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venerdì, 9 Maggio, 2025
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Parte la campagna anti-influenzale

Chi vorrà avere un’arma in più per prevenire l’influenza, che quest’anno si presenta se non più aggressiva, un po’ più complessa e difficile da debellare rispetto a quella degli scorsi anni, e soprattutto in anticipo può rivolgersi al proprio medico per effettuare il vaccino.

Come di consueto, i cittadini di età uguale o superiore a 65 anni, i pazienti allettati, disabili, inseriti nei programmi di Assistenza domiciliare possono ottenere la somministrazione gratuita.

Bambini e adulti di età inferiore ai 65 anni, ma appartenenti alle categorie «a rischio» (tra gli altri, persone affette da malattie respiratorie croniche, malattie dell’apparato cardio-circolatorio, ma anche diabete, tumori, insufficienze renali e pazienti immunodepressi), possono ottenere la somministrazione gratuita recandosi presso il Centro vaccinale dell’Asl di residenza.

Tigri? No gattini.

Non mi rassegnerò mai nel voler comprendere del perché i cittadini generalmente sono così indulgenti verso accadimenti anomali seriali che riguarda pressoché ogni erogazione dei servizi per le famiglie italiane, senza che media, governanti e oppositori, abbiano sufficiente attenzione e protezione nei confronti dei cittadini sottoposti ad angherie se non a situazioni somiglianti a truffe.

Prendiamo i contratti da stipulare! Si sottopongono alla firma decine di fogli di carta dalla scritta piccolissima e fittissima con linguaggio strettamente tecnico, che neanche un esperto avvocato potrà raccapezzarci qualcosa.

L’utente più puntiglioso, dopo uno sguardo preoccupato per così  tante clausole criptiche e incomprensibili precisazioni, firma e passa oltre, pur nel dubbio di incorrere in qualche condizione non favorevole che riguarda il suo interesse. Molti servizi come acqua, gas e di elettricità  e cose similari, frequentemente recapitano bollette prendendo a riferimento il picco di consumo anche di anni prima, ad esempio di un periodo del tutto eccezionale per le abitudini della famiglia; per correggere l’evidente svantaggio, se non si va di persona presso l’azienda erogatrice, le bollette arriveranno sempre con la stessa cifra: naturalmente con quella storicamente più alta .

Anche i servizi di telefonia fissa, e soprattutto di quella mobile si prestano a forti equivoci, se non ad una condotta deplorevole per non dire altro. Può accadere, ed accade, che persino contratti già molto discutibili, come si sottolineava prima, possono essere cambiati in corso d’opera con una sola telefonata di avviso da parte della azienda telefonica. Ma quello che ha davvero dell’incredibile è la circostanza che ti possono affibbiare ulteriori contratti di discutibili servizi, senza che il povero utente possa rendersi conto di sottoscriverli, durante l’arrivo a raffica di sms che inavvertitamente e facilmente possono essere abilitati. In questo caso se protesti, leggendo la fattura lievitata anche 4 volte il costo del contratto, con gentilezza ti spiegano che puoi far bloccare da loro il servizio nei fatti abusivo, come se non l’avessero provocato loro stessi a monte.

Allora mi chiedo, tutte le numerosissime autorità (costosissime per il contribuente) fatte nascere appositamente per tutelare i cittadini, cosa ci stanno a fare? E la politica che ci propone sussidi, vantaggi, e quant’altro (sempre a spese del contribuente), perché non ci tutela da questi inconvenienti. Eppure questi servizi sono ammessi nel mercato nazionale previa concessione di governi nazionali, regionali, comunali. Perché al posto di promettere mari e monti a ciascuno di noi (a spese del contribuente, cioè noi), non si occupano di riportare ordine in queste tristi realtà?

Non vorremmo che nei talk show e nei comizi nel parlare dei vari mali si sembra tigri, mentre su questi temi reali si appaia docili gattini. Sempre che su questi temi qualcuno ne parli pubblicamente e faccia davvero qualcosa. Molti si chiedono del perché la gente è lontana dalla politica; la risposta è semplice: si nota ad occhio che gli interessi delle famiglie, difficilmente vengono vigilati come dovrebbe essere. Eppure nel cambiamento che vogliamo qualcuno dovrà farlo.

Ruini e Zamagni, due linee alternative: l’una fondata sulla sfiducia nel laicato, l’altra sulla ripresa del popolarismo.

Due fatti hanno segnato, in questi giorni, una accelerazione nel dibattito intorno al ruolo sociale e politico dei “popolari di ispirazione cristiana” in Italia. Il primo è l’uscita del “Manifesto Zamagni”, il secondo è l’intervista al Corriere della Sera del Cardinale Ruini.

Il Manifesto Zamagni rappresentanza la base culturale per un possibile percorso di rigenerazione innovativa di una presenza politica “autonoma” (benché non certo neutra nello scontro in atto nella società rispetto ai rischi della destra sovranista).

L’intervista del Cardinale Ruini rappresenta esattamente il contrario.

Così come negli anni novanta con Berlusconi, il Cardinale invita nella sostanza a dialogare con Salvini. Della serie: meglio una destra che garantisce almeno qualcosa nella difesa della simbologia cristiana piuttosto che progetti animati da cattolici “adulti” che si misurano laicamente con le sfide della modernità.

La vera differenza tra le due prospettive non riguarda solo il rapporto con la destra di Salvini. Riguarda qualcosa di molto più importante: la sussistenza o meno di un ubi consistam “di” (non “dei”) cristiani orientati a testimoniare nella politica – e dunque sul piano della laicità costituzionale – una visione coerentemente ispirata ai loro valori di fondo. In altre parole, la sussistenza o meno di una potenziale, spendibile, riconoscibile attualità della cultura politica del Popolarismo di ispirazione cattolico democratica. Poco importa, in questo senso, se tradotta in un Partito a matrice identitaria o collocata in un eventuale contenitore plurale.

Il Cardinale parla della “scristianizzazione” della società italiana. E da ciò deriva la sua posizione.

Sembra rassegnato ad una prospettiva nella quale la difesa di una visione della società viene affidata solo alla capacità “negoziale” della gerarchia ecclesiastica con il Potere. Si coglie in questa analisi una sfiducia senza appello nella capacità del laicato cristiano di operare per quel “nuovo umanesimo” più volte evocato da Papa Francesco.

Il Manifesto Zamagni parte dal presupposto contrario: è proprio nelle pieghe della società italiana che si può trovare il vero giacimento di risorse umane, culturali, sociali e anche politiche per costruire una “Proposta” al Paese.

Non un Partito Cattolico (e men che meno un Partito dei Vescovi), ma un soggetto (si dovrà vedere poi come declinato in termini di “forma partito”), capace di interpretare laicamente la domanda di Democrazia Comunitaria, di Nuovo Umanesimo, di Ecologia integrale e di Equità: sfide attorno alle quali oggi, in Italia ed in Europa, si gioca il futuro delle nuove generazioni e il senso stesso della nostra democrazia.

Tutto si può dire di questo Manifesto e sopratutto di come è stato maldestramente interpretato nelle prime uscite mediatiche, con l’idea che esso segni già la costituzione di un Partito, frutto di convergenze vecchio stile di spezzoni consunti e nostalgici di antica classe dirigente: se così fosse non avrebbe futuro.

E tuttavia non si può non cogliere un elemento. Esso indica una delle due alternative alla fase attuale di insignificanza della nostra cultura politica. L’altra è quella indicata dal Cardinale Ruini.

Tertium non datur. Almeno nella situazione attuale. Superfluo che aggiunga a quale delle due prospettive vada la mia preferenza.

Zaccagnini, 30 anni dopo.

A trent’anni dalla morte, avvenuta il 5 novembre del 1989, il ricordo di Benigno Zaccagnini (segretario molto amato della Dc a cavallo del rapimento e uccisione di Moro) è ancora vivo, costituendo motivo di approfonditi ragionamenti politici. Nel 2003, nella ricorrenza del ventesimo anniversario, ne scrisse anche Giovanni Galloni, che di Zaccagnini fu vice-segretario vicario nel periodo 1975-1978. Del testo, il cui titolo originario era “L’onesto Zac? Un uomo di profonda cultura“, diamo qui la versione integrale.

Il ritratto convenzionale ha esalto gli aspetti di onestà e mitezza del segretario del rinnovamento Dc, il cui nome per altro è strettamente legato alla stagione della solidarietà nazionale. Con ciò si è voluto far credere, con qualche malizia, che Zaccagnini non avesse grandi qualità politiche ed intellettuali. Invece Giovanni Bersani, stilandone un ricordo a caldo, mise in evidenza la sua preparazione e sensibilità culturale. Oggi l’interesse va riposto su questa caratteristica, associata alla rettitudine e severità di costume, di un leader molto amato dalla base e assai stimato da amici e avversari.

di Giovanni Galloni

1.- Vorrei iniziare il mio ricordo di Benigno Zaccagnini richiamandomi all’ultimo saluto che gli diede, nel trigesimo della morte, l’on. Giovanni Bersani, deputato della Camera eletto a Bologna il 18 aprile 1948 e maggiormente conosciuto come deputato nella prima elezione del Parlamento europeo. Bersani disse allora che gli venivano “alla memoria molte stagioni tra i primi anni Trenta, quando con Zaccagnini ci siamo conosciuti: io liceale dell’ultimo anno, lui già al secondo anno di medicina e studioso delle filosofie tomiste dove primeggiava nelle riflessioni filosofich
Giovanni Bersani capovolse il concetto di Zaccagnini presentato, già allora, per la sua innata semplicità, come “l’onesto Zac”, mentre era invece “uomo di profonda cultura”.
Da qui vorrei oggi partire per un breve ricordo di Zaccagnini.

2.- Con l’apertura della guerra, Zaccagnini prestò generosamente servizio militare. L’8 settembre 1943 lo colse in Yugoslavia dove miracolosamente sfuggì alla deportazione in Germania per raggiungere Ravenna, la sua città, e prendere immediatamente contatto con i suoi vecchi amici dell’Azione Cattolica, molti dei quali già erano entrati nella Resistenza come comunisti, come repubblicani o semplicemente come cattolici. Subito Zaccagnini coordinò questi suoi vecchi amici assumendo significativamente il nome di battaglia di Tommaso Moro e divenendo Presidente del CLN della provincia di Ravenna, mentre Arrigo Boldrini, con il nome di battaglia di Bulow, già militante comunista, era il comandante delle Brigate Garibaldi, le formazioni militari operanti nella zona.
In questo, la posizione di Zaccagnini fu analoga a quella di Dossetti a Reggio Emilia. Anche Dossetti, in una provincia nella quale i comunisti erano in maggioranza, era stato all’unanimità riconosciuto Presidente del Comitato di Liberazione e dirigeva politicamente la Resistenza pur non avendo mai personalmente sparato un colpo… Si definì come Dossetti “ribelle per amore”.
Tra il 18 e il 20 aprile 1945, dopo che gli Alleati avevano sfondato il fronte, le formazioni partigiane sotto la guida di Tommaso Moro e di Bulow occuparono l’intera Romagna e si misero in contatto, comune per comune, con gli Alleati, dopo che i tedeschi erano già fuggiti.

3.- A Liberazione avvenuta, Zaccagnini aderì subito formalmente alla D.C. e si mise in contatto a Bologna con Giovanni Bersani e Angelo Salizzoni, a Modena con Ermanno Gorrieri e a Reggio Emilia con Giuseppe Dossetti schierandosi subito, per ragioni culturali e politiche, con la sinistra democristiana guidata da Dossetti che fu nominato da De Gasperi nel giugno del 1945 vice-segretario nazionale della D.C. con il compito di preparare il partito per la scelta verso il referendum tra monarchia e Repubblica.
Eletto alla Costituente il 2 giugno 1946 Zaccagnini, pur non partecipando alla Commissione dei 75, fu sempre solidale con Dossetti fino all’approvazione della Costituzione ed entrò nella sua lista del Consiglio Nazionale in quanto parlamentare nel III Congresso di Venezia della D.C. del giugno 1949.
Dopo l’uscita di Dossetti dalla D.C. nel settembre del 1951 a seguito dell’incontro di Rossena, Zaccagnini scelse di continuare a servire la D.C. in una posizione che si riconobbe in una sinistra non più contrapposta a De Gasperi, ma condizionatrice di De Gasperi, aderendo dapprima al quindicinale denominato “Iniziativa democratica”, di fatto diretto da me, che pubblicò sette numeri, ma fu sospeso quando De Gasperi offerse alla seconda generazione democristiana, con a capo Fanfani, Rumor, Taviani e tra i quali era compreso Zaccagnini, una collaborazione a partire dal Congresso di Roma dell’autunno del 1952, fino alle dimissioni di Fanfani e alla elezione di Moro a segretario del partito nel 1959.
In quel periodo a Zaccagnini, al quale sia De Gasperi che Fanfani, Rumor e Moro, avendo riconosciuto i suoi alti meriti culturali, furono offerti posizioni di responsabilità prima nella direzione di importanti uffici nel partito e poi nel governo, tra le quali – per un tratto di tempo – anche quella di Ministro del Lavoro e dei Lavori Pubblici.

4.- Dopo la duplice caduta di Fanfani nel 1959 sia da segretario del partito che da Presidente del Consiglio, Zaccagnini scelse Moro, si battè con lui, visto l’esaurimento del centrismo, per iniziare l’avvicinamento al centro-sinistra e per contrastare l’apertura a destra di Ferdinando Tambroni.
Sempre come moroteo, Zaccagnini fu eletto al Congresso di Napoli della D.C. del 27 gennaio 1962 e nel febbraio successivo fu eletto, su indicazione di Moro, Presidente del gruppo parlamentare D.C. alla Camera.
L’11 luglio 1963, durante il dibattito parlamentare per la fiducia al governo cosiddetto “estivo” di Giovanni Leone, Benigno Zaccagnini, come Presidente del gruppo parlamentare D.C. alla Camera, tenne il suo intervento contro i comunisti di allora con parole che assumono oggi il valore di una profezia. Era stato da poco eretto il muro di Berlino dopo l’inasprirsi del contrasto tra Occidente ed Est del mondo.
“Vi è – disse – un mondo nuovo che vuole e deve nascere”. Il muro di Berlino nasce “non per impedire che altri dall’esterno penetri, ma per impedire che chi soffre all’interno della città di Berlino-est possa uscirne e raccontarne. Noi sappiamo, onorevoli colleghi – aggiunse – che anche quel muro verrà abbattuto, e non verrà abbattuto dai carri armati, ma dal cammino travolgente delle idee di libertà, di giustizia e di pace che ovunque avanzeranno nel mondo”. E così concluse: “Noi crediamo in questa vittoria, vogliamo lavorare per questa vittoria di tutti gli uomini e di ciascuno di essi perché ognuno possa finalmente vivere e progredire libero in giustizia e in pace”.
Questa profezia si realizzò pochi giorni dopo la scomparsa di Zaccagnini proprio alla fine del novembre del 1989 con la caduta del muro di Berlino che segnò la data storica della fine del comunismo sovietico nato nel 1917 e quindi di tutti i partiti comunisti, compreso quello italiano, collegati a Mosca.
Di essa in qualche modo Zaccagnini parlò nell’ultimo discorso pubblico tenuto ai giovani di Cesena. Se prossima era allora la fine del comunismo non si trattava di assumere i valori della civiltà occidentale ma, come disse Giuseppe Dossetti 14 anni dopo, di dare inizio ai valori della nuova civiltà, la civiltà post-moderna che si apre dopo la fine della cultura moderna finita con la caduta del muro di Berlino.

5.- Un anno dopo, nel passaggio così travagliato dal primo al secondo governo Moro-Nenni, quando il Presidente della Repubblica Antonio Segni tentò di fare saltare il centro-sinistra preparando, contro l’ipotesi di una vasta reazione popolare, l’uso della forza militare con il “piano Solo”, Zaccagnini partecipò il 16 luglio 1964 ad una riunione in casa di Tommaso Morlino, alla presenza di Moro e del segretario della D.C. Mariano Rumor, per impedire la rinunzia di Moro al mandato, sollecitata giornalmente da Antonio Segni. La soluzione fu trovata con una riduzione del programma di governo che fu accettata da Pietro Nenni, in quel momento vicepresidente del Consiglio dei Ministri.
Il 4 ottobre 1967 la Camera approvò con 304 voti a favore e 204 contrari la mozione Zaccagnini per la revisione del Concordato con la Santa Sede sollecitata da Moro.
Nel dicembre del 1971, in occasione della scelta del successore di Giuseppe Saragat alla Presidenza della Repubblica, riemerge il ruolo di Zaccagnini. In quell’epoca, a Flaminio Piccoli era subentrato nella segreteria della D.C. Arnaldo Forlani con la vicesegreteria di Ciriaco De Mita. Presidente del Consiglio dei Ministri era Mariano Rumor e Aldo Moro, dopo un periodo di opposizione nel partito (dal 1968 al 1970) era divenuto, il 5 agosto 1969, nel secondo governo Rumor, Ministro degli Esteri, dove fu confermato anche nel terzo governo Rumor. La segreteria Forlani–De Mita deluse Moro e anche Zaccagnini, dopo che essi si erano accorti che i due puntavano a far prevalere nella D.C. la “terza generazione” diretta ad emarginare gli allora cosiddetti “cavalli di razza” Fanfani e Moro, così come fu manifestato al convegno di S. Ginesio nelle Marche, svoltosi tra i fanfaniani più vicini a Forlani e i basisti di De Mita.
La Direzione della D.C. propose in un primo momento il nome di Fanfani. Ma dopo una serie numerosa di votazioni negative la Direzione tornò a riunirsi e propose – nonostante una drammatica reazione dell’interessato – il ritiro della proposta di Fanfani e la scelta di un nuovo candidato attraverso una designazione affidata, con votazione segreta, agli elettori democristiani (parlamentari e delegati regionali). Venne indicato per presiedere lo scrutinio l’on. Zaccagnini con l’impegno di rendere pubblico il risultato mantenendo però segreto il numero dei voti ricevuti da ciascun candidato.
I dorotei annunciarono subito la candidatura di Giovanni Leone. Spontaneamente nacque la candidatura di Moro. Io andai subito dal capo doroteo Mariano Rumor per vedere come era possibile trovare una convergenza su Moro. Rumor mi rispose che questo gli sembrava possibile a condizione che Moro fosse disposto a trattare per fare conoscere i suoi orientamenti. Ma Moro, per salvaguardare l’autonomia del futuro Presidente della Repubblica, si rifiutò di trattare con i dorotei, come si era rifiutato di trattare con i comunisti che pure erano disponibili a sostenerlo.
L’esito della votazione, annunciata da Zaccagnini, fu, con suo dispiacere, favorevole a Leone, ma Zaccagnini, fedele al mandato ricevuto, si rifiutò sempre di far conoscere la differenza dei voti tra i due candidati. Tuttavia, secondo le voci raccolte quella differenza era stata minima, forse di appena 6 voti rispetto agli oltre 400 votanti. Era stato così raggiunto l’obbiettivo della emarginazione dei due cavalli di razza?
Rimangono ancora dubbi non irrilevanti, per la storia del nostro Paese, che avrebbe potuto essere diversa. Siamo sicuri che tutti gli amici stretti di Forlani e quelli di De Mita abbiano votato per Moro e non per Leone? Non lo sapremo mai.

6.- Moro e Zaccagnini si resero conto del rischio a cui conduceva la segreteria Forlani-De Mita che portò, sia pure per cercare il rinvio di due anni del referendum sul divorzio, a puntare mediante lo scioglimento delle Camere e le votazioni anticipate del 7 maggio 1972. Esse portarono ad un incremento della destra e condussero alla formazione di un governo Andreotti-Malagodi. A questo governo non parteciparono Moro con i morotei e la sinistra D.C.. Ma rimane evidente la contraddizione – messa in evidenza anche da Moro – in cui si è posto De Mita che si dichiarò contrario al governo Andreotti-Malagodi ma sostenitore della segreteria del partito che lo aveva promosso.
Per riprendere in mano la situazione, per ricostruire l’unità della D.C. doveva realizzarsi un nuovo incontro tra Moro e Fanfani, che si realizzò a Palazzo Giustiniani, pochi giorni prima del XIII Congresso della D.C.. I punti concordati furono i seguenti: 1) ripresa della politica del centro-sinistra; 2) sostituzione nella D.C. della segreteria Forlani con la segreteria Fanfani; 3) sostituzione della Presidenza del Consiglio Andreotti con un ritorno ad un governo di centro-sinistra presieduto da Rumor; 4) elezione di Zaccagnini alla Presidenza del Consiglio Nazionale della D.C.; 5) presenza di Piccoli, doroteo, alla Camera come Presidente del gruppo parlamentare D.C.; 6) presenza di un fanfaniano alla Presidenza del gruppo D.C. del Senato.

7.- Durante la segreteria Fanfani gli inconvenienti furono sostanzialmente due.
Il primo fu il risultato del referendum del 12 maggio 1974 per abrogare la legge che introduceva il divorzio. Su questo referendum il Pontefice Paolo VI – nonostante la diffidenza di Moro – contava su una larga prevalenza del SI, ma questa posizione fu formalmente contestata da un numero molto alto di intellettuali cattolici che, dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, si erano pronunciati per il “NO”, tra i quali c’erano molti giornalisti amici di Moro e di Zaccagnini, come Orfei, Pratesi, Raniero La Valle, ex direttore de L’Avennire d’Italia, lo storico Pietro Scoppola, i sindacalisti Luigi Macario e Pierre Carniti.
Dai risultati del referendum risultò che uno schieramento di centro-sinistra con la D.C. era inferiore di circa il 10% alla maggioranza assoluta.
Il secondo inconveniente dimostra lo spostamento a sinistra dell’elettorato, documentato dai risultati elettorali delle elezioni regionali e amministrative del 15 giugno 1975, quando la D.C. scese del 2,5% rispetto ai risultati elettorali precedenti e dove il P.C.I. aumentò del 5,6%, rischiando addirittura il sorpasso della D.C.. Di qui la reazione contro Fanfani dei dorotei, seguiti dalla sinistra di Base e da Donat Cattin che misero subito in discussione la segreteria Fanfani.
Moro invece la difese, senza però trovare il consenso di alcuni tra i più qualificati morotei, come Leopoldo Elia, Franco Salvi e Corrado Belci. Così nel Consiglio Nazionale della D.C., svoltosi il 20 luglio 1975, l’ordine del giorno Butini per la conferma di Fanfani fu respinto con 103 voti contro 69 e i dorotei indicarono come candidato alla Segreteria Flaminio Piccoli. Quasi all’inizio della votazione, Moro propose a sorpresa la candidatura di Benigno Zaccagnini che, a votazioni già iniziate, condusse al ritiro della candidatura di Piccoli e alla elezione di Zaccagnini, apparsa, in un primo momento, provvisoria, in attesa del successivo Congresso.

8.- Proprio per questo, per rendere meno bruciante la sconfitta di Fanfani e quasi per non contrastare in modo evidente la linea di Palazzo Giustiniani, la prima scelta di Zaccagnini fu quella di non rimuovere dai loro incarichi di partito dorotei, fanfaniani e andreottiani al fine di assicurare una gestione unitaria, ma nello stesso tempo fece una scelta qualificata dei suoi stretti collaboratori politici (il sottoscritto come basista, Bodrato come Forze Nuove, Belci come moroteo, il giovane Pisanu, deputato moroteo, come capo della segreteria, il romagnolo Umberto Cavina suo amico personale per l’ufficio stampa, Luigi Granelli per la politica estera, Beniamino Andreatta per la politica economica, Leopoldo Elia per la politica istituzionale).
Dopo il Congresso sulla segreteria Zaccagnini, io fui nominato vicesegretario vicario, Bodrato direttore del servizio di propaganda SPES, Belci diretto del “Popolo”.
Vorrei solo insistere sui seguenti punti:
1) la elezione di Zaccagnini ebbe un effetto imprevisto: la crescita immediata di popolarità della D.C.. Potemmo ritornare a parlare nelle Università e nelle fabbriche e ad avere un contatto diretto con la gente istituendo le feste dell’amicizia;
2) per le elezioni anticipate del 1976 mettemmo nella lista candidati indipendenti cattolici come Pietro Scoppola ed escludemmo, non sempre con il consenso di Moro, i candidati che avevano superato le tre legislature;
3) dopo le elezioni politiche del 1976, per evitare l’atteso sorpasso dei comunisti, Zaccagnini, nei primi contatti avuti con i diversi partiti, si rese conto che il centro-sinistra non era più ricostruibile perché socialisti, repubblicani e perfino socialdemocratici dissero che non avrebbero partecipato ad un governo senza la presenza dei comunisti. Apparve invece possibile nei contatti con Berlinguer, tramite Tatò, che i comunisti lasciassero passare un monocolore democristiano. Zaccagnini pregò Moro, Presidente del Consiglio uscente, di sollecitare Andreotti. Cosa che Moro fece;
4) durante i 55 giorni della prigionia di Moro, che furono il momento più terribile e drammatico della sua esistenza, Zaccagnini, il quale conosceva le minacce giunte sin dal settembre 1973 a Moro da Kissinger (che dominava i servizi segreti americani), ma non conosceva la presenza così vasta nel Ministero degli Interni della P2 e dei servizi segreti italiani deviati, era convinto che lo scambio dei prigionieri richiesto da Craxi, e anche invocato da Moro nelle sue lettere, avrebbe portato la messa in crisi della Repubblica e non solo alla fine della D.C.. Tutti i contatti possibili con le B.R. che comportassero un cedimento su questioni di principio furono tentati;
5) dopo l’assassinio di Moro, Zaccagnini si rese conto che era finita in Italia la stagione dei partiti ideologici ed era iniziata la stagione dei partiti di potere, e che era insorta la corruzione. In omaggio al principio che far politica non era un diritto, ma un servizio, prese di conseguenza la decisione, nel rispetto dell’autonomia della magistratura, di sospendere da ogni carica nel partito e nelle istituzioni pubbliche tutti coloro sui quali fosse iniziata, anche con un semplice avviso di garanzia, un’indagine giudiziaria, salva la ripresa dell’attività politica dopo la definitiva assoluzione dalle imputazioni.

