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mercoledì, 5 Novembre, 2025
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Istat: il fatturato dell’industria diminuisce

A giugno si stima che il fatturato dell’industria diminuisca in termini congiunturali dello 0,5%. Nel secondo trimestre l’indice complessivo è diminuito dello 0,1% rispetto al trimestre precedente.

Anche gli ordinativi registrano a giugno un calo congiunturale sia su base mensile (-0,9%) sia nel complesso del secondo trimestre (-0,4%).

La dinamica congiunturale del fatturato a giugno è sintesi di una flessione del mercato interno (-1,2%) e di un modesto aumento di quello estero (+0,5%). Per gli ordinativi il calo congiunturale riflette la contenuta crescita delle commesse provenienti dal mercato interno (+1,1%) e la marcata diminuzione di quelle provenienti dall’estero (-3,8%).

Il calo congiunturale del fatturato è diffuso con intensità diverse a tutti i raggruppamenti principali di industrie: -0,2% per i beni strumentali, -0,4% per i beni di consumo, -0,8% per i beni intermedi e -2,8% per l’energia.

Corretto per gli effetti di calendario (i giorni lavorativi sono stati 20 contro i 21 di giugno 2018), il fatturato totale diminuisce in termini tendenziali dello 0,8%, riflettendo cali su entrambi i mercati (-1,0% il mercato interno e -0,1% quello estero).

Con riferimento al comparto manifatturiero, le industrie tessili e quelle dei mezzi di trasporto registrano la crescita tendenziale del fatturato più rilevante (+4,1%), mentre l’industria farmaceutica mostra il calo maggiore (-12,6%).

In termini tendenziali l’indice grezzo degli ordinativi cala del 4,8%, con diminuzioni su entrambi i mercati, ma di entità notevolmente diversa: -1,8% quello interno e -9,1% quello estero. La maggiore crescita tendenziale si registra nelle industrie dei mezzi di trasporto (+5,1%), mentre il peggior risultato si rileva nell’industria farmaceutica (-16,2%).

Diminuiscono le opere pubbliche incompiute

Secondo il MIT, che ha condotto una dettagliata ricognizione , con dati aggiornati al 31 dicembre 2018 e al 30 giugno 2019, diminuiscono le opere pubbliche incompiute.

L’indagine annuale ha visto impegnati operativamente il Ministero, le Regioni, le Province autonome e ITACA. Dalla rilevazione emerge una contrazione del numero delle opere incompiute rispetto all’anno scorso, che risultano essere 546 (- 15,6%) contro le 647 del 2018. Si conferma così la tendenza positiva, registrata negli ultimi due anni, di una ripresa dei lavori di completamento delle opere.

Scorrendo la relativa tabella, emerge che complessivamente le 546 opere incompiute sono costate finora 4.068.090.161,43. Per il loro completamento (ultimazione dei lavori) occorrerebbero 1.971.240.982,12. Le Amministrazioni più virtuose, secondo i dati della ricognizione, sono le Province autonome di Trento e Bolzano, con 0 opere incompiute, seguite da Valle d’Aosta (2), Friuli Venezia Giulia (3) e Liguria. La maglia nera va invece a Sicilia, con 154 opere incompiute, Sardegna (80) e Puglia (41).

Una dieta maggiormente vegeterania fa vivere di più

30Lo afferma uno studio pubblicato dalla rivista Jama Internal Medicinecondotto in Giappone, che ha visto in chi ha una dieta sana sia un minor rischio generale di morte che di morte per cause cardiovascolari.
Durante lo studio sono morte più di 12mila persone, di cui circa 5mila per cancro e quasi altrettante per problemi cardiovascolari. Confrontate con le persone che consumavano la percentuale minore di proteine vegetali, quelli con il consumo maggiore hanno mostrato un rischio minore del 13% di morire durante lo studio e del 16% di farlo per cause cardiovascolari.

Dallo studio è emerso che sostituire appena il 4% delle proteine animali riduce del 50% il rischio di morte per cancro e del 46% quello generale.

Conte: “Intendo dar vita a un Governo pienamente concentrato sugli interessi dei cittadini”.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ringrazio, mi ha conferito l’incarico di formare il governo, incarico che ho accettato con riserva.

Oggi stesso avvierò le consultazioni con tutti i gruppi parlamentari e, all’esito di questo confronto, mi dedicherò a elaborare un programma insieme alle forze politiche che hanno espresso il loro sostegno a favore di questo nuovo progetto politico e che desidero, sin d’ora, qui ringraziare.

È una fase molto delicata per il Paese: dobbiamo uscire al più presto dall’incertezza politica innescata dalla crisi di governo.

Stiamo attraversando una congiuntura economica che presenta alcune criticità: l’economia globale soprattutto in Europa sta rallentando, anche per effetto delle tensioni commerciali in atto, in particolare tra Stati Uniti e Cina.

Ci separano poche settimane dall’inizio della sessione di bilancio; dobbiamo metterci subito all’opera per definire una manovra economica che contrasti l’aumento dell’IVA, che tuteli i risparmiatori e che offra una solida prospettiva di crescita e sviluppo sociale.

Siamo agli albori di una nuova legislatura europea e dobbiamo recuperare il tempo sin qui perduto per consentire all’Italia – Paese fondatore dell’Europa – di svolgere un ruolo da protagonista, ruolo che merita.

Dobbiamo adoperarci per trasformare questo momento di crisi in opportunità e in occasione di rilancio.

Il Paese ha l’esigenza di procedere speditamente.

Con questa consapevolezza mi confronterò con le forze politiche che si sono dichiarati disponibili a sostenere il nuovo progetto. Preciso subito che non sarà un Governo CONTRO. Sarà un Governo PER il bene dei cittadini, PER modernizzare il Paese, PER rendere la nostra Nazione ancora più competitiva nel contesto internazionale, ma anche più giusta, più solidale, più inclusiva.

Realizzerò un Governo nel segno della NOVITÀ: è quello che mi chiedono le forze politiche che hanno annunciato la disponibilità a farne parte.

Questo è il momento di una NUOVA STAGIONE, un’ampia stagione RIFORMATRICE, di rilancio e di speranza, che offra al Paese risposte e anche certezze.

Mi ripropongo di creare una squadra di lavoro che si dedichi incessantemente e con tutte le proprie competenze ed energie a offrire ai nostri figli l’opportunità di vivere in un Paese migliore:

  • un Paese in cui l’istruzione sia di qualità e aperta a tutti,
  • un Paese all’avanguardia nella ricerca e nelle più sofisticate tecnologie,
  • che primeggi, a livello internazionale, nella tutela dell’ambiente, della protezione delle bio-diversità e dei mari,
  • che abbia infrastrutture sicure e reti efficienti, che si alimenti prevalentemente con le energie rinnovabili,
  • che valorizzi i beni comuni e il patrimonio artistico e culturale,
  • che integri stabilmente nella propria agenda politica il Benessere equo e sostenibile,
  • un Paese che rimuova le diseguaglianze di ogni tipo: sociali, territoriali, di genere;
  • che sia un modello di riferimento, a livello internazionale, nella protezione delle persone con disabilità;
  • che non lasci che le proprie energie giovanili si disperdano fuori dei confini nazionali, ma un Paese che sia anzi fortemente attraente per i giovani che risiedono all’estero;
  • che veda un Mezzogiorno finalmente rigoglioso di tutte le sue ricchezze umane, naturali, culturali;
  • un Paese nel quale la P.A. non sia permeabile alla corruzione e sia amica dei cittadini e delle imprese; con una giustizia più equa ed efficiente;
  • dove le tasse le paghino tutti, ma proprio tutti, ma le paghino meno.

Come sapete, ho vissuto già un’esperienza di governo.

Vi confesso che la prospettiva di avviare una nuova esperienza di governo, con una maggioranza diversa, mi ha sollevato più di un dubbio.

Ho superato queste perplessità nella consapevolezza di avere cercato di operare sempre nell’interesse di tutti i cittadini. Nessuno escluso.

Non sto dicendo che ci sono sempre riuscito.

So però di avere sempre cercato di servire e rappresentare il mio Paese, anche all’estero, guardando solo al bene comune, e non a interessi di parte o di singole forze politiche.

Questi principi e questi valori – che so essere stati apprezzati e condivisi da molti italiani – sono l’elemento di COERENZA con cui intendo dar vita a questa nuova stagione e guidare questo governo.

Più precisamente, COERENZA vorrò nella cultura delle regole e nella fedeltà ai valori che hanno sempre ispirato la mia azione. Sono principi non negoziabili, che non conoscono distinzione di colore politico.

Sono principi scritti nella nostra Costituzione. Ne cito alcuni: il primato della Persona, il lavoro come supremo valore sociale, l’uguaglianza nelle sue varie declinazioni, formale e sostanziale, il rispetto delle Istituzioni, che significa il rispetto di tutti i cittadini che queste rappresentano.

Il principio di laicità e, nel contempo, di libertà religiosa. E infine, complessivamente, la difesa degli interessi nazionali, nel quadro di un multilateralismo efficace, fondato sulla nostra collocazione euro-atlantica e sulla integrazione europea.

Intendo dar vita a un Governo pienamente concentrato sugli interessi dei cittadini, che porti in alto il nome dell’Italia, accrescendo il bagaglio di credibilità e prestigio di cui il nostro Paese già attualmente gode a livello internazionale.

Questo è il momento del coraggio, e della determinazione. Il coraggio di disegnare un Paese migliore. La determinazione di perseguire questo obiettivo, senza lasciarsi frenare dagli ostacoli.

Di mio aggiungerò tanta passione, che mi sgorga naturale nel servire il Paese che amo,

Molto spesso, negli interventi pubblici sin qui pronunciati, ho evocato la formula di un “nuovo umanesimo”. Non ho mai pensato che fosse lo slogan di un Governo. Ho sempre pensato che fosse l’orizzonte ideale per un intero Paese.

Nei prossimi giorni tornerò dal Presidente della Repubblica per sciogliere la riserva e, in caso di esito positivo, per sottoporgli le proposte relative alla nomina dei ministri.

Grazie a tutti per l’attenzione.

La crisi degli avversari di Papa Francesco

Tutti concordano sul fatto che il tweet di Trump, l’avallo al governo Conte-5ss-Pd, ha significato la liquidazione “americana”del Salvini filo-Putin. Pochi, però, hanno evidenziato la crisi degli avversari di Francesco. Da due anni a questa parte tutto il loro teorema si fonda sul Papa “obamiano” sconfitto dalla storia.

L’asse (vincente) Trump-Salvini-Orban, ecc segnerebbe la fine del papato. Ora però se Trump appoggia Conte, il quale si allea con il Pd ed è filo-Francesco, il teorema perde le gambe. Cosa potranno dire ora? Che Trump ha cambiato bandiera e si è alleato con Bergoglio? Una affermazione difficile da sostenere. Una cosa è certa, con la crisi del trumpismo la destra religiosa, in Italia, perde il punto di riferimento teologico-politico. Gli rimane solo Salvini.

Troppo poco per celebrare la fine del Papa “obamiano”. E’ l’ora dell’arrampicamento sugli specchi. Andranno avanti facendo finta che nulla è accaduto. Fanno sempre così. Mai una volta che le smentite della storia li inducano ad una revisione di tenaci pregiudizi.

Tratto dal suo profilo fb

Risposta di Galbiati a Tanzilli: “Sappiamo di dover essere una minoranza attiva”

Risposta di Galbiati a Tanzilli

Continua la confusione sul ” partito identitario” – di Domenico Galbiati In ordine all’eventuale “partito di ispirazione cristiana”, cioè relativamente all’avvio – non generico, ma organizzato – di una nuova fase dell’impegno politico dei cattolici popolari e democratici nel nostro Paese, occorre fare chiarezza o meglio che, pur dissentendo, se ne parli restando al punto, cioe’ rispettando il merito della questione cosi’ come viene posta da chi la propone. Altrimenti si parla d’altro ed allora non serve.

Ho letto il commento di Alberto Tanzilli su Il Domani d’Italia ( CLICCA QUI ) alla recente nota di Giancarlo Infante.
Per quel pò che mi pare di aver compreso frequentando il gruppo di amici che danno vita a “Politica Insieme”, vorrei, anzitutto, rassicurarlo circa l’ “illusione narcisistica ed ingenerosa” che teme di ravvisarvi. Non ho notato che vi siano rivalse da consumare; tanto meno frustrazioni da compensare. Si tratta di persone tutte in condizioni di buon equilibrio mentale. Posso assicurare Tanzilli che, nel merito, il mio e’ un parere anche clinico e professionale.

Lasci perdere il “narcisismo” ed anche la supposta convinzione del “valore assoluto” delle nostre opinioni.
Come ci ha insegnato Martinazzoli la religione e’ “universale”, la politica è “particolare” per cui sappiamo bene che si sviluppa solo sul piano di ciò che è opinabile.

Una puntualizzazione merita il fatto che i cattolici-democratici avrebbero “imboccato” la via del divorzio e dell’aborto. Vorrei sommessamente ricordare che è esattamente vero il contrario: hanno affrontato, a viso aperto, due sfide referendarie, sapendo bene di remare controcorrente e che avrebbero pagato – come è puntualmente avvenuto – il prezzo e la sconfitta di queste battaglie sul piano della loro complessiva incidenza politica.

Eppure non si sono sottratti.Se mai l’hanno fato altri cattolici, di altra appartenenza politica. Peraltro, sarebbe addirittura risibile che qualcuno pensasse di ricorrere al secolare “braccio armato” della legge per rimettere in discussione divorzio ed aborto.

Promuovere il valore intangibile della vita, il rispetto integrale della persona, la centralità della famiglia a fondamento della struttura sociale richiede tutt’altra fatica, certo anche sul piano dell’azione politica e non solo in ordine alla formazione delle coscienze; due piani d’azione che reciprocamente si tengono.

Tanzilli ha, invece, ragione quando ritiene che una simile formazione politica avrebbe una consistenza elettorale numericamente ridotta. Infatti – per dirla banalmente – certo nessuno pensa che si possa “rifare la DC” che e’ stata una “singolarita’” – nel senso in cui tale termine si usa in fisica – della storia, cioè un evento unico ed irreperibile in quanto sorretta da una straordinaria contestualita’ di eventi impossibile da riprodurre ad arte. Per altro verso, se Don Sturzo avesse preteso di fare a priori il conto dei voti, il Partito Popolare non sarebbe mai nato.

Sappiamo di dover essere una “minoranza attiva”, cioè una modalità di presenza che – esclusa ovviamente ogni pretesa di una politica, come dire, “di potenza” – può avere un rilievo tutt’altro che indifferente proprio perché ci troviamo in una società “liquida”.

Quest’ultima, infatti, è necessariamente una sciagura? Siamo sicuri che, nella misura in cui annacqua, diluisce e decompone antiche, consolidate strutture, non possa, al contrario, rivelarsi un’ opportunità?
Possiamo cercare di introdurvi alcuni pur piccoli “cristalli” che fungano da coagulo attorno a cui addensare progressivamente i tralci ed nuclei di una possibile nuova impalcatura dotata finalmente di senso? Ed ha ancora ragione Tanzilli quando ci invita a diffidare di un’operazione identitaria.

Infatti – e lo sappiamo bene – la vera forza dell’identità di una forza politica sta nel suo essere perennemente una “incompiuta” che tende asintoticamente ad una verità che sempre la trascende. Nulla a che vedere con una esibizione stentorea di stendardi, labari e gagliardetti diretti a camuffare una presunta superiorità che non ci appartiene.

In altri termini, siccome sappiamo – questo sì – da dove veniamo, ci sembra di intuire, davanti a noi, una via possibile. Magari ci sbagliamo? Ad ogni modo, la nostra concezione, oggi, di una forza organizzata di ispirazione cristiana, è del tutto semplice e lineare; non ha bisogno di ricorrere ad elaborazioni concettuali troppi sofisticate.

Riteniamo, come credenti, di aver ricevuto, oltre il dono della vita, anche il dono della fede ed, in uno con questo, valori che, anziché trattenere gelosamente – appunto secondo una logica identitaria autoreferenziale – vanno declinati mostrandone, anche a chi il dono della fede non l’ha ricevuto, la straordinaria ricchezza umana e civile ad essi connaturata ed intrinseca, cosicché possono essere proposti come elementi strutturali di una possibile piattaforma comune, anche sul piano dell’ azione politica. Del resto, un dono per essere davvero tale chiede di essere a sua volta donato.

In quanto al PD….absit iniura verbis….basta il ritrattino che ne fa lo stesso Tanzilli.

Ad ogni modo, l’autonomia che rivendichiamo per noi, ovviamente la riconosciamo volentieri anche agli altri.
Non abbiamo nessuna intenzione di fare proselitismo o di “unire” più o meno forzosamente i cattolici.

Domenico Galbiati

Attraverso la crisi, per una rigenerazione delle idee.

Avevamo auspicato una soluzione parlamentare della crisi di Governo all’altezza della sfida “post democratica” lanciata dalla Lega di Salvini.

Attraverso un immediato ricorso alle urne, abilmente preparato da un anno e più di “campagna elettorale dal Governo”, si puntava a determinare una maggioranza sufficiente per codificare il cambiamento in senso illiberale della nostra democrazia.
Per definire questa auspicata soluzione parlamentare, nei nostri documenti avevamo usato i termini di “tregua operosa”.

Tregua, perché avvertivamo la necessità di una “ripartenza” del meccanismo politico capace di rimettere al centro i valori costruttivi di una dialettica politica ispirata al bene comune.
Operosa, perché le emergenze civili, sociali ed economiche del Paese non possono attendere.
Due elementi appaiono chiari nella nostra analisi.

Primo: l’urgenza di una “barriera a destra”. Non si può accettare senza reazione alcuna che l’Italia diventi il primo Paese “post democratico” tra le nazioni fondatrici dell’Europa.
Né si può favorire – con la rassegnazione – una concezione della politica fondata su principi di suprematismo nazionalista e foriera di pervasivi effetti di disgregazione della base civile e sociale del Paese e della sua struttura portante di valori e di cultura democratica.

Secondo: la necessità di un nuovo ciclo (“la vera svolta”) che richiede, però, un percorso non semplice e non banale di riorganizzazione della rappresentanza politica e dei meccanismi che presiedono la vita democratica. Nonché un nuovo “patto” tra cittadini e politica ispirato a nuove visioni e nuove idee, sopratutto di fronte ai nuovi paradigmi sociali, tecnologici ed ambientali.
Abbiamo condiviso la necessità di verificare in Parlamento i margini per la costituzione di un Governo capace di marcare il primo elemento e di accompagnare e favorire il secondo.

Si è scelta una strada diversa.
Ne prendiamo atto e speriamo comunque che il tentativo del Presidente Incaricato vada in porto: non è questo il tempo per distinguo distruttivi, semmai di responsabilità vigile e critica.
Il costituendo nuovo Governo pone certamente uno stop, per ora, alle strategie “sfasciste” della Lega: e ciò è un bene per il Paese.
Ma non sfugge la rischiosa fragilità culturale e politica delle basi su cui si fonda.

Aver preteso di formare un Governo “politico” a tutto tondo in questa fase (e con le confuse modalità di queste settimane) non è stata la scelta migliore.
Un Governo “politico di svolta” presuppone condivisioni e sintonie non riconducibili ad un accordo mediato in pochi giorni da forze così diverse e fino ad oggi alternative.

Meglio sarebbe stato – come molti avevano proposto – che il PD avesse negoziato il proprio appoggio esterno ad un Governo espresso politicamente dal M5S, formazione di larga maggioranza relativa in Parlamento, richiedendo la presenza di alcuni ministri tecnici (autorevoli e di garanzia) ed alcuni (pochi) punti programmatici.

Per queste ragioni, se avessimo una nostra rappresentanza parlamentare, l’atteggiamento più consono per noi sarebbe oggi quello di un appoggio esterno, leale ma libero e autonomo.
Resta un punto fondamentale.
La sfida della destra leghista – dietro alla quale vi sono ragioni strutturali di natura socio-economica ed istituzionale – può essere “stoppata” per il momento con la nascita del nuovo Governo, ma non può essere sconfitta se non attraverso una nuova stagione di presenza e di azione delle culture democratiche.

Si conferma ancor più urgente una rigenerazione di idee, programmi, metodi, classe dirigente, che liberi e valorizzi – chiamandole a raccolta con progetti credibili – tutte le energie positive della comunità nazionale.
Il mondo dei “Popolari” – al di fuori di ogni irragionevole tentazione di ritorni al “partito dei cattolici” – ha dunque ancor di più oggi il compito di elaborare e praticare un progetto politico all’altezza di questo scenario, tutto da costruire.

E deve farlo con sollecitudine, prima che il terreno venga compromesso da altre iniziative politiche in preparazione e delle quali – almeno ad oggi – sfuggono il profilo, l’origine, il senso e le intenzioni.

Lorenzo Dellai

L’attualità del municipalismo di Sturzo

Fonte Servire l’Italia a firma di Rocco Gumina

In un tempo di crisi politica come quello che il nostro Paese attraversa, rileggere – a cent’anni dalla fondazione del Partito Popolare e a sessant’anni dalla morte di don Luigi Sturzo – la proposta municipalista del prete di Caltagirone è opera oltre che saggia assai utile. È questo l’intento di Nicola Antonetti e di Massimo Naro curatori del volume da poco edito per i tipi de “Il Mulino” e intitolato Il municipalismo di Luigi Sturzo.

Alle origini delle autonomie. L’opera raccoglie diversi saggi scaturiti dalle relazioni pronunciate da vari studiosi il 16 novembre del 2018 a Caltanissetta in un convegno – sulla concezione sturziana delle autonomie locali – organizzato dall’Istituto “Luigi Sturzo” e dal Centro Studi sulla Cooperazione “Arcangelo Cammarata”. Proprio a Caltanissetta nel novembre del 1902, Luigi Sturzo chiamò a raccolta i consiglieri provinciali e comunali cattolici siciliani per intraprendere un percorso che a partire dall’attenzione verso le autonomie locali riuscì, nel giro di qualche anno, a divenire progetto politico nazionale tramite il Partito Popolare.

Nel volume, Agostino Giovagnoli delinea il contesto storico nel quale si situa l’idea di Sturzo sulle autonomie locali. Periodo caratterizzato da una fase nella quale sia da un punto di vista teologico sia da una prospettiva culturale, la comunità ecclesiale cominciava a muovere i primi passi per l’accettazione definitiva dello Stato unitario e verso un ripensamento della Chiesa nel seno del nuovo paradigma storico. In tale scenario, come afferma nell’introduzione lo storico Francesco Malgeri, fiorisce il pensiero sturziano orientato alla: «valorizzazione delle migliori energie locali e una più cosciente partecipazione dei cittadini alla vita pubblica» (p. 8).

