboratorio internazionale di innovazione politica. Essere per la fraternità universale significa «promuovere e difendere i valori fondanti della persona e dei popoli, privilegiando i più deboli, attuando politicamente la fraternità universale, su percorsi di giustizia e di libertà». (Charta internazionale Mppu). Non si può essere pertanto coerenti con i nostri valori fondanti senza prendere posizione. Ovviamente, non essendo un partito, ma un movimento trasversale ricco di tutte le sensibilità politiche, in modo plurale, poliedrico, sempre argomentato e costruttivo.

Cosa significa essere Mppu oggi in Italia?
Vuol dire stare dentro una grave frattura tra ceti popolari ed élite, tra partiti di sistema e forze anti establishment al governo. Insomma, tentare di “conciliare l’inconciliabile”. Tuttavia, siamo presenti in Parlamento nel rapporto con deputati e senatori di diversa estrazione, per cercare di ragionare sulla crisi della democrazia rappresentativa, da integrare con quella partecipativa e diretta. Cerchiamo di aprire spazi di dialogo tra maggioranza e opposizione su provvedimenti divisivi come il decreto sicurezza e ora il reddito di cittadinanza. Il nostro focus si sposta però verso le città, luogo di co-governance e di esperienze di democrazia partecipativa e deliberativa. Dal basso può sorgere, infatti, un forum civico permanente per portare molte persone dal volontariato all’impegno politico entro 4 o 10 anni, per rinnovare la politica in Italia.

Come state affrontando la questione “migranti”?
Abbiamo affrontato la questione con due laboratori parlamentari di ascolto reciproco e condivisione tra esponenti di maggioranza, di opposizione ed esperti del settore. In particolare sul decreto sicurezza abbiamo registrato posizioni inconciliabili, soprattutto sulla protezione umanitaria e sul mantenimento degli Sprar, esempio positivo di accoglienza che si trasforma in integrazione per piccoli gruppi a differenza dei Cara. Abbiamo favorito il dialogo tra il presidente del consiglio Conte e l’Anci sulla questione degli ostacoli alla residenza dei migranti. Un nostro ultimo documento, pubblicato nel sito Mppu Italia, ha fornito una lettura complessiva del fenomeno cercando di indicare una soluzione europea per la ripartizione dei migranti e per aiuti allo sviluppo in Africa. I nostri principi evangelici di fraternità universale a difesa dei deboli ci portano a condannare un continuo braccio di ferro tra Ue e autorità italiane rispetto alla sbarco di esseri umani che fuggono da guerre, violenze e povertà, trattenute per settimane sulle navi che le hanno salvate. Serve prevenire la partenza che mette a rischio la vita dei migranti, tutelando sempre i loro diritti fondamentali. Occorre aprire corridoi umanitari e promuovere flussi regolari di immigrazione governata. Ma, poi, serve un meccanismo automatico di ripartizione tra Paesi UE, nessuno escluso.