9.- A questo punto vorrei porre una domanda. C’è un qualche errore compiuto da Zaccagnini nel corso della sua esperienza? Sì, a mio avviso ce n’è uno, ed avvenne quando nel 1979, dopo la convocazione del Congresso, affermò: “Io ho deciso, e lo confermo, di concludere nel prossimo congresso la mia fin troppo lunga esperienza di segretario politico”. Subito dopo Forlani mi disse “se Zaccagnini aveva deciso di ritirarsi dalla segreteria, perché non si era dimesso subito? Perché – sia pure con una soluzione provvisoria – avremmo potuto, con una maggioranza del Consiglio Nazionale, eleggere un candidato da lui proposto”.
In tal modo Zaccagnini aveva lasciato il tempo che si formasse una nuova maggioranza, la quale poi, in sede congressuale, si materializzò attorno al cosiddetto “Preambolo” e dunque attorno alla prospettiva del pentapartito.
Ma anche dopo la sconfitta al XIV Congresso nel 1980, Zaccagnini mantenne l’estrema coerenza del suo pensiero che, a distanza di ventiquattro anni dalla sua morte, è ancora attuale, come giustamente ha ricordato Paolo Frascatore nel n. 6 di questo mensile, a pag. 66.
E’ attuale il pensiero tratto dagli studi giovanili su S. Tommaso d’Aquino in contrasto con Machiavelli secondo cui il potere non è il fine della politica, ma solo un mezzo per la realizzazione del bene sociale secondo i princìpi della giustizia espressi nella Costituzione.
E’ attuale il pensiero che, con la uccisione di Moro, in Italia sono entrati in crisi tutti i partiti ideologici ma è prevalsa la tendenza della loro trasformazione in partiti di potere (da cui nasce la spirale per tangentopoli) anziché in partiti di programma ispirati ai comuni princìpi fondamentali della Costituzione.
E’ attuale il pensiero di Zaccagnini: per una ribellione alla spirale della violenza e del riarmo internazionale.
In conclusione, per Zaccagnini la politica è, in una democrazia pluripartitica, un confronto tra i programmi dei diversi partiti non come puro metodo, ma come contenuto per realizzare, con le leggi approvate dal Parlamento, i princìpi fondamentali della Costituzione secondo le scelte compiute dai diversi programmi.
In realtà, come è avvenuta nel 1945, dopo la fine della seconda guerra mondiale, la fine dei partiti di ispirazione nazifascista, così dopo il crollo del muro di Berlino è avvenuta la fine dei partiti ispirati dal comunismo sovietico.
Il pensiero di Zaccagnini è dunque attuale per consentirci di superare le difficoltà in cui oggi ci troviamo e per giungere ad un accordo il più grande possibile sulle modifiche costituzionali che rispettino i princìpi fondamentali della nostra Costituzione e quelli della Rivoluzione francese fissati nella Costituzione del 1791, e ad un conseguente confronto dei partiti di programma, che possono essere di destra, di centro o di sinistra, e debbono tendere a formare governi tendenzialmente per un’intera legislatura ma che nulla hanno a che vedere né con i partiti ideologici fascista o comunista e neppure con la vecchia Democrazia Cristiana o con i partiti di ideologia laica (dal liberale al socialdemocratico).

A Roma ricercatori e massimi esperti di sostenibilità riuniti per la Social Impact Investments International Conference

Il 5 e 6 dicembre 2019, avrà luogo la terza edizione della Social Impact Investments International Conference. L’evento è promosso dall’Università di Roma “La Sapienza”, insieme ad Unitelma Sapienza ed in partnership con il Centro Casmef della Università LUISS Guido Carli. Il Comitato Scientifico, presieduto dal prof. Mario La Torre – già membro italiano della Taskforce G8 sugli investimenti ad impatto sociale – vede la partecipazione di docenti italiani e stranieri membri della University Alliance for Positive Finance.

La prima giornata del 5 dicembre si svolgerà presso la Facoltà di Economia della “Sapienza” ed avrà un format tipicamente accademico con presentazione di paper scientifici sui temi della finanza sostenibile, dei rischi ESG, dell’impact investing; la giornata è arricchita dalla presenza di due key note speaker tra i massimi esperti di sostenibilità: il prof. Philippe Krueger, dell’Università di Ginevra, già vincitore nel 2015 del prestigioso Moskowitz Prize con un lavoro sul rischio climatico ed il valore delle imprese, e il prof. Andreas Hoepner dell’Università di Dublino.

La seconda giornata del 6 dicembre sarà ospitata dal Comune di Roma, nella storica sala della Protomoteca ed è strutturata su 4 panel: il primo politico-istituzionale, il secondo dedicato alle banche, il terzo agli asset managers ed agli investitori istituzionali, il quarto alle imprese non finanziarie. Alla presenza della sindaca di Roma, Virgina Raggi, e dei Rettori di Sapienza, Eugenio Gaudio e di Unitelma Sapienza, Antonello Folco Biagini, verrà annunciato un protocollo d’intesa tra il Comune e le due Università romane avente ad oggetto una collaborazione in materia di welfare sostenibile. La giornata si chiuderà con la consegna dei premi ai migliori paper e la presentazione del Fondo per l’Innovazione Sociale lanciato dal Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri dedicato a progetti d’impatto sociale di Comuni e Città Metropolitane.

Hanno confermato la loro presenza alle tavole rotonde: Adelaide Mozzi – Commissione Europea – che illustrerà le prossime azioni della Commissione in materia di finanza sostenibile; Helmut Kreimer-Eis – FEI – che presenterà un nuovo studio sugli orientamenti dei Ventur Capitalist e dei Business Angels in materia di investimenti ESG. Tra gli operatori, Bernardo Mattarella – che illustrerà i dettagli dei social bond emessi di recente da Banca del Mezzogiorno; Jacopo Schettini – Standard Ethics – che chiarirà le nuove sfide delle agenzie in materia di rating di sostenibilità; Carmine Franco – Ossiam, Natixis – per discutere delle strategie ESG degli asset managers ed Ernesto Ciorra – Enel – a chiarire le politiche sostenibili delle imprese energetiche.

La conferenza si inserisce nell’ambito delle attività sostenute dal progetto di ricerca MIUR “Una piattaforma italiana per la finanza di impatto: modelli finanziari per l’inclusione sociale ed un welfare sostenibile” che vede coinvolto un network di 10 Università italiane.

Genova: una marcia per ricordare la deportazione degli ebrei genovesi

Oggi alle 17.30 a Genova, è in programma una marcia silenziosa da Galleria Mazzini, dove prenderanno la parola Fernanda Contri e Piero Dello Strologo, fino alla Sinagoga di via Bertora.

Una marcia per ricordare l’agguato  che il 3 novembre 1943 diede inizio alla deportazione degli ebrei genovesi: furono arrestate circa venti persone, e altri arresti seguirono nei giorni immediatamente successivi.

In tutto furono deportate 261 persone, e fra queste furono solo venti i sopravvissuti.

Interverranno: il rabbino capo di Genova Giuseppe Momigliano, il presidente della Comunità Ebraica di Genova Ariel dello Strologo, l’assessore al Comune di Genova Pietro Picciocchi, a nome della Comunità di Sant’Egidio Andrea Chiappori.

Parteciperà il coro Shlomot. “Alla marcia parteciperanno molti genovesi: anziani, giovani, nuovi europei per ricordare il razzismo di ieri e per riaffermare le ragioni della convivenza tra popoli e fedi diverse”, sottolineano gli organizzatori.

A Bologna 50 nuove eBike a disposizione di cittadini e turisti

Infrastrutture, comunicazione ed educazione sono i tre punti chiave sui quali si basa una buona strategia di sviluppo dell’uso della bicicletta in ambito urbano. Lo sa bene Bologna che è da tempo attiva sul tema. E proprio nel capoluogo emiliano sono arrivate le prime 50 eBike. Le biciclette a pedalata assistita di Mobike, il gestore del bike sharing del Comune, dotate di un motore elettrico per aiutare la pedalata senza però eliminarla. Le bici sono in grado di semplificare e velocizzare al massimo gli spostamenti in città integrandosi senza criticità nel sistema dei trasporti pubblici urbani.

La tariffa è di 2 euro ogni mezz’ora. La eBike andrà parcheggiata dentro gli appositi hub visibili sull’app dell’utente. A Bologna ve ne sono 54, sia fuori che dentro l’area operativa (quella del centro storico). L’applicazione suggerirà lo stallo più vicino, indicando la distanza e il percorso da compiere. Se invece la bici non venisse parcheggia nell’area operativa bensì al di fuori di un apposito eBike hub, Mobike addebiterà agli utenti un costo aggiuntivo di 10 euro.

Se poi la bici dovesse venire parcheggiata fuori dall’area operativa, quindi fuori dal centro storico, e fuori da un eBike hub, Mobike addebiterà agli user un costo aggiuntivo di 50 euro.

Gli addebiti saranno prelevati direttamente dal plafond Mobike dell’utente. Qualora il credito del portafoglio eBike fosse negativo non sarà più possibile utilizzare l’app se non inserendo una nuova ricarica sufficiente a coprire il debito pregresso.

Mobike è un’impresa cinese, che offre un servizio di bike sharing a flusso libero senza l’uso di stalli per il parcheggio. L’azienda ha sede in Cina, ma è presente, con successo crescente, in tutto il mondo ed è il più grande operatore esistente in questo settore.

Una biopsia liquida per il glioblastoma

Una biopsia liquida  aiuta a predire la prognosi del tumore più aggressivo del cervello, il glioblastoma, e anche a personalizzare le terapie, perché contribuisce a svelare i danni genetici e molecolari alla base della malattia.

È il risultato di uno studio pubblicato sulla rivista Clinical Cancer Research e condotto presso l’Abramson Cancer Center della University of Pennsylvania.

La biopsia liquida misura la concentrazione nel sangue di Dna tumorale libero (cioè direttamente circolante nel sangue).

Gli esperti hanno anche visto che con la biopsia liquida si può tracciare l’identikit genetico e molecolare del tumore, cioè verificare quali sono i cambiamenti genetici alla base della malattia o anche addirittura individuare aspetti del tumore che potrebbero sfuggire alla classica biopsia invasiva.

Fermare Salvini: occorrono nuovi argini

La vittoria di Salvini in Umbria ma soprattutto il disorientamento dell’asse 5S-PD lasciano intravedere uno scenario inquietante: la rapida dissoluzione della attuale maggioranza dopo la prevedibile sconfitta in Emilia e Calabria anche per la decisione dei 5S di andare da solo e la “consegna” del Paese alle “destre*.

Per chi pensa di scaricare il legittimo malessere sociale ed economico ( che ha le sue radici nel capitalismo finanziario che ha divorato l’economia reale e ricreato diseguaglianze intollerabili) sugli immigrati, i ladri ( con la bufala della sicurezza) ed i meridionali nessun problema!
Diversamente per chi sogna ancora un Paese giusto ed inclusivo.

E allora cosa sperare, auspicare,
per fermare “l’onda barbarica’?

1) Che la “sinistra” tutta (PD, LEU, Potere al Popolo ..) faccia propria la proposta di Bersani di un congresso per una nuova sinistra che superi il neoliberismo;

2) Che i 5S, superato l’attuale disorientamento, come auspicato dall’on.Trizzino, confermi il carattere strategico dell’accordo con il PD ( quindi irreversibile e anche territoriale) ed avvii um profondo processo di organizzazione democratica;

3) Che i “Verdi” superino l’attuale inazione, cogliendo almeno una parte del consenso latente, così rafforzando l’asse 5S/PD.

Ma soprattutto l’auspicio è che, con il chiaro obiettivo di rafforzare questo fronte largo, nascano e si consolidino altri due soggetti politici: i meridionalisti” ed i “popolari”.

È tempo di un movimento meridionalista che superando sterili posizioni isolazioniste porti le istanze del Sud dentro un grande progetto democratico e comunitario!

È tempo di un soggetto autenticamente *popolare” che sia ad un tempo la casa comune dei cattolici-democratici e l’anima di questa ampia coalizione.

Senza questi nuovi argini sarà difficile fermare la svolta reazionaria del Paese.

Ognuno nel Suo “campo” faccia la sua parte.

Gli Italiani meritano di più!

Il ‘Comitato Tina Anselmi’ per combattere l’ignoranza e tenere vivi gli insegnamenti della storia

Articolo pubblicato sulle pagine di estense.com a firma di Matteo Bellinazzi

Libertà, democrazia, antifascismo, e costituzione: ecco i temi principali su cui si fonda e lavorerà il neonato ‘Comitato Tina Anselmi’, che vuole portare avanti i valori incarnati dall’ex partigiana e prima donna ad aver ricoperto la carica di ministro della Repubblica Italiana.

All’incontro presso il Factory Grisù hanno preso parte i rappresentanti Daniele Civolani, Roberto Cassoli, Paola Castagnotto e Anna Vinci ed è stata anche l’occasione per presentare l’autobiografia di Tina Vinci, una “Storia di una passione politica” scritta da Anna Vinci.

“Questo comitato – ha voluto sottolineare Daniele Civolani, uno dei fondatori – non nasce per opporsi a qualcuno o a qualcosa, ma per combattere l’ignoranza, l’indifferenza, l’egoismo e il travisamento della storia”.

L’organismo nasce per riunire buona parte delle organizzazioni democratiche del territorio, “considerando – ha continuato Civolani – anche i cambiamenti politici che stanno avvenendo”.

‘Gli uomini e le donne fanno la storia, ma non conoscono la storia che fanno’ –ha detto, leggendo dal documento fondativo la rielaborata citazione di Hegel –. La storia che si ignora è quella del Novecento, secolo ‘grande e terribile’ nelle sue tragedie e nelle sue conquiste di libertà, ed è la cornice entro cui le Associazioni che hanno deciso di costituirsi in un Comitato Unitario, intendono collocare progetti, programmi, iniziative culturali da mettere a disposizione delle scuole e della cittadinanza intera”.

In particolare, il lavoro del comitato si rivolgerà ai giovani, “nel nome di due grandi donne testimoni delle tragedie e della riscossa del Novecento: Tina Anselmi, partigiana antifascista a 16 anni, e Liliana Segre, sopravvissuta al campo nazista di Auschwitz-Birkenau”.

Il Comitato manifesta pertanto “la volontà di resistere democraticamente e di farsi sentire culturalmente, animato dall’intenzione di ricreare le condizioni fondamentali per far vivere una democrazia del dialogo e del confronto che promuova il riconoscimento in una comune cultura di libertà, giustizia sociale, tolleranza e democrazia plurale. Perché vorremmo – ha concluso Civolani – che Ferrara fosse più attenta e più unita per i valori dei diritti civili”.

Al Comitato aderiscono: Anpi, Arci, Associazione Nazionale Partigiani Cristiani, Centro Donna e Giustizia, Cgil, Cisl, Uil, Comitato Ferrara per la Costituzione, Istituto Gramsci, Libera e Udi.

Alcuni pensieri sull’attualità

Articolo pubblicato sulla newsletter n.12 di ottobre 2019 (Argomenti 2000) a firma di Ernesto Preziosi

Una prima riflessione riguarda il voto di domenica scorsa e la situazione politica. Occorre riflettere sul risultato negativo del centro sinistra (frutto anche di fattori locali ma indicativo della crisi di una sinistra appesantita da gruppi di potere) e prendere atto che, in questa fase, la destra ha superato i confini del suo perimetro tradizionale. Basta guardare un grafico che riporti i dati elettorali degli ultimi venti anni, per vedere come nei consensi elettorali la destra sia andata crescendo con un’onda lunga e oggi si sia stabilizzata con caratteristiche ben più estreme del passato. È un problema reale con cui fare i conti non tanto per demonizzare chi esprime il consenso in quella direzione ma per cogliere i motivi che hanno estremizzato ed esasperato il voto. Più segnali tra l’altro lanciano un allarme su forme di autoritarismo e di vero e proprio neofascismo che debbono preoccupare, che non possono essere derubricate a fenomeni marginali, quasi a forme goliardiche. Avvengono infatti in un quadro internazionale che presenta preoccupanti analogie.

A fronte di una destra che si è compattata e in cui ciò che resta del berlusconismo si appresta a svolgere un ruolo ancillare, ormai non più competitivo sul centro moderato, il centrosinistra presenta troppi elementi di frammentarietà. Una crisi di identità e di progetto politico che, se non risolta, toglie ogni premessa ad un’alternativa fondata. Occorre per prima cosa un atto di chiarezza politica che si focalizzi sui contenuti e sul personale politico e che, nell’essere propositivo, sia capace di eliminare per quanto possibile lo stillicidio continuo, tanto personalizzato quanto inconcludente, di dichiarazioni.

Non è cosa da poco. E questo vale ancor più per un centrosinistra che è oggi parte di un’alleanza di governo che presenta insidie e difficoltà, ma che era l’unico modo per evitare legittimamente un ritorno alle urne che avrebbe aperto la strada ad un governo di destra, con tutto ciò che ne sarebbe seguito. Il centrosinistra e il PD in particolare, non possono sostenere questa maggioranza solo per evitare le urne, sarebbe inutile e suicida. Vi sono due compiti che invece possono essere svolti. In primo luogo occorre operare scelte mirate e decise nelle politiche economiche e sociali che diano agli italiani il senso di un cambiamento di passo, di uno sviluppo possibile mantenendo livelli di dignità umana, costruendo un bene comune solidale. In secondo luogo occorre la consapevolezza del fatto che l’aver dovuto scegliere di andare al governo con i 5stelle può costituire l’innesco di un processo di parlamentarizzazione se non di democratizzazione (nel senso di una democrazia rappresentativa) di un movimento nato sull’onda dell’antipolitica e di una demagogica democrazia diretta. Un processo difficile, certo, che potrà costare ai 5stelle la perdita di pezzi consistenti di consenso ma che può far fare loro un salto di qualità e che acquisirebbe alla scena politica un partito diverso con cui sarebbe più normale allearsi in una visione strategica comune e con programmi politici condivisi, dando così una prospettiva al centrosinistra.

Rispetto a tutto ciò il PD ha precise responsabilità in questo momento ed è necessario che esca dall’incertezza che rischia di farlo vivacchiare nel percorso governativo, paradossalmente lasciando l’iniziativa solo ai 5stelle, subendo inoltre gli attacchi quotidiani da parte del suo gruppo parlamentare che, con un’operazione che poco risponde alla logica politica, ha scelto, dopo aver spinto il PD a formare il governo, di uscire dal partito per andare a coprire un’area per certi versi scoperta. Vi sono appuntamenti vicini che consentiranno di vedere se il PD è in grado di uscire dall’impasse. Da parte nostra continueremo a seguire questa evoluzione così come cercheremo di essere attenti a quanto si muove nello scenario politico offrendo un nostro contributo. Sempre che il PD scelga con chiarezza di essere un partito plurale riconoscendo alle culture politiche, più che ai piccoli gruppi di potere correntizio, legittimità di presenza e anzi pieno diritto a contribuire all’elaborazione della linea e alle proposte del partito.

La crisi della sinistra

La crisi del centrosinistra è, in gran parte, la crisi della sinistra e/o delle sinistre. Non è solo una questione italiana, si tratta infatti di fenomeno riconoscibile in molti altri paesi. Cosa è accaduto? I profondi cambiamenti sociali e la crisi delle ideologie hanno lasciato un vuoto coperto in vari modi (ad esempio dalla ricerca di figure carismatiche), ma hanno indebolito la proposta politica.

Lo notava Dario Di Vico, in un suo articolo, apparso sul supplemento culturale “La Lettura” del Corriere della Sera del 6 ottobre con il titolo: “Senza sogni la politica non vive”. Il tema è centrale e tocca il compito della politica, a cui non è chiesto solo di proporre soluzioni ai problemi, bensì di saper coinvolgere in un disegno in un progetto attraverso cui intervenire sulla realtà.

Ma se la cultura latita, se la politica si riduce a tatticismo, a spettacolo, a battute, come è possibile che rappresenti un sogno capace di mobilitare energie e passioni, impegno e partecipazione? Ci si può solo limitare ad essere tifosi di questo o quel personaggio, che magari si sfidano in mediatica tenzone. Ma chi di noi, a mente fredda può pensare che questa sia la strada per affrontare i nodi del presente e per assicurare la prospettiva di un futuro vivibile per le prossime generazioni?

Vediamo una destra irrigidita in posizioni sterili ma capaci di raccogliere larghi consensi immediati, un centro incerto appeso a possibili starter che possono venirgli da una scelta in senso proporzionale della futura riforma elettorale, e una sinistra in crisi di identità che fatica a ingranare la marcia giusta e rischia di mettere la retromarcia. Stare fermi, o ripiegare, pare essere una modalità apparentemente più sicura anziché raccogliere la sfida che il centrosinistra aveva saputo accettare quando si è messo sulla strada dell’ulivismo prima e del Partito Democratico poi. Ma è di lì che occorre ripartire per tracciare il nuovo percorso. Una strada nuova per una società completamente rimescolata da profondi cambiamenti intervenuti e in gran parte ancora in atto. Un PD che si ponga come un “partito nuovo” in cui la pluralità di culture produce una sintesi capace di includere e sa indicare progetti.

Il rischio invece è che un tentativo del genere si infranga sugli scogli di un sogno bruscamente interrotto. Dobbiamo augurarci che per la salute stessa della democrazia italiana il PD riesca ad operare, ora che ha messo mano allo statuto, i cambiamenti necessari e diventi un partito “democratico davvero”, che si dia come missione l’attuazione effettiva della nostra Costituzione e una visione strategica per il futuro e per le nuove generazioni.

A proposito di nuovi soggetti politici

Il quadro politico nazionale si arricchisce poi in queste ore di un’ulteriore proposta che riguarda direttamente quel variegato mondo del cattolicesimo italiano al quale, anche noi col nostro impegno, cerchiamo di assicurare un’interlocuzione politica. La pubblicazione del manifesto politico redatto da Stefano Zamagni e Leonardo Becchetti, che annuncia la nascita di un movimento politico nazionale che intende strutturarsi e presentare liste in occasione delle tornate di elezioni regionali dei mesi prossimi, ripropone, questa volta in modo esplicito, la questione del rapporto fra cattolici e politica. Lo fa nella critica severa del quadro nazionale, con una netta presa di distanza da una destra a trazione salviniana e al tempo stesso la rivendicazione di una diversità rispetto al PD, questi amici avviano un processo che nasce con intenzioni alte (anche se appesantite da spezzoni retro’ ) e tuttavia è chiamato all’onere della prova politica, tanto programmatica e di costruzione di una classe dirigente, quanto elettorale.

Si tratta di un’operazione che intende collocarsi nel centrosinistra ma che è esterna al perimetro del PD. È una proposta, e come tale se ne vedranno gli esiti. Un’operazione che può avere il pregio di porre le premesse per un passaggio chiarificatore su quelli che possono essere gli spazi e le forme di un rapporto dei cattolici italiani con il diretto impegno politico nel quadro dell’attuale situazione del Paese. Può essere anche questo un tentativo di intervenire sul necessario restyling del centrosinistra in cui, tra l’altro, si contano altri tentativi (come ad es. quello di Demos). Un cantiere aperto rispetto il quale merita stima chiunque si adoperi intorno ad una prospettiva costruttiva; così come fanno tanti amici che si sono impegnati nel PD – con non poche difficoltà – con la mozione “Progetto Italia–Progetto Europa”.

In questa fase politica vi è più di un progetto che punta a riunire credenti e non credenti intorno ad un rinnovato impegno pubblico che si manifesta come urgente nella grave crisi che affronta il Paese.

Come ha fatto già in questi anni, l’associazione seguirà con attenzione l’evolversi di questi progetti, interloquendo con chi li anima e intensificando la propria iniziativa di analisi e di elaborazione culturale.