La visione presentata dal sacerdote siciliano al convegno di Caltanissetta si fondava su di una concezione dello Stato che consentisse la libera crescita degli enti, delle associazioni e dei gruppi locali destinati a garantire vitalità tanto alla società quanto alle istituzioni le quali dovevano evitare le derive accentratrici e antisociali. Si trattava, per il prete calatino, di: «risanare l’ambiente amministrativo, migliorare i servizi pubblici, costituire il comune centro della vita sociale democratica della cittadinanza, sollevare le sorti delle classi lavoratrici, operaia e agricola» (p. 58).

Così l’ente comunale, libero dall’ossessivo controllo della macchina burocratica statale, poteva divenire incentivo alla crescita di una classe dirigente autonoma e impegnata tanto in politica quanto nelle imprese economiche e sociali. Classe dirigente da rinnovare tramite la partecipazione alla vita politica comunale che, specialmente in Sicilia, doveva liberarsi dai partiti personali, dagli affaristi e dalle consorterie varie.

Inoltre, come registra l’intervento di Alessandro Pajano, nel discorso che il prete calatino
pronunciò al convegno nisseno, emerge l’idea di municipio considerato come un ente concreto che assicura ai cittadini l’iniziale e tangibile presenza dello Stato: «L’autonomia è un carattere originario dell’ente locale, ed è quindi un valore in sé; essa è, tuttavia, un potente strumento per dare ingresso al protagonismo delle classi escluse […] Il comune si
presenta così, ad un tempo, come limite all’azione statale e come il migliore distributore delle energie dello Stato» (p. 29 e p. 31). Quindi, il pensiero di Sturzo non si poggiava su di un assoluto antistatalismo, bensì suggeriva una battaglia contro lo smisurato controllo
dello Stato sugli enti locali, sui singoli e sulle comunità al fine di generare dal basso un processo di cambiamento, di liberazione e di riscatto in particolar modo nel Mezzogiorno. In altri termini, per Nicola Antonetti, Sturzo contestava l’idea di uno Stato che: «per la sola esistenza, si definiva autosufficiente e legittimato ad agire senza la necessità di riferirsi alla sovranità del popolo e alle espressioni politiche di quest’ultima» (p. 46).

Oltre a fronteggiare le problematiche amministrative e politiche, l’opera di Sturzo era chiamata a considerare l’approccio del cattolicesimo italiano dell’epoca alle questioni sociali e politiche. Va precisato che con la Rerum novarum di Leone XIII del 1891 si era aperta una stagione di riflessione e di impegno nei territori che condusse la Chiesa ad un’apertura verso le questioni moderne legate al mondo dei lavoratori, del credito, delle imprese. In una situazione nella quale, per via del non expedit, i cattolici non potevano direttamente intervenire alle vicende politiche dello Stato unitario, don Sturzo – insieme a personaggi come Giuseppe Toniolo e Romolo Murri – preparò il terreno per la nascita di un soggetto politico cristianamente ispirato che prese il nome di Partito Popolare.

Quest’ultimo non fu fondato per rappresentare politicamente le istanze della Chiesa istituzionale, bensì per avanzare un programma basato su valori sinceramente democratici in grado di tradurre nella società, ormai plurale, le peculiarità sociali scaturite dal messaggio cristiano.

Nello studio, la fondamentale relazione tra fede e agire politico è presentata da Massimo Naro secondo il quale l’agire sturziano – tanto nella politica quanto nella Chiesa – prende le mosse da una sorta di “spiritualità integrale”. Questa, per Sturzo, contraddistingue il cristiano – non soltanto quello impegnato in politica e nel sociale – il quale non può separare l’azione dalla contemplazione. Così, nel credente, la spiritualità accresce una sensibilità in grado di includere l’essere più intimo e l’agire
pubblico. La spiritualità integrale lungi dall’utilizzare la religione per la riconquista della società, fu fermento vivo su cui si sviluppò il piano politico aconfessionale del Partito Popolare.

Diversi sono i pregi del volume sul municipalismo sturziano che presentiamo. Anzitutto, lo studio ha la capacità di rileggere – e dunque di presentare ad un vasto pubblico – una delle pagine fondamentali della storia politica italiana attenta alle autonomie locali. Proprio dal discorso di Luigi  Sturzo pronunciato a Caltanissetta nel 1902, sono state concepite le fondamenta di un’istituzione statale vicina alle identità specifiche delle amministrazioni comunali. Il progetto sturziano, fu un punto di riferimento per i costituenti chiamati a ridisegnare le strutture dello Stato all’indomani della dittatura fascista. Se molto è stato recepito da questa lezione sulle autonomie locali, ancora tanto bisogna fare per tradurre concretamente l’attenzione dell’istituzione statale verso gli enti territoriali.

Ciò è particolarmente urgente in un’epoca, come la nostra, nella quale occorrono politiche capaci di valorizzare le peculiarità locali nello scenario globale. Ma la lezione sturziana va oltre, poiché per il presbitero calatino ogni progetto di riforma delle istituzioni – e della stessa politica – abbisogna di uomini formati e orientati ad un senso di etica pubblica contraddistinto dalla ricerca della giustizia e della sana amministrazione. Uomini nuovi,
dunque, che – a partire dalla comprensione della politica come atto di amore verso la propria comunità – sappiano aprire orizzonti per uscire dalle secche culturali, sociali ed economiche che ogni periodo storico attraversa e nelle quali, in questi ultimi anni, è piombato il nostro Paese. La crisi del nostro sistema politico ci dice che oltre sul municipalismo, Sturzo avesse ragione anche sull’impellente bisogno di rinnovare la nostra classe politica.

Il 7° anniversario della morte di Carlo Maria Martini

Ricorre sabato prossimo il 7° anniversario della morte di Carlo Maria Martini (Gallarate, 31 agosto 2012). Come ogni anno, sono previste alcune celebrazioni in memoria del Cardinale gesuita.

Venerdì 30, alle ore 17.30, nel Duomo di Milano, mons. Mario Delpini, arcivescovo di Milano, celebra una Messa solenne in ricordo dei suoi predecessori defunti, in particolare i cardinali Alfredo Ildefonso Schuster, Giovanni Colombo, Dionigi Tettamanzi e lo stesso Martini (maggiori info). Tra i concelebranti, i padri Carlo Casalone e Giacomo Costa, presidente e vicepresidente della Fondazione Martini, e padre Maurizio Teani, superiore della comunità dei gesuiti di San Fedele.

Sabato 31 agosto, alle 17, viene invece celebrata la Messa vigiliare nella chiesa dell’Aloisianum di Gallarate (via San Luigi Gonzaga 8), la comunità in cui Martini trascorse gli ultimi anni di vita. Presiede il Vicario generale della Diocesi, monsignor Franco Agnesi; concelebrano, tra gli altri, il prevosto di Gallarate, don Riccardo Festa, il superiore della comunità dell’Aloisianum, padre Aldo Genesio, e padre Carlo Casalone.

In occasione dell’anniversario, la Fondazione Carlo Maria Martini pubblica un video che raccoglie alcune testimonianze sulle ultime ore di vita del Cardinale, sul funerale in Duomo e in generale sul suo rapporto con la malattia. Sono stralci delle interviste realizzate a don Damiano Modena, segretario personale di Martini dal 2009 al 2012, Silvia Giacomoni, giornalista e amica del Cardinale, il card. Renato Corti, Vicario generale della Diocesi dal 1980 al 1991, mons. Gianni Zappa, portavoce dell’arcivescovo dal 1997 al 2003, mons. Gianfranco Bottoni, già responsabile dell’Ufficio ecumenismo e dialogo, Federica Radice Fossati, co-autrice dell’ultima intervista al Cardinale, mons. Giovanni Giudici, Vicario generale dal 1991 al 2004, don Franco Brovelli, responsabile della formazione permanente del clero dal 1995 al 2002.

Europa: Solo 2 Paesi sui 28 coltivano organismi geneticamente modificati

Sono rimasti solo 2 Paesi sui 28 che fanno parte dell’Unione a coltivare organismi geneticamente modificati in Europa dove si registra anche un ulteriore calo della superficie seminata dell’8%. E’ quanto rende noto la Coldiretti nel fare un bilancio della coltivazione Ogm in Europa sulla base dell’ultimo rapporto ISAAA l’International Service for the Acquisition of Agri-biotech Applications.

La superficie europea coltivata a transgenico in Europa – sottolinea la Coldiretti – è scesa ancora ad appena 120.990 ettari nel 2018 rispetto ai 131.535 dell’anno precedente. Nel 2018 infatti – prosegue la Coldiretti – le colture ogm sopravvivono nell’Unione Europea solo in Spagna (115,246) e Portogallo (5.733) dove tuttavia si registra una riduzione delle semine del mais MON810, l’unico coltivato. Le scelte degli agricoltori europei sono la dimostrazione concreta della mancanza di convenienza nella coltivazione Ogm nonostante le proprietà miracolistiche propagandate dalle multinazionali che ne detengono i diritti.

Si tratta dunque di tecnologie superate ed ora – continua la Coldiretti – la sfida è quella di fare al più presto chiarezza sul sempre più ampio mondo delle nuove tecniche di selezione vegetale (Nbt) per regolamentarne ambiti di applicazione e prospettive. Lo studio e l’impiego di ogni nuova tecnologia che aiuta ad esaltare la distintività del nostro modello agroalimentare, il Made in Italy e i suoi primati di biodiversità, meritano – conclude Coldiretti   – di essere approfonditi nel rispetto del principio di precauzione, della sostenibilità ambientale, del libero accesso al mercato, della reversibilità e della necessità di fornire una risposta alle attese dei consumatori.

Candida auris

La Candida auris è una specie di micete ascomycota lievitiforme. È stato descritto per la prima volta nel 2009 e gli è stato dato nome auris, dal latino: orecchio, per essere stato individuato nel canale auricolare di una paziente ricoverata in un ospedale geriatrico giapponese. È una delle poche specie del genere Candida che genera candidosi nell’uomo. La candidosi è una delle più frequenti infezioni acquisite in ambienti ospedalieri da soggetti indeboliti da altre malattie, sottoposti a interventi chirurgici o immunocompromessi.

Nella sua forma invasiva la candidosi può infettare il sangue, il sistema nervoso centrale, reni, fegato, ossa, muscoli, articolazioni, milza, occhi.

La Candida auris ha attirato una maggiore attenzione clinica e sollevato allarme a causa della sua resistenza agli antibiotici e ai più comuni antimicotici. Il trattamento delle candidosi da Candida auris è anche complicato dal fatto che non viene facilmente riconosciuta, confondendola in particolare con la Candida haemulonii, un’altra specie antibiotico resistente. Il CDC ha definito la Candida auris una “grave minaccia globale per la salute” e l’European Centre for Disease Prevention and Control ha dichiarato che la Candida auris “sembra essere unica nella sua propensione ad essere trasmessa tra i pazienti e causare epidemie nelle strutture sanitarie”.

Le più comuni infezioni da Candida auris sono nel sangue, nelle ferite e nell’orecchio. Le candidemie da Candida auris sono state frequentemente associate a cateterismo venoso o urinario, operazioni chirurgiche, recenti terapie antibiotiche o antimicotiche, più frequentemente in pazienti con diabete mellito, malattie renali croniche, HIV, tumori solidi ed ematici, altre candidosi.

La maggior parte delle infezioni da Candida auris sono trattabili con echinocandine. Tuttavia, alcune infezioni da Candida auris si sono rivelate resistenti a tutte e tre le principali classi di antimicotici (azoli, echinocandine, amfotericina B). Questo livello di resistenza non era mai stato notato in infezioni da altre specie di Candida ed è particolarmente preoccupante in quanto limita gravemente le opzioni di trattamento disponibili per i pazienti con infezioni invasive di Candida auris.

Sembra una barzelletta

È come entrare in un grande supermercato e trovarsi impigliati in infiniti desideri. Lo sguardo cambia repentinamente da prodotto a prodotto. La lucentezza dello scafale accanto sembra soffocare quella precedente.

Chi non fosse esperto, resterebbe dentro un incanto interminabile e, alla fine, uscirebbe senza aver riempito il carrello della spesa.

Questa immagine mi sembra adatta a quello che sta capitando tra i due possibili partner per la formazione del nuovo governo. Quasi fosse costantemente affaticato da un problema nuovo che si aggiunge a quelli precedenti e, quest’ultimo, soffoca la possibilità di risolvere quelli già aperti. Noi stiamo lì con il naso all’insù e con le orecchie aperte e ci sembra di consumare un rito tra i più disdicevoli che possono capitare: non c’è mai una soluzione che possa chiudere la pagina. Un appetito che non può soddisfarsi. Poi ci diciamo: “ma c’è un tempo finale? Il Presidente della Repubblica non ha fissato le colonne d’ercole?”. E così, rivolgendoci queste domande, un po’ quietiamo l’animo.

Arriverà mercoledì sera o giovedì mattina in cui il sipario si chiuderà.

Nel frattempo sta capitando quello che una divertentissima barzelletta mi ha fatto parecchio ridere.

Un fidanzato chiede alla fidanzata, prima di sposarsi, di poter ammirare il suo corpo. E quando quest’ultima lo soddisfa togliendosi i vestiti e mantenendo però gl’indumenti intimi, il fidanzato non si accontenta. E, pertanto, chiede, per giungere consapevolmente all’altare, di poter ammirare integralmente la nudità della futura sposa. La buona intenzione di quest’ultima non si fa attendere e si libera anche delle ultime leggere barriere. Alla fine, il fidanzato concluderà in questo modo: “cara mia, mi dispiace ma non posso sposarti” e l’altra risponde: “perché non ti piaccio?” E lui risponde: “sì, non mi piace il colore dei tuoi occhi”.

Per dire cosa? Per dire che a Di Maio non piace ciò che già sa del Pd, ma si può anche rovesciare la frittata. La stessa ragione vale per il Pd nei confronti dei 5Stelle.

Se questa è la condizione iniziale e voi tutti converrete con me che sono quanto meno almeno 10 anni che i due si insultano, non è adesso che in un luogo appartato, ormai è stato declassato il modello streaming, guardandosi le parti più nascoste, potranno cancellare ciò che il manifesto ha già abbondantemente gridato.

Siamo ad assistere a giravolte sconfortanti. Ho la netta sensazione che anche facessero un passo in avanti e. magari. Mattarella, questo tardo pomeriggio, conferirà l’incarico al Presidente Conte, che, all’ombra del voto dei grillini dopo questa titanica fatica, più per noi che per loro, rovesceranno totalmente il tavolo e ci troveremo d’incanto con un pugno di mosche.

Previsione verosimile?

Ditemi voi se di una votazione alla Casaleggio ci si può fidare. Sono pertanto persuaso che se la mente che governa la macchina guarderà con simpatia a questa nuova avventura, prevarrà il si, ma da quanto si Sto arrivando!, quel figlio prediletto, sembra storcere il naso nei riguardi di questa ipotesi di governo, ed è per questo che ritengo più probabile che il pollice sia verso.

Il dialogo fra le religioni in Africa fra guerra e politica. L’incoscienza della speranza

Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Padre Giulio Albanesi

Mai come oggi occorre scongiurare, un po’ a tutte le latitudini, la strumentalizzazione del sentimento religioso per fini eversivi. Come ebbe a dire Papa Francesco nel corso della sua visita a Tirana nel settembre del 2014, nessuno può permettersi di prendere a pretesto la religione «per le proprie azioni contrarie alla dignità dell’uomo e ai suoi diritti fondamentali, in primo luogo quello alla vita e alla libertà religiosa di tutti». Da questo punto di vista, la dichiarazione congiunta firmata da Papa Francesco e dal grande Imam Ahmed al-Tayyeb ad Abu Dhabi è fondamentale, recando un titolo che è tutto un programma all’insegna dell’agognato cambiamento: «Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune».

Il documento non solo condanna l’uso delle religioni per giustificare la violenza — «nessuno può uccidere nel nome di Dio» — ma dichiara solennemente che i cristiani non sono minoranze da tollerare ma cittadini a pieno titolo. Viene pertanto sconfessato l’estremismo jihadista che frantuma l’unità della famiglia umana. Un indirizzo, peraltro, in linea con la dichiarazione congiunta che proprio a fine marzo Papa Francesco e il re del Marocco, Mohammed vi, hanno sottoscritto sull’unità di Gerusalemme «avendo a cuore il suo significato spirituale e la sua peculiare vocazione di Città della Pace». Gli scettici, naturalmente, penseranno che si tratti di un’illusoria utopia, ma ogni bagliore di luce — e questi avvenimenti lo sono a tutti gli effetti — può illuminare il cammino della speranza. Non solo in riferimento alla percezione che noi occidentali abbiamo del mondo islamico, ma anche guardando all’impatto positivo di questo indirizzo in molti Paesi africani provati dal terrorismo: dal Burkina Faso alla Nigeria, dal Kenya alla Somalia, dalla Libia all’Egitto. A questo proposito, chi scrive avverte il bisogno, quasi istintivo, di condividere con i lettori di questo giornale un’esperienza vissuta, in Somalia, nella seconda metà degli anni Novanta. Allora, in circostanze particolari e inaspettate, mi venne offerta la possibilità di celebrare la santa messa in una cittadina non lontano dalla capitale Mogadiscio.

Oltre ai volontari e cooperanti di una nota organizzazione non governativa italiana, tra i presenti vi erano il presidente della corte islamica locale, assieme agli anziani del suo consiglio. A scopo cautelare, considerando che in Somalia sono ancora presenti formazioni estremiste, inquadrate nel cartello degli al Shabaab, è prudente omettere i nomi di persona. Lo scenario che allora avevo di fronte era quello di un paese che aveva assistito, a fronte di un crescente stato di caos e di grave carestia, al fallimento dell’operazione internazionale “Restore Hope” (letteralmente “riportare la pace”), col risultato che a dettare le regole del gioco erano i signori della guerra. Per chiarezza è opportuno ricordare che dalla caduta del regime di Siad Barre, nel lontano 1991, la Somalia versa ancora oggi in una condizione di permanente dissoluzione, ostaggio di numerose bande armate che seminano morte e distruzione. Nonostante vi siano state numerose iniziative diplomatiche e a Mogadiscio sia insediato un governo internazionalmente riconosciuto, nessuna autorità è riuscita a imporre il proprio controllo e dunque lo stato di diritto, su tutto il paese. Tornando, comunque, indietro con la moviola del tempo, ventitré anni fa, la parcellizzazione del territorio somalo era tale per cui le condizioni di sicurezza cambiavano a seconda delle regioni, dei clan e dei sotto clan.

La provvidenza volle che in quel frangente mi trovassi a visitare una cittadina dell’entroterra dove la locale corte islamica, con modalità, devo confessare, estremamente invasive (esecuzioni, amputazioni e quant’altro), assicurava una certa legalità. Fu proprio il presidente di quel tribunale islamico, fautore della shari’a (la legge islamica), ad accettare un inatteso dialogo nel corso di un’intervista che poi, alcune settimane dopo, pubblicai sul settimanale Epoca. Mi salutò cordialmente invitandomi a sedere in una stanza cupa e spoglia. Uno spiraglio di luce mi consentiva, a malapena, di prendere appunti sul mio taccuino. Ci separava una scrivania in legno intarsiato, retaggio dell’epoca coloniale italiana. A poca distanza, accovacciati su di una lunga panca, sedevano alcuni membri della corte. Devo confessare che mi risultava impossibile riuscire a riconciliare il messaggio di pace, di cui lo sceicco si ergeva paladino, con ciò che avevo appena visto all’ingresso dell’edificio in cui era insediata la corte. Uno spettacolo orribile e agghiacciante: due mani amputate, appese a una sbarra di metallo con una striscia di garza. Era stata la pena inflitta a due ladri di bestiame. Con una discreta carica di temerarietà, mista a incoscienza, mi permisi di contestare quelle pratiche disumane.

Il mio interlocutore, con una sorta di disarmante pacatezza, si difese affermando che quelle pene, per quanto cruente fossero, rappresentavano un deterrente contro la diffusa illegalità che minava la società somala. Quando il giorno dopo lo incontrai nuovamente, mi disse che aveva compreso quale fosse la mia vera identità: «tu non sei solo un giornalista, sei anche un prete». Ebbi paura d’essermi messo nei guai, ma lui sorrise, citandomi la quinta sura del Corano che testualmente recita: «In verità coloro che credono e i giudei, i sabei e i cristiani, tutti quelli che credono in Allah e compiono il bene, non avranno nulla da temere e non saranno afflitti». Gli chiesi, allora, se potessi celebrare la santa messa. Ancora oggi, sono in molti a rimproverarmi l’imprudenza di quella richiesta.

Me l’accordò all’istante e vi prese parte con grande rispetto. Da rilevare che da quelle parti vi era una chiesa, costruita da una congregazione missionaria italiana, che pochi mesi prima era stata rasa al suolo; restava in piedi solo il campanile, mezzo diroccato. Un’antica storia mediorientale racconta di un viandante che incontrò un mostro nel deserto. Inizialmente, il poveretto ebbe paura ma, riuscendo a scorgerlo più da vicino, s’accorse che era un uomo. Alla fine quando lo scorse negli occhi, riconobbe suo fratello. Questo vale per noi e per loro, nel reciproco rispetto della dignità della persona umana creata a immagine e somiglianza di Dio.

Rete Bianca, tra “decantazione” e governabilità

Mentre scriviamo queste righe, ancora non sappiamo se la crisi di governo di mezza estate sarà risolta positivamente con la prospettiva di un esecutivo di legislatura oppure “elettorale”, destinato cioè a portare il Paese alle urne entro la prossima primavera. Il mese di agosto 2019, iniziato tra i canti e i balli del Papeete Beach di Milano Marittima, rischia di finire mestamente a Capalbio, intesa come la località balneare da sempre “buen retiro” di una certa intellighentsia di sinistra. 

Per queste ed altre ragioni, l’appello lanciato qualche giorno fa (sulle colonne di Repubblica) dal costituzionalista Michele Ainis, sulla possibilità di un governo di “decantazione”, avrebbe meritato una approfondita riflessione, che al di là di qualche talk show estivo, purtroppo non c’è stata. Michele Ainis si riferiva all’esperienza di governo (balneare) maturata in piena estate 1987, a seguito della mancata “staffetta” tra Bettino Craxi (alla guida di uno degli esecutivi più longevi fino a quel momento) e Ciriaco De Mita, che arriverà a Palazzo Chigi nella primavera 1988. Durante le consultazioni dell’estate 1987, il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, si rese conto della necessità di un Premier “terzo” rispetto ai tanti cavalli di razza allora in corsa nei principali partiti. La scelta cadde sul mite Giovanni Goria (già Ministro del Tesoro nei governi Fanfani e Craxi) considerato un esponente Dc di seconda fila, quasi un underdog come si direbbe nei tempi odierni.