Racconto di un partito

Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Sergio Valzania

Un buon libro si riconosce anche dalla sua capacità di suscitare interrogativi che vanno oltre l’argomento specifico che affronta. È il caso di Democrazia Cristiana, il racconto di un partito (Palermo, Sellerio, 2019, pagine 248, euro 16) di Marco Follini. Il titolo è esplicito. Il volume prosegue l’attenta rilettura che dell’esperienza democristiana fa da anni l’uomo politico riconosciuto come il suo ultimo qualificato interprete, che l’ha accompagnata fino all’abbraccio nel Pd, dal quale poi si è ritratto con una commendevole discrezione. Il percorso è stato lungo, spostandosi via via dalla ricostruzione storica alla valutazione politica, come è il caso de La nebbia del potere di quattro anni fa.

«Il racconto di un partito» riprende il filone dedicato alla storia dell’esperienza democristiana, facendo tesoro del tempo trascorso e della riflessione maturata, negli anni, fino a produrre una trasformazione profonda. Nella nuova rappresentazione, a cambiare in modo deciso è il punto di vista dell’autore. Nella veste di saggista Follini si era presentato fino a oggi come cronista, analista e commentatore di quella che è stata la più lunga avventura politica dell’Italia moderna, giudicata da molti anche come la più fruttuosa. Il racconto lucido e corretto della vicenda pubblica di quegli anni e dei suoi protagonisti rimaneva puntuale, documentario, prezioso per la ricostruzione degli avvenimenti e per un giudizio su di essi, senza però essere capace di trascendere sul piano emotivo la dimensione contingente di quanto veniva esposto.

In questa occasione l’autore ha fatto un passo avanti nell’esperienza narrativa, ha accentuato la misura della propria compromissione affettiva ed empatica rispetto agli avvenimenti descritti, dei quali è stato testimone attento e a volte partecipe in maniera significativa. Questo lascia spazio al patos e apre all’interrogativo antico sul senso e sulle necessità della storia. Per scriverla occorre davvero il distacco dei secoli, come pretendevano i positivisti tedeschi dell’Ottocento, che finivano con il parlare dell’antica Roma per riferirsi alla Berlino dei loro anni, o bisogna sentire su di sé il fiato della contemporaneità, sull’esempio mai messo in discussione di Tucidide?

Leggendo l’ultimo libro di Follini non si hanno dubbi, la soluzione giusta è la seconda. Chi ha vissuto sulla propria pelle un’epoca storica, ne ha condiviso gli umori e i sapori, ne ha conosciuto e frequentato i protagonisti in momenti pubblici e privati, nelle virtù e nelle debolezze, è pienamente adatto a farla rivivere davanti agli occhi del lettore. Follini scrive della Democrazia Cristiana con il tono di un aristocratico russo fuggito dal proprio paese allo scoppio della rivoluzione d’Ottobre. Ha coscienza piena di rievocare un mondo scomparso — anche per sua colpa, senza nessuna speranza di rinascita, come tutte le fasi sociali, che il tempo si occupa di archiviare — ed è capace di scriverne con un rimpianto lucido, una tenerezza avvertita, un ricordo che va oltre la nostalgia.

Proprio questo senso di passato perduto, quest’aria da salotto Guermantes, costituisce uno degli indubbi elementi di forza del libro, insieme al riserbo e la delicatezza affettuosa con i quali Follini racconta la propria vita letta nello specchio politico della Democrazia Cristiana. «Non ci siamo mai saputi raccontare, noi democristiani», è l’incipit del volume, «Quanto siamo stati la regola, e quanto l’eccezione?» ne è la conclusione, interrogativa. Si passa dalla questione della narrazione storica a quella della periodizzazione.

Perché lì si colloca l’altro nodo che Follini, se non scioglie, contribuisce ad affrontare con linearità. La stagione del potere democristiano fu una parentesi, una sorta di bizzarra coincidenza di interessi che produsse un assetto del tutto originale per l’Italia, o forte di una tradizione secolare seppe cogliere alcuni dei tratti caratterizzanti della società, offrendole una grande occasione di espressione e di sviluppo?

È un tema che continua a riproporsi, nella confusa terminologia di prima, seconda, terza, forse addirittura quarta repubblica, senza che il sistema politico italiano sia stato capace di ritrovare l’equilibrio, in parte garantito dal contesto internazionale, che ebbe nel cinquantennio successivo alla guerra.

La partita tutta politica dell’impeachment di Trump

Articolo pubblicato dalla rivista Treccani a firma Mario Del Pero

La procedura d’impeachment di Donald Trump procede a pieno regime. Davanti alle commissioni competenti della Camera depongono a ritmo ormai quasi quotidiano alti funzionari dell’amministrazione, siano essi diplomatici di carriera o figure vicine al presidente che, come peraltro da consuetudine, sono stati catapultati in ruoli di responsabilità per i quali avevano talora poche o nulle qualifiche (è questo, ad esempio, il caso dell’ambasciatore presso l’Unione Europea Gordon Sondland, che ha svolto un ruolo centrale nel controverso dossier ucraino).

Il quadro che sta emergendo sembra essere abbastanza nitido. Trump e il suo avvocato personale, l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani, hanno promosso un’azione finalizzata a ottenere dall’Ucraina intelligence politicamente spendibile, soprattutto in vista dell’elezione presidenziale del prossimo anno. Più precisamente, il presidente ha cercato di acquisire prove atte a dimostrare che fu l’Ucraina (e non la Russia) ad hackerare il server del Partito democratico durante la campagna del 2016 dall’allora vicepresidente Joe Biden, e, soprattutto, a evidenziare come da vicepresidente Biden avesse esercitato indebite influenze per evitare che fossero aperte delle indagini contro l’impresa ucraina dell’energia Burisma, presso cui lavorava come lobbista il figlio Hunter. Per ottenere tale intelligence, Trump ha esercitato forti pressioni sull’Ucraina e sul suo nuovo presidente, Volodymyr Zelenskij, al punto da congelare lo stanziamento di un consistente pacchetto di aiuti militari già approvati. Inoltre, il presidente avrebbe chiesto e ottenuto la rimozione dell’ambasciatrice a Kiev Marie Yovanovitch e la marginalizzazione di diversi diplomatici e funzionari critici della diplomazia parallela di Giuliani e, più in generale, di un’azione atta a trascinare un altro Stato dentro le dispute politiche e le dinamiche elettorali degli USA.

Il materiale per l’impeachment, è chiaro, non manca. Ma l’impeachment è processo tutto politico, dato che al Congresso è demandata la sua gestione (ed eventuale approvazione) e la Costituzione definisce in modo assai vago i reati presidenziali che ne autorizzano la procedura (“il tradimento, la corruzione” e gli “altri gravi crimini e misfatti” indicati nella sezione 4 dell’art. 2), lasciando così ampia discrezionalità all’organo legislativo e dando, indirettamente, forte potere a un’opinione pubblica che – come scoprirono in modi diversi Nixon nel 1974 e Clinton nel 1998 – può indirizzare il processo in un senso o in un altro. È quindi alla politica, alla campagna elettorale in corso (per la presidenza, ma anche per il Congresso) e agli orientamenti degli americani che ci si deve rivolgere per cercare di capire cosa ci aspetta e quali saranno le posizioni delle due parti – repubblicani e democratici, trumpiani e anti-trumpiani – nelle settimane e nei mesi a venire.

La Camera a chiara maggioranza democratica approverà – forse già entro l’anno – la messa in stato d’impeachment di Trump. La palla passerà a quel punto al Senato, trasformato in una sorta di tribunale, guidato per l’occasione dal presidente della Corte suprema, con dei membri della Camera a svolgere il ruolo di pubblici ministeri, e con i senatori nelle vesti di giudici. Una maggioranza qualificata di 67 senatori su 100 sarà necessaria per completare la procedura e approvare l’impeachment. Allo stato attuale, ci vorrebbe il voto favorevole di 20 dei 53 senatori repubblicani: prospettiva, questa, del tutto irrealistica, che ‒ salvo cataclismi ‒ ci indica come l’impeachment di Trump sia destinato ad arenarsi alla Camera alta. Per evitare questa sorte ci vorrebbe una svolta radicale dell’opinione pubblica e, soprattutto, una massiccia defezione di sostenitori di Trump. I sondaggi ci dicono che questa non è però in atto, a dispetto delle rivelazioni e di deposizioni che in più occasioni sembrano avere messo in un angolo il presidente e il suo entourage. Sull’impeachment pare anzi riprodursi plasticamente quella frattura – radicale tanto per fissità quanto per polarizzazione – che da tempo i sondaggisti misurano rispetto al tasso di approvazione di Trump e del suo operato. Vi è una maggioranza, chiara, ma non larghissima, di favorevoli; una spaccatura estrema tra gli elettori dei due partiti (appena un 10-12% di repubblicani si dichiara favorevole); una percentuale d’indecisi concentrata primariamente tra gli indipendenti.

Qui l’articolo completo 

Pupi Avati: “Bisogna vedere se stessi attraverso i propri limiti”.

Il Maestro, Orson Welles ha scritto che un film non può essere perfetto se dietro la macchina da presa non pulsa il cuore di un poeta. Condivide  l’elogio di questa speciale sensibilità e la necessità, per un regista, di possederla?

In fondo è un po’ la conferma di quello che lei stesso ha confessato essere un Suo cruccio personale: puntualizzare la differenza tra nutrire una passione e possedere un talento. Nella sua ultima intervista Alda Merini mi aveva detto: ‘poeti si nasce’. Si nasce anche registi?

Si nasce narratori. Ogni essere umano è portatore di un mondo, di una sua identità, di qualcosa di assolutamente peculiare ed unico da dire. Ogni essere umano rappresenta “un’eccezione”: cristianamente parlando è “il prescelto”. Allora, considerando questa condizione, ognuno dovrebbe avere l’opportunità – e avvertirla come un dovere – di “dirsi”, di dire agli altri  “chi è” , attraverso quello che fa. Questo tema io lo affronto spesso nei miei incontri, nella mia ricerca professionale, specie con i giovani, esortandoli a trovare lo strumento che sia consono ad esprimere il loro talento, per far coincidere la loro professione, il loro mestiere, con la loro vocazione. E’ una cosa molto difficile perché confondere passione con talento produce travisamenti e delusioni. Io stesso ho trascorso molti anni della mia vita nell’illusione di diventare un buon musicista. Solo più tardi, nella vita, ho incontrato il cinema che mi permette di dire chi sono. Non è che io rappresento un’eccezione: ognuno di noi dovrebbe esprimere le sue potenzialità, averne la possibilità e il dovere, per non restare solo spettatore degli altri, per questo ognuno di noi è potenzialmente un poeta.

Trovo nei Suoi film una costante attrazione verso il passato, quasi un dovere della nostalgia e del ricordo come chiave di lettura per capire il presente. E’ dunque sempre così importante ’ricordare’?

Io alterno racconti nei quali si affronta “il presente”, come nel mio ultimo film che uscirà a febbraio – “Il figlio più piccolo” – e che tratterà il tema del denaro e della genitorialità della figura paterna nei suoi aspetti meno edificanti, con altri che riguardano il passato e la memoria, che in effetti sono prevalenti nella mia produzione. Io penso che sia necessario – soprattutto nei confronti delle giovani generazioni che vivono una distrazione di interesse così mortificante nei riguardi di tutto ciò che li precede dal loro presente – che ci sia qualcuno che rammenti loro da dove veniamo, chi siamo stati, quali sono le straordinarie opportunità che il presente ci offre grazie alle scelte di chi ci ha preceduto. E’ anche un dovere comparativo, tra ieri e oggi, per non cadere nella lamentela. Oggi non si sente altro che persone che si lamentano, che tutto  fa schifo, che per i giovani non ci sono prospettive e cose del genere. Ecco io vorrei che solo per un attimo si spalancasse una finestra sui “favolosi” anni 50, per capire come favolosi non lo fossero affatto. La memoria non è solo opportunità per vivere nostalgie della propria infanzia o adolescenza: è evidente che in genere uno prova nostalgia di quando era un ragazzo e di quello che spensieratamente faceva. Ma è anche lo strumento e il modo per dire quanto grama fosse la vita: nel mio film “Gli amici del bar Margherita”, i ragazzi che stavano dentro e fuori da un bar che speranze potevano avere, quali occupazioni o passatempi: quei quattro scherzi da dementi, da deficienti che facevano…..Non vorrei però che tutta questa disperazione, questa visione così negativa della vita che ci circonda oggi, depotenziasse e privasse i nostri figli e i nostri nipoti di quello che è un elemento importante dell’adolescenza della giovinezza che è invece l’attesa, la capacità di sognare, di attendersi qualcosa di importante dalla vita, di ‘pretendere’ una speranza per il loro futuro.

Mi fermo ancora sul tema del ricordo e della memoria, perché immagino ci sia molta autobiografia nei Suoi film. Rievocare immagini, sensazioni, presenze, sentimenti di una vita – soprattutto nella prevalente contestualizzazione delle relazioni parentali e amicali, come spesso lei ha scelto di fare –  ci vincola inevitabilmente alla nostalgia, ai pentimenti, alla sofferenza e – a volte – ai sensi di colpa – o può lasciare spazio ad una rivisitazione retrospettiva ispirata all’indulgenza, alla benevolenza e persino all’ironia? 

Sono assolutamente d’accordo sul fatto che l’autoironia sia uno degli elementi essenziali per arrivare alla credibilità., per ottenere da chi ti ascolta quella fiducia che altrimenti non riusciresti ad ottenere. Io penso che nell’interlocuzione, sia che avvenga attraverso un  dialogo, in quello che ci stiamo dicendo adesso o nel fatto che potremmo scambiarci proposte di lavoro, cinematografiche da parte mia o letterarie da parte sua, o con semplici opinioni, ci si possa intendere, capire, se si ha il senso del limite. 

Io penso che attraverso le dichiarazioni di inadeguatezza, che sono una costante dei miei protagonisti  – sono tutti personaggi portatori di disistima, di ingenuità , di complessi di inferiorità, incapaci di vivere all’altezza del contesto e delle aspettative sociali,  – alla fine del racconto quelli che sembravano i più fragili e i soccombenti diventano nelle mie trame in fondo degli eroi. 

Per rendersi reciprocamente attendibili io debbo esordire con lei confessando una mia debolezza, se esprimo fin da subito quello che è un mio limite lei si fida di me e mi ascolta con maggiore attenzione. Invece oggi succede che nell’interlocuzione, l’esordio, l’approccio è caratterizzato da toni di aggressività, diffidenza, tracotanza: subentrano sovrastrutture strategiche dietro le quali ognuno di noi si cela, si nasconde, si protegge per non rendersi visibile e intercettabile dagli altri e non si arriva mai ad un rapporto sincero e profondo, costruttivo e proficuo per entrambi.

Quindi l’autoironia è un qualcosa di veramente molto, molto  nobile.

Bisogna vedere se stessi attraverso i propri limiti – ci può essere anche un minimo di civetteria –  ma questo è il modo migliore per conoscersi e comunicare, per instaurare una relazione profonda.

Bisogna bypassare le schermaglie strategiche nei rapporti personali: il mio cinema intimizza subito perché i miei protagonisti sono portatori di questo atteggiamento.

Il contesto familiare, le figure genitoriali, le relazioni parentali sono i luoghi privilegiati di ambientazione dei Suoi film. Trovo in particolare che Lei abbia saputo descrivere con particolare efficacia narrativa il declino della figura paterna nella società contemporanea.

Nel cinema e nella realtà molte vicende narrano trame di disfacimenti familiari: che cosa è cambiato nella famiglia in questi anni, e come tutto ciò ha influito e influisce sul piano affettivo e di formazione dell’identità sui figli, sulla loro educazione sentimentale e sulla costruzione dei loro archetipi di vita?

Io penso che la situazione sia precipitata attraverso una forma di  deresponsabilizzazione di questi luoghi – e mi riferisco alla famiglia e poi alla scuola –  consacrati e deputati, resi rassicuranti da secoli e secoli, millenni di consuetudini e riconoscimenti di ruoli: in casa la madre era la madre, il padre era il padre, i figli erano i figli e cosi tutte le figure collaterali assumevano e interpretavano correttamente i ruoli ai quali erano chiamati. 

Adesso invece c’è una profonda modificazione di questi ruoli perché conta molto di più quello che è esterno al contesto familiare e allora abbiamo delle famiglie dove ci possono essere ‘due padri’, e quindi la madre è il secondo padre che non è più tale perché a sua volta nell’alibi della propria carriera trova delle giustificazioni che lo fanno scomparire come modello di riferimento formativo.

Tutto questo in nome di una finalità che è quella della competizione che avviene al di fuori del nucleo familiare. Il contesto familiare non è più considerato da nessuno il luogo privilegiato della formazione dell’essere umano: so di esprimere un’idea non più praticabile però se noi fossimo capaci di restituire alla famiglia il suo ruolo centrale nella società, ecco allora io penso che il 70/80%  dei problemi che affrontiamo oggi – di tutti i generi, in tutti gli ambiti – sarebbe totalmente risolto, cosa che invece non avviene.

Allora la deresponsabilizzazione si trasferisce in tutti gli altri contesti istituzionali, politici e sociali: nessuno fa più quello che dovrebbe fare, in nome sempre della carriera.

Di qualcosa, cioè,  che riguarda un impegno diverso e che diventa purtroppo prioritario.

Nei suoi film lei presta sempre molta attenzione agli aspetti quotidiani della vita, dove ci sono uomini e donne che hanno storie e vissuti che bisogna andare a scoprire, come sotto ad una lente di ingrandimento,  perché vivono, soffrono, amano, accarezzano sogni, lusinghe e utopie.

Che cosa l’affascina di questo mondo sommerso –  e ad uno sguardo frettoloso persino soccombente –  ma dove la gente ha sempre delle storie importanti da raccontare , che parlano al cuore di  ciascuno di noi e ai suoi segreti?

Mi affascina il fatto che sia totalmente sottaciuto,  mentre prevale un numero sconfinato di esseri umani che si riconoscono in personaggi la cui visibilità è dovuta al fatto che sono portatori di forza, di esuberanza, di dominio, di potenza, di ostentazione di sicurezza, di ricchezza, che compiono gesti di grande stravaganza.

Il proscenio è totalmente riservato a questa minoranza di ‘eroi’ mentre la stragrande maggioranza delle persone è rassegnata a diventare una platea sconfinata che è poi statisticamente rilevata dai numeri dell’auditel ma è come se non esistesse: non è ‘detta’, non è narrata, non è celebrata la sua quotidianità. Quando tra centinaia di anni qualcuno si chiederà: com’era la gente del ventunesimo secolo?…. nessuno saprà rispondere. Tutto, anche i dibattiti televisivi, gli approfondimenti sono l’enfasi delle eccezioni, dei pochi, dove tutti dovrebbero riconoscersi. Gli stessi temi proposti non sono quelli che riguardano e interessano la gente comune: omofobia, trans, veline ecc.

C’è una evidente distorsione della realtà.

Sono sempre i numeri che la fanno da padrone, non la qualità. Editoria, Tv impongono scelte tematiche – spesso vere e proprie porcherie – e ottengono consensi elevati: in genere gli spettacoli risultano apprezzati perché hanno ottenuto un’audience altissima, di milioni di spettatori ma questo avviene perché sono imposti e quindi c’è  un decadimento generale del gusto e della capacità critica, nel nostro Paese, che è veramente preoccupante. C’è molta supponenza, anche nella critica e una scarsa percezione generale della qualità e del singolo talento.

Trovo molta attinenza – se mi permette – tra il suo stile narrativo, l’ambientazione e personaggi dei suoi film e quelli di Federico Fellini. Condivide questa impressione, ci sono dei riferimenti che vi accomunano? 

Fellini è stata una figura focale nella mia scelta professionale in quanto se non avessi avuto questo riferimento non avrei immaginato che il cinema avesse questa centralità nella mia vita. “8 e 1/2” è stato un film che mi ha aperto gli occhi sulle opportunità che il cinema dava a chi riusciva in qualche modo ad  ‘impadronirsene’, a realizzarlo. Mi ha quindi segnato profondamente.

Poi  c’erano sicuramente delle consonanze, delle affinità derivanti dalle comuni radici: lui era cresciuto nella cultura contadina della terra di comune origine, nell’epoca prebellica (lui era del 22, io del 38) e quindi l’Italia alla quale lui fa riferimento era cristallizzata in ogni maniera e comportamento sociale, negli usi e nelle tradizioni, interpretazioni del mondo e della religione, cultura contadina: tutti ingredienti che hanno reso magico Fellini nella sua straordinaria creatività e ai quali io stesso non ho potuto restare insensibile, condividendone le origini.

Il mio problema è stato se mai successivamente di sottrarmi a questa stretta influenza culturale per non essere considerato solo un suo discepolo, ed è stata una cosa difficile e faticosa: ritagliarmi un mio spazio e una mia identità..

Silvio Orlando, Diego Abatantuono, Christian De Sica, Neri Marcorè, Luigi Lo Cascio, Katia Ricciarelli, Laura Chiatti, ma soprattutto il compianto Carlo Delle Piane: sono tutti attori che hanno dato il meglio di sé sotto la Sua regia. Abatantuono ha detto: “mi sento figlio di Pupi Avati”.

La Sua regia è stata dunque per loro l’occasione per far emergere  il mix vincente di passione e talento?

Il rapporto con gli attori è sempre “non rassegnato” rispetto a quello che loro hanno già dato e fatto nel corso della loro vicenda professionale: mi sono sempre immaginato rispetto a loro in qualcosa che andasse oltre il già visto. In genere mi è sempre stato molto utile non conoscerli., sapere poco di loro, non avere visto nessuno dei loro film, per potere essere libero di immaginare di dare loro un abito diverso da quello indossato fino ad oggi. E’ molto stimolante per me e anche per loro: cito Lo Cascio, in genere attore drammatico, emblema del rammarico della vita di oggi e di ieri, che ho chiamato a recitare un ruolo da “erotomane scemo siciliano”, cosa che lo ha molto divertito.

Spaesare, decontestualizzare un attore e aggiungere alla sua tavolozza un’ottava in più, un colore che non sapeva di avere; quando l’operazione riesce c’è un buon risultato. Credo che dia arricchimento all’attore.

Rapporto tra cinema e televisione in relazione ai comportamenti sociali: la mia impressione è che il cinema possegga una migliore capacità di descriverli e interpretarli, è quindi più efficace la fruizione dello spettacolo che sa offrire. La televisione finisce solo per condizionarli in modo stereotipato, con modelli anche pesantemente diseducativi.

E’ dunque la TV che parla al Paese? Mi pare che se ne siano accorti tutti, a cominciare dalla politica. Secondo Lei si tratta di una deriva culturale irreversibile?

Si lo è, e lei acutamente ha osservato che è la TV che parla al paese reale. Io continuo a dirlo da decenni: questa operazione di arretramento del cinema italiano ha fatto sì che abbiamo lasciato spazio alle seconde, terze e quarte file che si sono impossessate dello spettacolo attraverso la TV commerciale che ha i suoi film e si è imposta: il cinema vero è uno spettacolo di nicchia, che si rivolge a minoranze elitarie, soprattutto nelle grandi città, penalizzato anche dagli incassi. Il cinema non parla più al paese, la società non la cambia più.

Sicuramente questa deriva è negativa e pure irreversibile. Il  cinema è in declino, la TV ha un’incidenza devastante: è la peggiore maestra che il Paese possa avere.

Le giovani generazioni vivono con disagio le relazioni familiari, sopportano la scuola, realizzano comportamenti prevalentemente solipsistici, consumistici, esprimono vissuti a volte aggressivi, hanno un rapporto quasi assente con la politica….

Qualcuno ha definito i giovani di oggi “fragili e spavaldi”.

Che cosa non funziona più a casa, a scuola e nel più ampio contesto sociale?

Non le pare che per cambiare qualcosa gli adulti che hanno delle responsabilità, più che dalle parole dovrebbero partire dagli esempi?

Lei è molto bravo perché nella sua domanda c’è già la risposta: è assolutamente così. Vale il discorso che ho fatto per la famiglia. Ci sono dei modelli che hanno funzionato e ora non più.

Quando incontriamo i ragazzi che si candidano al cinema li troviamo rassegnati al fatto che non ci sia nessuna chance, a differenza dei raccomandati o di coloro che imboccano scorciatoie scorrette. Vengono per assolvere a un dovere che giustifichi il loro fallimento, per avere un alibi e tornare nella nicchia dei perdenti. La descrizione continua che si fa sui comportamenti scorretti della società è deleterio, produce disaffezione e sconforto: il mondo fa schifo, tutto fa schifo, tutti vogliono fregarti. Aggiungiamo poi il degrado estetico: i giovani assumono spesso modelli di riferimento estetico negativi, fanno di tutto per imbruttirsi. Trovo questo aspetto inquietante.

Maestro Avati, chiudo usando come metafora del nostro tempo il titolo di una poesia di Attilio Bertolucci: “Assenza, più acuta presenza”.

Mi sembra che di tante cose che una volta c’erano e che ci sono sempre meno (il silenzio, la riflessione, i sentimenti, le passioni ma anche una certa capacità di sapersi accontentare per essere più sereni….) si avverta il nostalgico bisogno di un ritorno.

Che cosa ci rende –oggi – infelici e a quali speranze possiamo affidare il nostro futuro?

Ho la sensazione che l’infelicità sia una componente essenziale della nostra condizione umana e che sia ingannevole e non verosimile asserire che nel passato c’era meno infelicità di quanto ce ne sia nel presente. L’infelicità e anche la sofferenza sono le scuole alle quali si cresce di più e meglio..

La bravura e la capacità interpretativa di un attore, di calarsi nel personaggio, non gli derivano dalla scuola che ha frequentato ma dall’infelicità che ha vissuto.

La conoscenza della vita passa attraverso la sofferenza. L’infelicità non è una novità del presente: un tempo si cercava di debellarla o di renderla compatibile ad uno scopo di riscatto, oggi la si subisce e ci costringe alla rassegnazione attraverso l’omologazione dei comportamenti sociali: fare tutti le stesse cose.

Non è che negli anni 50 ci fossero più opportunità di oggi, è una menzogna. Ma oggi mancano le utopie individuali e collettive, la voglia di riscatto.

Trump sposta la residenza in Florida.

Donald Trump abbandona la Grande Mela. Il presidente ha annunciato che trasferirà la sua residenza in Florida eleggendo come sua ’prima casa’ il resort di Mar a Lago.

Non solo motivi fiscali dietro la scelta dell’inquilino della casa bianca.

“Amo e amerò sempre New York e la gente di New York ma purtroppo, nonostante paghi milioni di dollari ogni anno in tasse cittadine, statali e locali, sono stato trattato molto male dai leader politici sia della città che dello Stato”, ha spiegato il presidente Usa per motivare il trasferimento in Florida

«Finalmente ce ne siamo liberati», replica il governatore Cuomo a Trump.

In Florida non ci sono tasse statali e locali sui redditi e neppure tasse immobiliari o di successione, per questo motivo lo Stato continua ad accogliere numerosi super ricchi della Grande Mela

 

 

Su Spotify è boom per il sacerdote Don Cosimo Schena

Don Cosimo Schena è un prete, filosofo, scrittore e poeta. Conosciuto da tutti come Mino, nasce a Brindisi nel 1979 e nel 1998 intraprende gli studi di Ingegneria Informatica.
Nel 2001 l’amore verso Dio gli fa comprendere che deve dare una svolta nella sua vita e così inizia il cammino verso il sacerdozio e nel 2009 viene ordinato presbitero. L’amore per la filosofia e l’amore per la scrittura lo porteranno a continuare gli studi, laureandosi in filosofia prima presso l’Università di Tor Vergata e poi presso l’Università di Verona.
Attualmente ha concluso il Dottorato di ricerca in filosofia presso la Pontificia Università Lateranense approfondendo il tema del totalitarismo e del misticismo in Simone Weil.
Oggi Don Cosimo svolge il suo ministero pastorale a Mesagne e nella formazione scout come assistente.
Per ascoltare le ultime creazioni di Don Cosimo questo è il link di Spotify: https://open.spotify.com/artist/3MuNO9W7pgh0o9blBX1p6M?si=GJtLaBRtS_CNinS1EY92_Q mentre per chi volesse seguirlo su Instagram basta cercare Cosimo Schena Prete Poeta: https://www.instagram.com/cosimoschena_pretepoeta/

Il morbillo azzera gli anticorpi

Il virus del morbillo cancella la memoria spazzando via fino al 73% degli anticorpi che ci difendono da altre malattie come influenza, herpes e polmoniti.

Questa situazione può durare anche mesi, è stata documentata per la prima volta in un gruppo di 77 bambini olandesi non vaccinati, al centro di due studi internazionali pubblicati sulle riviste Science e Science Immunology.

Come sottolineano gli stessi ricercatori, i risultati dimostrano che “il morbillo è più pericoloso di quanto immaginiamo” e che “il vaccino ha benefici addirittura superiori all’atteso”, dal momento che può proteggere anche da infezioni secondarie alla malattia.

Proprio la vaccinazione ha abbattuto dell’80% i casi di morbillo nel mondo tra il 2000 e il 2017 salvando 2,1 milioni di vite, ma a causa delle più recenti campagne no-vax la tendenza si è invertita, tanto che il numero dei casi dal 2018 a oggi è aumentato del 300%.

Nel vuoto riemerge la questione cattolica. Il merito di Zamagni.

Articolo pubblicato dal nostro direttore questo pomeriggio sul sito formiche.net 

Non è vero che dopo la Dc i cattolici siano stati assenti dalla scena pubblica. Hanno continuato a dare il loro contributo, alcuni in forma organizzata, altri a livello di testimonianza individuale. Sul pluralismo, croce e delizia del post-concilio, non si sono risparmiati minimamente. Qualcosa però fa dire che aleggia, dentro e fuori lo spazio della comunità ecclesiale, un certo motivo d’insoddisfazione. Nel tempo si è smarrito il senso di appartenenza, proprio per la mancanza di un grande partito di riferimento, in qualche modo di riferimento anche nella critica o nel dissenso. Oggi, non a caso, si torna sul discorso dell’impegno politico unitario – almeno come unità nella diversità – e quindi sulla controversa ma suggestiva ipotesi di un nuovo partito.

Il merito di Stefano Zamagni è di aver rilanciato la discussione sul punto, lasciando a tutti i soggetti interessati il compito di lavorare attorno al documento che reca in primis la sua firma. Sui contenuti piovono larghi consensi. Non si parla di “partito cattolico”, né di coperture della Gerarchia. Traspare semmai un desiderio tutto laico di partecipazione, come se dietro alcune stanche liturgie crescesse piuttosto l’urgenza di una risposta, in nome dei valori di solidarietà e giustizia sociale, al rischio di declino del Paese. Fede e politica, specie in Italia, non debbono confondersi.

Zamagni è coraggioso sul programma e timido sulle alleanze. La sua tesi consiste nell’anteporre alla politica negativa, per la quale tutto si riduce all’azione di contrasto dell’avversario di turno, una possibile e auspicabile politica positiva: viene prima il bene della nazione. Sturzo, in effetti, ha insegnato quanto sia appropriata e moderna la formula del “partito di programma”. Tuttavia De Gasperi è andato oltre, stabilendo un legame inscindibile con la questione delle alleanze. È noto che l’istituto della coalizione nasce come elemento strutturale di novità grazie al modello del centrismo degasperiano. Moro infine ha chiuso il cerchio – lo fece in antitesi a Scelba nel congresso di Napoli del 1962 – denunciando il carattere qualunquista che assume fatalmente un programma sganciato dalle alleanze. Dunque, non serve proclamare l’identità in una camera dell’eco.

Oggi il cattolicesimo democratico si trova a registrare un bisogno di ricostruzione della rappresentanza politica. Salvini ha impresso una svolta radicale all’iniziativa della destra attraverso l’omologazione delle varie componenti, compresa Forza Italia, alla linea nazional-radicale della Lega. Nonostante l’uscita dal governo, Salvini miete consensi e vince impetuosamente. C’è qualcosa, allora, che non funziona nella dialettica tra sovranisti e democratici, perché molti elettori anti-salviniani stentano evidentemente a riconoscersi nell’equilibrio assai precario della maggioranza di governo.

In sostanza, la prospettiva di un connubio tra Pd e M5S fa pensare a una mera ricomposizione della sinistra, con l’abbandono della sana collaborazione tra le diverse culture a vocazione riformista, tanto di centro quanto di sinistra. Lo spazio è vuoto – nemmeno Renzi lo colma – per quanti non si rassegnano a una semplificazione tra destra e sinistra. Ed è questo vuoto, in ultimo, che pone l’esigenza di una forte iniziativa politica, sull’onda di una riemergente questione cattolica, per dare nuova forma e nuova sostanza alla competizione con il blocco sempre più egemonizzato dalla Lega.

Prima o poi ci saranno le elezioni

Credo che l’articolo di Carlo Parenti (https://www.politicainsieme.com/?p=3578), pubblicato oggi su Politica Insieme, ci aiuti a definire le vere priorità per la nostra iniziativa politica. L’Italia reale è quella descritta dal dg Censis, Valerii: “Le persone non immaginano un futuro migliore del presenti. Non coltivano sogni…”. Le prolungate politiche austeritarie e di deflazione salariale hanno creato, come spiega Ricolfi nel suo ultimo libro, una società “signorile” di massa, sostenuta da una base di alcuni milioni di “paraschiavi”, non-persone di cui nessuno s’interessa, ed hanno causato una precarietà di massa, solo attutita, per ora, dal compensare con risparmi e patrimoni immobiliari il drastico calo di tenore di vita e di opportunità di lavoro, soprattutto per i giovani. Una bomba (atomica) ad orologeria che tra pochi anni esploderà, se si continua a perseguire lo schwarze Null di bilancio.

Se questa è la prospettiva, allora ritengo che le critiche di Giorgio Merlo al progetto del nuovo Partito Popolare, abbiano il merito di metterci in guardia dagli errori che non possiamo più compiere. E l’unico modo per evitare che il tutto si riduca, per dirla con delicatezza, a un tram che qualcuno già pensa di poter prendere a tavolino verso ruoli istituzionali, è un assetto federativo di tutte queste realtà, le quali, come ha descritto efficacemente Merlo, nascono con identici proclami come i funghi, ma che spesso non sono capaci di guardare oltre il proprio naso. Ogni territorio deve poter decidere le candidature dei collegi, uninominali e proporzionali, della propria città, provincia, regione. Questo va messo in chiaro preliminarmente e sta alla base di un impianto organizzativo decentrato e policentrico e veramente democratico.

Anche perché ciò che ci aspetta non sarà una passeggiata. Prima o poi ci saranno le elezioni. E dopo lo scontato trionfo elettorale della destra gli italiani, tempo sei mesi/un anno si accorgeranno di essere stati presi in giro da Salvini e dalla Meloni, i quali non dispongono di alcuna seria ricetta per fermare una crisi che in Europa sarà ancor più devastante a causa delle politiche procicliche imposte dalla Germania all’Ue (mentre Usa e Brics stanno prendendo tutte le misure possibili per mettere al riparo le loro economie dalla bufera globale in arrivo).

Quindi, ciò che bisogna fare soprattutto è pensare sin d’ora a farsi trovare preparati per il momento, non lontano purtroppo, nel quale, proseguendo con le attuali politiche austeritarie, si rischierà di arrivare all’emergenza democratica, aggravata dal da una situazione sociale, economica ed internazionale, che all’improvviso scopriremo essere deteriorata più di quanto si possa immaginare. Il nostro compito prioritario non può che essere quello di prepararsi fin d’ora a quel momento, trovando il coraggio di dire la verità ai cittadini su cosa li attende in modo che insieme si possa trovare la via per tentare di salvare il Paese, o quantomeno di limitare i danni.

Il “partito cattolico” non esiste

Periodicamente si straparla di “partito cattolico”. Poi si chiarisce che non si tratta di “partito cattolico” ma di altro. A esempio, di un rinnovato “partito di ispirazione cristiana”. Poi si corregge nuovamente il tiro sostenendo che non si vuole riproporre la Democrazia Cristiana e né il Partito Popolare Italiano. Ma non si riesce, com’è ovvio, ad uscire dall’equivoco sulla natura e sul profilo del nuovo partito che non si definisce cattolico ma, di fatto, lo è. Il tutto accompagnato dalla litania che è indispensabile nonché necessario promuovere una nuova classe dirigente e non più facce usurate e logore del passato dimenticandosi che poi, puntualmente, i promotori di queste varie ed infinite esperienze hanno comprensibilmente svariate primavere alle spalle. Ma, al di là dei vari protagonismi personali, quello che merita di essere approfondito e’ il risvolto politico della questione. Che era e resta sul tappeto.

Ora, è indubbio che i cattolici democratici e popolari italiani non possono continuare a stare alla finestra contribuendo, così facendo, a rinnegare un modo d’essere che li ha contraddistinti storicamente nella politica italiana. Dal secondo dopoguerra sino alla fine dell’esperienza del Ppi di Mino Martinazzoli con la confluenza nella Margherita prima e nel Partito democratico dopo. Ma questo non è sufficiente per spiegare e giustificare la rinascita tout court di un nuovo e rinnovato “partito cattolico” per l’ennesima, seppur comprensibile, ambizione personale di qualcuno. Un partito, l’ennesimo tra l’altro, non può nascere limitandosi a replicare in miniatura il passato. Perché di questo si tratta e, purtroppo, attorno a questa contraddizione non risolta si spiega l’ormai cronico insuccesso di tutte le innumerevoli sigle politiche ed elettorali che in questi anni si sono succedute non superando mai, dico mai, la percentuale fatidica dell′1%. Ci sarà un motivo, tra l’altro, che spiega l’ormai cronico e permanente insuccesso politico ed elettorale di tutte le formazioni che si sono susseguite in questo ventennio. A cominciare dall’antica formazione di Andreotti e D’Antoni nel lontano 2001 – l’ormai famosa Democrazia Europea – per poi estendersi ad una cinquantina di altri esperimenti che nelle varie elezioni provinciali, regionali, nazionali ed europee si sono sempre schiantate non superando alcuna soglia di sbarramento. Fermandosi, puntualmente, tutte attorno al′1%. E questo al netto delle buone intenzioni e della buona volontà dei vari proponenti che, però, alla fine, non facevano che scimmiottare maldestramente le esperienze del passato che, come noto, non ritornano più con le sembianze dell’epoca che fu.

Eppure, e malgrado tutto ciò, prosegue instancabilmente l’opera ricostruttiva di queste varie esperienze politiche ed organizzative. Che sono più d’una, secondo tradizione. E tutte in conflitto le une contro le altre e tutte destinate, come da copione, ad un matematico e scientifico insuccesso. In quest’ultima settimana ne sono nate altre due. Curiosamente nello stesso giorno e quasi nelle stesse ore con le medesime parole d’ordine e con l’altrettanto medesimo obiettivo politico e culturale. E’ inutile soffermarsi sulla durata e sul successo politico ed elettorale di queste esperienze politiche e culturali. Seguirà quelle che si sono affacciate dall’inizio degli anni duemila sino ad oggi. Anzi, sino alle ultime elezioni regionali ed europee.

Ecco perché quando si affacciano all’orizzonte queste ipotesi – al riguardo sarebbe consigliabile se i vari promotori non accampassero l’avallo per simili operazioni dei vari presuli, cardinali se non addirittura di Papa Francesco – occorre sempre affrontarle e commentarle con la dovuta prudenza e con una cristiana e consapevole pazienza.

Semmai, pur senza interrompere un dibattito interessante e proficuo attorno ad una rinnovata presenza politica, culturale ed organizzativa dei cattolici democratici e popolari italiani, il tema va affrontato nella sua complessità senza dimenticare ciò che è capitato in Italia, non in Olanda o nel Lussemburgo, negli ultimi 20 anni. E questo per evitare di seminare confusione e ingenerare facili illusioni tra i cittadini. Perché, come l’esperienza concreta conferma persino platealmente, si è trattato sempre e solo di sconfitte e di esperienze fallimentari.

Rete Bianca non vede il “partito cattolico” nel documento Zamagni

Negli ultimi due giorni si è parlato della nascita di un nuovo partito – anzi, per semplificare, di un nuovo partito cattolico – che prenderebbe forma sulla base del documento (annunciato da tempo da “Il Domani d’Italia”) che il prof. Stefano Zamagni nelle scorse settimane aveva messo a disposizione di una serie di interlocutori. 

Chiaramente si tratta di una forzatura, non attribuibile alla genuina volontà dei promotori. Tutti sono consapevoli della insidia nascosta nei richiami a un presunto “partito cattolico”. Rete Bianca, a scanso di equivoci, aveva pubblicato su questo foglio online una nota (v. edizione dell’11 ottobre scorso) con la quale si chiariva il senso dell’adesione al suddetto documento. 

Va detto, a maggior ragione oggi, che non rientra nell’orizzonte di Rete Bianca, così come dichiarato dal coordinatore Dante Monda, l’ipotesi di un meccanico passaggio alla formazione del partito. Interessa piuttosto aprire un confronto a tutto campo, senza sbocchi precostituiti, dando alle centinaia di gruppi di espressione “popolare” presenti sul territorio la possibilità di intervenire nel merito delle questioni affrontate da Zamagni.

Il cattolicesimo democratico attraversa la sua lunga stagione di rielaborazione dei temi e delle sensibilità che ne caratterizzano la storia. L’errore più grave consiste nel credere che uno sbocco politico venga determinato da un’operazione di laboratorio. Gli annunci sul ritorno al partito “d’ispirazione cristiana” sono validi, pertanto, solo se rimangono problematici,  tali cioè da indurre a sviluppare – al vertice e alla base – un lavoro umile e produttivo.

Riproduciamo di seguito la nota di Rete Bianca (pubblicata, come sopra ricordato, l’11 ottobre scorso) e il documento predisposto da Zamagni.

Nota

Da tempo la nostra cultura, nella dimensione politico-istituzionale, è circoscritta alla testimonianza dei singoli: vive in forma collettiva solo nel prezioso ambito della società civile.

Ma l’emergenza posta dalla crisi della democrazia – nella sua dimensione comunitaria e nella sua vocazione alla giustizia sociale –  ci interpella con domande profonde e richiede una rinascita della Politica in tutte le sue ispirazioni ideali.

Senza questo risveglio delle culture e delle idealità, i messaggi del populismo e della destra – verso i quali “degasperianamente” manteniamo una insuperabile alternativitá – non si sconfiggono.

Sappiamo tuttavia che i paradigmi sono cambiati e non ha senso alcuno riproporre formule del passato. Anche la forma della rappresentanza e dei partiti deve essere oggi ripensata e rigenerata.

Per questo, oggi non intendiamo ricercare affiliazioni di sorta o soluzioni improvvisate e di fragile costrutto.

Vogliamo invece avviare un percorso nuovo, tutto da costruire, nelle proposte e nelle forme.

Vogliamo prima di tutto dare voce politica autonoma ad una Comunità di ideali e di pensiero.

E, attorno ad essa, a partire dalle dimensioni locali e dalle reti già attive, organizzare una proposta politica orientata al futuro.

Guardiamo all’azione del nuovo Governo e osserviamo le evoluzioni del quadro politico avendo a cuore la salvaguardia di un argine ai diversi populismi, con il ripudio della destra anti europeista e xenofoba. Dentro questo perimetro di solidarietà ideale e politica coltiviamo l’ambizione di nuove “sintesi popolari”, partendo dalla formazione di un movimento aperto al futuro.

Pensiamo che il nostro Paese è ancora alla ricerca di un nuovo equilibrio, capace di dare vera rappresentanza alla società e autentica risposta nel segno del servizio al Bene Comune.

Il nostro percorso intende porsi in questa prospettiva, con autonomia e disponibilità alla cooperazione politica.

Documento

PER LA COSTRUZIONE DI UN SOGGETTO POLITICO “NUOVO” D’ISPIRAZIONE CRISTIANA E POPOLARE

      Preambolo

Quello che segue è un Manifesto, e non (ancora) un Programma Politico. Esso mira a definire l’orizzonte entro il quale il nuovo soggetto politico intende muoversi per giungere ad articolare le “ policies” e per chiarire il suo modo di agire.

 

 

  • La nostra è una stagione straordinaria

 

Le condizioni dell’Italia richiedono interventi straordinari, nei metodi e nei contenuti.

Le gravi difficoltà sociali, economiche e morali del nostro Paese, analoghe a quelle dei paesi del mondo occidentale, confermano quanto l’opzione riformista sia inadeguata, giacché il nostro tempo è connotato da fenomeni di portata epocale quali quelli della nuova globalizzazione, della quarta rivoluzione industriale, dell’aumento sistemico delle diseguaglianze sociali, degli straordinari flussi migratori, delle questioni ambientali e climatiche, della caduta di valori etici, nelle sfere sia del privato sia del pubblico. Le passioni ideali della solidarietà e della tensione civica sono sostituite da egoismi sociali e dall’individualismo libertario. Non basta allora “ri-formare”, occorre piuttosto “tras-formare”.

La Politica deve tornare a svolgere un ruolo fondamentale per la rigenerazione della vita pubblica, avanzando un nuovo modello di sviluppo inclusivo e solidale che, anche in riferimento alle prospettive indicate dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite con i suoi 17 obiettivi di sviluppo, sia in grado di sconfiggere le povertà e risolvere la complessa equazione che tiene insieme impresa, produzione, lavoro, consumi.

Il lavoro per tutti, da considerare quale primo obiettivo politico; il sistema produttivo da rilanciare, anzitutto nel Mezzogiorno; le Istituzioni, lo Stato e i partiti da riformare; la famiglia e la generazione e l’educazione dei figli da sostenere;  il sistema formativo e la Scuola da rianimare, all’interno di una più generale risposta alla grave condizione giovanile; lo sviluppo equilibrato e sostenibile e la lotta al degrado ambientale sollevano condivise attese, ma al tempo stesso, costituiscono motivi di  un intervento pubblico generoso.

Questi obiettivi trovano fondamento nel riconoscimento della Persona, della sua dignità in tutti gli stadi della vita, dal momento del concepimento fino alla sua conclusione naturale, e della famiglia che resta il primo insostituibile nucleo umano e sociale.

Le relazioni internazionali, soprattutto quelle dell’Europa e del Mediterraneo, cambiano e portano nuove trepidazioni per il mantenimento della Pace, messa a repentaglio dall’indebolimento degli organismi sovranazionali e dall’inaccettabile corsa agli armamenti.

Di fronte a tutti questi problemi, fortemente debilitato appare l’insieme del sistema politico ed istituzionale. Inevitabili le conseguenze sul funzionamento della cosa pubblica, centrale e locale, a partire dalla Giustizia e dall’apparato burocratico. Crescente è l’insoddisfazione da parte dei cittadini sempre più estraniati e distanti, persino dalle urne. Si deve rispondere a queste insoddisfazioni e ridare speranza alla nostra gente. Il centralismo statalista non nuoce solo alla società civile, ma anche al principio dell’autogoverno responsabile dei territori.

Riteniamo che oggi vi siano le condizioni per dare vita ad una nuova forza popolare aperta a credenti e a non credenti attorno ad un progetto politico di rinascita del Paese e dell’Europa. Tale progetto dovrà emergere ed essere precisato tramite il confronto democratico ed il dialogo tra tutte le persone e le forze che si ispirano ai medesimi principi qui sotto enunciati, superando le divisioni ed i personalismi del passato.

 

  • Necessità di ripartire da un “pensiero forte”

 

Ha scritto Montesquieu: “La corruzione dei governi comincia sempre dalla corruzione dei princìpi”. I princìpi sono indispensabili perché indicano la direzione verso cui andare per realizzare il “bene comune”, inteso come il bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo

Il nuovo soggetto politico contribuirà alla riscoperta di un “pensiero forte” nel riferimento ai principi della Costituzione, del Pensiero sociale della Chiesa e delle varie dichiarazioni sui Diritti dell’uomo.

Molti dei problemi italiani sono dovuti a un sistema bipolare che ha provocato divisioni e divaricazioni nella società, senza assicurare la governabilità, e ha reso più difficile il rapporto degli eletti con i loro elettori e con i territori di riferimento.

C’è dunque da definire un sistema elettorale sostanzialmente proporzionale – con le dovute soglie – capace di ridare viva voce e piena rappresentatività a tutti i settori vitali della società, valorizzando il ruolo del Parlamento e degli organi elettivi ad ogni livello, nel quadro di una forte affermazione della democrazia rappresentativa e partecipata.

Ci ispiriamo al modello di democrazia liberale basato su partecipazione, rappresentatività, equilibrio, volontà di inclusione, realismo, ragionevolezza e concretezza.

 

  • Gli interventi necessari

 

Ecco le nostre proposte:

3.1) Contrastare quelle forme della politica (populista o sovranista) che umiliano i corpi intermedi della società, privati della capacità di proposta e di indirizzo. Ciò implica il passaggio verso un modello di ordine sociale fondato su Stato, Mercato, Comunità, in cui i corpi intermedi siano valorizzati per le loro proprie specificità.

3.2) Favorire il recupero delle energie vitali della società civile, molte delle quali sono promosse e consolidate dall’esperienza cristiana. Somma di intelligenze, di organismi, di capacità e di punti di vista, devono essere coinvolte il più possibile nei processi di partecipazione da cui scaturiscono idee, progetti e risultati migliori. Deve essere valorizzata e sostenuta quella rete fatta di partecipazione generosa, spontanea e benefica che, parte del più generale volontariato civile, si occupa delle disuguaglianze, dell’aiuto agli ultimi, ma anche della dimensione spirituale e culturale per rispondere alla necessità di curare le relazioni di chi è solo e abbandonato, molto spesso nell’assoluto disinteresse o in sostituzione del pubblico intervento.

Ciò significa anche ripensare il ruolo e l’organizzazione dello Stato, in particolare per quanto riguarda la piena attuazione del Titolo V della Costituzione sul sistema delle Autonomie locali e un riconoscimento delle funzioni proprie del Comune, della Provincia o Città Metropolitana e della Regione.

La presenza dello Stato deve tornare ad essere finalmente orientata verso una funzione di garanzia e di servizio per il cittadino, le famiglie e le organizzazioni intermedie. E’ necessario, così, partire per prima cosa dal ripensare  la Pubblica amministrazione mettendola al servizio delle persone e della Legge, e non il contrario, e correggere tutte le distorsioni che impediscono al cittadino di uscire da una posizione di subalternità.