Quel governo (che Ainis definisce, non a caso, di “decantazione”) ebbe il merito, in qualche modo, di “disintossicare” l’ambiente dall’aspra dialettica tra le varie forze politiche e a riportare il Paese sui binari delle questioni fondamentali. Si sapeva, già allora, che nel 1992 la nostra economia avrebbe dovuto adeguarsi ai nuovi parametri fiscali e di bilancio richiesti dalla Comunità Europea, in vista della firma del Trattato di Maastricht. In quegli anni, come sappiamo, nessuno faceva i “compiti a casa”. Sono ricordati come gli anni dell’esplosione del debito pubblico, a colpi di “baby pensioni”, sussidi garantiti (a famiglie e imprese) e “svalutazioni competitive”. Ricorda in una recente intervista Mario Monti (allora docente di economia politica all’Università Bocconi di Milano) che un suo collega ebbe a dire, sfogliando i giornali: “Insider trading? Ma perché, è possibile un diverso tipo di trading?”.

Questa era la Milano “da bere” dei favolosi anni ’80, dove tutti sapevano stare al loro posto, in un’Italia ancora per molti aspetti feudale e con regole ben precise, in cui il potere era concentrato nelle mani del “Salotto buono” della finanza a Milano (con la regia della Mediobanca di Enrico Cuccia) e del Pentapartito a Roma. Potenti “capitani di industria”, l’emergere dei grandi nomi della moda, della finanza e del design. Sembrava un’Italia sulla rampa di lancio del successo politico e del progresso economico, ma, come ben sappiamo, le cose sono andate diversamente. A partire dai primi anni Novanta il Paese si è fermato. Le crisi politiche sono spesso andate a braccetto con quelle economiche (Mani Pulite e l’attacco speculativo alla Lira, solo per citare il drammatico 1992). Non sappiamo ancora cosa ci riserverà il futuro. Come Rete Bianca, possiamo solo auspicare la più concreta governabilità. Se necessario, in una prospettiva di  “decantazione” nel senso indicato da Michele Ainis.

L’analisi di Infante implica l’illusione del ritorno al partito d’ispirazione cristiana.

Non ho il piacere di conoscere Giancarlo Infante, non so neppure quanti anni abbia. Quindi non sono in grado di sapere se, approssimativamente, era in età adulta ai tempi della approvazione della legge sul divorzio e di quella sull’aborto. Allora noi cattolici democratici occupavamo posizioni di governo rilevanti eppure comprendemmo che la coscienza popolare di questo Paese ci indicava una direzione per noi apparentemente ostica ed impervia. Malgrado ciò la imboccammo, sia pure con grandi difficoltà e tra palesi incretezze

Possiamo affermare ora, a distanza di decenni, di aver sbagliato? Possiamo credere, o illuderci, di poter tornare allo status quo ante? La società civile, nel suo complesso, comprenderebbe ed accetterebbe questa nostra posizione? Io penso di no, non sarebbero dalla nostra parte le generazioni, ormai non poche, che in questo sistema sono nate e cresciute, ma nemmeno quelle che negli anni si sono formate. I due provvedimenti e gli istituti conseguenti sono considerati genericamente, e quindi popolarmente, due conquiste irrinuncianìbili da parte della nostra comunità, anche se, specie l’aborto, vengono praticate con un atteggiamento che non è proprio quello temuto e previsto da quanti, cattolici ma anche no, erano legittimamente contrari.

Questo per quanto concerne alcuni principi etici molto sentiti dai cattolici e dei quali scrive Infante nel suo pezzo. Per quanto attiene il Pd, il mio pensiero è molto semplice. Il Pd non è stato un evento naturale, presentatosi nella forma che gli elementi costituenti, anch’essi naturali, gli hanno conferito quasi considerandola immutevole. Il Pd è stato, ed è ancora, una creazione umana, e come tale fallibile è modificabile. Al Lingotto si era avviata un fase dinamica dal percorso non del tutto definito, un work in progress faticoso e difficile, al quale, da prima e poi quasi da subito, molta parte del cattolicesimo democratico impegnato in politica si è sottratto,consegnandosiad una destra la cui parte mgliore,era costituita da uno straripante Silvio Berlusconi e da un apparentemente convertito al liberalismo Gianfranco Fini.Una scelta legittima,certo,ma infelice altrettanto sicuramente.

Il Pd non era un moloch espressione della sinistra post comunista,anche se alcuni continuano a ritenerei che forse lo sia ora, giacché recenti vicende, interne allo stesso Pd, sembrano inviare, a loro giudizio,segnali preoccupanti in tal senso.
Ed è forse per questo motivo che Renzi, affiancato da altri, sta insistendo da tempo nella difesa di un progetto – ancora possibile – mirato alla creazione in vitro di un soggetto politico “democratico, liberale, laico, popolare, riformista ed europeista”, capace di muoversi nel solco segnato dalle grandi culture sociali e politiche del ‘900 correttamente e modernamente intese.

In realtà il Pd non è stato nemmeno quello ipotizzato da Walter Veltroni al Lingotto, al quale Franco Marini ci convinse ad aderire in un memorabile incontro a Chianciano, e forse non lo sarà nel prossimo futuro, per errori marchiani e per miopia politica, prima da una parte e poi dall’altra. Ora la mancata approvazione del Referendum istituzionale e lo svolgersi di tutte le vicende che da questo fatto originano, fino alla presente crisi di Governo in fase di soluzione, lasciano credere che ci sia spazio per un’alternativa identitaria. Ho molti dubbi,al riguardo È immaginabile il ritorno sulla scena politica e parlamentare nazionale di una formazione di ispirazione dichiaratamente cattolica, e tuttavia di consistenza numerica ridotta, che possa costituire un momento realisticamente fondamentale per affrontare le condizioni che hanno portato il nostro Paese sull’orlo del baratro del populismo sovranistico e totalitaristico? O è l’illusione,in qualche caso narcisistica ed ingenerosa, di chi ha a cuore il valore assoluto della propria testimonianza a discapito del possibile bene del Paese?

Quale politica economica per il governo giallorosso. I consigli di Gustavo Piga

Articolo già apparso sulle pagine di Formiche.net a firma di Pino Pisicchio

Sempre che tutto vada in porto e che si arrivi, al termine delle consultazione, alla nascita di un governo giallorosso, è necessario interrogarsi su quale possa e debba essere la politica economica del neo governo.

Come avevamo previsto l’anno scorso all’interno della commissione presieduta dal professor Della Cananea, di cui ho fatto parte, era ben possibile immaginare sia una coalizione gialloverde sia una coalizione giallorossa. Il problema, su cui allora forse non avevamo ragionato neanche noi, è che bisognava capire se le misure di politica economica sarebbero riuscite a rimanere sostenibili, e questo vale sia per la coalizione gialloverde che è fallita, che per quella giallorossa, la quale parte con una buona dose di entusiasmo, come tutte le iniziative nel loro nascere.

Bisogna chiedersi, allora, cosa rende questa coalizione giallorossa potenzialmente sostenibile. Ovviamente ci sono le convenienze politiche, un collante che tiene insieme le due forze, su cui però sorvolerei, concentrandomi sulle sfide economiche che ha di fronte. Continuo a pensare che malgrado Salvini abbia fatto svariati errori tattico-strategici a livello politico, ci sia stato di fondo, nel suo atteggiamento così sorprendente per tanti analisti, una logica comprensibile, cioè quella di credere che a settembre, in autunno, la coalizione gialloverde non sarebbe stata capace di fare, dati tutti i vincoli europei e nazionali, una manovra di bilancio coerente con la propria visione economica. Nulla mi toglierà dalla testa che Salvini si è reso conto che tutti i suoi programmi economici non avrebbero retto all’interno del contesto italiano ed europeo, in termini soprattutto di rispetto del deficit pubblico, del Pil, dell’andamento del deficit pubblico sul Pil e quindi dell’impossibilità di attuare una serie di manovre, compresa la famosa flat tax e il non aumento dell’Iva.

A questo punto la domanda chiave diventa: qual è la manovra sostenibile che questa nuova coalizione può mettere in campo? Quando dico sostenibile intendo non solo per i due partiti, ma anche per il Paese e l’Europa, che molto dipende da quello che avviene in Italia. Se l’Italia fallisce, l’Europa fallisce, se l’Italia scoppia, l’Europa scoppia. E se l’Italia scoppia e l’Europa scoppia, scoppia anche a livello politico questa nuova coalizione. È ovvio, e Salvini starà alla finestra ad aspettare, che un fallimento economico nei prossimi due anni porterà Salvini ben sopra il 40% – è più facile fare opposizione quando le cose vanno male – ma porterà proprio alla conclusione di un progetto italo-europeo sostenibile di lungo periodo che un europeista come me desidera. Con questa consapevolezza, bisogna domandarsi cosa devono fare a livello economico Movimento 5 Stelle e Partito democratico.

La risposta, a mio parere, è che devono fare esattamente il contrario – e qui il grande pericolo e la grande sfida – di quello che è nel loro dna, perché si è rivelato in momenti diversi estremamente dannoso, estremamente sbagliato, estremamente funzionale alla crescita dei sovranismi in Italia e in Europa. Quando dico sbagliato non mi riferisco solo alle componenti gialle e rosse, ma anche al blu con le stelline gialle, ossia a livello europeo. Se queste tre punte del triangolo – i gialli, i rossi e l’Europa – non trovano la quadra della politica economica, rischiano di fare esplodere il progetto europeo.

Concretamente, significa che 1. il Pd deve abbandonare le sue politiche di austerità, e paradossalmente deve seguire quello che intuì la coalizione gialloverde, ossia abbandonare il fiscal compact. Non è pensabile sentire uno Zingaretti dire “abbasseremo le tasse, aumenteremo la spesa per gli investimenti” in un contesto dove l’Europa chiede una convergenza al bilancio in pareggio. O mente Zingaretti o ci prepariamo a due anni di ambiguità, di passi indietro, che ovviamente danneggiano le imprese, le quali non faranno investimenti in un clima di incertezza. Abbiamo bisogno di un programma non austero, di confermare un deficit attorno al 3% fisso fino a quando l’economia italiana non uscirà da questa crisi che ormai dura da più di 10 anni. Ma non basta.

Un tentativo simile, infatti, l’hanno fatto i gialloverdi, eppure l’economia non è ripartita. Il governo Conte – ricordiamolo – è il governo che ha scritto di suo pugno sul documento di economia e finanza “Cresceremo con le nostre politiche dello 0,8% nei prossimi 3 anni”, cioè ha autocertificato il suo fallimento. Nell’anno appena passato qualcosa di molto sbagliato è successo, ossia che le risorse liberate dal governo gialloverde – contro l’Europa, contro il fiscal compact, contro la convergenza del bilancio in pareggio – sono state spese nel modo peggiore possibile, sono state buttate in un reddito di cittadinanza che non genera alcuna crescita e con un aiuto alle fasce più povere che poteva benissimo venire da quella componente della spesa che si chiama investimenti pubblici, i quali non solo aiutano i più poveri dandogli un lavoro, ma si traducono anche in crescita del Paese.

Saranno i rossi capaci di rinunciare all’austerità, alla convergenza del bilancio in pareggio? Saranno i gialli capaci di rinunciare al reddito di cittadinanza per fare investimenti pubblici come non hanno mai fatto? Se non succede questo la mia impressione è che certamente avremo un Presidente della Repubblica eletto da questa coalizione, certamente avremo un Renzi che non si deve preoccupare di perdere i suoi parlamentari nei prossimi due anni, ma tra tre anni, quando arriverà il tempo delle elezioni, non ci sarà più scampo e saremo consegnati a un movimento sovranista perché non avremo avuto la forza, la capacità, l’intelligenza e la visione di fare le uniche politiche che servono alla gente per vivere serena, che sono quelle della crescita e dell’occupazione.

Qui l’articolo completo

Giuseppe Fanfani: “Caro Salvini, mio zio lavorava tanto..”

Articolo già apparso sulle pagine dell’Agenzia AdnKronos

Erano tempi seri, si affrontavano i problemi, si discuteva e si litigava. E poi le persone a cui si fa riferimento erano persone di grandissima cultura. Amintore Fanfani era un professore di Università di alto livello, De Mita è uomo di riconosciuta qualità”. Giuseppe Fanfani, nipote di Amintore, avvocato e politico, ex sindaco di Arezzo ed ex consigliere laico del Csm, commenta così all’Adnkronos il richiamo di Matteo Salvini ai due esponenti della Democrazia Cristiana a proposito delle trattative in corso per formare il nuovo governo tra Partito democratico e Movimento 5 Stelle, che a suo giudizio non discutono di programmi ma di poltrone.

Le persone chiamate in causa, fa poi notare Fanfani, “avevano lavorato tanto prima di fare politica, e non è irrilevante avere dimostrato nella vita di sapere fare cose egregie prima avere il desiderio di occuparsi di risolvere i problemi degli altri”.

L’invecchiamento: sfide e opportunità per la società di domani

“L’invecchiamento: sfide e opportunità per la società di domani” è il convegno nazionale, a partecipazione gratuita, in programma mercoledì 25 e giovedì 26 settembre, a Rimini.

Lo organizza Uneba, organizzazione di categoria del settore sociosanitario, educativo, assistenziale, con oltre 900 enti associati in tutta Italia, quasi tutti non profit di radici cristiane. L’impatto sociale, sanitario ed economico dell’invecchiamento in Italia è al centro delle relazioni della sessione plenaria di apertura del convegno, mercoledì 25, dalle 15, che prevede tra l’altro i saluti del vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi, del presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, e l’intervento del geriatra Marco Trabucchi.

Nel corso del pomeriggio, si analizzeranno anche le evoluzioni possibili dei servizi agli anziani, tra tecnologia, esigenze di sostenibilità e prospettive demografiche. Senza dimenticare il ruolo fondamentale del fattore umano: professionisti e operatori ogni giorno al fianco degli anziani.

Cronicità, acuzie, demenze, autonomia e innovazione tecnologica sono tra i temi dei 6 workshop della mattina di giovedì 26, che comprenderanno anche la presentazione di “buone pratiche” di enti associati Uneba.

Chiusura in plenaria, nel pomeriggio di giovedì 26, con, tra gli altri, l’intervento di don Massimo Angelelli, direttore della Pastorale della salute della Cei. Saranno presentati progetti su benessere lavorativo e riduzione degli infortuni nelle strutture per anziani, in collaborazione con Inail, e si realizzerà un confronto quanti-qualitativo tra modelli residenziali di diverse Regioni.

La sifilide

La sifilide, conosciuta anche come lue o morbo gallico, è una malattia infettiva a prevalente trasmissione sessuale.

È causata da un batterio, il Treponema pallidum, dell’ordine delle spirochete, che si presenta al microscopio come un piccolo filamento a forma di spirale, identificato nel 1905 da Fritz Schaudinn e Erich Hoffmann. Oltre che per via sessuale, il contagio può estendersi al feto, nella donna gravida con infezione recente, attraverso la placenta (trasmissione transplacentare). In tal caso, il feto presenta un quadro di sifilide congenita con malformazioni che possono interessare la cute e le mucose, l’apparato scheletrico, l’occhio, il fegato, il rene e il sistema nervoso centrale.

Pertanto, questa malattia può essere contratta nella forma congenita in due modi: prima ancora della nascita, attraverso il sangue materno infetto; oppure alla nascita, durante la discesa nel canale del parto. Comunque, nella maggior parte dei casi, il contagio (possibile fin dalle primissime fasi della malattia) avviene attraverso i rapporti sessuali. I casi di acquisizione della malattia con le trasfusioni sono ormai rarissimi nel mondo, grazie ai controlli accurati che vengono effettuati prima che il sangue sia trasfuso.

Solo nel 2017 sono stati confermati 33.189 casi di sifilide in 28 paesi.

L’ECDC ha notato sorprendenti variazioni tra i paesi, con Germania, Gran Bretagna, Islanda, Irlanda e Malta che hanno assistito a un numero più che raddoppiato di casi negli ultimi dieci anni. Estonia e Romania, invece hanno registrato un calo del 50% o più nello stesso periodo.

 

Verso il governo 5 Stelle Pd. Non cambia il nostro progetto politico

Articolo già apparso sulle pagine di https://www.politicainsieme.com

Alla fine sembra che ci siamo. Nasce il governo 5 Stelle Pd. Che a Zingaretti dovessero cedere alcuni dei “ paletti” piantati nei giorni scorsi è sempre apparso evidente. Il rischio era quello, infatti, di andare alle elezioni anticipate all’insegna dell’avventura e della quasi certa rottura con l’Europa e i nostri tradizionali alleati.

E’ bene, in ogni caso, essere prudenti e attendere la fine del nuovo giro di consultazioni da parte del Presidente della Repubblica.

La nascita di un esecutivo non significa di per sé il completo superamento di quelle ostilità che hanno sempre segnato i rapporti tra il movimento formato da Beppe Grillo e il partito del centro sinistra. Salvini docet! Bisognerà pure vedere in Parlamento quale sarà la reale consistenza numerica della nuova maggioranza e a quanti voti di fiducia saremo costretti ad assistere.

Cosa cambia? Potenzialmente molto per il quadro generale del Paese, cui noi teniamo sopra ogni cosa.

Si allontana il rischio di un passaggio elettorale dalla carica fortemente divisiva. La spinta sovranista, già sconfitta in Europa, segna una importante battuta d’arresto. In ogni caso, Matteo Salvini cercherà di riscattarsi con le prossime elezioni in Umbria e in Emilia. I fortilizi del Pd non sono più certi e saldi e l’effetto negativo per Salvini e la Lega, responsabili di una crisi avventurosa, avranno bisogno del loro tempo per far sentire i propri effetti più profondi.

Il capo dei leghisti, o chi potrebbe sostituirlo in tempi più o meno lunghi, soffierà in tutti i modi sul fuoco delle polemiche probabilmente destinate a scatenarsi con la legge finanziaria e la sterilizzazione dell’aumento dell’Iva. Certo, il riallineamento del quadro politico italiano con quello europeo potrebbe aiutare a trovare più flessibilità e compiacenza da parte di Bruxelles, ma i conti dovranno pur essere messi in ordine. La coperta è troppo corta per coprire sia la testa, sia i piedi.

A noi interessa che il nuovo esecutivo sia capace davvero di essere quel governo di tregua morale e civile che Politica Insieme, con Costruire insieme e Rete bianca, ha auspicato ( CLICCA QUI ). La cosa non potrà che fare del bene all’Italia che ha bisogno di abbassare il tasso di rissosità e ricercare un’alternativa all’odio sociale, religioso ed etnico seminato a piene mani finora. Se questo avverrà non potrà che essere apprezzato.

Leonardo Beccheti ( CLICCA QUI ) indica degli elementi concreti attorno cui la nuova compagine governativa può segnare una novità utile al Paese, quando afferma: “ possono creare una piattaforma perché su ambiente, sociale e lavoro e lotta all’evasione le posizioni possono essere molto vicine. Quello su cui bisognerebbe trovare una quadra è la materia degli investimenti e delle infrastrutture. Su cui però Di Maio, in un discorso a Confindustria, ha già fatto una parziale marcia indietro capendo che Industry 4.0 era un pezzo molto importante della politica economica del Paese”.

In ogni caso, questo governo, che noi ci auguriamo possa davvero aprire una nuova stagione, in particolare per quanto riguarda le relazioni internazionali, non cambia il nostro progetto di dare vita ad una presenza autonoma e libera da parte del mondo cattolico democratico e popolare, letteralmente estromesso dalla dialettica politica e parlamentare.

Non cambiano i nostri giudizi su taluni contenuti e forme attraverso cui si dispiega la presenza politica dei 5 Stelle. Non crediamo nell’idea della “ decrescita felice” la quale presenta aspetti fortemente non popolari. Non siamo d’accordo con il convincimento che i problemi del paese si risolvano con un programma che mette al primo posto il taglio del numero dei parlamentari. Molto altro ci vuole per quella trasformazione radicale che dev’essere avviata.

Taluni punti dei 10 illustrati da Luigi Di Maio sono da condividere, ma a noi interessa anche “ altro”. Un “ altro” che manca e che ignora completamente quegli aspetti etici della vita pubblica e privata diventati parte della crisi più generale che stiamo vivendo.

Al Pd facciamo da tempo una critica serrata, che non può cambiare solo perché adesso è riuscito a riprendere un po’ di vento nelle vele.

Intanto, questa crisi ha confermato che nessuno sa cosa sia questo Pd, in quante parti sia suddiviso e se vi sia la capacità persino di restare unito e sopravvivere. Resta un punto interrogativo sul futuro di questa organizzazione politica.

Del resto, come non vedere i diversi e contrastanti giudizi sulla nascita di questo Governo, i modi in cui ha trionfato l’idea della sua costituzione, la direzione bicefala cui assistiamo, con Renzi in grado di condizionare i gruppi parlamentari e Zingaretti l’ossatura del partito. Infine: i cambi di posizione i mutamenti repentini del giudizio sui nuovi alleati di governo e le riserve forti, che ancora permangono, verso i seguaci di Grillo in ampie aree del Pd.

Non è da escludere neppure che proprio questa nuova esperienza governativa possa rivelarsi l’innesco di una resa dei conti interna, nel caso l’esecutivo venisse meno alle attese e ci si dovesse trovare in una situazione analoga a quella vissuta dai 5 Stelle con Matteo Salvini. Molto dipenderà dagli effetti della nuova fase di recessione che sembra in arrivo.

Il Pd si è sempre dimostrato sordo alle istanze avanzate dal mondo cattolico, nonostante la presenza tra le sue fila di parlamentari d’estrazione e formazione cristiana. Non si tratta solo della legge cosiddetta Cirinnà o dell’adozione da parte di coppie dello stesso sesso.

Parliamo della latitanza nei confronti dei problemi della famiglia, della disattenzione nei confronti della natalità e della diversa visione, rispetto a noi, della vita che riteniamo debba essere considerata tale, e per questo rispettata, dal concepimento alla sua fine naturale, dell’uso di talune tecniche di procreazione assistita.

Il nuovo Governo è formato da due partiti con i quali è stato più difficile interloquire in materia di fine vita. Il 24 settembre scadranno i termini fissati dalla Corte costituzionale per giungere ad una modifica della legge. Ecco, vediamo come i due partiti vorranno operare su questo tema. E’ pressoché impossibile intervenire in termini così stretti. Ma potrebbero, con altre forze politiche, lanciare un invito perché la Corte, rendendosi conto della complessa situazione politico parlamentare, conceda altro tempo per trovare una soluzione adeguata, così come suggerisce anche l’amico Domenico Galbiati ( CLICCA QUI).

Vorremmo superare la logica degli schieramenti. E invitiamo anche gli altri amici del mondo cattolico interessati alla politica a superarla. Andiamo al cuore dei problemi e valutiamo le soluzioni proposte dal Governo e dei partiti che ne fanno parte per giungere alla maturazione di un giudizio. In ogni caso, anche questa crisi dimostra che non dobbiamo farci distogliere dal nostro progetto di dare vita ad una presenza organizzata dei cattolici democratici e popolari in politica.

Truffelli (Azione Cattolica), La linfa vitale di una fede incarnata.