3.3) La famiglia – da considerarsi come una risorsa oltre che un bene in sé da tutelare – deve vedere riconosciuta la propria essenza e funzione, perché in essa prende forma la vita umana. In essa si articolano le più dirette relazioni interpersonali, si crescono e si formano i figli che un uomo e una donna decidono liberamente di concepire come atto di amore e di fiducia verso il loro futuro e quello dell’intera società. La famiglia è spesso l’ambito in cui si vive anche la conclusione della propria vita e ad essa ci si affida perché possa essere la più naturale e dignitosa possibile. La sollecitudine pubblica verso la famiglia deve diventare, allora, un insieme di impegni che riguardano la valorizzazione della Persona e della coesione sociale, oltre che portare un sostegno all’economia generale.

Nel “deserto” della natalità cui assistiamo, devono essere consentiti il diritto reale alla procreazione, il sostegno lungo l’intero processo educativo dei figli e la funzione di primo presidio di cura delle disabilità e dei tanti disagi fisici e di relazione affrontati, spesso, senza poter contare su aiuti sostanziali. Aiuti sostanziali che, nello spirito dell’art.1 della legge 194, dovrebbero servire a scoraggiare l’aborto e favorire il diritto alla maternità e alla paternità.

3.4) La crisi del sistema economico capitalistico e l’influsso della cosiddetta finanziarizzazione sollecitano a cogliere le trasformazioni in atto e a promuovere nuove politiche industriali, sostenendo i processi di innovazione ed internazionalizzazione in particolare delle PMI, dell’artigianato, dell’agricoltura, dell’agroalimentare e del turismo, e a dirigerci verso un’economia civile di mercato, disegnata dagli art. 41, 42 e 46 della nostra Costituzione, finalizzata alla prosperità inclusiva, cioè non solo a vantaggio di pochi. Solo la costruzione di società “generative” può consentire a ciascuno di raggiungere la propria realizzazione. In esse, infatti, non si umilia quanti sono in difficoltà con provvedimenti di paternalismo di Stato e/o di conservatorismo compassionevole. Si tratta, invece, di attuare politiche che tutelino, in modo congiunto, la persona, la società, la natura, come proclama con vigore la Laudato Sì.

Tutelare la natura significa avviare una transizione ecologica, tecnicamente e finanziariamente possibile, unica prospettiva di sviluppo e di competitività in grado di affermarsi in un’economia in via di ristrutturazione con la “circolarità” e la sostenibilità ambientale delle opere pubbliche, come quelle civili. Si osserva che la prima vera grande opera pubblica da realizzare è il mantenimento continuo di tutte quelle pubbliche.

Da aggiungere il grande potenziale di occasioni di lavoro, ancora non valorizzato appieno, rappresentato dall’immenso campo dei beni culturali.

3.5) La tutela della Persona e della società si concretizza anche nell’adozione di una politica volta alla piena occupazione, con misure volte alla riduzione del costo del lavoro, a favorire il nesso tra remunerazioni e produttività, a rilanciare un piano di investimenti per lo sviluppo dei settori strategici – in grado di assicurare e sostenere le condizioni per la ricchezza di senso della vita di ciascuno, e con il superamento delle attuali scandalose diseguaglianze sia sociali, sia territoriali tra Nord e Sud.

3.6) La riforma del welfare, da lasciare in ogni caso universalista, deve passare dal modello di welfare state al modello del “welfare di comunità”, grazie al quale è l’intera società, non solo lo Stato, a farsi carico del benessere di coloro che in essa vivono, con l’apporto degli enti pubblici, delle imprese e della società civile organizzata attorno alla famiglia. Si tratta dunque di dare ali al principio di sussidiarietà circolare (cfr. l’articolo 118 della Carta Costituzionale).

3.7) L’urgenza di avviare la rigenerazione del comparto Scuola – Università è sotto gli occhi di tutti. Non basta parlare di riqualificazione e/o di riforme di Scuola e Università. E’ l’impianto culturale che va mutato: Scuola e Università devono tornare ad essere luoghi di educazione morale e civica e non solamente di istruzione e/o formazione. Ce lo chiede lo stesso mondo del lavoro che dà oggi alle cosiddette “soft skills” (integrità morale, reputazione, capacità relazionali, di risoluzione dei problemi, resilienza, ecc.) un’importanza almeno pari, se non superiore a quella alle nozioni acquisite. L’obiettivo è quello di giungere ad un “patto educativo” per aprire orizzonti nuovi alla nostra società.

Una particolare attenzione deve essere portata alla libertà di educazione e all’insegnamento scolastico assicurato dalle scuole paritarie, ovviamente garantiti nel quadro nazionale fissato in materia dallo Stato. Anche il sistema educativo dev’essere completamente ripensato dando spazio e favorendo la partecipazione delle realtà sociali, tra queste preminente quella delle famiglie. Il “ patto educativo” di cui sopra deve partire dal coinvolgimento, più ampio di come sia stato assicurato formalmente finora, di quanti non debbono restare estranei alla formazione e alla crescita di bambini, ragazzi e giovani. Possono, invece, portare un contributo fondamentale per assicurare una “ unità d’intenti” necessaria a garantire un sostegno concreto e continuo ai processi formativi dei nostri figli.

3.8) La corruzione non è mai stata contrastata adeguatamente. Questo gravissimo fenomeno, favorito purtroppo da un diffuso mal costume di base, ripropone la presenza e il peso di organizzazioni malavitose da combattere con decisione. Così come deve essere contrastata la presenza di gruppi di pressione più o meno occulti in grado di condizionare la vita dei partiti, la gestione pubblica e, persino, la più generale amministrazione giudiziaria. Al fine di contrastare l’indebita pressione esercitate dalle “ lobbies” sulle procedure di assunzione delle decisioni pubbliche e perché queste siano assunte per il conseguimento dell’interesse generale, si darà corso ad una riforma dei regolamenti parlamentari volta ad invertire il ruolo delle istituzioni e degli interessi. Le istituzioni chiameranno nella sede della formazione delle decisioni gli interessi rappresentativi (senza appesantimento della speditezza delle decisioni). Si otterrà così il risultato dell’imputazione alle forze parlamentari della decisione assunta, sulla quale si potrà esercitare il controllo da parte del corpo elettorale. La corte Costituzionale eserciterà il suo sindacato sul rispetto della procedura di chiamata degli interessi rappresentativi nella sede di formazione della legge. Si porrà mano, finalmente ad una legge sulla rappresentanza dei corpi intermedi.

3.9) L’evasione e l’elusione fiscale hanno raggiunto oramai livelli insopportabili e limitano le possibilità di alleviare il grave peso gravante su imprese, famiglia e ceto medio e di investire in innovazione e formazione. Il carico fiscale deve basarsi su di un adeguato criterio di progressione in grado di garantire l’equità, come richiesto dalla totalità delle principali categorie economiche e sociali. In ogni caso, si deve costituzionalizzare il divieto di ricorso ad ogni tipo di condono, generatore principale della corruzione diffusa nel Paese.

3.10) Gli accordi commerciali e nelle regole della concorrenza, come in quelle degli appalti, devono andare oltre l’idolatria del prezzo minimo come unico criterio. La qualità di una regola economica è riconosciuta, infatti, non solo per la sua capacità di aumentare il benessere del consumatore, ma anche nel promuovere la dignità del lavoro, la tutela della salute, la salvaguardia dell’ambiente.

3.11) L’impegno per una politica estera pro-Europa deve essere volto ad una modifica di non pochi dei punti qualificanti i Trattati, quali l’inserimento della piena occupazione tra gli obiettivi della BCE, il rafforzamento degli strumenti per far fronte agli squilibri intra-Unione, l’allargamento dei poteri decisionali e di controllo del Parlamento Europeo in materia di politica economica e fiscale e di PESC). Si tratta, infatti, di realizzare condizioni effettive di equità tra tutti i paesi e i popoli dell’Unione. Pensiamo all’Europa come avrebbe dovuto essere: libera, aperta, lungimirante, coraggiosa e coesa. Un’Europa dei valori e dei diritti, nella quale è fondamentale essere più presenti, più credibili e più autorevoli. L’Europa deve avere il coraggio di avviare anche politiche comuni ed unitarie in materia fiscale e della difesa. Deve altresì farsi carico del macro fenomeno delle immigrazioni in maniera continua e strategica, anche riprendendo e rafforzando quelle politiche di cooperazione allo sviluppo nelle aree dei paesi emergenti abbandonate nei decenni scorsi. Non possono essere i singoli paesi europei, o gli scontri tra i paesi, a risolvere un problema tanto enorme. La doverosa accoglienza deve tenere conto delle possibilità dello stato di arrivo, deve essere partecipata da tutte le nazione europee e seguita da idonee politiche d’integrazione, assicurando il coinvolgimento dell’intera Europa.

 

3.12) A livello globale, la nuova forza politica dovrà agire per costruire autentiche istituzioni di pace e rivedere gli Statuti delle grandi istituzioni internazionali alla luce del principio del governo dei molti e sulla base del concetto che è “lo sviluppo il nuovo nome della pace”, nella luce di un universalismo affrancato dagli egoismi dei più forti e diretto a raggiungere un progressivo disarmo di tutti gli armamenti, a partire da quelli nucleari. In questo senso riteniamo che: la tratta degli esseri umani debba essere dichiarata crimine contro l’umanità; debba essere rinegoziato l’accordo TRIPS il quale sta determinando una concentrazione della conoscenza, come mai visto nel passato,  causa prima della concentrazione di redditi e di ricchezza; sia necessario operare affinché la scienza e la tecnologia, oltre ad essere sempre più condivise, siano sempre più finalizzate alla crescita di tutti gli esseri umani; occorre dichiarare illegali i contratti di “land grabbing”  (accaparramento delle terre), vera e propria pratica di neocolonialismo.

 

3.13) Questo progetto “neoumanista” d’ispirazione cristiana deve accogliere la dimensione della trascendenza, orizzontale e verticale. Si tratta, nella stagione attuale di accelerata digitalizzazione, di rispondere alla grande sfida di natura antropologica ed etica rappresentata dalla tesi del superamento della dimensione umana. Si promette di giungere alla creazione di “macchine” dotate, oltre che di intelligenza artificiale, anche di coscienza artificiale. Per quanto si apprezza e si sostiene il progresso scientifico e tecnologico e l’avanzamento dell’high-tech, non si può abdicare alla piena umanità dell’uomo, al rispetto della Persona, del suo ruolo e della sua funzione nella società. Il progresso scientifico e tecnologico non può sostituire l’orizzonte della trascendenza ed essere concepito in alternativa alle le esigenze di una crescita culturale ed intellettuale d’impronta umanistica, oltre che alla complessità di sentimenti e di sensibilità destinate a dare un senso alla vita di tutte le donne e di tutti gli uomini.

 

  • Estendere le libertà, rafforzare la democrazia, promuovere la solidarità

 

Con la concordia anche le piccole cose crescono. Riteniamo che il nostro bene e la nostra felicità dipendano non solo dai beni di giustizia, ma pure da quelli di “gratuità”. La grande scarsità di cui oggi soffre la nostra società è proprio quella di questo tipo di beni, assieme a quelli di partecipazione e coinvolgimento sulla base dello spirito di servizio e del disinteresse personale.

La politica rinuncia al proprio ruolo primario, quello di perseguire il bene comune della famiglia umana e scade al livello dello sterile calcolo di interessi contrapposti, se non prende atto di quella scarsità e non provvede a porvi rimedi.

Sovranismi e populismi sono risposte alla paura, non ai problemi che, anzi, alla fine, per esperienza storica, degradano in conflitti armati.

Per questo, siamo aperti a chi desidera estendere le libertà e rafforzare la democrazia e intende ritrovarsi attorno ai principi morali e solidali su cui si basa ogni convivenza civile e si salvaguardano la dignità della Persona, il ruolo della Famiglia, la Giustizia sociale.

Vogliamo, Insieme, portare una voce nuova nella politica italiana ed europea ricercando il massimo della convergenza e della condivisione intorno a progetti realmente in grado di rispondere alle necessità ed alle attese del mondo di oggi.

 

Altri guai per google

L’ultimo caso proviene dall’Australia, dove l’ente di vigilanza sulla concorrenza (ACCC) cita in giudizio Google davanti alla Corte Federale, accusando il colosso Usa di ingannare i clienti sull’utilizzo dei loro dati personali.

Il presidente dell’ACCC, Rod Sims, spiega che Google ha continuato a immagazzinare dati sulla posizione delle persone, anche quando queste erano convinte di aver disattivato l’applicazione che le geolocalizzava. Secondo l’ACCC, Google dava agli utenti l’impressione di poter disabilitare – su smartphone e tablet Android – la raccolta dei dati sulla loro posizione disattivando l’impostazione “Location History” sul proprio account.

Tuttavia i dati sulla posizione venivano comunque raccolti poiché rimaneva attivata un’altra impostazione, “Web and App Activity”.

Secondo la citazione in giudizio, Google ha anche suggerito ai clienti che l’unico modo per limitare la raccolta dei dati di posizione era di rinunciare completamente a determinati servizi quando, in realtà, sarebbe stata sufficiente la modifica di determinate impostazioni.

Nuove sanzioni Usa contro Teheran

Gli Stati Uniti impongono nuove sanzioni sulle costruzioni e su quattro materiali utilizzati per il programma nucleare di Teheran pur rinnovando le deroghe di non proliferazione alle società russe, cinesi ed europee.

Questo è successo anche perché negli ultimi mesi sono state violate le norme previste dall’accordo 2015. Lo stesso capo dell’Organizzazione per l’energia atomica del regime ha affermato che sono state arricchite 24 tonnellate di uranio dall’accordo del 2015, quantità che supera di gran lunga quella ammessa dal patto con le maggiori potenze internazionali, il 5+1.

 

Artigianato, mestieri tradizionali e paesaggio: patrimonio culturale da valorizzare

E’ stata appena pubblicata una Relazione sullo svolgimento e sui risultati dell’Anno europeo del patrimonio culturale 2018 che ha come denominatore comune la sostenibilità, la protezione e l’innovazione. Nel Report viene sottolineato l’impatto positivo dell’Anno europeo sulla percezione del patrimonio culturale del Vecchio Continente come risorsa precipua. Durante l’Anno europeo oltre 12,8 milioni di persone hanno partecipato a più di 23.000 eventi organizzati in 37 Paesi.

“Sono orgoglioso – ha detto il commissario responsabile per l’Istruzione, la cultura, i giovani e lo sport, Tibor Navracsics – di ciò che abbiamo realizzato insieme agli Stati membri, al Parlamento europeo e alle organizzazioni del settore culturale e della società in generale. Abbiamo inserito il nostro patrimonio culturale comune tra le priorità dell’Ue e, soprattutto, nella vita quotidiana di molti cittadini. Ora dobbiamo garantire che l’Anno europeo abbia un impatto a lungo termine, così da sfruttare appieno il potenziale del patrimonio culturale per lo sviluppo sociale, economico, ambientale e regionale e per costruire un’Europa coesa e resiliente per il futuro”.

Il quadro d’azione europeo sul patrimonio culturale è volto ad attuare una visione a più lungo termine per la gestione, la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale europeo. Nella dichiarazione di Bucarest, adottata il 16 aprile 2019, i ministri della cultura dell’Ue hanno riconosciuto che il successo dell’Anno europeo del patrimonio culturale 2018 si fonda su un opportuno quadro di governance multilaterale, un chiaro obiettivo tematico, il coinvolgimento di parti diverse delle nostre società e la cooperazione transfrontaliera. Il Parlamento europeo ha fortemente sostenuto l’Anno europeo ed è a favore di ulteriori interventi a livello dell’Ue per la promozione del patrimonio culturale di ciascun Paese.

L’Anno europeo del patrimonio culturale è stato istituito con l’obiettivo di promuovere e valorizzare il patrimonio culturale europeo comune in tutte le sue forme: materiali, immateriali, naturali e digitali, nonchè il relativo contributo all’economia e alla società europee. Il patrimonio culturale non è costituito semplicemente da monumenti, musei, palazzi storici o siti archeologici; non comprende solo gli edifici nelle nostre città, ma anche i libri che leggiamo, il cibo e le tradizioni culinarie, i film che guardiamo, sino ad arrivare alle arti, alla musica, ai mestieri tradizionali e ai paesaggi naturali. L’iniziativa è stata lanciata il 7 dicembre 2017 a Milano, in occasione del Forum europeo della cultura.

Più di un’ora ‘sotto i ferri’ con l’ipnosi.

Più di un’ora ‘sotto i ferri’con l’ipnosi.

E’ accaduto a un’anziana di 82 anni operata all’ospedale Niguarda di Milano per la sostituzione di una valvola aortica.

Un intervento che normalmente richiede sedazione, pratica sconsigliata nella paziente a causa di uno stato di sofferenza polmonare legato a una broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco) e agli esiti di una recente polmonite, unito a una particolare conformazione anatomica del collo che in caso di complicanze avrebbe reso difficile l’intubazione.

Riflessioni sulle categorie di “destra” e “sinistra”

La tesi del superamento del binomio “destra/sinistra” circola da tempo sui giornali e nel dibattito politico. Soprattutto in due casi. O viene pronunciata a bassa voce oppure viene utilizzata (in chiave strumentale) per proclamarsi “diversi” rispetto al quadro politico esistente. Nel tentativo di rinnovarne l’offerta.

Una seria riflessione sull’attualità delle categorie “destra” e “sinistra” in realtà non è mai stata fatta dalle forze parlamentari. Un po’ per la sacralità del tema, un po’ per l’istinto di sopravvivenza dei partiti che su quella distinzione hanno costituito tratti identitari difficili da mettere in discussione. 

Contrariamente a quanto si crede, però, la definizione di cosa sia “destra” e cosa sia “sinistra” è presente nel pensiero politico. In questa sede interessa chiedersi se queste categorie sono ancora adatte a riassumere in modo accurato – e rispondente alla realtà – il panorama delle diverse posizioni. Le categorie politiche, infatti, non sono destinate a durare in eterno. Esse riflettono, invece, lo “spirito del tempo” (Zeitgeist come dicono quelli bravi) in cui viviamo.

Nel caso italiano, vi sono alcune specificità storiche che sembrano supportare la tesi della sopravvenuta irrilevanza delle categorie politiche per come le conosciamo. La maggior parte degli analisti concorda ad esempio sul fatto che una “destra” vera e propria, analoga a quella presente nei Paesi occidentali, in Italia non sia mai esistita. Certamente non lo era il Msi, troppo legato al passato fascista. Ben nota è l’anomalia sul fronte opposto. La presenza del più grande partito comunista del mondo occidentale, infatti, ha impedito il dispiegarsi di una vera forza socialdemocratica, le cui funzioni venivano svolte in parte dalla sinistra Dc e in parte dal Partito socialista (prima dell’avvento di Craxi). La conventio ad excludendum ha fatto il resto: anche quando il Pci si è esplicitamente allontanato da Mosca (in seguito allo “strappo” di Berlinguer) e si è avvicinato a una sinistra legittimata nel gioco democratico, gli equilibri di Yalta ne hanno impedito l’ingresso stabile nell’area di governo e hanno determinato l’impossibilità pratica di costruire una vera “democrazia dell’alternanza” (la “terza fase” progettata da Moro).

Il crollo del Muro di Berlino (di cui si festeggia in questi giorni il 30° anniversario) e l’avvio della Seconda Repubblica non ha, contrariamente a quanto si pensa, determinato la definizione di un quadro competitivo tra “destra” e “sinistra”. La linea di demarcazione tra le offerte politiche era semplicemente tra “pro Berlusconiani” e “anti Berlusconiani”. Tra i primi non vi è mai stato neanche l’accenno di una destra realmente liberale. Così come nella “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto e nel successivo Ulivo di Prodi non erano presenti i tratti di una moderna socialdemocrazia europea ma piuttosto il tentativo di sommare i tratti culturali delle diverse culture politiche. E così, proprio mentre nel mondo si dispiegava la “grande crisi”, l’Italia ha impiegato un quarto di secolo a cercare stabilità nelle varie riforme dell’assetto elettorale e istituzionale (dal “Mattarellum” al “Porcellum”).

Possiamo dunque notare come i 25 anni della Seconda Repubblica hanno ulteriormente slabbrato il senso di appartenenza dell’elettorato alle categorie politiche “destra” e “sinistra”, così come venivano intese nella prima metà del Novecento.

Sono in molti a essere convinti che la nuova linea di demarcazione tra le offerte politiche passa attraverso una faglia, ancora in divenire, ma i cui tratti cominciano a essere piuttosto chiari. Da una parte c’è chi è convinto che la realizzazione dell’individuo non può che passare attraverso una continua evoluzione dei comportamenti, l’ampliamento delle opportunità, la dimensione sovranazionale, il multilateralismo e la tutela dei diritti civili e della libertà economica.

Dalla parte opposta vi è invece chi predilige una dimensione più statica rispetto ai desideri dell’individuo, indipendentemente dal contesto. Le parole d’ordine sono protezione dai cambiamenti, dimensione nazionale o sub-nazionale della rappresentanza, disintermediazione politica con legame diretto tra leader e popolo, richiamo ai valori tradizionali (Dio, patria, famiglia) in un generico “prima gli italiani”. L’ampliamento delle opportunità è visto perlopiù come una minaccia rispetto alla ricerca delle sicurezze del mondo pre-globalizzazione e i limiti all’azione politica non sono predeterminati dalle condizioni del contesto ma unicamente dalla volontà e dai desideri degli elettori. In fondo, anche la “svolta del Papeete” voleva essere il tentativo di rispondere politicamente a stati d’animo presenti nell’elettorato.

E’ questo il futuro scenario delle categorie politiche? In realtà nessuno può saperlo, per almeno due motivi. Non è dato sapere infatti se la “grande crisi” sia realmente finita e se il percorso di aggiustamento possa essere più lungo di quanto previsto. In fondo, negli ultimi 25 anni non abbiamo assistito soltanto al crollo di questo o quel partito politico, ma al crollo di equilibri e di pilastri sociali, politici ed economici che duravano da decenni.

In una fase quindi ancora necessariamente molto incerta, non vi sono certezze a cui aggrapparsi. Non si vedono porti sicuri nei quali approdare, non si registrano parole d’ordine rassicuranti che forniscano l’illusoria speranza che in fondo “ha solo da passà a nuttata”. Esiste però la necessità di guardare alla società per quello che è diventata e provare a definire nuove prospettive che possano rivalutare una visione “centrista” della politica (nel senso migliore del termine). Un centro di gravità ben strutturato è garanzia di stabilità dell’intero sistema.

Inflazione: Istat, variazione dei prezzi nulla rispetto a settembre.

Secondo le stime preliminari, nel mese di ottobre 2019 l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), al lordo dei tabacchi, registra una variazione nulla su base mensile e un aumento dello 0,3% su base annua (come nel mese precedente).

La stabilità dell’inflazione su livelli contenuti è la sintesi di andamenti opposti tra i quali spiccano da un lato l’ampliarsi della flessione dei prezzi dei Beni energetici regolamentati (da -5,3% a -8,2%) e dall’altro l’accelerazione dei prezzi dei Servizi relativi ai trasporti (da +0,4% a +1,9%).

L’“inflazione di fondo”, al netto degli energetici e degli alimentari freschi, e quella al netto dei soli beni energetici accelerano entrambe da +0,6% a +0,8%.

L’aumento congiunturale dei prezzi dei Beni energetici, sia nella componente regolamentata (+2,7%) che non (+0,9%), è stato compensato dal calo, dovuto per lo più a fattori stagionali, dei prezzi dei Servizi relativi ai trasporti (-0,7%) e dei Servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (-0,8%), determinando così una variazione congiunturale dell’indice generale pari a zero.

Si accentua la flessione dei prezzi dei beni (da -0,2% a -0,4%), mentre accelerano quelli dei servizi (da +0,9% a +1,1%); il differenziale inflazionistico rimane positivo e si amplia portandosi a +1,5 punti percentuali (+1,1 a settembre).

L’inflazione acquisita per il 2019 è +0,6% sia per l’indice generale che per la componente di fondo.

I prezzi dei Beni alimentari, per la cura della casa e della persona aumentano dello 0,8% su base annua e quelli dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto dello 0,5% (tutti e due da +0,4% del mese precedente), registrando in entrambi i casi una crescita più sostenuta di quella riferita all’intero paniere.

Secondo le stime preliminari, l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA) aumenta dello 0,2% su base mensile e su base annua (come a settembre).

Asili nido: 303 euro la spesa media

Una famiglia media italiana, con un bimbo al nido, spende al mese 303€ nell’anno in corso 2019/2020, +0,9% rispetto al 2018/19.
Italia divisa su tariffe, posti disponibili, agevolazioni per le famiglie: al Nord si registrano le rette più alte, ma anche maggiori misure di agevolazione per le famiglie; il Sud invece più contenuto sui costi, seppur in aumento rispetto all’anno precedente, pecca sulla disponibilità di posti.
La retta più alta in Trentino Alto Adige, pari a 472€ in media, quella più bassa in Molise, 169€. Le regioni settentrionali si caratterizzano per una spesa media per le famiglie più elevata, ma in decremento rispetto all’anno precedente, stabile la spesa al Centro e in aumento invece nelle regioni meridionali (+5,1%).

Lecco il capoluogo più costoso con 515€ di spesa media a famiglia, Catanzaro il più economico con 100€. Ad Andria incremento boom del 105,5% (si passa dai 146€ del 2018/19 ai 300€ dell’anno in corso).
Trova posto in un asilo nido poco più di un bimbo su cinque, ma la copertura è assai variegata fra le diverse Regioni: si va dal 34,3% dell’Umbria al 6,7% della Campania e ben sei regioni sono sotto la media nazionale (21,7%).
Questi i dati dell’Osservatorio Prezzi e Tariffe di Cittadinanzattiva, realizzato nell’ambito del progetto “Consapevolmente consumatore, ugualmente cittadino”, finanziato dal Ministero dello Sviluppo economico (DM 7 febbraio 2018).

“Questi servizi concorrono a garantire pari opportunità di educazione e di cura e a ridurre le disuguaglianze territoriali, economiche, etniche e culturali. Di conseguenza, un’offerta così eterogenea in termini di disponibilità, accessibilità economica, qualità risulta essere un ostacolo ad un uguale accesso, non solo a servizi ma anche a diritti costituzionalmente garantiti, quali quello al lavoro delle donne e alla crescita delle nuove generazioni che dovrebbero essere assicurati a livello nazionale, indipendentemente da differenze geografiche, economiche e socioculturali.

Ci troviamo in un contesto in cui l’incompatibilità tra l’occupazione lavorativa e le esigenze di cura della prole, rappresenta un motivo di dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri per il 36% dei casi su un totale di 35.963 provvedimenti (Ispettorato del lavoro – Relazione annuale Anno 2018). La fotografia che emerge dal nostro dossier evidenzia che, sul fronte dell’offerta del servizio di asili nido comunali, ancora tanti passi devono essere fatti per contribuire concretamente a ridurre le diseguaglianze e accelerare il perseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile del nostro paese”, ha dichiarato Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva.

Tutti i dati su tariffe, agevolazioni, qualità e tutela, per singolo capoluogo di provincia, sono disponibili sulla piattaforma interattiva INFORMAP al link www.cittadinanzattiva.it/informap. Da oggi online le informazioni sugli asili nido, a seguire sugli altri servizi pubblici locali: rifiuti, trasporti, acqua.

Le rette di asili nido per singoli capoluoghi di provincia
L’indagine ha interessato le rette applicate al servizio di asilo nido comunale in tutti i capoluoghi di provincia, con riferimento ad una famiglia tipo composta da tre persone ( due genitori e un minore di età 0-3 anni) e con un indicatore ISEE pari a 19.900€. le rette rilevate fanno riferimento all’ anno educativo in corso 2019/2020 e riguardano gli asili nido a tempo pieno, ove presenti, con frequenza per cinque giorni a settimana. Nel calcolo non sono state considerate né le eventuali agevolazioni attivate dai Comuni in virtù dei provvedimenti regionali, né quelle di derivazione nazionale.

Regione Spesa Media mensile per nido comunale 2019/2020 Variazione %
2019/2020 su 2018/2019 QUOTA % A CARICO DELLE FAMIGLIE
Abruzzo € 297 + 7,9 17,5
Basilicata € 359 + 0,0 21,6
Calabria € 170 + 6,4 10,4
Campania € 274 + 5,2 7,7
Emilia € 314 + 0,0 23,0
Friuli Venezia Giulia € 362 + 0,0 15,4
Lazio € 287 + 0,0 14,1
Liguria € 338 – 3,4 15,2
Lombardia € 366,5 + 0,1 21,7
Marche € 297 + 0,0 25,9
Molise € 169 + 0,9 12,2
Piemonte € 350 – 3,6 20,0
Puglia € 239 + 10,4 9,6
Sardegna € 218 + 0,2 18,2
Sicilia € 213 + 3,8 6,3
Toscana € 324 + 0,0 24,5
Trentino € 472 + 0,0 23,6
Umbria € 308 + 0,0 20,6
Valle d’Aosta € 398 + 0,0 22,4
Veneto € 351 + 0,0 26,2
Italia € 303 + 0,9 19,4

Fonte: Cittadinanzattiva – Osservatorio Prezzi&Tariffe, Ottobre 2019
I 10 capoluoghi più costosi I 10 capoluoghi più economici
Lecco € 515 Catanzaro € 100
Bolzano € 506 Cagliari € 133
Belluno € 477 Crotone € 140
Vicenza € 465 Ragusa € 140
Cuneo € 458 Trapani € 152
Trento € 437 Reggio C. € 158
Forlì € 431 Campobasso € 169
Mantova € 427 Enna € 170
Alessandria € 425 Barletta € 180
Sondrio € 421 Agrigento. Vibo V. € 180

Fonte: Cittadinanzattiva – Osservatorio Prezzi&Tariffe, Ottobre 2019

Offerta pubblica e privata e livello di contribuzione delle famiglie
11.017 i nidi in Italia, di cui 6.767 privati e 4.250 pubblici; i posti disponibili sono 320.296, distribuiti fra 153.316 privati e 166.980 pubblici. Notevoli le differenze regionali: più forte la prevalenza di posti nei nidi pubblici in Basilicata, Emilia Romagna, Molise, Piemonte, Sicilia, Toscana, trentino Alto Adige; nei nidi privati invece in Calabria, Campania, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Puglia, Sardegna, Veneto; equilibrata nelle altre regioni.
La percentuale di copertura a livello nazionale è pari al 21,7% della potenziale utenza (bambini residenti sotto i 3 anni di età), ma con notevoli differenze tra le singole regioni: in negativo si distingue la Campania, con una copertura pari appena al 6,7%, in positivo l’Umbria con il 34,3%; sotto la media nazionale sei regioni: Campania (6,7%), Calabria (8,8%), Sicilia (9,3%), Puglia (13,6%), Basilicata (14,2%), Abruzzo (19,9%). Dunque tutte le regioni meridionali sono ben al di sotto della media di copertura, fa eccezione la Sardegna che raggiunge il 26,1%.

Tra il 2004 e il 2012 le risorse messe a disposizione dai Comuni per gli asili nido sono cresciute del 47%, passando da 1,1 a 1,6 miliardi di euro; tra 2012 e 2014 si è registrata una contrazione della spesa, nel triennio 2014-2016 una stabilizzazione, con una spesa complessiva per i servizi per l’infanzia nel 2016 di circa 1 miliardo e 475 milioni di euro.

La quota a carico degli utenti sul totale della spesa è passata dal 17% del 2004 al 20% del 2013, mentre dal 2015 si attesta al 19,4%. La quota percentuale a carico delle famiglie è più elevata della media in dieci regioni, in vetta il Veneto dove le famiglie contribuiscono del 26,2% rispetto alla spesa complessiva, all’estremo opposto la Sicilia le cui famiglie contribuiscono per una quota pari al 6,3%.

Agevolazione per le famiglie e rilevazione della qualità

A livello comunale, il 48% prevede esenzioni dal pagamento della retta per le famiglie in stato di disagio economico e già seguite dai servizi sociali. A livello regionale, dieci regioni quasi esclusivamente del Centro Nord (Emilia Romagna, FVG, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Toscana, Valle d’Aosta) hanno emanato disposizioni per contenere o abbattere i costi a carico delle famiglie.
In relazione alle Carte dei servizi, essa è presente nell’81% delle amministrazioni prese in esame, ma anche questo dato mostra molte discrepanze territoriali: la carta è assente nel 40% dei capoluoghi di provincia del Sud, nel 12,5% di quelli del Centro e nel 6% dei capoluoghi del Nord. Sono previsti strumenti per rilevare la soddisfazione delle famiglie nell’80% delle Carte dei servizi dei capoluoghi settentrionali, nel 67% di quelli dell’Italia centrale e nel 43% dei capoluoghi del Sud.

Con riferimento al rapporto numerico fra educatori e bambini, le singole leggi regionali stabiliscono misure differenti: ad esempio, nella fascia 0-12 mesi si va da 1 educatore ogni 5 bambini in 8 regioni, ad 1/6 in sette regioni, 1/7 in due regioni, fino ad arrivare ad 1/8 in quattro regioni.

Le Paure degli Italiani

il centro studi di Coop Italia, ha costruito la classifica delle fobie nazionali, confrontando l’andamento del 2008, 2017 e 2019 sui Google trend.

Dall’analisi risulta che buio, volare e i cani, sono le prime tre paure degli italiani, ancora prima delle malattie che sono solo al quarto posto.

Altre paure invece sembrano essere il frutto delle cronache. Per esempio, la scomparsa degli attentati terroristici dalle news corrisponde a un calo nelle ricerche di paure come quella del terrorismo.

Crolla e di molto la ricerca della paura di perdere il lavoro (da terzo a 25esimo in una decina di anni è la ricerca che più scende in classifica nel 2019), cresce la paura del cambiamento (dal 23esimo a 18esimo), ma il futuro spaventa di meno gli italiani (dal quinto all’undicesimo). In compenso cresce molto la paura della solitudine, soprattutto nell’ultimo biennio (19esima nel 2017 e ottava nel 2019). Rimangono poi nella top 40 alcune paure atipiche come quella dei bottoni, quella dei clown, quella delle bambole che è in crescita, così come quella dei piedi.

Ue: alleanza contro caro-farmaci

Assorted pills

Nove Paesi Ue hanno creato un database comune che monitorerà le nuove cure per malattie rare e particolari tipologie di cancro, raccogliendo informazioni che i governi potranno utilizzare per negoziare con le case farmaceutiche.

Il progetto si chiama International Horizon Scanning Initiative (Ihsi), e per ora partecipano Belgio, Olanda, Lussemburgo, Danimarca, Irlanda, Portogallo, Lituania, Svizzera, Norvegia.

I governi sono preoccupati di non riuscire a far fronte alle spese, visto che alcune cure per il cancro costano intorno ai 100mila euro per paziente.

31 ottobre: Halloween, una tradizione importata!

Halloween nei paesi anglosassoni, è la denominazione ( da All Hallow Eve “ vigilia di tutti i santi”) della sera che precede il giorno del 1° novembre e costituisce un’occasione di festa , soprattutto per i bambini.

Trae origine dalle tradizioni pre-cristiane dell’Europa celtica, in particolare da quelle delle Isole Britanniche, dove il 31 ottobre era il giorno della fine dell’estate ma anche, secondo la credenza popolare, il momento in cui dalla sera e per tutta la notte, le anime dei morti tornavano sulla terra, accompagnandosi a streghe, demoni e fantasmi.

La sua crescente popolarità anche in Europa, deriva dalla tradizione americana, importata in quel paese dagli emigranti, nella quale la notte di Halloween, è la notte del famoso  “Trick or Treat” ovvero “ scherzetto o dolcetto”.

La celebrazione di questa ricorrenza, va ricordata tuttavia, ha origini pagane molto più remote, e pone le sue radici nella civiltà celtica, che festeggiavano l’inizio dell’Anno Nuovo il 1° novembre: giorno in cui si celebrava la fine della “stagione calda” e l’inizio della “stagione delle tenebre e del freddo”.

I Celti credevano che alla vigilia di ogni nuovo anno ( 31 ottobre), che era considerato il momento più solenne di tutto l’anno druidico (religione dei Celti) ed era la notte di Samhain, Signore della Morte e Principe delle Tenebre, chiamasse a se tutti gli spiriti temendo che in tale giorno tutte le leggi dello spazio e del tempo fossero sospese, permettendo al mondo degli spiriti, di unirsi.

In verità non esistono testimonianze archeologiche o letterarie per poter affermare esattamente se Samhain indicasse solamente un periodo dell’anno o fosse una divinità.

Lo sviluppo di artefatti e simboli associati ad Halloween si è andato formando col passare del tempo.

Ad esempio l’intaglio di jack-ò-lanten (tipiche zucche nelle quali si intagliano volti spaventosi) risale alla tradizione di intagliare le rape e farne delle lanterne per ricordare le anime bloccate nel Purgatorio. La rapa è stata usata tradizionalmente ad Halloween in Irlanda e Scozia, ma gli immigrati in Nord America usavano la zucca originaria del posto, che era disponibile in quantità molto elevate  ed era molto più grande, facilitando il lavoro di intaglio.

La tradizione americana di intagliare zucche risale al 1837 ed era originariamente associata con il tempo del raccolto in generale, nella seconda metà del Novecento caratterizzò il gemellaggio con Halloween diffondendo l’immagine di questa festa.

Il simbolismo di questa tradizione deriva da varie fonti, inclusi costumi nazionali, opere letterarie gotiche e horror (come i romanzi Frankenstein e Dracula) e i film classici dell’orrore (La Mummia). I primi scritti sugli scherzi di Halloween risalgono al 1780, e sono dello scozzese John Mayne che descriveva il soprannaturale associato alla notte, rappresentava i fantasmi, inoltre nei simboli sono presenti elementi della stagione autunnale, oltre alle zucche, le bucce di grano e gli spaventapasseri, nero e arancione sono i colori tradizionali usati nei travestimenti questa giornata particolare.

Il simbolismo più conosciuto è certamente fare “dolcetto o scherzetto” che significa anche “sacrificio o maledizione” e suona come una minaccia a fare danni di chi non vuol dare un “riconoscimento o un obolo”, e questa è la tradizione peggiore.

Il giudizio del cristianesimo è prudente e non approva Halloween e rigetta la festività, in quanto ritiene che il paganesimo, l’occulto, o altre pratiche e fenomeni culturali giudicati incompatibili con le loro credenze. 

Per molte Chiese cristiane le origini di Halloween sono strettamente connesse alla magia, alla stregoneria e al satanismo, per queste esse portano all’influsso occulto nella vita delle persone, e i bambini sono particolarmente influenzabili in questo campo, e quindi considera questa tradizione  contraria ai principi biblici.

Comunque nel nostro attuale costume e modo di vita, che è fatto di tanti cambiamenti spesso ignorati, se paragoniamo al carnevale, specie visto con gli occhi di chi vede la recente impostazione  della festa che fino a pochi anni fa era solo vista nei film statunitensi, Halloween spesso non richiama simpatie dal punto di vista educativo.

Il fatto di chiedere dolciumi “minacciando” scherzetti può lasciare perplessi molti genitori. Inoltre se i bambini si vestono da maghi e streghe, i più grandi sfruttano l’occasione per sfoggiare maschere da film dell’orrore, e tutto ciò rende complessa l’interpretazione di questa ricorrenza importata.

Inoltre viene vista come un fenomeno commerciale, che nel giro di pochi anni ( da dopo il 2000) ha sminuito la tradizionale due giorni: Festa dei Santi e Commemorazione dei Defunti,  ricorrenze religiose, in una festa “normale” in cui comprare nuovi giocattoli, maschere e trucchi per assumere un aspetto macabro.

Differentemente da come viene festeggiata sia in America, sia in altri paesi del mondo, Halloween in Italia racchiude una ricca storia piena di occultismo e leggende, che portano il popolo italiano ad evitare  varie forme che spesso suscitano il satanismo, particolarmente significative quelle di alcune località della Sardegna e della Puglia.

Senza eccessive polemiche, è in atto da alcuni anni, una proposta lanciata da alcune Parrocchie della Diocesi di Verona, che invitano in particolare i giovani, e non solo gli adulti a  :“Riprendere l’iniziativa per evitare il cambiamento nel modo di vivere la vigilia di tutti i Santi, una ricorrenza ormai monopolizzata dall’onnipresente zucca di Halloween. Si tratta di riproporre alla nostra Italia, la bellezza dei volti dei Santi, che sono la parte più bella della nostra penisola. Questa manifestazione non è contro nessuno e niente: lasciamo ad altri festeggiare le zucche vuote. Noi cristiani abbiamo questi volti, che esporremo sulle porte, alle finestre e ai balconi. Nella notte dedicata all’horror, ci saranno anche loro: i Santi.”

Halloween fa discutere, chi lo sostiene, chi lo avversa, chi è indifferente, rappresenta comunque un aspetto della società, ove il costume, le tradizioni e la cultura sono in continua evoluzione.

Pietro Giubilo: “Restiamo a Roma per aiutare la nostra città”.

Pubblichiamo l’intervento che ieri Pietro Giubilo, già Sindaco di Roma nel 1988 – 1989, ha effettuato al convegno “Dai mali alle idee: Proposte per Roma”, dal titolo Roma: regime speciale, innovazione, decentramento urbanistico , le sfide di oggi.

Intervengo in qualità di vicepresidente della Fondazione Italiana Europa Popolare chiamata a collaborare con il   MCL di Roma per l’organizzazione di questo Convegno. Per i temi e le proposte che illustrerò, in particolare, per gli aspetti normativi di Roma Capitale e  quelli urbanistici sono debitore di quanto elaborato dal Comitato Scientifico della Fondazione . Le considerazioni che seguiranno sulle sfide per la Città, hanno radici nel  terreno fertile del lavoro associativo, svolto nell’ambito del Movimento Cristiano dei Lavoratori per la sua opera al servizio di chi ha bisogno. 

  

Sentiamo tutti,  come sia necessaria  ed impellente la ripresa di un  discorso su Roma. Non si può più essere indifferenti di fronte al degrado della sua  condizione amministrativa, urbana e sociale ed accettarlo con rassegnazione.

Barbara Barbuscia, prima di me, ne ha illustrato efficacemente,  gli elementi di maggiore evidenza. 

Prima di ogni formulazione programmatica va riaffermato, una volta per tutte, che, sul piano normativo, Roma non può continuare  ad essere considerata, come lo è da  decenni, un comune come tutti gli altri, nell’ambito di  una città metropolitana come le altre.  Le sue funzioni reali, primarie    non possono rientrare in quelle di un semplice ente locale anche a  carattere metropolitano. 

Il presupposto da considerare è che il programma degli investimenti e il livello di  offerta dei servizi per Roma Capitale costituiscono una questione di interesse nazionale. 

Ben vengano, dunque,  gli impegni che auspicano la conclusione di un lungo percorso politico e parlamentare fatto di  dibattiti, proposte, provvedimenti, purtroppo mai giunto ad una soluzione definitiva e soddisfacente. 

 Ci si è limitati troppo a lungo  ad una visione di mere esigenze di bilancio o con un limitato ritaglio di competenze,  non operando per una necessaria, compiuta costruzione. 

Sotto il profilo di un  coinvolgimento più ampio  di responsabilità, per gli obbiettivi di qualificazione e crescita della Città,    si dovrebbe, innanzitutto, recuperare ed andare oltre  il senso della legge 396 del 1990,   denominata, appunto, “Interventi per Roma, Capitale della Repubblica”. Venivano tracciati, allora,  gli obbiettivi considerati di “preminente interesse nazionale” e “ funzionali all’assolvimento  da parte della città di Roma del ruolo di Capitale della Repubblica”.  Indicazioni più ampie, rispetto a quanto previsto dalle normative intervenute successivamente.

 Tra questi: la conservazione e la valorizzazione del patrimonio monumentale  archeologico e artistico, dall’area centrale dei fori ai parchi urbani e suburbani; la tutela dell’ambiente  con riferimento ai fiumi Aniene e Tevere e la riqualificazione delle periferie; l’adeguamento e la dotazione dei servizi e delle infrastrutture per la mobilità urbana e metropolitana, la navigabilità del Tevere, la riorganizzazione delle attività aeroportuali, il potenziamento del trasporto pubblico in  sede propria , sotterranea e in superficie; la qualificazione delle università e dei centri di ricerca; la costituzione del polo europeo dell’industria, dello spettacolo e delle comunicazioni e la realizzazione del sistema fieristico ed espositivo; l’adeguata sistemazione degli istituti internazionali operanti in Italia. Interventi  affrontati, in seguito,  solo parzialmente. Un articolo a parte era dedicato alla realizzazione del Sistema Direzionale Orientale,  per il cui progetto direttore, nell’anno precedente, la giunta, da me guidata, aveva incaricato tre personalità di grandissimo rilievo: Kenzo Tange,  Gabriele Scimemi e Sabino Cassese, oltre che avere predisposto una struttura ad hoc. Con esso, come recitava il progetto, si sarebbe anche ottenuta “la riqualificazione del settore orientale della città e …  la trasformazione delle periferie in una parte integrante della città”. 

La realizzazione degli interventi ,  proposti da una commissione che coinvolgeva le  tre istituzioni (Comune, Provincia e Regione), in rapporto con l’ Ufficio  del Programma per Roma Capitale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, si sarebbe avvalsa di  accordi di programma e conferenze di servizio , con la utilizzazione del silenzio assenso. Erano previsti finanziamenti adeguati e ricorrenti.

 Aspetti e procedure in parte rimasti con la normativa per la Città metropolitana, intervenuta successivamente,  ma con un profilo più interno ai ministeri competenti, rispetto ad una logica complessiva di governo. 

Insomma, finalmente, con il provvedimento di allora,  lo Stato interveniva per Roma, non dall’alto, ma coinvolgendo le  istituzioni locali, non per tappare i buchi del bilancio, ma per la realizzazione di progetti  finalizzati al ruolo della Capitale. Tuttavia, alle buone premesse non corrispose una sufficiente operatività. Emblematica fu, poi,   la rinuncia del Comune , nel 1995, a realizzare il punto più qualificante del programma previsto dalla legge del 1990 , cioè lo SDO. Finiva la vera grande speranza per la modernizzazione di questa Città, sulla quale avevano puntato la migliore cultura urbanistica e le più qualificate energie imprenditoriali, ostacolata da pesanti interessi conservatori.  

Occorre, oggi, chiarire definitivamente che – pur consapevoli delle difficoltà e  dimostratasi l’inefficacia di un diverso orientamento  – le competenze normative da attribuire alla Capitale devono comprendere una eccezione costituzionale, cioè poteri oltre le limitate attribuzioni regionali o provinciali.

Infatti, con la legge sulle Città metropolitane del 2014, che ha ridisegnato anche il quadro normativo della Capitale,  Roma non va oltre i poteri di una grande provincia. La Regione Lazio, oltretutto, non si è voluta privare di propri ambiti, disattendendo anche la possibilità prevista dalla legge 42 del 2009,  per l’istituzione di un tavolo interistituzionale per il trasferimento organico di funzioni amministrative alla Capitale: urbanistica, trasporto pubblico locale, commercio, rifiuti, fondi europei.  Abbiamo ben presente il caos di sovrapposizioni di competenze tra Regione, Città metropolitana, Provincia e Comune di Roma. 

Ricordo soltanto che uno status speciale per Roma Capitale comporterebbe – ne accenno soltanto –  la definizione di due  ambiti elettivi di governo, uno metropolitano, con competenze normative,  programmatorie e amministrative, non solo di area vasta, ma con poteri di più alto livello,      indispensabile per amministrare adeguatamente gli elementi fondamentali per lo sviluppo ed un secondo piano con la trasformazione delle attuali municipalità   in comuni metropolitani , che consentirebbe più partecipazione e più responsabilità.  

La mancata approvazione di una normativa speciale, di profilo costituzionale, per Roma, costituisce il principale  elemento che condiziona e rende difficile il suo futuro. 

Un futuro a cui nessuno guarda,  presi dalle incombenze di un presente caotico, dalla ritrosia di pensare e scegliere in grande , nell’affanno di una difficile navigazione a vista.

Esempi significativi di questa ritrosia l’abbiamo visti   nella rinuncia a candidare Roma per le Olimpiadi e , forse,  ancor più grave, nel rifiuto del “tavolo” proposto, a suo tempo,  dal Ministro Calenda per i progetti di “Sviluppo Capitale ”o definiti , meno brillantemente, “Fabbrica Roma”,  nei settori delle concessione di credito, innovazione e ricerca, rilancio del turismo, l’aerospazio e la ricerca tecnologica, l’utilizzo delle ex caserme . Si trattava, peraltro,  di una iniziativa con un aspetto di estemporaneità fuori da un rapporto organico e funzionale come era stato previsto, appunto, dalla legge del 1990. 

Roma, del resto,  dovrebbe essere chiamata a svolgere adeguatamente  la sua funzione di Capitale , costantemente, ogni giorno, proprio per le opportunità che le derivano dalla stessa realtà attuale che la vedono grande vetrina internazionale, meta di un turismo attratto da un patrimonio unico al mondo, centro di sedi amministrative, universitarie, di ricerca, di opportunità nel campo della comunicazione e della creatività. 

 

Dobbiamo a questo proposito , avere il coraggio di indicare un connotato nuovo, cioè un percorso per  rendere possibile uno sviluppo economico e produttivo della Capitale che poggi sull’ innovazione e sul digitale.  La città amministrativa è stata vista per troppi decenni,   come motore di sviluppo edilizio a iniziare dalla costruzione dei quartieri intorno a piazza Vittorio e proseguendo fino all’intensa  urbanizzazione del secondo dopoguerra. 