Per i credenti la politica non può essere considerata estranea alla missione del popolo di Dio nel mondo: è quanto sostiene Matteo Truffelli in un articolo chiesto alla luce del recente incontro nazionale dei soci di Ac impegnati nella vita politica e amministrativa a livello locale e pubblicato da «Vita Pastorale» (n.8-Ago/Set), il mensile per la Chiesa italiana diretto da Antonio Sciortino. Per il Presidente nazionale dell’Azione cattolica è fondamentale l’impegno concreto dei cattolici per una convivenza più umana, più giusta, più libera e più fraterna, nella pluralità di scelte e posizioni. Essi non possono sottrarsi al dovere di un serio confronto sulle principali questioni del nostro tempo.

Di seguito il testo dell’articolo:

Per ragionare sul rapporto tra comunità cristiana e politica nella difficile stagione in cui ci troviamo immersi, è bene innanzitutto tornare al passo dell’Octogesima adveniens, non a caso richiamato anche da Francesco in Evangeliigaudium, in cui Paolo VI affermava che «spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce delle parole immutabili dell’evangelo, attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione nell’insegnamento sociale della Chiesa, quale è stato elaborato nel corso della storia […]. Spetta alle comunità cristiane individuare, con l’assistenza dello Spirito Santo – in comunione coi vescovi responsabili, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli uomini di buona volontà -, le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si palesano urgenti e necessarie in molti casi» (Octogesima adveniens4).

È questa la prima responsabilità che la comunità cristiana, nel suo insieme, deve assumersi. Interpellata dal proprio tempo, essa è chiamata a leggere in maniera condivisa la realtà per coglierne i connotati fondamentali, individuare le urgenze e le sfide principali che essa pone e discernere, insieme, come contribuire a indirizzarne gli sviluppi. Un compito che non può essere semplicemente delegato a qualcuno, a “un’autorità superiore”, religiosa, intellettuale o politica che sia, perché è di tutti i credenti, di ognuno e di tutti insieme. Una responsabilità che per poter essere esercitata implica la necessità di mettere a punto strumenti, spazi e occasioni appropriate. Chiede di educare la comunità alla fatica del discernimento: discutere senza lacerarsi, giudicare senza semplificare, scegliere senza assolutizzare. E ancora più a monte chiede di formare ciascun credente, a ogni età e in ogni condizione, al valore e al significato del Bene Comune, alle sue implicazioni, al coinvolgimento che esso postula.

La politica, dunque, non può essere considerata estranea alla missione del Popolo di Dio nel mondo. Se occorre tenere sempre ben chiara la distinzione dei diversi piani in cui ci è chiesto di agire – quello sul quale ci muoviamo, appunto, come comunità cristiana, e quello sul quale ciascuno è chiamato a mettere in gioco, individualmente o collettivamente, la propria responsabilità personale, la propria coscienza formata (cf Gaudium et spes 76) – occorre anche ricordare che non possiamo sottrarci al dovere di un serio confronto circa le principali questioni che il nostro tempo ci propone. Sapendo esprimere valutazioni equilibrate e coerenti e tentando, soprattutto, di indicare soluzioni possibili e strade attraverso cui realizzarle. Sapendo giudicare ciò che avviene sulla scena pubblica senza pregiudizi di parte, ma anche senza dare retta a chi vorrebbe che relegassimo «la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini». (Evangelii gaudium 183).

Al tempo stesso, non possiamo perdere di vista la consapevolezza che sempre, e inevitabilmente, confrontarci con le concrete contingenze della storia ci chiede di misurarci con la «legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali» che i credenti possono assumere nel tentativo di avvicinarsi alla realizzazione del maggior bene storicamente possibile (cf Gaudium et spes 75). Non possiamo dare per scontato che questa convinzione rappresenti una mentalità pacificamente acquisita dentro la comunità cristiana. Al contrario, dobbiamo crescere molto su questa strada. Dobbiamo ancora metabolizzare il fatto che la pluralità delle scelte e delle posizioni politiche interne al mondo ecclesiale possa rappresentare una ricchezza, e non solamente una difficoltà.

Solo così potremo sottrarci alla tentazione, sempre incombente, di “tirare il Vangelo per la giacca”, ascrivendolo con troppa leggerezza alle nostre convinzioni o alla nostra parte politica e squalificando coloro che dentro la comunità ecclesiale non la pensano come noi additandoli come credenti incoerenti, o peggio, a seconda dei casi, come traditori dei valori fondamentali della fede, perché svenduti alle seduzioni della mondanità, o come interpreti inadeguati della sua forza umanizzante, perché incapaci di trovare un punto di incontro tra le affermazioni di principio e le concrete scelte possibili. E solo così potremo depotenziare il rischio che qualcuno pensi di poter fare della fede – o più precisamente della religione – uno stendardo di cui appropriarsi per poterlo sbandierare, in maniera più o meno insincera e strumentale, per scopi di parte.

È a queste condizioni, mi pare, che la comunità cristiana potrà continuare a nutrire la vita politica del nostro tempo con la linfa di una fede incarnata, capace di offrire alla società di oggi il lievito di una visione dell’uomo e della società, un senso del bene e della giustizia e un impegno concreto per la realizzazione di una convivenza umana più giusta, più libera, più fraterna.

Matteo Truffelli
Presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana

Il punto sull’Amazzonia che brucia

Fonte Associazione Popolari a firma di Giorgio Vacchiano

Cosa sta succedendo in Amazzonia? 
Dieci punti spiegati (bene) dal “Guardian” e da un esperto. Giorgio Vacchiano – ricercatore della Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale – fra gli 11 migliori ricercatori forestali nel mondo premiati dalla rivista scientifica “Nature”. Anche su questa emergenza ecologica si sono dette e lette tante inesattezze ed esagerazioni. Può essere utile fotografare con realismo la situazione.

In estrema sintesi: anche se l’Amazzonia non è il “polmone” della Terra, anche se è grande come l’unione europea e anche se non sta bruciando tutta, la situazione è grave, e dobbiamo preoccuparci e agire. Ecco come e perché.

1) Ogni anno nella stagione secca (luglio-ottobre) i satelliti rilevano molti incendi nel bacino amazzonico. Secondo l’Instituto Nacional de Pesquisas da Amazôna, il 99% sono accesi dall’uomo, sia su terreni già senza alberi (fuochi agricoli legali) che per aprire all’uso agricolo aree ancora boscate ( spesso illegalmente). Questi fuochi non riguardano tanto la giungla tropicale come la immaginiamo, ma più le aree di margine più rade e aride. L’Amazzonia è fatta anche di questi ecosistemi (come il “cerrado”), ugualmente preziosi e delicati. Eppure, un problema c’è.

2) Vari satelliti hanno individuato nel 2019 oltre 80000 “punti fuoco”, cioè quasi il doppio rispetto all’anno scorso e il 40% in più rispetto alla media dal 2013 (update: quasi 140 000 secondo i dati del satellite MODIS della NASA). L’Amazzonia (con i suoi vari ecosistemi) è grande quasi 6 milioni di km quadrati, poco più dell’Unione Europea (!) Secondo il “Guardian”, da gennaio a luglio 2019 ne sono bruciati 18600 km quadrati, cioè lo 0.3%. All’inizio di agosto questa superficie era il doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, ma siamo lontani dal record e in media con il periodo 2000-2018. Tuttavia, il fenomeno deve preoccuparci (anche se ne parliamo solo quest’anno).

3) L’Amazzonia non è il polmone del mondo. Tra il 50 e il 70% dell’ossigeno sulla Terra è prodotto dalla fotosintesi delle alghe negli oceani. Il resto dalle praterie, dai campi coltivati (sì, anche loro) e dalle foreste che crescono velocemente, accumulando carbonio e rilasciando ossigeno. L’Amazzonia non produce il 20% dell’ossigeno nel mondo (un dato errato che rimbalza anche sulle testate più prestigiose). Al massimo il 6%, ma più probabilmente ZERO, perché la foresta tropicale non ha una crescita netta positiva (tanti alberi crescono quanti ne muoiono e si decompongono per cause naturali). Anzi, da qualche anno ormai (a causa della deforestazione e della siccità ) l’Amazzonia CONSUMA ossigeno e emette anidride carbonica. Ma anche se producesse ossigeno, non è questa la ragione per cui preoccuparsi: nell’atmosfera c’è il 21% di ossigeno e il 0.0415% di anidride carbonica. Ma è proprio la anidride carbonica a essere pericolosa per l’effetto serra, e poiché in proporzione ce n’è poca, aggiungerne o toglierne un poco fa molto più effetto che aggiungere o togliere un poco di ossigeno. Secondo il servizio europeo Copernicus, gli incendi di quest’anno in Amazzonia hanno già prodotto 230 milioni di tonnellate di CO2 (più di quelli siberiani), proveniente soprattutto dal suolo, povero di sostanze nutritive ma ricco di carbonio (quindi anche gli incendi in terreni agricoli contribuiscono a questo problema).

4) Aumentare la CO2 significa aggravare il riscaldamento climatico, che rende probabili altri incendi, e così via in un circolo vizioso. Inoltre, l’Amazzonia è così grande che produce tramite l’evaporazione dagli alberi la “proprie” nuvole e la “propria” pioggia. Se incendi e deforestazione arriveranno a riguardare il 25%-40% della foresta (per ora siamo intorno al 15%), l’ecosistema non sarà più in grado di regolare il proprio clima e potrebbe trasformarsi in una savana (come era già 55 milioni di anni fa), rilasciando enormi quantità di CO2 nell’atmosfera e mettendo a rischio milioni di specie animali e vegetali, la gran parte sconosciute, tra cui il 25% delle piante medicinali che l’umanità utilizza per la fabbricazione di farmaci di ogni tipo.

5) Nelle stagioni secche (El Nino) gli incendi sono normalmente di più perché è più probabile che si propaghino in modo incontrollato. Ma quest’anno la pioggia è stata solo poco sotto la media, quindi la siccità non è stata il fattore scatenante.
6) Fino al 2017, la deforestazione in Amazzonia, che è causata soprattutto dalla conversione in terreni per la coltura della soia (per alimentazione animale) e per pascolo estensivo (non intensivo!) era considerevolmente diminuita. Il 2018 e 2019 hanno visto un aumento velocissimo di area disboscata (cioè trasformata permanentemente in non-foresta). Secondo L’agenzia spaziale brasiliana (il cui direttore è stato licenziato da Jair Bolsonaro) quest’anno potremmo raggiungere per la prima volta in un decennio i 10.000 km quadrati disboscati. Gli incendi sono legati alla deforestazione, essendone uno degli strumenti principali.

7) Il presidente Bolsonaro durante il suo mandato ha incoraggiato nelle parole e con i fatti l’eliminazione della foresta a scopi produttivi, tolto fondi al monitoraggio e alla protezione ambientale e allentato i controlli sulle illegalità. Tuttavia, la deforestazione e gli incendi procedono rapidi anche nell’Amazzonia boliviana (soprattutto a causa delle estrazioni minerarie), dove il presidente Evo Morales non può certo essere definito un capitalista di destra. Pertanto, il problema non è solo di chi guida lo Stato, ma di un sistema di mercato internazionale legato alle esportazioni di soia, carne, e minerali verso Europa e USA.

8) La carne è uno dei principali prodotti di esportazione dal Brasile, e l’Italia è uno dei principali importatori (30.000 tonnellate/anno – soprattutto per carni lavorate di bassa qualità). L’accordo commerciale UE-Mercosur firmato la scorsa settimana facilita l’importazione di altre 100.000 t di carne bovina all’anno dal Sudamerica all’Europa ed è oggetto di una interrogazione al Parlamento Europeo di Coldiretti, che teme la concorrenza sleale nei confronti delle carni italiane (che non causano deforestazione). Uno studio ha dimostrato che l’EU è stata indirettamente responsabile di 9 milioni di ettari di deforestazione nel mondo nel periodo 1990-2008 mediante il consumo di prodotti ottenuti grazie a disboscamento (soia, carne, olio di palma).

9) Cosa fare? Le azioni più efficaci sono quelle collettive e politiche. Occorre organizzarsi e fare pressione per modificare le abitudini alimentari, i meccanismi di importazione, e allineare la spesa pubblica al reale valore delle cose: quanto viene destinato alla cooperazione ambientale? Quanto invece a sostenere i consumi domestici di prodotti responsabili di deforestazione? Il primo passo (necessario non sufficiente) è a livello personale – accettare la sfida della complessità e cercare di capire da dove proviene e che conseguenze ha ciò che consumiamo.

10) Utile leggere la fonte originale dal “Guardian” (qui il link).

Istat: Sono 1.786 le donne vittime di violenza che hanno trovato ospitalità in casa rifugio

L’Istat ha svolto per la prima volta l’indagine sui servizi offerti dalle case rifugio alle donne vittime di violenza, in collaborazione con il Dipartimento per le Pari opportunità (Dpo) presso la Presidenza del Consiglio, le regioni e il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr – Irrps). L’indagine è stata effettuata nei mesi di novembre 2018 – marzo 2019 e sono state contattate 232 case rifugio che rispondono ai requisiti dell’Intesa del 2014. Tra queste, 211 sono quelle che hanno completato il questionario e delle quali si rilasciano i primi dati.

Sono 1.786 le donne che hanno trovato ospitalità in casa rifugio nel corso del 2017, l’86,7% delle donne ospitate proviene dalla regione dove è situata la casa rifugio. Per oltre un terzo (34,0%) delle donne i servizi sociali territoriali costituiscono il canale di segnalazione verso la casa rifugio, il 24,2% accede attraverso i centri antiviolenza.

Tra i servizi offerti ve ne sono alcuni che vengono erogati prevalentemente in forma diretta dalle case rifugio, oltre alla protezione ed ospitalità in urgenza: servizi educativi e di sostegno scolastico ai minori, orientamento all’autonomia abitativa e sostegno alla genitorialità. Altri servizi vengono invece erogati in collaborazione con i centri antiviolenza e con altri servizi del territorio.

Il lavoro delle case rifugio si basa, principalmente, sull’apporto di personale retribuito (65% del totale del personale). Le figure professionali maggiormente presenti, oltre alle coordinatrici/responsabili e al personale amministrativo, sono le operatrici di accoglienza, le educatrici e le psicologhe.

Al via la raccolta delle olive in Italia

Al via la raccolta delle olive in Italia con la prima spremitura dell’anno che è fissata per oggi, a partire dalle ore 9,30, in Salento a Gagliano del Capo in Via Panoramica 2 con l’opportunità unica di gustare per la prima volta l’olio nuovo appena uscito dal frantoio e di assistere dal vivo al miracolo della trasformazione delle olive in extravergine.

Le prime olive giunte a maturazione sono quelle raccolte dalle piante infettate da Xylella, e poi innestate con varietà di ulivo resistenti che oggi dopo tre anni sono tornate a produrre, un segnale di speranza per territorio completamente devastato. Nell’ambito dell’azienda agricola sarà possibile visitare una serra di semenzali spontanei e varietà resistenti alla Xylella

Saranno presenti agricoltori, frantoiani, consumatori e rappresentanti del mondo della ricerca per discutere delle prospettive del settore sulla base delle analisi presentate dalla Coldiretti.

Le proprietà dell’erba cipollina

L’erba cipollina, botanicamente nota come Allium schoenoprasum, è una pianta aromatica che fa parte della famiglia delle Liliaceae, la stessa di cipolla, aglio, porro e scalogno.

E’ un alimento ricco di proprietà. Spiccano al suo interno la presenza di vitamine, soprattutto C e gruppo B, oltre che sali minerali tra cui calcio, magnesio, ferro e fibre utili al benessere dell’intestino.

Questa erba ha inoltre doti lassative naturali ed è considerata utile a mantenere in buona salute i reni, viste le sue proprietà depurative e diuretiche. Benefica anche per il cuore, l’erba cipollina ha proprietà cardiotoniche, stimola l’irrorazione sanguigna.

Tra i suoi principi attivi vi è anche l’acido glicolico, flavonoidi e altre sostanze dal potere antiossidante.

L’erba cipollina contiene carboidrati, proteine e fibre. I grassi sono in misura molto minore e il colesterolo è pari a 0. Per quanto riguarda i sali minerali invece 100 grammi di questa pianta contengono:

Potassio 296 mg
Calcio 92 mg
Magnesio 42 mg
Ferro 1,6 mg
Sodio 3 mg
Vitamina C 58,1 mg
Vitamina A 4.353 IU

Meglio un Conte bis con leale appoggio esterno.

In una vicenda totalmente anormale come quella della crisi di Governo (ma, potremmo dire, anormale come questo ciclo della vita politico-istituzionale), bisogna stare molto attenti nel formulare giudizi definitivi. Tutto può cambiare e poco è come sembra.

Tuttavia una domanda sorge spontanea.

Se il PD (giustamente e con fondati e da me condivisi motivi) vuole operare per una soluzione che eviti il ricorso immediato alle urne, per quale ragione ha posto il veto su un eventuale reincarico a Conte?

La risposta che Conte “non poteva non sapere” ciò che il suo Governo stava facendo non regge. Con altrettanta plausibilità, allora, si potrebbe rovesciare questa accusa su tutto il M5S, che sia nel Governo che in Parlamento non si è mai distinto o dissociato dalle scelte imposte dalla Lega di Salvini, decreto sicurezza bis compreso.

Se questa deve essere la logica (in quanto tale astrattamente pertinente) è chiaro che non resta nulla se non le elezioni immediate.

Ma, forse, la logica non è appunto questa.

Nel Parlamento in carica esistono equilibri determinati dagli elettori nel marzo del 2018.

Da questi occorre partire se si intende trovare una possibilità di ragionevole continuità della Legislatura.

Sono personalmente piuttosto perplesso nel leggere che si intende trovare, in questo Parlamento, la base per costruire un “Governo di svolta” con un profilo “politico” a tutto tondo.

Mi pare operazione piuttosto ardita, messa in questi termini.
Ritengo molto più realistico (e comunque altamente corrispondente agli interessi generali del Paese) ricercare in questa fase la possibilità di un Governo che accompagni la Legislatura almeno alla elezione del nuovo Capo dello Stato e che si ponga alcune (poche) priorità sul piano istituzionale, economico-sociale ed internazionale, nei termini indicati – tra l’altro – nei documenti espressi da Rete Bianca e da altre realtà del mondo popolare.

Un “fatto politico” è avvenuto, ovvero la rottura del patto Lega-M5S: su questo punto fa bene il PD a chiedere che siano tolte dal tavolo le ricorrenti tentazioni di una trattativa tesa a ripristinare questo patto.

Per il resto, penso che bene farebbe il Pd a prendere atto della realtà: l’unico ruolo (peraltro fondamentale) che questo partito può esercitare in questa fase, se non si vuole le elezioni immediate, è quello del leale appoggio esterno ad un Governo politicamente espresso dai Gruppi Parlamentari di maggioranza relativa, con la presenza di ministri “condivisi” di particolare autorevolezza anche tecnica in alcuni ruoli chiave, sulla base di un programma “minimo” ma “incisivo”.

A me pare del tutto evidente che porre un veto sulla figura del Presidente uscente, in questo senso, sia un errore clamoroso.

Verso Conte non ho mai nutrito particolari simpatie. Ma, appunto, in una fase come questa, le simpatie contano poco. Contano quel poco di “politica” che è rimasta e la possibilità di ristrutturare in un paio di anni l’intero sistema della rappresentanza politica in Italia, evitando la deriva di una pericolosa involuzione “post democratica”.

5 stelle come la Dc? Non siamo ridicoli.

Con inusitata leggerezza un noto editorialista della Stampa nei giorni scorsi ha scritto che i “5 stelle potrebbero diventare la nuova Democrazia Cristiana”. 

Ora, chiunque abbia letto quelle singolari e curiose parole credo che abbia fatto un sobbalzo o, addirittura, si è chiesto se c’è ancora un senso e una logica nel commentare la politica italiana di oggi. E questo, come ovvio, nel pieno rispetto di tutte le opinioni. Anche di quelle espresse dal noto editorialista della Stampa. 

E questo per 3 semplici motivi, al netto della profonda diversità storica e della scontata irripetibilità della politica, delle sue dinamiche e dei suoi strumenti concreti, cioè dei partiti. 

Innanzitutto la Dc era un partito profondamente democratico al suo interno. Certo, articolato per correnti organizzate perchè rappresentative dell’interclassismo della società italiana ma che garantivano, al contempo, un vero ed autentico pluralismo politico e culturale. Un partito che contava molti leader e grandi statisti ma che non tollerava al suo interno né i capi, né i guru e tantomeno i padroni. I 5 stelle? Semplicemente l’esatto contrario. 

In secondo luogo la cultura politica del partito. La Dc, certamente in un’altra epoca storica, aveva un chiaro riferimento culturale. Era un partito di ispirazione cristiana si’ ma, soprattutto, era un partito con una solida e riconosciuta cultura politica alle spalle. Il popolarismo sturziano, la tradizione del cattolicesimo sociale e popolare e il filone cattolico democratico erano i fari che illuminavano il suo progetto politico e di governo. Certo, era una stagione politica e culturale dominata dalla contrapposizione ideologica ma sicuramente la Dc non poteva essere accusata di essere un partito liquido, ovvero privo di qualsiasi riferimento ideale e definito. I 5 stelle? Anche qui, l’esatto contrario di quella esperienza storica, politica e culturale. 

Ma è sul terzo aspetto che emerge una radicale separazione. E riguarda la collocazione del partito nello scenario politico. A prescindere dalle fasi storiche a confronto. La Dc è stato un partito di “centro che guarda a sinistra”, per dirla con De Gasperi. Sicuramente è stato un partito riformista, profondamente democratico, con una spiccata cultura di governo, centrale nello schieramento politico e con una linea chiara per quanto riguarda il campo delle alleanze. Ora, confrontare il ruolo, la funzione e soprattutto la collocazione di quel partito con i 5 stelle ci vuole una porzione di fantasia e di spensieratezza alquanto elevati. Non è il caso di infierire. Ma governare saldamente con la destra leghista per 18 mesi e, nell’arco di una manciata di ore, pensare di dar vita ad una alleanza opposta, alternativa e nettamente divaricante rispetto a quella praticata sino a qualche giorno prima – cioè con il nuovo partito della sinistra italiana di Zingaretti e con ciò che resta del vecchio Pci – credo che non meriti ulteriori commenti. 

L’elenco delle diversità potrebbe continuare all’infinito. Come, ad esempio, il confronto tra le classi dirigenti dei rispettivi partiti. Ma su questo terreno i 5 stelle, oggi, sono in buona compagnia con le classi dirigenti degli altri partiti. Ma è sufficiente fermarsi qui. Per arrivare ad una semplice conclusione. E cioè, qualunque confronto o parallelismo tra la Democrazia Cristiana e il partito dei 5 stelle può albergare solo nella mente di qualche marziano o di qualche osservatore distratto e del tutto avulso da ciò che è stata la politica italiana ieri e ciò che è oggi. 

Per dirla con termini ancora più semplici e comprensibili, tra la Democrazia Cristiana e i 5 stelle non è possibile alcun confronto perché sono su pianeti diversi. Ogni altro commento e’ puramente superfluo. 

Sul Tweet di Castagnetti. Se guardiamo a Moro, allora il Pd si limiti al sostegno parlamentare.