In particolare le attività industriali e produttive, evolutesi  in settori della tecnologia avanzata e della ricerca (in particolare Spazio, Digitale e Information Technology, Farmaceutica)  , collegate, oltre che con il terziario direzionale, con le attività culturali e artistiche, con il turismo, con la cinematografia e la televisione, l’alta moda , l’editoria, costituiscono  direttrici di sviluppo, suscettibili di nuove espansioni. 

Si dice che Roma è in declino, ma il turismo cresce più che in tutte le altre metropoli d’eccellenza in Italia. Dobbiamo però migliorare Roma e il Lazio puntando sull’ accoglienza e l’ospitalità, rimuovendo i grandi macigni  che rallentano la Città: pulizia e decoro, ambiente, strade. Non è impossibile, le altre capitali lo hanno fatto: percorsi pedonali, parcheggi interrati  e mezzi pubblici elettrici nel centro storico; trasformare il rifiuto da costo a risorsa e produzione di energia. 

  Dobbiamo far ritornare Roma a farsi desiderare dagli stranieri

Come?

Alleggerendo i pesi che incombono ed avviando due progetti seri per farci apprezzare dai nostri visitatori:

  • la realizzazione di un’App –  da aggiornarsi continuamente –  che, in formato molto facile ed amichevole, consenta ad ogni persona di orizzontarsi in questa città, li indirizzi su percorsi ottimali, i mezzi pubblici continuamente disponibili, l’accesso migliore al buon cibo, ai nostri musei, alle nostre antichità, ai nostri divertimenti, agli acquisti di specialità;
  • incentivare le imprese a diventare digitali 4.0 per adeguare  le loro fabbriche e la loro organizzazione per produrre prodotti migliori, apprezzabili dai potenziali clienti, ed avviare un sistema di logistica smart e di commercio on line,  per affrontare nuovi mercati lontani e vicini , migliorando l’immagine delle imprese e quello della Città. Qualificando la logistica ed affrontando la gestione digitale del traffico  si fa un gran regalo all’ambiente

Oggi l’innovazione digitale rappresenta una grande opportunità che dipende in buona parte  da scelte a livello europeo e governativo, ma dobbiamo fare i conti con i giganti del Web del Nord America  e dell’Asia Orientale; l’Europa se ne è accorta, ma pure l’Italia deve farsi rispettare e far pagare le stesse tasse a chi vende in Italia, ma hanno la testa e le strutture nei paesi a tassazione ridotta. 

Le amministrazioni locali devono porsi come elemento dinamico e di iniziativa. Non basta attribuire a tale possibilità  l’obbiettivo di una semplificazione procedurale nell’ambito dell’amministrazione comunale; vi sono altre opportunità degne di grande attenzione.  Ed è la politica urbanistica unita ad un input politico di risoluzione degli aspetti burocratici che possono sollecitare, con adeguate previsioni infrastrutturali,  gli investimenti in questo settore.  

 Dobbiamo invertire una tendenza negativa. Sono, infatti  le condizioni di abbandono del quadrante est che hanno tarpato le ali ad un progetto importante, voluto dalla Camera di Commercio,  come il Tecnopolo Tiburtino. La Tiburtina Valley negli anni ‘80 e ’90, trainata da insediamenti nel settore spaziale e della difesa,  aveva visto crescere un ampio indotto di piccole e medie imprese che poteva rappresentare un ulteriore sviluppo di nuova imprenditorialità. 

La scelta coraggiosa  di BNL di insediarsi alla stazione Tiburtina, con il degrado che la circonda,  risulta una cattedrale nel deserto, in quanto non innervata in un sistema complessivo infrastrutturale che i  collegamenti di viabilità pubblica non risolvono. La stazione che ospita il più importante hub dell’Alta Velocità è circondata da un degrado costituito da dormitori all’aperto e condizioni igieniche indescrivibili. Il piazzale antistante all’ingresso,  principale accesso alla Città per turisti e uomini di affari, è un campo di sbandati che costituisce nelle ore serali un reale pericolo. 

Dobbiamo riflettere su quanto ha scritto all’inizio del mese il professor  Antonio Preiti , consulente strategico del CENSIS: “Se oggi un’azienda importante, magari globale, i cui manager per consuetudine girono il mondo, volesse a Roma uffici attrezzati, parcheggi comodi e ambienti curati , avrebbe enormi difficoltà a trovare gi edifici giusti. Roma ha una carenza enorme d’offerta immobiliare sull’edilizia direzionale, poiché si tratta di una tipologia che, oltre ad avere necessità degli spazi , deve incorporare intelligenza costruttiva, stile e funzionalità”

Ma dobbiamo valorizzare le novità.  Va segnalata l’iniziativa a sostegno delle startup, supportate dalla Università Luiss.  Si tratta di un modello virtuoso che ha unito una università e un fondo di investimento privato nel quale, successivamente è entrata una società di capitali , costituita da una fondazione bancaria. Giovani, idee e capitali  in una location significativa : la stazione Termini. Assente è solo il comune di Roma. 

Nel campo dell’innovazione, in sostanza,  dobbiamo invertire una tendenza che vede incrementare la distanza tra Milano e Roma, con la prima che si afferma anche grazie al modello fondato  proprio sulla partnership pubblico/privato. 

In sintesi i fatti dimostrano che debbono esserci tre interlocutori a dialogare in modo armonico e proficuo per fare sistema: l’ente territoriale, gli imprenditori e le università. Su questo modello Roma  deve riappropriarsi della leadership. La Città, non dimentichiamolo, possiede un patrimonio unico al mondo: la presenza di San Pietro. Occorre impostare la visione della Capitale come una grande officina di innovazione per il rilancio di una città Smart. E’ sede delle più importanti società di telecomunicazione e del settore Energia: la collaborazione di queste con il territorio e con il mondo accademico potrebbe generare innovazione per cambiare la città attraverso progetti di mobilità sostenibile e, come abbiamo indicato, applicate al turismo. 

 Senza contare che  occorrerà intervenire, tentando di ottimizzarne l’attività,  sullo stato fallimentare delle strutture espositive che ha visto localizzazioni tutte  sbagliate: da Fiumicino per la Fiera, alla “nuvola” per i congressi all’Eur, passando per la vela di Calatrava.   

Desidero, a questo punto,  indicare brevemente, quale possa essere la modalità più adeguata per la complessiva politica urbanistica della Capitale.  

Si tratta di procedere, nell’area metropolitana,  con un modello policentrico, già ipotizzato nell’abbandonato Piano Territoriale Regionale, tuttora in vigore (redatto da una commissione presieduta dal professor Sabino  Cassese ), attraverso un efficiente sistema viario e di trasporto pubblico. 

Roma non può sopportare ulteriori edificazioni, soprattutto dopo la pur parziale applicazione degli articoli 11 della legge 493 e le  iniziative del policentrismo direzionale, interno al Comune, sparso casualmente che ha fatto seguito all’abbandono dello SDO.  Si è giunti alla saturazione del tessuto urbano.  

Il decentramento urbanistico deve  segnare il futuro di questa Città, resa invivibile da scelte sbagliate e da una visione attenta solo a incrementare le edificazioni del suo ambito consolidato e delle periferie,  con troppo scarsi interventi strategici.

 La città moderna consolidata  dovrà mantenere la struttura urbanistica attuale, salvo interventi  necessari per motivi funzionali, ma coerenti con l’ambiente urbano esistente. Nelle periferie dovranno essere trapiantati dei “cuori”,cioè dei centri di quartiere e recuperarle   attraverso il completamento di infrastrutture, servizi e verde pubblico e , ove possibile, integrate fra loro – non solo con i troppi e troppo grandi centri commerciali – consentendo attività artigianali e di servizio  che potrebbero essere trasferite dalle altre aree urbane. 

Su tali prospettive dovrà misurarsi la creatività imprenditoriale. Questo settore produttivo, che è  fonte di occupazione, deve mantenere un valore importante, mentre la crisi ha pesanti , insopportabili,  conseguenze sociali. 

Oltre a quelle centrali,  rese più sicure nell’apertura  al pubblico, deve essere prevista una tutela integrale per  le aree archeologiche e ambientali esterne alla città consolidata, un vero e proprio vallo verde e della memoria della Città.   La loro sistemazione deve essere un elemento di recupero identitario per le periferie rispetto alle quali vanno collegate con percorsi e itinerari fruibili. 

Un cambiamento di modello è necessario, poiché , per decenni,  la Città ha vivacchiato con gestioni urbanistiche limitate a soluzioni e operazioni episodiche  e locali , legate a richieste edificatorie , spesso in deroga, non collocate e sostenute da un quadro normativo  complessivo adeguato alle sue problematiche. Addirittura, al fine di giustificare la marmellata urbana, si è coniato un linguaggio che tentava di nobilitare  questo indirizzo: dal “pianificar facendo” , all’ “urbanistica contrattata”. 

 

L’ultimo elemento da prendere in considerazione per una prospettiva nuova della  Città, esula dagli aspetti normativi ed urbanistici, per entrare nelle ferite sociali che Roma oggi presenta. 

Intendo far riferimento a ciò che le autorità ecclesiastiche cittadine indicarono al tempo dell’ultimo grande evento che ha interessato la Città,   alla vigilia, cioè, del Giubileo straordinario del 2016. 

Si   trattò di un intervento, allora  non adeguatamente compreso e colto dalle forze politiche di una  Città desolata e distratta che, proprio in quei giorni, assisteva all’inizio di quel  processo che, allora, venne definito di “mafia Capitale”,  mentre l’impegno amministrativo e i provvedimenti operativi per l’evento giubilare sarebbero  naufragati nella illiceità e nella inefficienza. Proprio per tale disattenzione di allora, ci sembra doveroso riproporne i contenuti.  

L’allora  Cardinale Vicario,  nella Basilica di San Giovanni,  a novembre 2015, indirizzò un “appello” alla Città,  conscio che la crisi di Roma rivestisse  anche un valore simbolico e riguardasse l’intero Paese.  La sua difficile condizione , affermò il Vicario, avrebbe richiesto  “un supplemento d’anima per essere all’altezza della sua vocazione e delle nostre attese  di speranza”, rendendo la Città “ più attiva, più partecipe, più unita”.  

Si parlò allora di “cinque sfide” ma che possiamo tutte compendiare nella necessità di un atteggiamento  attivo rispetto alle realtà della Città e di un richiamo alla consapevolezza di dover intervenire.  Un invito a costruire la città della solidarietà. 

Recentemente, anche  il nuovo Vicario ha chiesto di costituire le “équipe pastorali”, supportate dalla Diocesi,  che, ascoltando il “grido della città”,  possano “prendersi cura del cammino di tutti , custodendo la direzione comune e animando concretamente le diverse iniziative”.  

Vallini , insisteva nella richiesta, innanzitutto,   di affrontare “le vecchie e nuove povertà” . Questa  esortazione ecclesiale invita sia  ad operare    sul versante  dello sviluppo, per creare più offerta di lavoro,  sollecitando le realtà sociali e produttive, per le quali l’amministrazione dovrebbe realizzare un luogo di permanente verifica dei programmi e delle realizzazioni, sia  contrastando l’isolamento e dell’abbandono di chi è emarginato , attraverso l’intervento delle realtà territoriali del terzo settore presenti e diffuse largamente nelle zone periferiche. 

Poi la questione “dell’integrazione e dell’accoglienza”, che non è solo quella dell’immigrazione, con la realizzazione di strutture adeguate,  attraverso interventi di edilizia pubblica, esterni alla città consolidata,  anche in accordo con i privati costruttori; con programmi di riscatto degli alloggi che alimenterebbero un fondo per nuovi investimenti . Recentemente il SICET ne ha fatto un puntuale inventario.   La Città ha bisogno di relazione anche rispetto alla questione degli immigrati . A questo proposito il terzo settore ed il volontariato sono indispensabili.  

Veniva intravista anche  la necessità di intervenire nell’ambito educativo,   attraverso “la scuola, l’università e gli enti di formazione professionali , così numerosi a Roma” al fine di “promuovere il senso etico e civico, educare alla legalità, al rispetto reciproco e all’accoglienza di ciascuno”. Affinché  Roma, che sempre ha dimostrato generosità e solidarietà, non fosse  sospinta, dall’asprezza dei problemi sociali, verso forme di rancoroso egoismo come hanno dimostrato alcuni  episodi, soprattutto nella periferia est. 

Non poteva  mancare, anche a proposito di quanto detto adesso, un invito ad una “vera e corretta comunicazione … per promuovere  contenuti che investano il rapporto media-famiglia-cultura-solidarietà-giovani”. Anche questo invito del cardinale Vallini rappresentava una necessità di cambiamento,  poiché nella comunicazione prevalgono quelli che anche il cardinale definiva “interessi economici e di parte”. Ben vengano confronti e proposte  sulle quali gli organi di informazione coinvolgano le forze vive della Città. Dare voce a chi opera a servizio degli altri è un dovere di una corretta comunicazione. 

Infine veniva segnalata un’ultima sfida che andava al cuore della crisi di rappresentanza della Città, la necessità di “formare pazientemente  la classe dirigente di domani”. E’ un invito a riprendere ,  da parte dell’associazionismo, di ispirazione  cattolica, quell’ impegno sociale, fondato sulla dottrina sociale della chiesa, base indispensabile   di una politica di servizio. I seminari di formazione del MCL riguardano  anche agli aspetti amministrativi e legislativi delle comunità e degli enti locali, sollecitando i giovani a voler intervenire  nelle attività dei municipi, prossimi alle problematiche del vivere quotidiano. 

Non dimentichiamo che la formazione della classe dirigente non può essere disgiunta dal ripristino di grandi valori di onestà e chiarezza nell’espletamento delle diverse funzioni  della amministrazione pubblica, contrastando decisamente la diffusa corruzione in atto

Complessivamente l’appello del Cardinale e le sfide mostravano un elemento comune: quello di invitare i corpi intermedi  a intervenire per la salute della Città, per il suo sviluppo, per risanare ferite inferte da troppi anni di inadeguatezza politica ed amministrativa.  

Roma – si disse allora –  ha bisogno di una forte riscossa spirituale, morale, sociale, civile, con la cooperazione di tutti . Non aspettiamo che comincino gli altri: ciascuno nel suo ambiente si faccia protagonista di buone idee, di proposte, di dialogo, di azione”. 

 

Ed è il motivo  di questa iniziativa che intende passare dalla denuncia dei “mali” alle idee e ai progetti per questa Città che un eminente poeta inglese chiamava “città dell’anima”. 

Il suo  carattere particolare è stato evidenziato  nella recente, importante, ricerca, coordinata dal professor  Domenico De Masi. In essa Roma è definita “città-mondo”. Ritengo, tuttavia,  che più che un carattere cosmopolita essa abbia,  a fondamento, una segno universale. Mi sia consentito : non è la stessa cosa. Non si può confondere l’universale con l’indistinto.  

Concludo con una gustosa citazione da un articolo del 1954  di Silvio Negro, un giornalista vicentino, vissuto fino alla soglia degli anni ’60,    intelligente ammiratore della nostra Città, della quale scrisse “non basta una vita”, per conoscerla nel profondo.  

Visto e considerato  – scriveva il cittadino Umbricio a Giovenale milleottocento anni fa – che qui a Roma non c’è più posto per i lavoratori onesti il cui stipendio è praticamente nullo, e poiché la situazione di oggi è peggiore di quelle di ieri e quella di domani sarà più nera di quella di oggi, io ho preso la decisione di tornarmene a Cuma. Restino pure a Roma, caro Giovenale, quelli che hanno l’abitudine di ingannare il prossimo vendendo fumo; ci restino tutti coloro per i quali è un gioco da ragazzi ottenere appalti per costruzioni edili , per sbancamenti fluviali, costruzioni di porti  e bonifiche, restino pure a Roma gli strozzini delle pompe funebri: ci restino quelli che non esitano a vendere l’anima al miglior offerente. Io me ne vado”.

Che il cittadino Umbricio avesse ragione allora e forse anche oggi, potrebbe essere una facile constatazione. 

 Ma noi abbiamo un’altra scelta: restare a Roma per aiutare questa nostra Città. 

 

 

Dopo l’Umbria: la scelta tra disincanto e maturità

La sensazione che si avverte osservando il vasto e variegato contesto politico italiano è quella dell’“inesorabilità”. Sembra cioè che osservatori, ma anche attori, politici si pongano in rapporto con gli eventi come si sta di fronte a una valanga. Lo stravolgimento degli equilibri politici è accelerato a tal punto che ci si sente impreparati e inermi. La velocità e l’imprevedibilità del cambiamento è evidente. Qualcuno fa notare per esempio che dal 2014 ad oggi si sia passati da 16 regioni di sinistra contro 3 di destra a 7 di sinistra contro 12 di destra. Su questa traiettoria il sorpasso in Umbria è stato un vero e proprio trionfo della Lega, che ha travolto il centro-sinistra. Tutto ciò motiva uno stato di shock, e quasi di passiva rassegnazione di tutte le parti “sconfitte”.

Bisogna però chiedersi quanto fatalismo sia lecito ancora concedersi in questo momento. Cioè bisogna chiedersi se non sia proprio il disincanto diffuso già da tempo nel mondo della politica ad aver provocato le ormai numerose sconfitte degli epigoni (chiamarli eredi sarebbe troppo) dei partiti tradizionali repubblicani. Quel disincanto è ispirato dal modo di leggere la transizione politica, economica, sociale, antropologica che si sta vivendo così convulsamente; non dalla transizione come tale, ma dalla sua lettura secondo una mentalità vecchia, o meglio, ancora immatura. Sembra un paradosso, ma la malinconia ancora diffusa nel mondo di sinistra, in certo mondo liberale e anche in quello popolare e cattolico non è semplicemente un sintomo di un pensiero “datato” e “inattuale”, perché l’inattualità di per sé potrebbe essere anche rivoluzionaria. Il punto è l’immaturità politica. Cioè il punto è che la mentalità cristallizzata nei bei tempi andati non è solo vecchia, ma anche non cresciuta, non al passo con una doverosa presa di coscienza. Il vecchio uomo della democrazia dei partiti di massa non rischia solo di invecchiare (che è fisiologico), ma di rimbambire (che è patologico), cioè letteralmente di ritornare bambino, a uno stato di innocente passività.

Si troverà la forza di riconoscere gli errori commessi? Di ripensare realisticamente l’attuale equilibrio politico svuotando alla base l’impeto dell’avanzata reazionaria e sovranista? Alla base, cioè partendo dalle persone, dalle loro legittime esigenze e dall’orientamento dei loro desideri, che è sempre in qualche modo politico. In Emilia e in Calabria non si potrà più competere con vecchi strumenti, c’è bisogno di un coraggio diverso, di una visione chiara, di una definizione chiara della propria identità e delle conseguenti alleanze. In questo senso il pensiero politico cattolicamente ispirato può aiutare a leggere in modo dinamico le forze politiche in gioco: i cattolici possono invitare il PD a una nuova presa di coscienza e ridefinizione del suo ruolo e della sua identità, ma anche seguire con interesse il M5S nella sua parabola di istituzionalizzazione e di chiarificazione di intenti. Il tutto in perfetta autonomia. Anche denunciando l’ipocrisia fisiologica e oggi patologica che pervade ogni forza politica, chi si sente popolare oggi ha in compito di esprimere critiche puntuali e serie all’attuale governo e al precario equilibrio su cui regge; critiche tanto sincere quanto costruttive, che mirino nel breve periodo a un chiarimento di idee degli orizzonti da contrapporre con forza alla prospettiva regressiva delle destre. Nel lungo periodo, l’obiettivo è che si miri a una rappresentazione più fedele della società italiana: non siamo un popolo diviso in “reazionari” e “confusi”. Siamo un popolo che tiene insieme tante differenze (proporzionalmente rappresentate), e che come casa comune ha un sistema costituzionale e un compito comune: vivere umanamente la nuova epoca in cui ci troviamo.

Una chiacchierata sulla Regione Lazio, partendo dalle Reti. E passando per Roma

Intervista ad Augusto Gregori, componente della Segreteria del PD Lazio e Responsabile industria, commercio artigianato, turismo e sport.

Gregori, nelle ultime settimane sono state assegnate le deleghe nella segreteria del PD Lazio. Nello specifico, alla sua persona è stata affidata una delega “pesante” (come si direbbe in politica), e cioè quella relativa all’industria, al commercio e artigianato, turismo e sport.  Senza tralasciare che sulle sue spalle ricade una grande responsabilità, poiché il Presidente della Regione Lazio è anche il Segretario nazionale del suo partito

Ci terrei innanzitutto a ringraziare il Segretario Regionale Sen. Bruno Astorre, per la stima e la fiducia riposta in me e ci tengo a precisare fin da subito che il nostro obiettivo è quello di svolgere un grande lavoro di squadra. Abbiamo fin da subito concordato la creazione di forum dedicati in maniera ampia e plurale, dove ci saranno personalità di alta competenza e rappresentative dei rispettivi mondi e della società civile, e saranno aperti al contributo di tutti coloro che vogliono impegnarsi e darci una mano, sia iscritti al PD  che non. Lavoreremo su temi e settori che tra loro sono accomunati da una “filo conduttore”: contribuiscono a migliorare la nostra Società, attraverso la condivisione della “Bellezza” dei mondi presenti sui nostri territori, la trasmissione di valori fondamentali che ci accomunano e la creazione di un benessere a disposizione di tutti. Darò e farò il massimo affinché tutti possano riconoscersi nella visione di insieme che vogliamo mettere in campo e chiederò il massimo a consiglieri e assessori di riferimento, che dovranno essere sempre di più in prima linea insieme a noi nelle battaglie che vogliamo vincere. Il nostro è un compito politico e quindi saremo da stimolo costante. Intanto le do il primo appuntamento per il 21 novembre al Tempio di Adriano, dove insieme ai consiglieri regionali, alle istituzioni camerali,  alle associazioni di categoria, civiche e gli amministratori locali, della Regione Lazio, presenteremo il Testo unico del Commercio. Sarà una ricca giornata di novità.

A proposito del testo del commercio, dopo 4 anni di lavoro e 20 di attesa è stato approvato, in consiglio regionale. Che giudizio dà e come crede che quest’ultimo inciderà nel settore?

La legge sul commercio approvata in consiglio regionale garantisce strumenti per la tutela e lo sviluppo di un settore vitale per l’economia e l’occupazione della nostra Regione. Si tratta di un testo che porterà innovazione e semplificazione di procedure, oltre ad una sana programmazione commerciale. Sarà destinato non solo agli esercizi di vicinato, come ad esempio le botteghe storiche e gli artigiani, ma anche alle medie e grandi strutture di vendita e i mercati rionali. Il Testo Unico ha inoltre l’obiettivo di rafforzare il settore con tutele nei contratti di lavoro, il contrasto all’abusivismo, alla contraffazione e il recupero delle eccellenze alimentari, prevedendo novità anche per consentire una maggior qualità e innovazione di alcuni settori nevralgici del commercio e della distribuzione.

Questo nuovo testo dà ulteriore conferma del buon lavoro fatto dalla Giunta Zingaretti in Regione Lazio e indica con chiarezza che sulle misure che migliorano la vita delle persone si può e si deve trovare la giusta sintesi politica. E per questo ringrazio tutta la squadra che ha saputo dare visione e fare sintesi al fine di arrivare ad una scelta condivisa e di qualità. 

Le sfide globali obbligano ad una riflessione. Nei giorni scorsi il caso Whirpool – per citarne soltanto uno – ha svolto la funzione di campanello d’allarme nell’ambito dell’impresa. Se la Brexit suscita ulteriore incertezza nei mercati, quale sarà la ricetta per contrastare questo moto dilagante di instabilità?

Se il Lazio è diventato la prima regione in Italia per nascita di nuove imprese, dove si è registrata una esplosione dell’export e dove l’organizzazione a rete delle imprese piccole e medie è una realtà concreta, non può essere certamente un caso. A metà del 2019, la nostra regione ha raggiunto il numero di occupati più alto di sempre. 

In controtendenza con il trend nazionale, l’imprenditoria laziale vive ora una fase di slancio che, sia pur nella non facile fase economica generale, spinge lo sviluppo economico regionale, grazie alle capacità dei nostri imprenditori e alla progettualità messa in campo da giunta e consiglio regionale. Secondo le statistiche, a settembre 2019 oltre 8.000 imprese hanno stipulato un contratto di rete, dando vita a forme di organizzazione che attraverso un processo di aggregazione consente di realizzare obiettivi comuni. 

Noi abbiamo l’obbligo di allontanare ogni incertezza con fatti e azioni reali: è questo ciò su cui si dovrà continuare a lavorare come obiettivo primario.  I sani strumenti della forma associativa sono il driver per creare crescita, ricerca e sviluppo.

Una visione incentrata sul territorio. Può funzionare l’idea del ripartire “dal basso”? Sembrerebbe un termine abusato, più che una certezza. 