A proposito della affermazioni di Castagnetti sulla preferenza di Berlinguer nel 1976 per il governo a guida Moro anziché Andreotti va ricordato che non si tratta proprio della stessa cosa e situazione.

Andreotti aveva guidato il governo Dc PLI nel 1972 dunque ben 4 anni prima. In questa fase c’erano stati altri governi Rumor e Moro La Malfa, sulla base del deliberato del congresso del Palazzo dei Congressi mosso dall’accordo di Palazzo Giustiniani che vide la contrapposizione forte tra Fanfani e Andreotti. (C’ero).

Nel 1976 Moro fu certamente il negoziatore del governo della non sfiducia, con la ufficializzazione delle delegazioni Dc PCI nella sala del Direttivo Dc, ma l’intesa su Andreotti fu determinata dalla esigenza di salvaguardare in primo luogo la unità della Dc che era la stella polare di Moro e che ritroviamo nel testamento politico del discorso ai gruppi parlamentari della Dc del 28 febbraio 1978. (C’ero).

Andreotti nelle elezioni del 20 giugno 1976 ebbe uno straordinario successo elettorale chiudendo la campagna elettorale a Piazza del Popolo con la presenza attiva di Comunione e Liberazione e quella di Umberto Agnelli, candidato nel collegio di Roma due Prati, mischiato nella folla con Luca di Montezemolo
e non sul palco come fu invitato a salire. (C’ero).

Conte non può essere paragonato a Moro. Non viene da nessun passaggio elettorale. I paragoni sono improponibili. Andreotti nel 1976 realizzò il governo della non sfiducia. Se i 5 stelle difendono la posizione di Moro della continuità realizzino la non sfiducia con un monocolore 5s e il sostegno parlamentare esterno del PD. Vediamo sei due partiti sono in grado di farlo nome dei propri principi.

L’Europa, obiettivo dei cattolici

“Fuori dallo spazio europeo torneremo sudditi perché non saremmo in grado di affrontare nessuna priorità. Pensateci”. Queste sono alcune delle parole che David Sassoli ha pronunciato davanti al Parlamento Europeo.

Sono effettivamente parole che non possono suonarci indifferenti quando in Europa si rischia la spaccatura totale tra i paesi, dando nuovamente spazio alle pressioni economico politiche degli USA, che possono trasformare ancora una volta tutti noi cittadini d’Europa in ostaggi di una possibile e brutale politica di revanscismo tra le due più grandi potenze della terra, o forse tre se guardiamo alla Cina.

Oltremanica già stiamo subendo le continue minacce di una Gran Bretagna, che, tutto sommato, ha i suoi problemi interni, e va avanti con il “brexit si, brexit no” come se fosse una danza di cui tutti siamo già parecchio stufi.

Il discorso di Sassoli mi ha fatto riandare alle pagine del mio libro pubblicato nel 2011 su Pietro Pavan. Egli nel 1947 partecipò al congresso di Friburgo e ne stese, successivamente, un resoconto ben dettagliato. All’epoca le paure erano due: una forte ripresa della Germania – siamo a due anni dalla fine della seconda guerra mondiale – e il comunismo. Pavan ebbe a scrivere anche come tra movimenti europeisti genuini ve ne fossero alcuni “di ispirazione socialista, leninista-radicalmassonica”. Pio XII era un fervente sostenitore dell’Europa unita e la Santa Sede prende posizione ufficialmente nel 1948, dopo il colloquio del papa con il genero di Churchill, Duncan Sandys. Questo porterà i cattolici italiani a fondare il CAE (Centro di Azione Europeista), in cui Pavan lavorerà assiduamente.

Ma vorrei riportare testualmente ciò che scrissi nel libro: “La sua analisi lo porta a ritenere che di fronte all’agitarsi di tante idee i cattolici devono prendere posizione. Possono tergiversare, aspettare il momento propizio per intervenire, oppure ‘essere presenti con un’azione consapevole ed organizzata’. Ed a parecchi stava a cuore la seconda alternativa“.

In un suo discorso nel 1948 Pavan dichiara esplicitamente che “senza una unità europea sia economica che politica in alternativa c’è solo la morte dell’Europa. E sottolinea che il ruolo dei cattolici nella realizzazione dell’unità europea è imprescindibile “.

A questo punto della nostra storia, come italiani e cattolici, forse dovremmo riflettere, ma soprattutto agire e farlo subito. Don Sturzo scriveva nel 1950 a Veronese: “l’avvenire dell’Europa sia orientato verso il cristianesimo, abbandonando quel laicismo che ne ha avvelenato la vita pubblica“.

Credo che non ci sia altro da aggiungere alle parole di questo padre della Democrazia.
Caterina Ciriello

Lavori in corso

Ci sono alcuni presupposti che non vanno dimenticati. Senza questi verrebbe meno una chiarezza d’analisi. Non sono passati che diciassette mesi dalle elezioni del 4 di marzo. Questo è un dato che non può essere assolutamente dimenticato.

Potrei fare un’operazione del tutto legittima, riportare l’orologio a quella data. La condizione attuale è, in larga massima, identica a quel punto d’inizio: tre forze politiche che mal si sopportano e che devono trovare comunque un compromesso per non far fallire la legislatura. Il primo round ha richiesto tre mesi di faticoso confronto per suonare il campanello di fine ripresa.

Adesso, invece, i tempi dovranno essere fulminei. Immenso l’inizio, una frazione di secondo la successiva ripresa. Ma nulla è cambiato, opposti erano 5stelle e Lega, quanto sono opposti Pd e 5Stelle. Sapendo che la legislatura, ad oggi, si potrebbe dire essere ancora in una fase anoressica, diventa difficile immaginarsi che tutti i Parlamentari intendano andarsene a casa con questa fisicità. Credo non ci sia nessuno in grado di assecondare questa tesi della bella magrezza. Obietterete sostenendo che Salvini e la Meloni sbandierano il piacere dell’essere pelle e ossa, vero, ma questi, come forse qualcun altro, hanno la matematica certezza di ritornare sulla tavola imbandita.

Mentre la stragrande maggioranza dei mille parlamentari sono come foglie d’autunno … Dar torto a questi non è atteggiamento intelligente e rispettoso.

La Costituzione italiana prevede che il nostro sia un regime Parlamentare: i governi non escono dai voti ma dai Parlamenti. Com’è uscito quello dell’inizio giugno 2018, potrebbe uscire, per lo stesso identico principio, all’inizio del mese di settembre 2019. Nulla di strano. Di strano c’è solo che le parti in causa si guarderanno costantemente in cagnesco. Come del resto, anche se mascherato, si è verificato tra i partner della maggioranza sfasciata.

Potrà mai il Paese sopportare una tensione costante all’interno di chi ci governa? Francamente sono convinto che questi aspetti, comunque, il Paese li pagherà. In un modo o nell’altro le tensioni si scaricano e quando questo capita nel campo economico, la cosa può subire effetti spiacevolissimi. Sapendo che la nostra nave naviga a vista e si porta un carico nella stiva piuttosto pensante per non dire quasi esplosivo. In un clima di totale incertezza val la pena soffermarsi sullo stato d’anima dei Parlamentari.

Credo siano tutti in una fase di fibrillazione e il loro stato d’animo sia minato di intensa insicurezza. A maggior ragione, in questo clima politico in cui sembra del tutto smarrita la dimensione comunitaria o, se volete, l’orizzonte universale, in cui ciascuno pensa più a se stesso che al resto.

Intravvedendo alcuni soggetti, ho colto alcuni sintomi che potevano essere interpretati come celeste speranza o come possibile precipizio. Nel primo caso perché si augurano di posare il sedere su qualche Ministero, ma nel contempo, sapendo quanto tutto sia in stallo, di fare fagotto e tornarsene a casa.

Nonostante tutte queste grigie espressioni, voglio credere che, anche se non riconducibili a precisi soggetti, vi sia, nel nostro Paese, qualche angolo votato alla più alta espressione spirituale: il pensiero rivolto al bene comune, al bene dell’Italia, al bene di tutti. Se proprio mi strattonate perché io mi pronunci su qualche personaggio che tenga alto questo vessillo, non credo di sbagliare nel dire che sia in mano al Presidente della Repubblica. Su altri, sono sincero, non saprei chi citare.

Luce e gas: cosa succede in caso di aumento IVA

La crisi di governo evoca il fantasma dell’aumento dell’IVA. Se davvero l’imposta sul valore aggiunto salisse al 25,2% nel corso del 2020, a risentirne di più sarebbero gli utenti in regime di maggior tutela, con fatture della luce gonfiate del 9,39%. Prezzi maggiorati ma non di troppo invece, per i consumatori passati a un’offerta del mercato libero. L’ultimo studio SosTariffe.it ha simulato i rincari delle fatture luce e gas in caso di aumento della pressione impositiva.

Per evitare l’aumento dell’IVA servirebbero 23,1 miliardi solo per il 2020. Quindi se non si innalzano altre imposte, non si taglia la spesa o incrementa il deficit, dall’1 gennaio l’aliquota ordinaria salirà dal 22 al 25,2% e quella ridotta dal 10 al 13%.

Tutta ‘colpa’ delle cosiddette “clausole di salvaguardia” che stabiliscono l’incremento automatico di Iva e accise, in caso non si raggiungano determinati obiettivi di bilancio, in particolare quelli imposti dall’Ue.

Di quanto aumenterebbero le bollette di luce e gas?

In base ai risultati dell’indagine, a risentire di più dell’aumento dell’IVA sarebbero gli utenti in regime di maggior tutela. Sulle fratture residenziali della corrente elettrica a oggi si applica un’imposta valore aggiunto del 10%. Il prelievo fiscale, in caso di esercizio provvisorio, salirebbe al 13%.

Ne è emerso che, se nel corso del 2019 il consumatore considerato aveva una spesa annua per la luce di 628,32 euro, con l’eventuale innalzamento IVA, nel corso dell’anno 2020 spenderebbe la bellezza di 687,30 euro (circa il 9,39% in più).

Lo studio ha rilevato invece, che l’aumento del prelievo impositivo graverebbe meno su un consumatore del mercato libero. Un utente, con i medesimi consumi, il quale usufruisca di una fornitura di corrente elettrica ai prezzi del mercato libero, in media, con l’offerta più economica, spende all’anno 492, 48 euro. Nel 2020, in caso di aumento dell’iva, ne spenderebbe invece 505,10 euro (“solo” il 2,56% in più).

Diversa la situazione per le bollette del gas, che contrariamente a quelle della luce, non risentirebbero tanto degli aumenti IVA.

A oggi per un consumo di gas compreso entro i 480 metri cubi l’anno, l’IVA applicata alle fatture è pari al 10% e rischia di salire al 13%. Mentre invece, per consumi maggiori ai 480 metri cubi, imposta sul valore aggiunto applicata oggi è pari al 22%, e in caso d’incremento, salirebbe al 25,2%.

Le tariffe attuali, per un consumatore tipo in regime di maggior tutela con un consumo annuo di 1400 metri cubi di gas, si traducono in bollette per 1067,24 euro annuali. La cifra da spendere nel corso di un anno intero invece, in caso di aumento dell’IVA, salirebbe a 1091,92 (circa il 2,31% in più).

Anche su un consumatore tipo che ha aderito a un’offerta del mercato libero con lo stesso fabbisogno di gas annuale, l’aumento dell’Iva non inciderebbe più di tanto. Se le bollette di un intero anno si aggirano ora sui 987, 87 euro, nel corso del 2020 schizzerebbero a 1009,37 (circa il 2,18% in più).

Tumori: ecco una nuova arma

Arriva in Europa una nuova arma per il trattamento di tumori solidi che presentano una particolare alterazione genetica, la fusione di geni NTRK (Neurotrophic Tyrosine Receptor Kinase). Il farmaco è il larotrectinib e il Comitato per i farmaci ad uso umano (Chmp) dell’Agenzia europea dei farmaci (Ema) ne ha raccomandato l’autorizzazione alla vendita nell’Unione europea.

Il medicinale è indicato per i pazienti il cui tumore è diffuso o non può essere rimosso chirurgicamente, e non hanno altre valide alternative terapeutiche, e per quei tipi di cancro che non hanno avuto origine nel sangue o nel midollo spinale.

Si potrà usare in alcuni tipi di tumori rari che colpiscono adulti e bambini, come il fibrosarcoma infantile o quello delle ghiandole salivari, e raramente anche in alcuni dei tumori più diffusi, come quello del colon e polmone.

De Mita: “Salvini ritirati”.

Antonia De Mita intervista Ciriaco De Mita

Leggittimo cambiare l’alleanza Governo per incrociare il sentimento delle maggioranza europeista e antisovranista.

di Egidio Banti

Registro che – con argomenti certamente degni di considerazione – si continua però a non considerare un fatto, legato alle elezioni europee di fine maggio.

Sono state quelle, con quel che ne è seguito dopo, a cambiare le carte in tavola, e ciò è avvenuto per volontà degli elettori, non contro. La maggioranza degli elettori europei (anche in Italia!) ha votato per una maggioranza europeista, non per una maggioranza sovranista! Quindi non è vero che gli elettori non si sono pronunciati, si sono pronunciati eccome.

Quella maggioranza europea che (un po’ a sorpresa, ma è andata così) ha visto l’adesione determinante del gruppo 5 Stelle al Parlamento europeo esiste numericamente anche in Italia. Non per nulla, il governo precedente – che non corrispondeva a quella maggioranza – è saltato nel giro di un mese.

Ora, visto che è saltato, provare a realizzare anche in Italia una maggioranza parlamentare coerente con il voto degli elettori, a me non sembra sconvolgente, ma doveroso. Che poi ci si riesca, è un’altra cosa. Però bisogna provarci, accettando il rischio di trovarci di fronte a una classe politica impreparata.

Ma proprio l’impreparazione dei 5 Stelle, parallela a quella degli uomini di Salvini, mi fa ritenere che un governo con il PD, che di preparazione a volte ne ha fin troppa, sarebbe un fatto positivo per l’Italia, e per l’Europa.

Conte ha messo fine alla stagione del salvinismo di Governo.

di Pierluigi Moriconi

Alla vigilia delle dichiarazioni di Conte in Senato, pubblicai la prima parte della requisitoria di Cicerone contro Catilina (“Fino a quando abuserai della nostra pazienza,Catilina?”), auspicando che nell’odierno Senato ci fosse un Cicerone.

 

Devo dire che questo auspicio si è concretizzato il giorno dopo. Conte, anche scontando la giusta critica sul ritardo della rottura, il Premier ha fatto si che le sue parole abbiano definitivamente sbaragliato un inconsistente Salvini e chiuso quella esperienza. Ha finito ciò che Renzi aveva iniziato mettendo all’angolo il “capitano”; un “capitano” però che a me è sembrato sempre un “piccolo caporale”.

 

Ora, abbiamo davanti il nodo Zingaretti e del suo entourage. Sappiamo che il desiderio nascosto, ma non tanto, è lo scioglimento delle Camere, cercando come unico risultato l’eliminazione di Renzi e i suoi. Ma come effetto collaterale la fine del PD.

 

Purtroppo il livello della classe dirigente è quello che è. In questa delicata partita avremmo avuto bisogno di ben altre personalità. Se Zingaretti vorrà riscattare la sua “inutile” segreteria, che in tutto questo tempo non ha prodotto nulla di ciò che ci si aspetterebbe da un segretario e da un partito di opposizione, deve evitare irrigidimenti che apparirebbero balbettii a scusa della rottura e quindi realizzazione dei suoidesiderata.

 

Povero Mattarella, che si deve sorbire tanta inconsistenza istituzionale! A lui tutta la nostra solidarietà. Con Salvini. domani eventualmente padrone del gioco per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica,metteremmo a rischio anche questa figura alta di garanzia della nostra Repubblica.

 

*Segretario nazionale dell’Associazione “Agire politicamente”.

Conte chiude alla Lega. E’ proprio necessario il veto del Pd su di lui?

A questo punto dobbiamo affidarci alla logica. Supponiamo che la pregiudiziale riguardante la guida del governo, con la conferma di Conte, sia insormontabile. E supponiamo altresì che la pressione di Salvini faccia breccia nei cuori dei grillini per ragioni – diciamo così – imperscrutabili. Allora si dovrebbe supporre che identica pregiudiziale dovrebbe valere se dovesse riaprirsi il forno gialloverde. Ma dopo le dichiarazioni di Conte, per il quale l’esperienza con Salvini è una pagina definitivamente archiviata, come si può immaginare che non valga a destra ciò che vale a sinistra, ovvero che a dispetto di tutto e di tutti si possa formare nuovamente un governo Lega-M5S, pur con il Presidente del Consiglio attestato su questa posizione di assoluta intransigenza?

Secondo logica, appunto, uno scenario ribaltonista che lasci a secco il faticoso dialogo con il Pd e rimetta in auge la precedente formazione governativa, magari con qualche aggiustamento “a latere” dell’oggetto del contendere, dovrebbe essere esclusa in maniera categorica. Questo dice un pensiero minimamente ordinato a fronte della singolare conduzione della crisi. È possibile che diventi regola un guazzabuglio di motivazioni altalenanti e contraddittorie? Anche la piattaforma Rousseau faticherebbe a identificare un algoritmo capace di giustificare l’ingiustificabile. Molti osservatori sono guardinghi, avvertono l’asfissia che attanaglia l’articolazione del ragionamento politico.   Figuriamoci allora come potrebbe reagire la pubblica opinione, anzi – per essere più chiari – come già inizi a reagire.

La questione della conferma di Conte non è di secondaria importanza per il Pd. La resistenza di Zingaretti è comprensibile. Certamente la svolta apparirebbe sbiadita, fino al punto di configurarsi, agli occhi dell’elettorato e della base del partito, alla stregua di una beffa. Tuttavia, sempre a fil di logica e con il realismo necessario, il veto sul premier uscente sconta il fatto che a pagare il prezzo della “rivoluzione parlamentare” sarebbe proprio l’artefice più diretto ed esplicito dell’inversione di rotta realizzata dopo appena 16 mesi dall’apertura di questa complicata legislatura. Conte ha avuto la forza, comunque, di mettere con le spalle al muro il suo ministro dell’Interno, inscenando nell’Aula del Senato una vera e propria requisitoria. Non si può far finta che il gesto non abbia pesato sulla rappresentazione nuda e cruda della fine di un ciclo politico.

Spetta dunque al segretario del partito più esposto, al quale s’indirizza la polemica di una destra ormai inferocita, prendere il coraggio a due mani. Può tenere il punto, non senza ragioni, ma così facendo rischierebbe di far saltare la soluzione della crisi, spalancando le porte a elezioni quanto mai ostiche – con quale schema, infatti, si dovrebbero affrontare? – o addirittura alla inusitata ricomposizione della vecchia maggioranza. È una decisione, quella che Zingaretti dovrà assumere nelle prossime ore, che solo gli incoscienti possono pretendere di maneggiare con l’ostentazione di ingenue sicurezze. Alla fine, però, se si vuole mandare all’opposizione Salvini, anche il sacrificio di una pallida discontinuità, certo insoddisfacente per il popolo della sinistra, può e deve essere sopportato in nome di una esigenza politica prioritaria. Anche Ciriaco De Mita, valutando l’emergenza  del momento, ha auspicato il varo del governo M5S-PD. Se fallisse, sarebbe un guaio.

P.S. Avevamo ipotizzato in un precedente articolo che   il veto potesse rafforzare alla lunga il ruolo di Conte. Sembrava che il M5S non si sbracciasse in difesa del suo premier. Evidentemente gli ordini della Casaleggio Associati hanno determinato una rapida correzione di tiro. Dunque, senza attendere scadenze lontane, fin da subito si acclara l’aumento d’incidenza e peso politico del premier dimissionario.

Sassoli: “dobbiamo custodire la democrazia e l’Europa”.

Pubblichiamo il discorso che il Presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, ha pronunciato ieri a Rimini nella giornata conclusiva del tradizionale Meeting di Comunione e liberazione.

Caro Presidente, cari amici,

le suggestioni e le provocazioni che mi avete consegnato consentono nella giornata conclusiva del Meeting di andare al cuore delle grandi questioni della contemporaneità. Vi ringrazio per l’invito e per avermi concesso la possibilità di riflettere ad alta voce sui tormenti e le speranze di questo tempo del nostro scontento. Sí, sentiamo tutti forte i pericoli a cui andiamo incontro e l’ansia di non essere all’altezza di sfide così impegnative. Vediamo anche molto chiaramente che alcune tendenze vorrebbero farci rinunciare ai valori sui quali è costruita la nostra convivenza. Sono le prove a cui è sottoposta la nostra generazione oggi, in questo momento, con domande inedite da parte di un mondo che si è trasformato sotto i nostri occhi e che spesso non siamo stati in grado di capire e di regolare.

Quando da ragazzo chiesi al professor Giorgio La Pira cosa intendesse per ‘escatologia del profondo’, lui mi rispose che la storia è come un Oceano in cui sei in grado di cogliere le correnti quando affiorano, ma in profondità altre si preparano, si gonfiano, e scoprirne la forza prima che si manifestino è opera della politica. Della grande politica.

I segni dei tempi ci dicono che le nostre società sono pervase da forti ondate di disgusto, immense delusioni, istituzioni che non vengono riconosciute come la casa comune in cui garantire le nostre libertà. Sono sentimenti che attraversano l’Europa, che ritroviamo in tutti i paesi dell’Unione e che nascono dal disagio, dall’esclusione, dalle ingiustizia ma che sono anche strumentalizzate da coloro che oggi hanno paura che l’Europa possa essere un competitor esigente perché legato a regole, valori, umanità.

Non è un caso che oggi in troppi scommettano sulla nostra debolezza e sulla nostra divisione. Se guardiamo al mondo fuori dallo spazio europeo vediamo quanto le dinamiche di potenza debbano essere temperate, regolate. E quante ingiustizie chiedano di noi. Per essere capaci di dare risposte dobbiamo caricarci sulle spalle l’ansia di cambiamento che contengono le domande che ci ha rivolto Papa Francesco, quando invita a lavorare per umanizzare i processi di globalizzazione. È la domanda cruciale del nostro tempo.

Ed è l’unica che può consentirci di riscoprire quella vocazione che in questi 70 anni ci ha portato a costruire uno spazio di democrazia in cui il diritto è il termine di riferimento con cui noi regoliamo i rapporti fra i nostri Stati membri, fra i nostri cittadini e domani con quegli Stati che aspirano a vivere con noi.

“Solo se l’Europa rimane e diventa sempre di più spazio di libertà – come ha di recente ricordato don Julian Carron – potremo condividere la ricchezza che l’uno o l’altro avrà trovato nella vita e potremo offrirla come risposta alle esigenze e alle sfide che abbiamo davanti”.

L’Europa, non dimentichiamolo, è il suo diritto. E anche quando le nostre Istituzioni si mostrano inadeguate o da riformare non dobbiamo dimenticare che, se anche imperfette, garantiscono comunque la convivenza possibile e custodiscono le nostre libertà. Non è un caso che le forze che vogliono dividerci ci raccontino di un sistema europeo le cui regole devono essere scardinate. Non chiedono riforme, ma ritorni indietro per impedire all’Unione di giocare il suo ruolo sulla scena mondiale, di essere capace di regolare l’uso della forza che non è solo militare, e per impedire ai nostri paesi di affrontare i loro problemi e di superare tante ingiustizie.

In questo momento assistiamo ad una insopportabile ingerenza nello spazio europeo da parte di forze esterne che ci fa dire che i nostri Paesi, dopo aver lottato per la propria indipendenza, oggi si trovano ad affrontare una fase nuova in difesa dell’indipendenza dell’Unione. La nostra autonomia ė garanzia per le libertà di cui godiamo e che ci fanno diversi da altri, non migliori, e a cui gli altri tuttavia spesso aspirano.

Quante volte, andando fuori dallo spazio europeo siamo visti con occhi pieni di ammirazione per quello che abbiamo costruito e per i nostri modelli di vita?

Dico questo non solo per la risposta da dare a quanti cercano di insinuarsi e strumentalizzare le posizioni nazionaliste, ma anche per l’evidente interesse a non consentire agli europei di giocare un ruolo in un mondo globale che non ha regole ma deve trovare regole. Fuori dallo spazio europeo torneremo sudditi perché non saremmo in grado di affrontare nessuna priorità. Pensateci… pensiamo ai problemi che abbiamo, ai problemi che ha l’Italia… la sfida ambientale, la sicurezza, le questioni finanziarie, gli investimenti, la lotta alla povertà, l’immigrazione, il commercio internazionale, la politica agricola, industriale, la sfida tecnologica.

Quali di queste grandi questioni possono essere affrontate dai nostri paesi da soli? Nessuna. E per molte sfide lo spazio europeo è già troppo piccolo. Se dovessimo ritornare indietro, come molti vorrebbero, non avremmo possibilità di superare tante difficoltà, ma metteremmo in gioco il bene più prezioso costruito dal secondo conflitto mondiale: la pace fra le Nazioni europee. È un rischio molto concreto, perché quando gli Stati non sono in grado di affrontare i problemi che hanno di fronte è naturale che li scarichino sugli altri, alimentando tensioni e addirittura conflitti. È la storia dell’Europa moderna, è la storia delle generazioni precedenti alle nostre. È la storia che ci riporta esattamente a 80 anni fa, ieri, quando il 23 agosto1939 viene firmato il patto Molotov-Ribbentrop, un patto di non aggressione fra la Germania nazista e l’Unione sovietica.

Sei giorni dopo, inizierà la guerra. Pio XII capì subito che era il semaforo verde all’invasione della Polonia e mandò un radiomessaggio famoso perché conteneva una formula che noi dobbiamo continuare a proteggere: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra». Un messaggio che non impedì, di lì a sei giorni, lo scoppio della seconda guerra europea e dunque mondiale, con il suo peso di lutti e al suo interno la incancellabile vergogna europea della Shoah.

Dobbiamo ricordare questa data. E dobbiamo farlo senza più quasi la voce dei testimoni che l’hanno vissuta: il volgere delle generazioni ci obbliga a guardare a quegli eventi con la forza della ragione e senza più l’ausilio così prezioso di chi ha vissuto la devastazione, la strage, la ferocia, l’odio razziale, la forza seducente del demonio nazionalista. Ma dobbiamo anche ricordare che coloro che hanno vissuto quell’orrore ci hanno dato in custodia istituzioni democratiche ed europee.

Tutti noi europei viviamo la responsabilità di quella custodia: la custodia della democrazia e dell’Europa.

Il progresso tecnologico e la semplificazione barbarica dei linguaggi può talvolta farci pensare che della democrazia e dell’Europa possiamo fare e pensare qualsiasi cosa. Che possiamo consegnare ai sentimenti volubili e cialtroni che trasudano sui social quel che è costato caro, carissimo: macerie di carne umana, macerie di città, macerie morali di un mondo che oggi qualcuno osa dipingere come il tempo in cui vigevano principi morali e che si è rivelato capace di abissi di crudeltà che dobbiamo avere davanti agli occhi. Le donne sventrate di sant’Anna di Stazzema, i treni caricati di ebrei venduti a 5mila lire a Roma e mandati a morire in Polonia, i Rom catturati e gasati, le vittime delle stragi e dei bombardamenti.

Chi incendiò l’Europa trovò anche un cristianesimo spiritualmente impreparato, impegnato nella lotta alla modernità e illuso che la caduta dei regimi liberali fosse una rivincita della “cristianità” e non un orrore. Dico questo perché a me, a voi, interessa capire la lezione del Secolo breve e quanto sul dolore il mondo cattolico sia riuscito in un’opera di riscatto e rinascita.
Non vi è dubbio che toccherà proprio al cattolicesimo politico individuare nella democrazia e nei Parlamenti gli strumenti per invertire la rotta e metterci in sicurezza.

Costituzione e Europa sono i termini della rinascita.

In Italia, i costituenti cattolici – Giuseppe Dossetti, e con lui Aldo Moro, Giuseppe Lazzati, Giorgio La Pira, Costantino Mortati, la professoressa Bianchini– seppero disegnare quel capolavoro che è la nostra Costituzione: intrisa di un personalismo che non ha l’odore di un incenso stantio e strumentale, ma il profumo di una passione di verità cristiana che i cattolici hanno il dovere di opporre a chi ancora oggi – in Polonia, in Ungheria, in Italia – osa agitare i simboli della nostra fede come amuleti, con una spudoratezza blasfema.

La Costituzione ma anche l’Europa: perché l’Europa nasce da tre signori che parlano una lingua materna comune, il tedesco, e pensano con categorie materne comuni, in cattolico. Sono loro a capire che non ci sarà nessuna garanzia di una pace duratura senza una Europa che sappia essere pacificata e pacificante: una grande potenza di pace, messa in mezzo fra l’Atlantico e gli Urali, messa sopra al grande Continente africano in cui proprio gli europei sono andati a rubare di tutto, con lo schiavismo e con il colonialismo, e al quale devono restituire una prospettiva di pace e di sviluppo.

In tutto questo anche oggi i cattolici giocano un ruolo decisivo, perché è sulla loro divisione che contano le destre neo-nazionaliste. Se guardate a come si è estesa l’onda nera del sovranismo, con i suoi rigurgiti antisemiti e il suo razzismo più o meno travestito, vedete che ha puntato ai paesi di più forte tradizione cattolica e alla divisione del loro cattolicesimo: Polonia, Ungheria, Slovacchia, Croazia, Italia sono stati territori nei quali si è puntato a spaccare il cattolicesimo, per spaccare il paese e spaccare l’Europa. Agitando fantasmi e paure non si è andati alla ricerca del voto cattolico (che è normale e ovvio), e neanche alla ricerca del voto conservatore (altrettanto normale): si è andati alla ricerca di frange e sette che rivendicano di essere la vera chiesa e che vengono chiamate a fischiare il Papa in una piazza italiana.

Anche questo non è inedito: quando Pio XI scomunicò i membri dell’Action française nel 1928, lo fece non perché gli desse noia il loro conservatorismo politico, ma perché volevano dividere la Chiesa. Ma oggi che la Chiesa, come diceva papa Giovanni, preferisce la medicina della misericordia alle armi della severità, bisogna essere non meno vigili e decisi di papa Ratti. E dire che il cattolicesimo non è un emporio dove si passa a prendere un rosario, un Vangelo, un santino, ma un popolo cristiano, legittimamente pluralista sul piano delle scelte politiche che sulla fedeltà alla Costituzione e nella difesa del sistema democratico non si lascia dividere. E che proprio nella Costituzione, intrisa di così profonda esperienza cristiana ed insieme intessuta del supremo principio di laicità (sentenza Casavola, un cattolico) trovano il loro punto di raccordo e la garanzia dei loro valori.

La stagione che viviamo non ci richiede partiti cristiani, ma forse ancor più ha bisogno di testimoni della radicalità evangelica e di interpreti dei segni dei tempi. Testimonianza: una parola molto cara alla vostra comunità.

Parola che richiama la forza generativa delle origini e che poi accompagna il cammino, anche nei cambiamenti necessari, come la vostra storia dimostra.

Tutto questo per dirvi che dobbiamo sentire il peso della nostra responsabilità – e su alcuni fondamentali non possiamo stare a guardare o essere neutrali – e dobbiamo sentirla in un momento come quello che vive il nostro Paese.

Se con tutta la fatica e le contraddizioni del caso, un cattolicesimo che sarà pure minoritario ma che domattina porterà a messa sette milioni di persone torna ad insegnare quelle virtù che la grazia fa ricevere come dono di Dio e che l’immagine di Dio impressa in ognuno fa scaturire da ogni coscienza, allora c’è una speranza che potrà rendere le formule politiche un viatico per raggiungere traguardi di partecipazione democratica che consentano davvero il “pieno sviluppo della personalità”, come la Costituzione indica come il bene repubblicano per eccellenza.

Sono giornate importanti, piene di incognite e nelle quali serve grande fiducia nella capacità di convincimento, di dialogo, di incontro.

Le forze politiche sono utili se sono riconosciute utili dal paese. E l’importanza dei partiti è nel tenere sempre al centro del loro impegno l’interesse del Paese.

Condivido sillaba per sillaba ciò che il card. Bassetti è venuto a dirvi sulla crisi di visione di cui il paese soffre: ma sono venuto anche a dirvi che io e voi dobbiamo anche interrogarci sulla nostra quota di responsabilità in questa crisi. Perché c’è ed è inutile negarla.

Chi, nell’ultimo quarto di secolo ha educato che nel lavoro si avanza non per protezione ma per esemplarità, che la coscienza da esaminare non è quella degli altri ma la propria, che il rigore etico è un cristallo che non ammette fessurazioni, che il dovere democratico è uno spirito di sacrificio e non una bestia da social? Chi, ha prodotto anticorpi utili per fronteggiare una cultura individualista che con troppa facilità ha travolto i valori della solidarietà, dell’umanità, dell’uguaglianza?

Ed è da questo esame di coscienza che dobbiamo ripartire: perché le formule politiche e parlamentari hanno un senso se servono a creare le condizioni per un rinnovamento culturale che tocchi tutti, che interessi tutti.

La macchina della propaganda neo-nazionalista lascia gli italiani in un mare di guai.

In Europa le forze che hanno vinto le elezioni stanno cercando di dar vita a una legislatura che vuole essere un punto di riferimento anche per il nostro Paese.

Gli europeisti italiani hanno un solido punto di riferimento nell’alleanza che si è realizzata nel Parlamento europeo, e che intendo rafforzare. Questa dovrà essere una legislatura politica con un’agenda sociale di forte discontinuità col passato e gli impegni assunti dalla presidente von der Leyen sono le basi su cui costruire un vero manifesto per la nuova Europa.

Sappiamo che queste sono ore di riflessione e confronto nella politica italiana e ci auguriamo che dalla crisi arrivino parole chiare anche sulle politiche di cui abbiamo bisogno.

L’agenda europea è un buon punto di riferimento perché contiene obbiettivi ambiziosi e strumenti adeguati e imboccare la strada dello sviluppo sostenibile, salvaguardare la flessibilità nell’attuazione del Patto di stabilità e crescita, rilanciare gli investimenti, introdurre un bilancio della zona Euro, sviluppare una strategia contro la povertà con una direttiva quadro sul salario minimo e una sui piani di protezione sociale.

Avere cura del pianeta, è avere cura degli uomini.

Di fronte ai disastri che oggi devastano Siberia e Amazzonia, gli europei lancino un segno, una campagna simbolica.

Ogni sindaco di città grande o piccola d’Europa sia il motore di una nuova speranza e con un piccolo gesto, ma di grande impatto, pianti un albero sotto lo slogan: tu sei il mio respiro, YOU ARE MY BREATH.

Istituzioni e cittadini, persona e comunità responsabile.

Il nuovo governo italiano dovrà avere obbiettivi ambiziosi per una crescita sostenibile, come ieri ha ben spiegato qui il professor Giovannini…

Le idee non mancano e invitiamo le autorità italiane a sostenere la nascita di una Banca Europea per il Clima, l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, l’introduzione di una tassazione per i “giganti tecnologici”. Su tutto questo il Parlamento europeo è già pronto a fare la propria parte.

D’altronde, abbiamo bisogno di un’Europa più forte per rispondere alla concorrenza di potenze economiche come la Cina e gli Stati Uniti ed avere nei rapporti con la Russia e la Turchia doti di dialogo e di fermezza basati sui valori della democrazia e dello stato di diritto.

Ma un’Europa più forte non può essere solo il risultato di interventi legislativi. Occorre investire sulle forze sociali, sulla loro autonomia, sul ruolo dei corpi intermedi. E al tempo stesso dobbiamo investire su persona e comunità, sulla libertà dell’individuo e dei corpi sociali. È la moderna frontiera su cui si gioca una parte importante del modello sociale europeo, perché tutto il corpo delle relazioni sociali, civili, solidali sono la spina dorsale della democrazia.

Anche questo è un portato della cultura cristiana che è diventato fondamenta della casa comune. E dobbiamo averlo chiaro perché la verticalizzazione dei poteri (economici, finanziari, anche geopolitici) sembra scoraggiare il protagonismo, l’autonomia e la responsabilità sociale.

A Bruxelles siamo riusciti a trovare convergenze importanti in Parlamento e si sono prese le misure alle forze antieuropee.

Costruire politiche senza le necessarie convergenze d’altronde risulta sempre sterile.

Confronto, dialogo, mediazione sono parole nobili per la politica che devono tornare nel vocabolario dei democratici.

Se la politica non è tutto, come avvertiva Aldo Moro, nella politica nessuno può sentirsi il tutto.

Seguiamo con passione quanto sta avvenendo in Italia e se la crisi sarà superata positivamente avremmo riconquistato un posto di primo piano per il nostro Paese in Europa. Sviluppare dialogo è sempre diventare più ricchi. E dobbiamo mettere nel conto che la storia non si costruisce senza difficoltà, senza ostacoli, o solo intuendo gli obbiettivi e dichiarandoli. Confronto sempre, ma non per ricercare alleanze per vampirizzare gli altri o trovare un compromesso di potere, ma concentrandosi sullo stato della nostra democrazia e sulle priorità del nostro paese.

D’altronde, non si governa con pieni poteri la settima potenza mondiale; non servono pieni poteri per governare società complesse.

Pieni poteri li chiedono coloro che si considerano autosufficienti e pensano che un uomo forte possa risolvere i problemi con la bacchetta magica o con l’uso della forza.

La prepotenza è una malattia che l’Europa ha conosciuto molto bene. Chi ama il proprio paese, invece, sa che l’Europa è un porto sicuro.

È come per coloro che amano l’umanità e sanno bene che i porti devono restare aperti, perché non è maltrattando la povera gente che si costruisce una politica per l’immigrazione. Impegniamoci a dare poteri all’Europa, invece, per affrontare il fenomeno migratorio e impegniamoci per una riforma del regolamento di Dublino, che il Parlamento europeo ha votato a grande maggioranza, e che stabilisce che chi arriva in Italia, Malta, Spagna, Grecia arriva in Europa ed è l’Europa a doversene occupare. Invito anche da qui, con voi, il Consiglio europeo a tirar fuori dai cassetti quella riforma ed approvarla.

“Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stata la sua ultima utopia”, ci ha ammoniti papa Francesco.

L’Europa spazio aperto, partecipato e solidale.

Cento anni fa, Mussolini in una famoso discorso ai Fasci di combattimento disse: “Dobbiamo riuscire a trasformare la paura in odio”. Noi, 100 anni dopo, dobbiamo trasformare la paura in solidarietà. Perché la solidarietà è moltiplicatore di benessere, e anche di sicurezza. Ma questo è possibile solo con una società viva, plurale, dialogante, sorretta da principi di umanità: non una società di monadi separate, ma di solide interrelazioni.

Chi, può continuare a dire, con fierezza, nel mondo di oggi che le libertà individuali sono un patrimonio inviolabile?

Se gli europei potranno continuare a dirlo, i cristiani potranno dire di aver fatto un buon lavoro.

Dobbiamo restare molto saldi.

E chi resta saldo? Solo colui – parafrasando Bonhoeffer – che non ha come criterio ultimo la propria ragione, il proprio principio, la propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù, ma che è pronto a sacrificare tutto questo.

“Ma dove sono questi uomini responsabili?”, si chiedeva il teologo.

La domanda di Bonhoeffer è terribile e vale per ciascuno di noi. Portiamocela sempre con noi, non per angosciarci, ma per riempirci di coraggio e speranza attrezzandoci anche, come consigliava Emmanuel Mounier, ad avere sempre una grande immaginazione.

L’economia che verrà

Articolo già apparso sulle pagine di http://www.orbisphera.org a firma di Antonio Gaspari

Viviamo tempi difficili. La guerra dei dazi, le politiche speculative, l’egoismo unilaterale che straccia gli accordi commerciali per inseguire guadagni a breve, minacciano la crescita economica mondiale. E al tempo stesso, il tentativo di rilanciare la corsa agli armamenti e il ritorno di politiche neocolonialiste per lo sfruttamento di popoli e territori, fanno temere un passo indietro nella civiltà e nella democrazia.

Uno dei principali motivi di preoccupazione è che, a fronte di una crescita economica mondiale sempre più grande, lo squilibrio tra ricchi e poveri non solo non diminuisce ma si allarga.

Nel 2018 i 26 individui più ricchi del mondo possedevano una ricchezza pari a quella di 3,8 miliardi di persone, cioè più di metà della popolazione mondiale. E non fa eccezione il nostro Paese dove, a metà 2018, il 20% più ricco degli italiani possedeva il 72% dell’intera ricchezza nazionale.

Il dato che preoccupa è che la ricchezza si concentra, sempre più, in pochissime mani. Lo squilibrio paradossale tra ricchi e poveri è visibile anche nella misura delle retribuzioni. Negli Stati Uniti dal 1978 i dirigenti di impresa hanno visto aumentare i loro compensi del 940%, mentre nello stesso periodo la retribuzione dei lavoratori è cresciuta solo del 12%. E in molti Paesi sviluppati i salari sono stagnanti e la copertura sanitaria e quella pensionistica stanno subendo una progressiva erosione.

Questi dati danno la misura dell’ingiustizia in atto. Ma come sempre accade nella storia, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.

In più parti del mondo, infatti, stanno emergendo gruppi economici e di pensiero che cercano di reagire a questi fattori di crisi proponendo significativi cambiamenti del modello economico dominante.

È accaduto così che duecento tra i maggiori imprenditori e dirigenti societari degli Stati Uniti hanno stilato un documento nel quale suggeriscono di riequilibrare l’attuale modello di crescita, limitando la speculazione e favorendo l’attenzione per le persone e l’ambiente.

In un manifesto pubblicato dalla “Business Roundtable” – un’organizzazione che riunisce esponenti dei CdA di imprese come Jp Morgan, Amazon, BlackRock, General Motors – si sostiene infatti che è necessario superare il dogma del «profitto ad ogni costo». E che occorre considerare l’impatto sull’ambiente, il rispetto dei consumatori e le condizioni offerte ai lavoratori.

Insomma, si ricomincia a parlare di un “capitalismo inclusivo” che non punti solo al profitto, ma consideri anche il tema delle ricadute sociali.

La “Business Roundtable” ha affermato, tra l’altro, la necessità di «investire sulla forza lavoro, sostenere le comunità locali e offrire ai lavoratori formazione e istruzione affinché possano sviluppare nuove competenze per un mondo in rapido cambiamento». Fattori, questi ultimi, che non sono antitetici al profitto ma che, anzi, sono gli unici in grado di garantire «valore a lungo termine per gli azionisti».

La proposta di un mondo più equo, con progetti innovativi sull’economia che verrà, è oggetto di dibattito anche all’interno della Chiesa cattolica.

Stanno crescendo, infatti, le adesioni all’incontro internazionale “The Economy of Francesco” che si terrà ad Assisi dal 26 al 28 marzo 2020. Incontro incentrato sulle proposte di Papa Francesco per una nuova economia di condivisione.

Hanno già confermato la loro presenza i Premi Nobel Muhammad Yunus e Amartya Sen, nonché gli economisti e attivisti per i diritti umani Bruno Frey, Tony Meloto, Carlo Petrini, Kate Raworth, Jeffrey Sachs, Vandana Shiva, Stefano Zamagni.

La finalità dell’incontro di Assisi è quella di «stringere con i giovani, al di là delle differenze di credo e di nazionalità, un patto per cambiare l’attuale economia e dare un’anima a quella di domani perché sia più giusta, sostenibile e con un nuovo protagonismo di chi oggi è escluso».

Amatrice ricorda don Giovanni Minozzi. Accanto agli orfani della guerra

Articolo già pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Bruno Bignami

Amatrice commemora l’illustre concittadino don Giovanni Minozzi in occasione del centenario dell’Opera nazionale per il Mezzogiorno d’Italia (15 agosto 1919 – 15 agosto 2019). Il filo rosso del suo impegno educativo, già maturato nel solco tremendo della Grande guerra, è confluito cento anni fa nella cura per gli orfani e si proietta nel futuro dopo i tragici eventi del terremoto. 

L’idea di aprire l’Opera per il Mezzogiorno nasce nel novembre 1918, a conclusione della guerra, quando don Giovanni, nato a Preta di Amatrice, espone il suo progetto all’amico barnabita Giovanni Semeria, già cappellano al Comando generale di Cadorna. Viene pensato come un impegno concreto per il dopo-conflitto. In quel momento don Minozzi rivela anche la sua profonda spiritualità: «Unire la coltura alla carità ho sempre desiderato. La coltura senza la carità è arida, infeconda: solo la carità anima tutto. Cristianesimo senza ardore di carità attiva mi pare un non senso, un assurdo. Amo Ozanam per questo».

Don Minozzi era partito per il fronte orientale italiano il 10 giugno 1915 in servizio sul secondo treno ospedaliero allestito dal Sovrano Ordine Militare di Malta. Era destinato nel Cadore, a Calalzo, in provincia di Belluno. Da subito, intende capire come funziona realmente la prima linea, vuole conoscere quali sono le vere necessità dei soldati, si prepara ad assumere un ruolo attivo all’interno dell’«inutile strage». Il suo diario, Ricordi di guerra, è una ricostruzione fedele del periodo, senza trascurare crisi e difficoltà. Egli, da patriota convinto, non si lascia andare a esaltazioni mitiche degli anni bellici. Anzi, ne evidenzia aspetti problematici e questioni irrisolte. Descrive la cruda realtà, mettendo in luce l’inadeguatezza dei quadri dirigenti. Parla di «generali limitati d’esperienza, corti di vista, mediocri d’ingegno e scarsamente quindi capaci di comando», presenti numerosi nello schieramento italiano al fronte «per moltissimo tempo». 

Si deve quindi al suo genio pedagogico l’idea di creare dei luoghi di umanizzazione a ridosso della linea del fronte per creare spazi alternativi alle osterie o alle case di prostituzione e per offrire occasioni di sano incontro per i giovani militari. La prima istituzione è la “Sala ritrovo”, nata a Calalzo di Cadore già nel giugno 2015. L’organizzazione della Sala è la risposta a una domanda: cosa fare davanti a centinaia di militari che si ammassano nel centro del paese annoiati e «inaspriti in un ozio acido e rissoso»? 

Dalla “Sala ritrovo” alla “Casa del soldato” il passo è breve. Il progetto matura a fine estate 1916 e parte dalla seguente considerazione educativa di don Minozzi: «Farli riposare poi, i combattenti, farli svagare bisognava, confortarli, rasserenarli, riconciliarli con la vita, di tra le lacerazioni cruente e le ingiustizie svergognate, distrarli come ragazzi ammusoniti e stanchi, strapparli, arieggiandoli, alle fissazioni di patimenti che si esacerbavano crudi in gorghi vorticosi. Cordialità larghissima si chiedeva insomma, interessamento fraterno per tutto quanto riguardava loro personalmente e le loro famiglie; comprensione pronta, immediata; assistenza affettuosa, sincera all’esterno; animo aperto a ogni forma di generosità più squisita. Il resto veniva, sarebbe venuto da sé».

L’idea delle “Case del soldato” non nasce però a esclusivo servizio dei militari. Don Minozzi si rende conto, infatti, della necessità di creare occasioni di incontro e di formazione anche per il clero in guerra. Il divario tra i cappellani e i preti-soldato, confratelli destinati a mansioni più umili e faticose, è avvertito sin dai primi mesi in guerra. Senza una cura spirituale «s’inacidivano i poveri preti sbandati, inquieti, nervosissimi», sempre più abbandonati a se stessi. I cappellani, invece, «ringalluzziti nella uniforme di ufficiali» e in condizioni economiche più agiate, stanno alla larga dagli altri, li guardano dall’alto in basso, li considerano inferiori, come truppa e massa da comandare.

Le “Case del soldato” si strutturano sulla falsariga delle “Case dell’operaio” cresciute nell’ambito dell’Opera Bonomelli e creano un circuito virtuoso di attività: dalla possibilità di leggere libri al gioco organizzato a gruppi o per masse (lotterie, albero della cuccagna), dalla musica al cinema, dallo sport (bocce, calcio, ginnastica) al teatro, dalla scuola per analfabeti alla possibilità di scrivere lettere alla famiglia, dalle conferenze spirituali e culturali ai momenti di svago, dalla rivendita alimentare a esperienze di animazione.

Che la carità sia l’unica seria risposta ai drammi della guerra diventa la convinzione di don Minozzi, condivisa con padre Giovanni Semeria. Inter arma caritas è il titolo di una conferenza che il barnabita tiene a Padova il 17 aprile 1917. Dalla loro amicizia si sviluppa il progetto dell’Opera nazionale per il Mezzogiorno d’Italia, che aprirà i battenti il 15 agosto 1919. L’istituzione si impegna ad accogliere ed educare gli orfani, specialmente nelle regioni del sud Italia, ovvero in quei territori più dimenticati e dove invece si era realizzato il maggior numero di reclute di soldati. Il 25 luglio 1917 l’idea è proposta a Papa Benedetto XV. In una lettera Semeria espone le motivazioni delle “Case di orfani di guerra”. «Orfano io stesso di padre per la guerra del 1866, verso gli orfani di questa immane guerra mi sento personalmente inclinatissimo». L’attenzione al Meridione è frutto di una solidarietà maturata negli anni del conflitto: chi ha pagato di più le conseguenze della guerra sono i figli dei contadini. Per questo bisognava educarli affinché rimanessero legati alla loro terra, senza finire nel facile miraggio dell’emigrazione o del malaffare.

All’Opera, pensata e diretta da padre Semeria e da don Minozzi, collaborano da subito alcune congregazioni religiose femminili, che si mettono a disposizione per il bene del progetto. Per darvi continuità don Minozzi fonderà, nel 1931, la congregazione religiosa della Famiglia dei discepoli e nel 1940, con la collaborazione di madre Maria Valenti, la Pia associazione femminile delle Ancelle del Signore. Anche molti laici danno il loro contributo perché l’istituto possa camminare e diventare provvidenza per numerosi ragazzi rimasti orfani di guerra.

Il seme gettato nel solco di un evento terribile come la guerra giunge così a piena maturazione. Si fa strada come opera benemerita nel secolo scorso, a favore degli ultimi tra gli ultimi: i bambini abbandonati e rimasti orfani. Don Minozzi porta a compimento una vocazione squisitamente educativa del suo ministero. La sua paternità verso i giovani soldati, la cui umanità era in pericolo nel degrado della guerra, confluisce in una paternità sostitutiva nei confronti di chi non avrebbe più potuto abbracciare il padre terreno. Ha testimoniato una vita illuminata dall’urgenza della carità (2 Cor 5,14).

A cento anni dalla fondazione, Amatrice vive una stagione di memoria e di ricostruzione. Il dramma del recente terremoto — di cui proprio il 24 agosto ricorre il terzo anniversario — rimane una ferita aperta. Anche l’Opera ha subito danni irreparabili ed è stata nei giorni del sisma luogo del compianto e del lutto. Il progetto della “Casa del futuro” rappresenta il tentativo della comunità cristiana odierna di custodire la passione educativa di don Minozzi. Sui resti dell’Opera per il Mezzogiorno, che occupa 18 mila metri quadrati di spazio, sorgerà una struttura con quattro corti, in grado di accogliere il Museo diocesano (Muda), la sede dell’Opera nazionale con servizi per anziani, un punto di accoglienza per ragazzi e un luogo per la formazione di giovani alle arti e ai mestieri. 

La fantasia educativa di don Minozzi non conosce soste…

Via Francigena: candidatura a patrimonio Unesco

L’antica Via che nel medioevo univa Canterbury a Roma e ai porti della Puglia è stata riscoperta dai moderni viandanti, che si mettono in cammino lungo un percorso splendido e sorprendente.

Dal 2001 l’Associazione Europea delle Vie Francigene coordina lo sviluppo e la valorizzazione di un itinerario che attraversando l’Italia e l’Europa ripercorre la storia del nostro continente.

Proprio per questo prosegue l’iter della candidatura della Via Francigena a Patrimonio dell’Unesco (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura).

Entro l’autunno verrà presentato e condiviso con i quattro ministeri di beni culturali di Gran Bretagna, Francia, Svizzera e Italia (i Paesi lungo i quali si snoda l’itinerario) lo studio tematico europeo sul riconoscimento della Francigena come patrimonio mondiale.

Un progetto nato per unire, l’Europa del Nord e l’Europa mediterranea.

Dazi: la vendetta della Cina affossa la soia in borsa

La vendetta della Cina contro i nuovi dazi di Trump affossa le quotazioni della soia Usa e rischia di provocare uno sconvolgimento globale dei mercati agricoli oltre che di quelli finanziari. E’ quanto emerge da una analisi della Coldiretti sull’andamento dei prezzi al Chicago Board of Trade, la Borsa di riferimento mondiale per il commercio agricolo, dopo l’annuncio della Cina di nuovi dazi su 75 miliardi di dollari di beni ‘made in Usa’ come ritorsione ai dazi americani operativi dall’1 settembre sull’import di prodotti cinesi.

Ad essere colpito è anche il prodotto simbolo delle esportazioni agricole statunitensi in Cina che per sostenere l’aumento del consumo di carne con i propri allevamenti è – sottolinea la Coldiretti – il principale acquirente mondiale della soia, ma ora la guerra dei dazi in atto con gli Usa potrebbe cambiare i normali flussi di mercato. La soia – continua la Coldiretti – è uno dei prodotti più coltivati nel mondo, largamente usato per l’alimentazione degli animali da allevamento, con gli Stati Uniti che si contendono con il Brasile il primato globale nei raccolti.

La decisione cinese colpisce i farmers americani all’indomani dell’avvio del piano da 16 miliardi di dollari predisposto dal governo americano per sostenere gli agricoltori colpiti proprio dagli effetti della guerra dei dazi con la Cina e – precisa la Coldiretti – rischia di minare il consenso del presidente Donald Trump nelle campagne.

La decisione interessa l’Unione Europea che – continua la Coldiretti – è il secondo importatore al mondo di soia ed ha praticamente raddoppiato le  importazioni di semi di soia statunitensi dal luglio 2018 al giugno 2019 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente con gli Stati Uniti che sono oggi il maggiore fornitore di semi di soia del Vecchio Continente, per effetto dell’accordo raggiunto tra il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker e il presidente americano Donald Trump per scongiurare la guerra dei dazi tra storici alleati.

Il problema – precisa la Coldiretti – coinvolge direttamente l’Italia che è il primo produttore europeo con circa il 50% della soia coltivata e un raccolto pari a tre volte quella del secondo paese che è la Francia. L’estendersi della guerra dei dazi tra i due giganti dell’economia mondiale ai prodotti agroalimentare apre scenari inediti e preoccupanti nel commercio mondiale anche con il rischio di anomali afflussi di prodotti sul mercato comunitario che – conclude la Coldiretti – vanno attentamente monitorati per verificare l’opportunità di attivare, nel caso di necessità, misure di intervento straordinarie.

L’attività fisica riduce il rischio di morte precoce

Ad affermarlo è un nuovo studio realizzato dai ricercatori dell’Università di Oslo e pubblicato sul British Medical Journal. Gli autori hanno analizzato i dati appartenenti a oltre 36.000 adulti di almeno 40 anni seguiti per diverso tempo, giungendo alla conclusione che ogni tipo di attività fisica si associa a un minor rischio di decesso, destinato invece ad aumentare, al contrario, per chi conduce una vita sedentaria.

Gli studi presi in considerazione dai ricercatori hanno utilizzato accelerometri per misurare i minuti di attività fisica totale di 36.383 adulti dall’età media di 62 anni. Una camminata lenta o compiti come cucinare e lavare i piatti erano considerati attività fisiche leggere, mentre tra quelle moderate rientravano le camminate veloci o passare l’aspirapolvere. Infine, scavare, fare jogging o portare carichi pesanti venivano considerate attività fisiche intense. Durante il periodo di follow-up delle persone esaminate, pari a sei anni, 2149 partecipanti sono morti: dopo aver considerato altri fattori che avrebbero potuto potenzialmente influenzare i decessi, i ricercatori hanno concluso che, a prescindere dall’intensità, il rischio di morte fosse minore nei soggetti che svolgevano attività fisica.

Riflusso gialloverde? Allora le elezioni diventano inevitabili.

Non bisogna essere indovini per scorgere dietro le parole asciutte e severe di Mattarella, così come sono state pronunciate l’altra sera al Quirinale davanti alle telecamere, il senso di irritazione per l’ambiguità dei partiti. Il Presidente ha fatto intendere che la proroga concessa deve portare a un risultato concreto e nondimeno coerente.

Ora, le trattative per una nuova intesa di governo vedono il M5S e il Pd impegnati a rimuovere gli ostacoli – primo tra tutti quello della designazione del premier – che gli avversari della svolta cercano di ingigantire e moltiplicare. Il rilancio del Conte bis mette in imbarazzo Zingaretti e lo espone all’accusa di cedimento su tutta la linea nel confronto con i Pentastellati. L’impressione, d’altra parte, è che Di Maio e Grillo abbiano esigenza di confermare il premier uscente perché non sono in grado di avanzare ipotesi alternativa. Dunque, più che un rilancio sarebbe un arrocco.

D’altronde Salvini, lasciando ancora ai margini Berlusconi, ha dato l’ennesima prova di acrobazia politica annunciando di essere pronto a ricomporre il quadro gialloverde, anche con Di Maio Presidente del Consiglio. Ormai siamo all’improvvisazione come arma privilegiata della selvatichezza politica, con il distacco da un sano principio di razionalità. Sì sta superando il limite oltre il quale si palesa la perdita del senso della decenza. I singoli fotogrammi di questa crisi agostana restituiscono volta a volta una immagine diversa della realtà. Anche i più acuti commentatori, nel valutare gli sviluppi della trattativa in corso, sono costretti ad arrendersi dinanzi alla mutevolezza di umori e di gesti. Può accadere ancora di tutto, si dice.

In realtà, nessuno può illudersi che la crisi possa chiudersi all’insegna del rocambolesco. Il Capo dello Stato, indisponibile a coprire qualsiasi accrocco di potere, ha fatto presente che martedì non tirerà le somme di questa lunga verifica in base agli annunci e alle smentite, e neppure in base agli ordini o ai contrordini che si sovrappongono a ritmo serrato, ma avvierà un nuovo giro di consultazioni per acquisire formalmente le conclusioni a cui saranno pervenuti i singoli partiti. Lo spettacolo di una crisi che si avvita su stessa, per poi additare  il ripristino del vecchio quadro di governo, sarebbe lesivo della credibilità del Paese. Che Mattarella possa soggiacere a tale eventualità è da escludere. È più facile che sciolga le Camere.

Monda, Rete Bianca va avanti.

La sfida dell’uomo politico, e dell’uomo in generale, è vivere il proprio tempo. L’azione, la scelta, sono sempre rivolte all’oggi, al momento attuale. Ciò suonerà scontato, eppure sembra che da un po’ si vada sbandierando immagini svuotate di senso, simboli morti, categorie inutili, magari trasposte maldestramente nel presente da un passato mitico in vista di un’idea di futuro vaga e confusa. Non mi riferisco soltanto alle ultime eclatanti esposizioni di simboli religiosi. Il vero dramma della politica attuale è il continuo stallo, dovuto a uno strutturale rifiuto del tempo presente, che è «alienato» e trasfigurato in sensazionali quanto sommari slogan o in vecchie e sbiadite ricette. Il tutto, appunto, nel segno di una alienazione, una astrazione dalla realtà concreta e vivente, in nome di un «punto di vista», di una parte, che pretende di detenere «la» soluzione, di incarnare l“«Italia migliore».

Al contrario, appare ormai evidente, per chi sa leggere gli eventi, che il momento richiede un enorme sforzo di visione d’insieme, a livello nazionale e internazionale, visione che a sua volta non può prescindere da un passo indietro rispetto a faziose prese di posizione, una maggiore sensibilità e responsabilità rispetto al bene comune. Comune, cioè non quello che una parte ritiene sia il bene «generale», «dei più», o «dei migliori». Comune, cioè prioritariamente rivolto all’insieme, innanzitutto nel prendere le cruciali decisioni macroeconomiche e internazionali e nell’attenta revisione dei meccanismi democratici e dell’intervento dello Stato sul territorio.

In questo quadro le associazioni politiche di ispirazione cattolica hanno una capacità specifica e dunque un compito particolare. La capacità è appunto quella visione d’insieme, che riabiliti e rifondi la mediazione come stile fondamentale del fare politica, rilanciando un dialogo costruttivo con tutte quelle forze anche laiche che da tempo non si sentono rappresentate. Il compito è cambiare passo. Decidersi per una visione condivisa innanzitutto sui temi specifici della legge di bilancio, della visione di Europa, della riforma elettorale e delle autonomie locali, organizzare nei prossimi giorni almeno quattro incontri costitutivi di linee programmatiche su tali temi (ad esempio su «nuove politiche distributive», «nuova concertazione europea», «nuova democrazia partecipativa» e «nuovo ruolo dello Stato sul territorio»). Definita una linea precisa, si tratterà di proporla, lottare democraticamente per farla condividere e mettere in pratica dall’intera comunità.

Questo compito è diretta conseguenza dell’eredità cattolico-democratica e non semplice allarmismo della contingenza. Occorre agire e compiere oggi ciò che naturalmente la nostra storia e il nostro convincimento ci suggeriscono. Bisogna farlo al giusto ritmo, senza perdere tempo per paure o tatticismi. E bisogna farlo insieme, uniti pur nella diversità di provenienze, innanzitutto lavorando per una struttura organizzativa comune fra chi ha già condiviso (Costruire Insieme, Politica Insieme e Rete Bianca) un primo passo e altri che ne vogliano far parte, dentro e fuori del mondo cattolico, pena l’affievolirsi del potenziale carico di speranza dell’attuale esigenza. Tale struttura al principio dovrà essere in fieri, aperta, e sfruttare la sua dialettica democratica interna, senza nessun verticismo, per elaborare le serie proposte di cui ha bisogno la comunità Italia nel momento presente e nella prefigurazione del suo futuro possibile.

Il tempo si è fatto breve, occorre rispondere con intelligenza e coraggio.

*Dante Monda, Coordinatore nazionale Rete Bianca

La crisi è di sistema. Le opportunità per i cattolici.

Può succedere ancora tutto, in questa crisi (non di governo: di sistema) che ha colto il Paese alla sprovvista e la sua classe dirigente sostanzialmente impreparata. Ma se la crisi, per l’appunto, non è solo di governo ma di sistema vuol dire che, al di là della soluzione che verrà trovata la prossima settimana, i problemi di fondo sono destinati ad essere affrontati radicalmente, pena il loro riproporsi incancreniti, nel breve o medio periodo.
Al momento sembra profilarsi l’ipotesi di un governo che sarà chiamato a coniugare una riforma non condivisibile della Costituzione con la necessità di porvi automaticamente rimedio mettendo mano alla legge elettorale. Un’altra conseguenza, purtroppo difficilmente eludibile, sarà il varo di una legislazione in materia di fine vita che introdurrà l’eutanasia in Italia. Le cose vanno viste insieme.
Con la legge sull’eutanasia che si profila (non è stata nemmeno abbozzata, ma tutti sappiamo cosa pensino a riguardo Pd e Cinque Stelle) si compirà il processo di radicalizzazione, nel senso pannelliano del termine, dell’ordinamento italiano. Un ciclo che si compie.
Con la riforma della Costituzione il populismo grillino avrà finalmente il suo scalpo: il Palazzo è stato punito. Un successo che toglierà al M5S la sua ragion d’essere, perché dopo sarà sempre più difficile trovare un nemico contro cui puntare l’indice, in cerca di facili consensi, mentre si faranno sempre più inevitabili le difficili scelte in materia di conti pubblici, politica economica ed emergenze sociali.
Il mondo vede all’orizzonte una nuova possibile recessione: vacche magre, qualcosa andrà fatto e la circostanza sembra fatta apposta per alimentare fin da subito le crepe tra i due alleati.
I 10 punti programmatici di Di Maio ed i tre di Zingaretti non sono certo da respingere a priori: sono un elenco di alcune delle cose da fare.
Ad essere insufficiente è la caratura di chi è chiamato ad applicarli nei prossimi mesi: manca una vera progettualità, manca quel collante tra rappresentanti e rappresentati che è conditio sine qua non per guidare una democrazia avanzata in una navigazione su acque basse.
Manca, infine, la coscienza di un dato politico di portata strategica: da una legge elettorale proporzionale (proporzionale puro, sia chiaro: anche l’orribile Rosatellum ha un impianto proporzionale) non potrà che nascere un quadro politico rinnovato alla sua radice. Cadrà il sottile ricatto del voto utile, riaffioreranno le culture politiche cui è stata messa la mordacchia dopo il 1992, le identità (quelle vere, non quelle valligiane) saranno protagoniste del gioco democratico.
In una parola, si apriranno spazi finora negati a chi è portatore di una cultura forte e di mediazione, come quella cattolica. Nella sua versione popolare, nella sua versione democratica.
Un appuntamento con la Storia al quale dovremo farci trovare pronti, se mai si presenterà. Il processo di aggregazione dovrà essere rafforzato in questi 18 mesi che durerà, presumibilmente, il prossimo esecutivo.
Ed un salto di qualità sarà necessario, ad iniziare da uno sforzo sempre più ampio in quelle iniziative che sono state imbastite (pensiamo alla raccolta di firme in favore del Terzo Settore) allo scopo di superare la sterile divisione tra cattolici della morale e cattolici del sociale, una distinzione che sa molto di bipolarismo maggioritario.
Quindi una più forte strutturazione sul territorio e la messa a punto di una serie di proposte concrete da presentare ad un possibile elettorato di riferimento. I tempi ci chiamano.
C’è solo una cosa peggiore di star fermi a guardare, seduti su una staccionata: capire che si può scendere in campo, e scegliere di restare a guardare.

La scommessa cattolica non è la santa alleanza dei sovranisti. Parla Magatti

Articolo già apparso sulle pagine di Formiche.net a firma di Francesco Gnagni

“La questione dei simboli religiosi va compresa più in profondità. Salvini fa queste cose richiamandosi a una visione ben precisa, che ha riferimenti in Europa sicuramente in Orbán, e poi in Steve Bannon. Dove cioè, per quanto riguarda il mondo cristiano, ci sono componenti che pensano che la soluzione dei nostri problemi economici, sociali e politici, passi da una nuova alleanza tra politica e religione”. Parla senza mezzi termini il sociologo Mauro Magatti, docente di sociologia generale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e in edicola per i tipi del Mulino con “La scommessa cattolica. C’è ancora un nesso tra il destino delle nostre società e le vicende del cristianesimo?”, testo scritto a quattro mani con la sociologa Chiara Giaccardi, in questa conversazione a tutto tondo con Formiche.net, a margine del suo intervento al Meeting di Rimini sul tema del futuro di famiglia e lavoro.

C’è persino chi sostiene la tesi forte che il principale nemico di Matteo Salvini è Papa Francesco.

Non c’è dubbio. Questi gruppi, e questa visione, che non è solo cattolica, perché in America interessa più i gruppi evangelici, vede in Papa Francesco un nemico, un antagonista. La cosa va presa sul serio perché questa risposta, che poi va sotto il titolo di sovranismo, la penso problematica sia dal punto di vista politico che da quello religioso. E ha una transizione in atto, che nasce dalle contraddizioni, per usare un termine marxiano, del modello di sviluppo dal 1989 al 2008, che va a toccare dimensioni spirituali.

Spieghi meglio.

Il problema è capire la portata delle questioni che sono in gioco, che non sono solo economiche, tecniche o di efficientamento, ma arrivano a toccare l’idea stessa di libertà, di futuro, di crescita, e quindi, come Max Weber aveva detto, delle dimensioni spirituali. Fino a quando, in altri campi anche del sistema politico, non si fa i conti con questa dimensione spirituale, si lascia campo libero a queste incursioni che sono problematiche ma che hanno la forza di toccare un punto vero. Che altrove, invece, non è visto.

A primo impatto, se oggi si ripete che la società appare sempre meno religiosa, la politica sembra avere l’atteggiamento inverso: c’è chi sbandiera rosari e chi gli si oppone citando passi del Vangelo. Che momento è quello che stiamo vivendo? C’è una rinascita del sentimento religioso?

È evidente che in tutto il mondo dopo il 2008 si assiste al ritorno della politica, da quando cioè si parlava di un mondo unificato e della fine della storia di Fukuyama, e si pensava che bastassero il mercato e le istituzioni liberali e che non ci sarebbe stato nemmeno più bisogno della politica, e al ritorno della religione. Che noi vediamo dal versante cristiano, ma sappiamo nell’islam quanto è importante, sappiamo per gli indù quanto è importante, e persino in Cina c’è la riscoperta del confucianesimo come base del modello economico-politico che stanno costruendo.  Quindi siamo in presenza di un ritorno della politica e della religione.

Qual è il problema?

Il problema è capire questo ritorno che ragioni ha, evitare che produca risultati nefasti. È questo un elemento problematico del sovranismo: il ritorno della religione e della politica che si alleano per costruire una specie di nuova santa alleanza contro il cosmopolitismo, la tecnoscienza. Perché è destinato a produrre frazioni, contrapposizioni, lotte, muri e guerre di civiltà. Per questo abbiamo scritto il libro “La scommessa cattolica”, perché il tema non è uscire da questa contrapposizione tra sovranismo e cosmopolitismo astratto, una laicità radicale dove non c’è nessuno spazio per la religione e la politica ma ci si immagina un mondo solo organizzato dalla tecnoeconomia. È invece partendo dalla crisi profonda e antropologica che c’è in atto, soprattutto in Occidente, che bisogna riaprire il dialogo tra politica, religione, economia e tecnica. Che è la nostra forza. Naturalmente nella distinzione delle sfere, senza commistioni strane, ma riconoscendo l’importanza di tutti questi elementi.

Parlando dell’uso di simboli religiosi in politica il presidente della Cei Bassetti ha detto che “la religiosità si esprime in Chiesa e nei luoghi della fede”. È sempre stato così oppure si tratta di approccio nuovo della Chiesa in questo preciso momento storico?

La storia del cristianesimo è la storia dei due soli, e fin dall’inizio si è distinta la sfera religiosa e quella politica. La distinzione è sempre stata molto problematica, non è mai stata pacifica. Ma è un elemento distintivo della cultura occidentale cristiana. Questo è un valore che va difeso nel duplice senso: evitando gli sconfinamenti diretti della religione in politica, ma dall’altra parte comprendendo nella sfera pubblica che la religione non è solo un fatto privato ma un fatto pubblico, e collettivo. Questo è il tratto distintivo della cultura occidentale cristiana e della laicità.

Eppure l’unica che regna sovrana sembra la confusione.

Si fa molta confusione nel duplice senso: ci sono molte spinte laiciste, che negano la religione in qualunque ruolo se non in quella intimamente privata. Ed è un errore, a cui risponde, in questo momento storico, il fondamentalismo e il populismo, che mescolano in maniera impropria politica e religione. L’intervento di Bassetti credo che andasse a ristabilire questa duplicità, e questa articolazione, che non dobbiamo smarrire perché è un elemento fondativo della nostra civiltà.

Il suo ultimo libro, scritto a quattro mani con la sociologa, oltre che sua moglie, Chiara Giaccardi, si intitola  “La scommessa cattolica”. Qual è questa scommessa?

Quella di superare da una parte un atteggiamento di prosopopea nei confronti della modernità e dei problemi contemporanei solo come portatori di disastri, ma allo stesso tempo anche di evitare il complesso di inferiorità che spesso si respira nel mondo cattolico. Come se in realtà le soluzioni vere le avesse solo la cultura laica… Superare questa ambivalenza vuol dire recuperare la consapevolezza che il cristianesimo possa avere qualcosa da dire di inedito e di originale alle questioni che abbiamo davanti.

Qui l’articolo completo 

I diamanti della regina

Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Edoardo Rialti

«Ci sono re e regine segrete, monarchi e sovrane silenziosi la cui grandezza non sta affatto nel successo e nel riconoscimento pubblico, ma nella fedeltà silenziosa a un ideale umano, a una testimonianza che, intercettata da un animo desto, ha la capacità di restituire alla trama stessa dell’esistenza quotidiana la sua gloria perenne ma tanto facilmente negletta, quello splendore che per Pindaro corrispondeva alla fugace sovrapposizione della vita umana e quella divina. Cristina Campo così definiva il suo amato Boris Pasternak, ma una simile corona si potrebbe benissimo offrire a lei stessa. La sua è una voce deliberatamente altra, “inattuale” direbbe Nietzsche e quindi straordinariamente necessaria com’è sempre la voce autentica della poesia, che rifugge dai facili applausi, dal sentimentalismo superficiale a cui i social l’hanno tanto dolorosamente ridotta, e invece è sempre una commistione della brezza leggera colta dal profeta Elia e del ruggito dell’angelo dell’Apocalisse. Il suo desiderio per un epitaffio che recasse scritto «Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto meno» riassume la vocazione di tutta una vita, e costituisce un salutare contro veleno alla banalizzazione della comunicazione nel mondo contemporaneo che consente di tornare alle radici della scrittura, della lettura, e quindi della comunicazione stessa, quella magia che ci permette di dialogare attraverso lo spazio e il tempo, come la definì Peter Kreeft, tra vicini di autobus o attraverso i secoli.

Come affermò Alberto Spina, «l’arte di scrivere presuppone l’arte di leggere, e l’arte di leggere a sua volta reclama la difficile, impervia arte di ereditare» e Cristina Campo, che iniziando a conversare con una nuova conoscenza domandava subito «Cosa sostiene la sua vita? Ossia cosa sta leggendo?» sarebbe stata profondamente d’accordo. La sua vita e la sua scrittura sono una lunga, costante ricerca delle proustiane sources de Vivonne, un percorso a ritroso “dalle foci alle sorgenti” come nella poesia del giovane Luzi, per tornare a quella fonte discreta d’acqua pura che costituisce il cuore d’ogni esperienza autentica, ma è anche una lunga galleria di ritratti amanti, o, quanto meno da principio, un altare come quelli commisti dei romani imperiali, sui quali si veneravano al tempo stesso Socrate, Iside e Cristo. Nel corso del tempo, quelli che anche Flannery O’Connor avrebbe definito «gli occhi che chiedevano tutto» del Pantocrator bizantino avrebbero bruciato e invaso ogni altro spazio, ogni altra lealtà.

Il mio debito verso di lei è di quelli che non si pagano. Ci sono stati momenti nei quali l’ho sentita più contemporanea di volti che incrociavo quotidianamente. Lo posso solo accennare, abbozzare. Lo scorso anno, in mesi di grande travaglio interiore, sono partito per una settimana di silenzio a Parigi, e ovunque mi recassi avevo sempre con me una sua fotografia, dono di un amico poeta, come un talismano, o i dagherrotipi che i soldati custodivano in battaglia. Un gesto semplice e perfino infantile, ma che per me accennava a una dinamica interiore complessa e importante, espressa assai meglio da Richard Blunck su Nietzsche e Céleste Albaret su Proust.

I grandi artisti e pensatori che amiamo e ammiriamo sono presenze e testimoni che non desideriamo semplicemente leggere: desideriamo vivere con loro, camminare con loro, guardare con loro, giacché dentro e oltre ogni parola e gesto ci testimoniano uno stile di stare al mondo, un’arte di esistere. Lei stessa lo affermava di talune foto che costituivano delle piccole icone d’un certo ideale umano, come quella celebre di Checov col cagnolino. La vita è arte, e l’arte è vita, e l’esistenza di Vittoria Guerrini (1923-1977), ossia Cristina Campo, tra Bologna, Firenze e Roma descrive una parola che, sempre minata dalla malattia, muove i primi passi nella luce dorata dei giardini fiabeschi della sua infanzia, attraversa un’adolescenza fremente e inquieta sotto i bombardamenti, la giovinezza fieramente bella e appassionata delle tante battaglie culturali, e una maturità che conosce grandi consolazioni e terribili strazi, l’amore per Dio e Elémire Zolla, ma anche il rapporto tempestoso con quest’ultimo, le angosce per la vituperata riforma liturgica nelle lingue nazionali e la battaglia al fianco di Lefebvre, “l’intervento Ottaviani”. Un viaggio che si apre nella grazia e l’eleganza e si spegne prematuramente, dopo aver sperimentato a lungo la morsa stritolante dell’“orribile nodo”, l’angoscia e la depressione.

A ripercorrerla, si ha l’impressione di assistere al forgiarsi e saggiarsi d’una autentica spada di Toledo, una lama tagliente, che però sa ferire anche gli amici e perfino se stessa, con alterigia, o al progressivo svuotarsi d’un vasto palazzo, finché non resti abitata una sola stanza vuota, quasi fosse un eremo. Come scrisse la Yourcenar di Kavafis (la cui esistenza fu per così dire l’opposto ma non la negazione di Cristina Campo) «qualunque cosa facciamo, ritorniamo sempre alla cella segreta della conoscenza di se stessi, insieme stretta e profonda, chiusa e traslucida, che è spesso quella dell’edonista, o dell’intellettuale, puro». A proposito della Campo, l’amico Mario Luzi parlò d’una specie di austerità tremenda, e ammise che c’era più che qualcosa di lei nella protagonista del suo Ipazia, dedicato significativamente al Leone Traverso che con Cristina ebbe una relazione importante e difficile. E fu proprio Traverso che, in una lettera dove cercava di spiegare perché un uomo come lui non riuscisse a stare con una donna come lei, esplicitò che talvolta le persone non fuggono dai demoni che scorgono negli altri (i diavoli altrui sono spesso una scusa per indulgere nei propri) ma dagli angeli, dalla purezza, dall’intensità, dalla costanza. Aveva ragione Dante a svenire davanti a Beatrice che lo rimprovera aspramente. Traverso parla dell’intensità senza sconti di Simone Weil e aggiunge: «Quella è la gente del tuo paese — come dicevi — non io: quell’impeto raccolto, quella perseveranza oltre la speranza, quel respiro anche nell’angustia più tremenda, voluta. Veramente, di fronte a simili esemplari umani, ci si domanda che ci stiamo a fare qui noi (io), se non a dar peso alla terra: affannati solo al nostro cammino di formiche ostacolate, affranti da briciole». Anche un’amica confidò: «Era difficile farle compagnia. Però aveva dentro una fiamma. Bastava toccare un argomento che le stava a cuore per vederla accendersi. La parola mistico viene da muein che vuol dire accennare. Il mistico è colui che fa intravedere ma non è mai esplicito. In questo senso Cristina era una mistica. Avevi l’impressione che dietro ci fosse qualcosa di enorme».

Questa vastità che sovrasta e compenetra le sue parole e i suoi gesti è ben più che il leitmotiv della sua produzione. Si tratta più di un clima emotivo e spirituale, di un orizzonte dentro il quale collare i singoli oggetti, di un mistero sempre accennato, appunto. È il fuoco segreto che anima le sue lettere, che giustamente la biografa Cristiana De Stefano definì tra le più belle della letteratura italiana, al pari degli epistolari di Tasso e Leopardi. A ogni passo vi si incontra una straordinaria delicatezza e attenzione, per sé, per i ritmi della propria vita interiore, e per gli altri, dagli amici d’una vita agli incontri d’un attimo, in stazione o in chiesa, dal Corrado Alvaro che la Campo tenne agonizzante tra le braccia, sussurrandogli che ovunque fosse caduto, da questa o quella sponda della morte, non avrebbe trovato altro che amore, alla popolazione in lotta di Cipro o ai senzatetto di Roma. È in una lettera a Traverso che la Campo si ritrae improvvisamente dalla possibilità che alcuni suoi scritti possano entrare nei cerchi concentrici delle recensioni, come se persino questa tenuissima attenzione mediatica la privasse dell’unica cosa che conta, dell’unico ossigeno che consente di respirare: «Ti ho già detto mille volte, credo, che la letteratura (parola orribile) non è un fine per me, non uno scopo, ma solo un mezzo, uno dei modi (infiniti) di vivere con libertà e solitudine… per piacere, Leone, aiutami a conservare il mio incognito, a scrivere ancora con piacere, aiutami a rimanere nel silenzio e nella pace che sono la sola libertà a cui io tenga». All’amica d’una vita, Mita, che attraversava un momento di difficoltà emotiva, suggerì: «Non credi che potrebbe farti bene — e un giorno aiutarti molto a comprendere — se tu scrivessi in un quaderno sigillato (per te sola, con l’idea di bruciare tutto tra un anno) tutto quello che vivi? “E si tratta precisamente di vivere tutto” disse Rilke, che qualche volta era molto grande anche lui. Quello che stai vivendo è prezioso. Scrivi un diario senza colori — ma tutto ci dev’essere, tutto. E dimentica il mondo, là dentro; e te stessa, e i tuoi amici — e Dio stesso. Di’ tutto e nient’altro. È importante». Ma vi si legge anche l’indignazione per chi, sprovvisto delle sue risorse, viene privato della bellezza necessaria a tutti da un mondo che devasta e impoverisce la nostra vita.

Certe sue pagine sulla prigionia spirituale dei quartieri moderni nelle periferie romane sembrano scritte da Pasolini, così diverso eppure così affine nel denunciare la fine di un mondo spirituale: «In quelle poche strade oscure vidi l’Inferno, ma l’inferno quale neppure Dio ma solo l’uomo nella sua demenza potrebbe immaginarlo perché là non c’era neanche il dolore, neanche il fuoco e il digrignare di denti, c’era semplicemente il Nulla, case di mille finestre dove non arriva mai il sole, dove nascono bambini che non hanno mai visto un cavallo, non hanno mai respirato altro che nafta, non hanno mai udito altro rumore che quello della sega circolare… se vedono un fiore, lo vedono alle porte del Verano». I suoi saggi consentono di affermare senza riserve che ci troviamo davanti alla più grande prosatrice italiana del Novecento, levigati da un’eleganza che cancella il suo stesso sforzo, come raccomandava la sprezzatura rinascimentale. Vi canta le lodi dei suoi “imperdonabili” (per il gusto contemporaneo, che a suo giudizio non può digerire un Tomasi di Lampedusa più di quanto possa comprendere i Padri del Deserto) testimoni che un altro sguardo, un’altra altezza è ancora raggiungibile, «che è bello avere un ideale impossibile».

Pasternak, il re nascosto che insegnava a comporre poesie aiutati dalla morte, Simone Weil, la mistica che le dimostrò che “si può diventare geni”, Emily Dickinson, la contemplativa che decise di frapporre un paravento tra sé e il resto del mondo, John Donne, il metafisico sensuale, sono solo alcuni ospiti del suo palazzo interiore, che non comprende esclusivamente persone ma anche luoghi e dettagli come l’austera, essenziale bellezza delle finestre fiorentine, le mazurke di Chopin o i cancelli dei giardini emiliani, oltre i quali i nonni sonnecchiano nella pennichella estiva. Ai suoi occhi Proust è il cavaliere d’una Quest medievale che ha l’ambizione di salvare un mondo intero («un tempo il poeta era là per nominare le cose: come per la prima volta, ci dicevano da bambini, come nel giorno della Creazione. Oggi egli sembra là per accomiatarsi da loro, per ricordarle agli uomini, teneramente, dolorosamente, prima che siano estinte… chi oggi non è conscio di questo, non è poeta d’oggi»), una vocazione in cui da sempre si iscrive anche la sua, come testimonia una lettera al padre durante la guerra: «Voglio tentare tutto, papà caro, e vedrai che, a Dio piacendo, non ti deluderò! Ho tante cose da dire! Quasi direi da salvare: tutta la tragica bellezza di ciò che è passato in noi e vicino a noi».

È il cuore non solo delle sue magnifiche traduzioni ma anche delle sue brevi ma splendide raccolte poetiche, dedicate alla trascuratezza dolente verso l’essenziale che caratterizza troppo del nostro tempo, ai nessi che possono legarci nel tempo e lo spazio, alla tradizione personale che possiamo salutarmente “inventarci”, legando un nostro amore non corrisposto a un sarcofago egizio o camminando per la strada alla luce d’un passaggio della liturgia bizantina: «poiché tutti viviamo di stelle spente». In questo nostro mondo di prostituzione della comunicazione, disseminato di ghetti che inveiscono rabbiosamente gli uni contro gli altri, leggere Cristina Campo consente di riscoprire la gloria della complessità dei nostri sentimenti, pensieri e gesti, e in un clima banalizzante ribadire e difendere che taluni aspetti della nostra vita ed espressione sono difficili non costituisce un lusso, ma un autentico atto di sopravvivenza. In mezzo al clamore e al frastuono di tante sollecitazioni inutili e dannose, si può ancora vivere la poustinia raccomandata da Catherine Doherty, il deserto interiore, è ancora possibile compiere un cammino quotidiano all’unico livello che conta.

È questa, in fondo, parte decisiva della letteratura, aiutare a esercitare quella “versione laica della preghiera, che è l’attenzione”, come scrisse Benjamin di Kafka. È questa la consegna di Cristina Campo, quando, accompagnandoci in un giardino o nel silenzio d’una navata barocca, si volta e rivolge direttamente la parola: «siedi contro il muro, leggi Giobbe e Geremia. Attendi il tuo turno, ogni rigo è profitto. Ogni rigo del libro imperdonabile». Allora i segni riprenderanno a parlarci, perché l’universo non ha mai smesso di seminarli, tutti intorno a noi: «Si vede talvolta in un treno, in una sala d’aspetto, un volto umano. Che ha di diverso? Di nuovo potremmo dire ciò che quel volto non ha, ciò che i suoi occhi non tradiscono… nel treno, nella sala d’aspetto, essi gonfiano l’anima di gioia, di un accresciuto, appunto, sentimento di vita… Sono, in realtà, occhi eroici. Hanno guardato la bellezza e non ne sono fuggiti. Hanno riconosciuto la sua perdita sulla terra, e in grazia di ciò l’hanno guadagnata nella mente».

E nella marea fangosa di reazioni istintive, nella cascata di messaggi inutili e preconfezionati nei loro sentimenti, potremo riprendere anche noi a scambiarci diamanti, ricchi anche di tutto il silenzio che sanno accogliere, come in questa breve missiva di Cristina Campo a Traverso: «Caro Bul, ti scrivo gli auguri che non ho potuto farti al telefono. Sono affettuosi come sempre. Perché non dirmi che partivi? Ti avrei augurato buon viaggio; in più ti avrei dimostrato (col solo dirti “Pronto”) che avevo capito, ripensandoci, le tue parole di iersera. Non scrivermi, Bul. Non è necessario. Sii sereno».

Unicef: 1,9 milioni di bambini costretti a lasciare la scuola in Africa

Piu’ di 1,9 milioni di bambini sono stati costretti a lasciare la scuola in Africa occidentale e centrale a causa dell’aumento degli attacchi e delle minacce di violenza contro l’istruzione in tutta la regione.

E’ quanto emerge dal nuovo rapporto “Istruzione a rischio in Africa occidentale e centrale”, pubblicato dal Fondo delle  Nazioni Unite per l’infanzia.

Charlotte Petri Gornitzka, vicedirettore generale dell’Unicef ha dichiarato che: ci sono sempre più “Attacchi deliberati e continue minacce contro l’istruzione – le fondamenta stesse della pace e della prosperità – hanno gettato un’ombra oscura sui bambini, le famiglie e le comunità di tutta la regione”.

“Ho visitato un campo di sfollamento a Mopti, nel Mali centrale, dove ho incontrato bambini piccoli in uno spazio di apprendimento sicuro sostenuto dall’Unicef. Mi è stato evidente quanto sia vitale l’istruzione per loro e per le loro famiglie”.

“Durante i miei incontri con i bambini e i giovani del Mali, mi sono reso conto di come la vita sia così difficile per loro, ma sono rimasta anche stupita dalla loro capacità di recupero e determinazione, e dalla speranza che avevano per il futuro”, ha detto Almellehan.

“Ho anche visto la vera differenza che l’istruzione può avere nella vita dei bambini. I bambini in Mali e in tutta la regione sono veri eroi e meritano di avere un ambiente sicuro per imparare e crescere”.

Rome Half Marathon Via Pacis

Domenica 22 settembre si terrà a Roma la terza edizione della Rome Half Marathon Via Pacis, prima e unica mezza maratona interreligiosa al mondo: 21 km e 97 metri che toccheranno, oltre a San Pietro, la sinagoga, la moschea, le chiese ortodossa, metodista e valdese, e i templi buddista e induista con l’obiettivo di promuovere, attraverso lo sport, il dialogo e l’integrazione tra persone di culture e religioni diverse. La manifestazione è convocata e organizzata dal Comune di Roma, da Athletica Vaticana – prima associazione sportiva costituita in Vaticano e realtà sportiva ufficiale della Santa Sede affidata dalla Segreteria di Stato al Pontificio Consiglio della cultura – e dalla Fidal (Federazione italiana atletica leggera), che propongono anche, come nelle precedenti edizioni, una corsa non competitiva di 5 km, la Run for Peace, rivolta soprattutto a famiglie, scuole e oratori.
Come l’anno scorso, alla Rome Half Marathon Via Pacis parteciperanno anche, per iniziativa di Athletica Vaticana che sarà presente numerosa, appartenenti alla Gendarmeria e alla Guardia svizzera, una rappresentanza di atlete del team protestante di Wittemberg, alcuni migranti accolti dalla cooperativa Auxilium, persone con disabilità e famiglie assistite dal Dispensario vaticano di Santa Marta. Alle 12, a conclusione della gara, appuntamento per tutti in Piazza San Pietro per l’Angelus con Papa Francesco.

Quest’anno la medaglia che sarà consegnata a tutti i partecipanti della corsa su strada è dedicata al Mahatma Gandhi in occasione dei 150 anni dalla nascita nel 1869, e oltre alla sua effigie stilizzata riporta questa sua affermazione: “La forza non deriva dalla capacità fisica. Deriva da una volontà indomabile”. La presentazione dell’evento si terrà il 9 settembre a Roma, nell’iconica e suggestiva cornice dell’Ara Pacis.

Venezia: “Sogni, una scala verso il cielo”

Il 15 settembre la Giornata Italiana della Cultura Ebraica giunge alla sua ventesima edizione con il suggestivo titolo “Sogni, una scala verso il cielo”. Si tratta di un tema stimolante che permette di raccontare l’ebraismo da diversi punti di vista: i sogni sono infatti una presenza costante nella storia e nei testi sacri ebraici, a partire dalla Torah (il titolo è un richiamo al famoso episodio della Genesi che ha per protagonista il patriarca Giacobbe), per continuare con il Talmud, con la tradizione mistica e fino ad arrivare a Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, che sull’interpretazione dei sogni fondò le sue innovative terapie per le nevrosi.

L’edizione italiana è diventata negli anni una delle più importanti in Europa coinvolgendo oltre ottanta località distribuite in quindici regioni del nostro Paese, da nord a sud alle isole. L’occasione consente ad un pubblico vastissimo di avvicinare o conoscere meglio un patrimonio storico, artistico, architettonico e archeologico di indubbio interesse, che va dalle numerose Sinagoghe ai musei ebraici, dagli ex ghetti e giudecche ai siti archeologici. Il programma della giornata a Venezia punta a coinvolgere i visitatori con iniziative artistico-culturali innovative e di grande attualità che permettono di cogliere la grandezza del patrimonio “immateriale” ebraico, forte dell’eredità culturale di grandi rabbini, pensatori e intellettuali che si inseriscono nella tradizione ebraica veneziana.