Noi siamo dei “privilegiati” nella nostra funzione politica, poiché la Regione Lazio ha già posto l’impianto per uno sviluppo strutturato.  Grazie a bandi pubblici – questi hanno trovato grande riscontro da parte dei territori – che hanno svolto funzione di stimolo, oggi il nostro sistema territoriale è cresciuto, si è rafforzato ed è divenuto maggiormente competitivo. Rafforzare le reti, permettendo alle PMI di crescere e rafforzarsi è la ricetta per rendere il tessuto economico resistente agli shock economici. Le reti di imprenditori e delle imprese sono la nostra risorsa madre, linfa vitale di una regione che, nell’innovazione e nella ricerca ha investito al rendersi pronta ad affrontare le sfide imminenti che si pongono davanti a loro. Se la Brexit – ricollegandomi alla sua affermazione precedente – spaventa colossi come la Germania per la riduzione nella bilancia commerciale dovuta alla contrazione dell’export, il Lazio nel 2019 ha incrementato le esportazioni del 27%, contro una media nazionale lievemente inferiore al 3%. Tutto in un solo anno.

In parole povere?

Quasi 2 milioni e mezzo di impiegati. Dato a cui si accompagna una diminuzione di persone in cerca di lavoro che supera quota 55mila. Mi ripeto: tutto in un solo anno. 

Questo è il motivo per cui, pur partendo da posizione privilegiata e chiaramente con un ruolo prettamente politico, posso tranquillamente dichiarare che il lavoro non è che agli inizi.  Il Partito Democratico, sta lavorando affinché la fiducia torni a trainare l’economia del Lazio, anche grazie al coinvolgimento di tutti coloro i quali contribuiscono a creare ricchezza nella nostra regione, che devono essere ascoltati. E allora la solidità delle reti rappresenta il punto da cui ripartire, al fine di migliorare le politiche di sviluppo. 

In tutta la Regione, insieme alle federazioni provinciali, stiamo pensando di avviare un percorso di ascolto e confronto su proposte concrete, al fine di tracciare la linea della visione futura, che renda la Regione Lazio sempre più attrattiva, innovativa e competitiva. 

In termini di attrattività, Roma Capitale risente della competizione con la città di Milano, non fosse per il turismo religioso che ancora rende Roma meta primaria per indotto. Essendo il turismo di sua competenza, cosa pensate di fare per invertire questo trend e, è solo lì che bisogna agire?

Una delle chiavi è certamente il Turismo congressuale, che insieme alla valorizzazione del settore sportivo oggi può rappresentare uno strumento determinante. Milano è città di flussi legati al business, e lo stesso sport – un esempio lampante saranno le Olimpiadi del 2026 Milano-Cortina – è uno strumento sano per rafforzare l’indotto turismo. Investendo sempre più in innovazione, nuove tecnologie, imprese e ricerca, queste rappresenteranno un volano di sviluppo economico, oltre al grande ruolo di aggregatore sociale e di promozione dell’intera regione. Il Turismo congressuale, insieme alla valorizzazione del settore sportivo, sono alcuni degli strumenti per rilanciare non solo Roma, ma il Lazio tutto, in un’ottica di proposta alternativa, riattivando un ciclo economico positivo all’interno dei nostri territori. 

L’economia non è fatta da compartimenti stagni ed ogni settore può dialogare con altri. Quindi lo sport, nell’ottica di sviluppo cui accennavo prima, si collega anche al turismo, che trae sicuro beneficio da una costante crescita degli eventi sportivi. L’amministrazione non deve essere ostacolo, ma alleato del mondo dello Sport.

Questo vale per tutto il Lazio ed in particolar modo per Roma, che non può vivere di rendita sul Colosseo, ma deve sapersi rilanciare dopo un ultimo quinquennio che l’ha vista perdere molto terreno rispetto alle grandi capitali europee. La Capitale deve essere vivibile prima di tutto per i propri cittadini, solo così, con servizi efficienti, manutenzione continua e il decoro crescente, i turisti potranno aver voglia non solo di soggiornare più a lungo (ad oggi la durata media è solo di 2,1 giorni), ma anche di tornare per godersi una città che deve piacere ai romani e al mondo. 

Inoltre dobbiamo vedere lo sport come strumento per educare ai valori ed alla qualità della vita delle persone. Questo può avvenire solo partendo dalle scuole, nelle quali si può rafforzare la presenza dello sport, anche collaborando con il vasto tessuto di associazioni sportive, sparse sul territorio della nostra Regione.  Lo sport di domani, attraverso iniziative che portino i giovanissimi ad amarlo, è il benessere di oggi.

Un altro settore strategico è l’artigianato, che potrebbe rappresentare anch’esso un volano di sviluppo oltre che contribuire al rilancio della storia e della cultura dei nostri artisti artigiani e per il quale ad esempio si potrebbe pensare di strutturare una accademia dell’artigianato, dove formare giovani artigiani che possano contribuire al rilancio del settore e dare continuità alla storia, alla cultura e all’arte che il settore rappresenta. Anche qui puntando alla valorizzazione dei territori. Pensiamo ad esempio ad una cittadella dell’artigianato nei territori colpiti dal terremoto, territorio in ginocchio dove si potrebbero concentrare eccellenze regionali che insegnino l’arte dell’artigiano per far continuare a vivere la storia e la cultura dei nostri luoghi, dei nostri prodotti e appunto della nostra arte. E poi c’è l’industria dell’audio visivo, dove la regione sta investendo molto, il polo tecnologico, oltre a settori fondamentali come l’aerospazio e il farmaceutico che rappresentano per il Lazio eccellenza e fonte di economicità e sviluppo sia sociale che economico.

E invece su Roma, non mi ha detto molto, che ruolo ha e dovrebbe avere nel Lazio?

Eh, Roma. Mentre la Regione Lazio corre, cresce e sviluppa benessere sociale ed economico, Roma sta diventando una zavorra per il paese.  Mentre nel mondo le persone si concentrano sempre più nelle grandi aree metropolitane dove si concentra gran parte del PIL, la nostra Capitale non ha un progetto strategico. C’è solo una giunta incapace, litigiosa e sempre pronta a dare la colpa ad altri. Sono 3 anni che governano la Capitale, chi sono gli altri?

A Roma è necessario riportare nell’amministrazione capitolina una strategia di governo della città che punti alla qualità e non alla semplice sopravvivenza. Per fare questo Roma deve tornare al centro del dibattito nazionale, veramente. Roma ha bisogno di una riforma strutturale, non può essere trattata come una delle tante città italiane, la Capitale necessità di una vera autonomia legislativa ed organizzativa.

Va ripensato il ruolo de Municipi, rendendoli maggiormente partecipi nella vita amministrativa della città, in ostaggio dei soffocanti limiti dati alle loro ristrette competenze.

E poi va messa in campo una visione, una idea di città, un progetto strategico, che parta dalla riorganizzazione delle grandi malate della città, le sue partecipate. Serve ripensare la sua dimensione Urbana, per creare quartieri più accoglienti. Serve un nuovo piano casa che non veda solo opportunità nelle nuove costruzioni, ma permetta anche una più oculata gestione del patrimonio della Città.

Ed ovviamente serve un grande piano di investimenti sull’ambiente: piano rifiuti che chiuda il ciclo in città, puntando sull’economia circolare, la riorganizzazione di AMA, (prevedendo la gestione del servizio a livello municipale e quello degli impianti a livello di città metropolitana o regionale…ma questo è solo esempio, non vorrei entrare troppo nel merito) e nuovo grande progetto della Mobilità, sia per rinnovare il parco mezzi sia per investire in nuove linee (tram, metropolitane ) e in nuove forme di mobilità individuale (uber, monopattini, car sharing, bike sharing).  A Roma serve visione. E poi, soprattutto serve un Sindaco. Un sindaco che abbia chiaro che Roma non è solo il trampolino per la sua realizzazione, Roma è una grade sfida per chi ha ambizioni riformiste, per chi vuole cambiare questo Paese partendo dalla sua Capitale. 

Quindi non è quale ruolo Roma ha o deve avere nel Lazio ma il ruolo che dovrebbe avere per il paese intero, perché senza un grande piano per Roma non ci sarà un piano per l’Italia. E questo dovrebbe essere chiaro a tutti.

Salutandola e augurandole buon lavoro, mi permetta di chiederle i prossimi appuntamenti che avete in programma, per mettere in atto quanto detto fino ad ora. 

Gran parte di quanto detto già si sta sviluppando, grazie al grande lavoro che la squadra di Zingaretti in regione sta facendo. Come le dicevo prima, noi saremo da stimolo costante e stiamo pensando di avviare, insieme a Simone Cascino, relativamente alle nostre deleghe,  un percorso in tutta la Regione dove raccontare ciò che abbiamo trovato 6 anni fa, ciò che è stato fatto e ciò che si vuole sviluppare. Una occasione emozionante di confronto, un momento di grande aggregazione per raccontare ciò che il Governo a trazione PD in Regione sta facendo e la visione che si vuole realizzare, avendo come riferimento alcuni punti fondamentali di proposta politica: il trasferimento tecnologico, l’utilizzo proficuo e incrementato del digitale, un progetto di formazione, da proporre  in collaborazione con scuole e università per artigianato, impresa e industria 4.0, lo sviluppo delle reti di commercio, e poi il turismo e lo sport dove dobbiamo continuare a sostenere e sviluppare il modello di turismo e il piano strategico sullo sport che la Giunta Zingaretti ha costruito e rilanciarlo. Sarà un grande momento per far conoscere e valorizzare le nostre eccellenze imprenditoriali, puntando alla rivitalizzazione dei nostri borghi, dove sono custodite tradizioni, storia e cultura. 

Il Lazio può e deve diventare l’esempio di buone pratiche che il paese attende, allo scopo di proiettare la nostra economia nel futuro e fare dei moderni modelli di produzione e organizzazione, una grande opportunità da cogliere, per il bene di tutti. 

Saremo portatori sani di speranza, puntando all’ascolto ed il confronto: valori imprescindibili che accompagneranno il nostro cammino. E poi come le dicevo ci vediamo il 21 novembre  al Tempio di Adriano per presentare questo grande lavoro che i nostri consiglieri hanno portato avanti con spirito di squadra raggiungendo un risultato atteso da anni. Intanto ci mettiamo al lavoro, con l’umiltà di ascoltare, approfondire e confrontarci, accompagnati dalla nostra forza di volontà, che ci contraddistingue, sempre.

Educare alla Pace: laboratori di pace

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, Winston Churchill pronunciò una frase forse meno celebre di altre (come quella sulla “Cortina di Ferro”) ma non per questo meno importante. Secondo lo statista britannico, i Paesi vincitori della guerra avrebbero dovuto impegnarsi, per favorire la stabilità in Europa, a “vincere la pace”.

La pace presuppone un rapporto equilibrato sul piano nazionale e internazionale tra cultura e società, tra il piano dei valori, della ricerca del bene comune e della realizzazione delle strutture sociali. Oggi assistiamo ad uno stravolgimento sostanziale di questi rapporti: i valori tradizionali sono contestati, l’economia finanziaria assume sempre più la direzione dell’assetto sociale. Sul piano internazionale, l’attuale modello di globalizzazione, grazie alla crescita tecnologico-scientifica e dei mercati, accentua la crisi dei valori, soprattutto quelli comuni alle diverse culture e religioni. La politica perde sempre più di significato e cresce l’indifferenza nei confronti dei processi politici. Si nota il discredito nei confronti delle classi dirigenti, l’emergere di leader e partiti “populisti”, la protesta fino al rifiuto del suffragio elettorale (a favore della democrazia “diretta”). 

La società non appare più guidata dalla bussola del bene comune e diventa facile preda della concorrenza delle forze economiche più spregiudicate. La crisi di valori, le migrazioni di massa e le disuguaglianze sociali producono un’insicurezza crescente (anche identitaria) mettendo a rischio la convivenza sociale e la pace. Come uscirne? Fornendo nuove idee alla democrazia e sviluppando (in particolare nei giovani) la coscienza di essere parte di una Comunità di valori.

Tenendo presenti queste considerazioni, da alcuni anni l’Istituto Internazionale Jacques Maritain insieme alla Pontificia Università Lateranense propone una riflessione sul tema dell’Educazione alla Pace. Si tratta di un Corso interuniversitario (aperto alla partecipazione delle diverse Università romane, pontificie e laiche) quest’anno dedicato proprio al tema dei “Laboratori di Pace”.

Nella sessione inaugurale, che si terrà mercoledì 6 novembre alle ore 16.00 presso la Pontificia Università Lateranense, il neo-Arcivescovo S.E. Mons. Antoine Camilleri, Sottosegretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato della Santa Sede e Presidente della Fondazione Mondo Unito, illustrerà come la diplomazia è la vera “arte del possibile” nella ricerca della pace. 

Le lezioni del Corso (per un totale di 13 appuntamenti), sono affidate a docenti di chiara fama ed esperti e affronteranno il tema della ricerca della pace attraverso approcci diversi (economico, giuridico, storico, sociale) ma accomunati dal “comune sentire” del desiderio di pace. Il Corso si rivolge a studenti universitari, come pure a persone interessate agli argomenti trattati.  

Suicidio assistito: p. Occhetta (La Civiltà Cattolica), “L’orizzonte antropologico per rispondere alla cultura del suicidio assistito deve essere quello della solidarietà”.

Padre Francesco Occhetta, scrittore de La Civiltà Cattolica, nella “nota di politica” pubblicata sul numero di novembre di Vita Pastorale scrive che “La Corte ha chiesto al Parlamento di intervenire rapidamente, perché è cosciente di aver creato una crepa in una diga che potrebbe esplodere e cancellare con il tempo le condizioni restrittive imposte secondo l’antico principio de iure condendo”.

Nella sua nota il gesuita evidenzia che: “morire con dignità significa per la persona malata nella fase terminale della malattia il diritto a una assistenza rispettosa che risponda ai bisogni assistenziali della sua dimensione biofisica, ma anche a quelli delle sue dimensioni biografiche, come quelle psicologiche e spirituali”. La sua convinzione è che “gli elementi per un dibattito maturo in Parlamento ci siano tutti”. E avverte che “non si controlla la morte attraverso la ‘cultura’, pensando di ignorare la ‘natura’ con le sue leggi”.

“L’orizzonte antropologico per rispondere alla cultura del suicidio assistito deve essere quello della solidarietà e dell’aiuto concreto e possibile: la guarigione può solo essere interiore quando il corpo si sgretola. È questa la sfida del Parlamento: garantire sia la cura e la relazione data nel morire sia l’aiuto concreto alle famiglie”.

Milano: a Palazzo Reale “L’Europa della luce”

Considerato unanimemente come uno dei più celebri artisti del Seicento, Georges de La Tour non esisterebbe se non esistesse la storia dell’arte.
Sconosciuto per più di due secoli, fu “resuscitato” da Herman Voss, un grande studioso tedesco che, nel 1915, scrisse un articolo per attribuirgli due dipinti.
La sua storia appare dunque segnata da un totale oblio e da una tarda, ma efficace riscoperta.
La sua pittura è caratterizzata da un profondo contrasto tra i temi “diurni”, crudamente realistici, che ci mostrano un’esistenza senza filtri, con volti segnati dalla povertà e dall’inesorabile
trascorrere del tempo e i temi “notturni” con splendide figure illuminate dalla luce di una candela: modelli assorti, silenziosi, commoventi. Un potente contrasto tra il mondo senza
compassione dei “diurni” e la compassionevole rappresentazione delle scene “notturne” che colpisce ancora oggi.
Dipinti che conservano il segreto della loro origine e della loro destinazione. Come rimane un mistero la formazione del pittore, compresa la possibilità o meno di un suo viaggio italiano.

La prima mostra in Italia dedicata a Georges de La Tour, attraverso dei mirati confronti tra i capolavori del Maestro francese e quelli di altri grandi del suo tempo – Gerrit van Honthorst,
Paulus Bor, Trophime Bigot, Hendrick ter Brugghen e altri -, vuole portare una nuova riflessione sulla pittura dal naturale e sulle sperimentazioni luministiche, per affrontare i profondi
interrogativi che ancora avvolgono l’opera di questo misterioso artista.
La mostra a Palazzo Reale e gli studi del catalogo riflettono dunque sulle immagini straordinarie, potenti e liriche, di santi e mendicanti, sulle scene di gioco e di rissa, sulla raffigurazione sofisticata della notte, soggetti usuali di La Tour e degli altri “pittori della realtà” con cui la mostra lo confronta.

Più di 30 le opere all’interno del percorso espositivo, provenienti dalle più importanti istituzioni americane quali la National Gallery of Art di Washington D.C., il J. Paul Getty Museum di Los Angeles, la Frick Collection di New York e dalle istituzioni museali francesi come il Musée des Beaux-Arts di Nantes, Musée du Mont-du-Piété di Bergues, Musée départemental d’Art ancien et contemporain di Epinal, Museée des Beaux-Arts di Digione, Musée Toulouse-Lautrec di Albi, Musée départemental Georges de La Tour di Vic-sue-Seille.

Moto ondoso: nuova società per la realizzazione degli impianti

E’ stato firmato due giorni fa a Ravenna un accordo che pone le basi per la realizzazione di una società per lo sviluppo di impianti di produzione di energia elettrica da moto ondoso. L’intesa ha avuto luogo alla presenza del premier Conte, degli amministratori delegati di Cassa depositi e prestiti, Fabrizio Palermo, di Fincantieri, Giuseppe Bono, di Terna, Luigi Ferraris, e di Eni, Claudio Descalzi. L’iniziativa segue l’intesa firmata lo scorso 19 aprile e ora la collaborazione tra le società entra nella fase operativa per trasformare il progetto pilota Inertial Sea Wave Energy Converter (ISWEC), l’innovativo sistema di produzione di energia dal moto ondoso, in un impianto realizzabile su scala industriale e perciò di immediata applicazione e utilizzo.

L’accordo di partnership si svilupperà in due fasi: nella prima fase, verrà messo a punto il modello di business, definendo un vero e proprio piano operativo in Italia. Al tempo stesso verrà completata la prima installazione industriale di ISWEC presso la piattaforma Eni Prezioso nel Canale di Sicilia al largo delle coste di Gela, con avvio previsto nella seconda metà del 2020. La seconda fase sarà poi dedicata alla vera e propria costituzione della società, con la conseguente esecuzione del piano di realizzazione e sviluppo delle attività, a partire dalle applicazioni per le isole minori italiane e successivamente all’estero.

“Questo accordo – ha detto l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi – s’inserisce nel nostro piano strategico di decarbonizzazione e trova fondamento nella nostra grande esperienza riguardo alle attività offshore e nella gestione dei progetti complessi. Elementi che hanno consentito di realizzare e installare la prima applicazione industriale di ISWEC in tempi record per il settore. La collaborazione con tre eccellenze italiane, quali Cdp, Terna e Fincantieri, consentirà di mettere a fattor comune le grandi competenze esistenti e di accelerare il processo di industrializzazione di questa tecnologia, a differenza di quanto avvenuto finora per dispositivi analoghi”.

Cassa depositi e prestiti darà il proprio contributo all’iniziativa curando, in sinergia con i partner, i rapporti con le Istituzioni centrali e gli Enti locali, valutando i profili economici e finanziari nonchè i meccanismi di remunerazione dell’energia prodotta.

“Questo accordo, frutto della collaborazione tra le società partecipate dal Gruppo Cdp – ha sottolineato Fabrizio Palermo – mira alla realizzazione di una tecnologia estremamente innovativa. Si tratta di un sistema capace di generare valore per i territori e per la collettività ed è in linea con la nostra strategia che punta a indirizzare gradualmente le attività e gli investimenti del Gruppo a supporto della transizione energetica e a contrasto del cambiamento climatico”.

Fincantieri apporterà competenze industriali e tecniche tipiche delle realizzazioni navali per l’industrializzazione e la distribuzione della prima applicazione industriale.

“Questa cooperazione di grande respiro industriale e tecnologico – ha aggiunto Giuseppe Bono – che ci vede affiancati a gruppi del calibro di Eni, Terna e Cdp, apre una nuova frontiera per lo sfruttamento delle energie pulite in Italia, valorizzando la morfologia del Paese. Fincantieri viene riconosciuta come la massima autorità in campo marittimo e navale, e siamo certi che, grazie alle sinergie fra i partner coinvolti, questo progetto d’avanguardia segnerà un punto di svolta per lo sviluppo sostenibile del Paese”.

Terna apporterà le sue competenze industriali e tecniche nel campo dell’ingegneria elettrica per l’industrializzazione e il deployment della prima applicazione industriale “full scale” e nel campo dell’integrazione con la rete elettrica.

“L’iniziativa avviata con Eni, Cdp e Fincantieri consentirà di mettere ulteriormente a sistema la nostra esperienza e il know-how in innovazione, tecnologia e ricerca a servizio della transizione energetica – ha spiegato l’amministratore delegato di Terna, Luigi Ferraris -. E’ un’importante partnership che, attraverso l’utilizzo di nuovi fattori abilitanti, contribuisce a potenziare il ruolo primario e centrale del nostro Paese nel sistema energetico europeo, sempre più decarbonizzato e sostenibile”.

Gli integratori alimentari non hanno finalità di cura.

Assorted pills

Gli integratori alimentari sono alimenti presentati in piccole unità di consumo come capsule, compresse, fialoidi e simili. Si caratterizzano come fonti concentrate di nutrienti o altre sostanze ad effetto “fisiologico” che non hanno una finalità di cura, prerogativa esclusiva dei farmaci, perché sono ideati e proposti per favorire nell’organismo il regolare svolgimento di specifiche funzioni o la normalità di specifici parametri funzionali o per ridurre i fattori di rischio di malattia”. È quanto rimarca il Ministero della Salute nel suo Decalogo per un’assunzione corretta degli integratori alimentari.

“L’impiego di integratori – precisa il Ministero – , per risultare sicuro e adatto alle specifiche esigenze individuali, deve avvenire in modo consapevole e informato sulla loro funzione e sulla valenza degli effetti svolti, senza entrare in contrasto con l’esigenza di salvaguardare abitudini alimentari e comportamenti corretti nell’ambito di uno stile di vita sano e attivo”.

La strana “dimenticanza” di Ernesto Galli Della Loggia.

Ernesto Galli Della Loggia è, ormai da molti anni, un attento osservatore della politica italiana. Di tradizione socialista resta uno dei commentatori più acuti e più profondi delle dinamiche che attraversano la politica contemporanea. Anche quando si deve fare i conti con una politica decadente e senza un pensiero, come quella di oggi, che ne inibisce alla radice ogni prospettiva e ogni visione capaci di scrutare ciò che si muove all’orizzonte. E, di conseguenza, incapace di disegnare e di progettare il futuro. 

Ma, dato a Cesare quel che è di Cesare, è altrettanto indubbio che la lettura che l’illustre politologo ha vergato sul Corriere della Sera dopo il voto umbro rischia di cadere in radicati pregiudizi culturali, e quindi politici, che non possono essere condivisibili. O meglio, che sono fortemente discutibili. Mi riferisco, nello specifico, quando trasmette la sostanziale sottovalutazione di tutto ciò che è riconducibile alla storia, all’esperienza e al ruolo dei cattolici popolari e democratici nel nostro paese. Dice Galli Della Loggia che il voto umbro ha chiuso definitivamente la prima repubblica, ha sancito la fine del catto comunismo, ha evidenziato l’irrilevanza dei cattolici democratici e, dulcis in fundo, ha decretato la futura egemonia del centro destra a trazione leghista a livello nazionale paragonandola addirittura alla riedizione, seppur aggiornata e rivista, di una nuova Democrazia Cristiana. Con l’apporto dell’appendice liberale ed europeista di Forza Italia, della destra sovranista della Meloni e, aggiunge, forse anche con un potenziale fianco sinistro rappresentato dal partito renziano. 

Ora, al di là dello scenario futuro tratteggiato dall’autore, è indubbio che la presenza politica dei cattolici democratici e popolari – comunque niente a che vedere con il catto comunismo o simili derivati – non ha brillato in questi ultimi anni per la sua concreta incidenza nella cittadella politica italiana. Anche se molto invocato e auspicato, questo filone ideale e politico – per responsabilità dei suoi leader e di tutti coloro che vi si riconoscono – non ha saputo rideclinare un progetto politico in grado di dare un contributo decisivo per il futuro della nostra democrazia e per la stessa esperienza di governo. Come fece in altre stagioni stoiche. E’ appena sufficiente ricordare, al riguardo, l’esperienza cinquantennale della Democrazia Cristiana e anche la breve parentesi del Partito Popolare Italiano a metà degli anni ’90 per arrivare alala conclusione che in questi ultimi anni c’è stato un patologico deficit di assenza pubblica di questo glorioso e fecondo patrimonio culturale, politico e forse anche etico. Ma, fatto questo inciso, come si può paragonare l’esperienza leghista e della attuale destra italiana con la Democrazia Cristiana e, magari, fare di Salvini il nuovo De Gasperi? L’avversione per il cattolicesimo politico e la derisione dei cattolici popolari non può e non deve arrivare a questo punto, pena il travisamento della stessa storia politica del nostro paese. Salvini è, indubbiamente, un abile politico e un altrettanto abilissimo comunicatore. Perfettamente funzionale alle regole che presiedono caratterizzano l’attuale politica italiana. Ma un dato è certo, con buona pace dei suoi estimatori e degli stessi detrattori della Dc. E cioè, l’attuale progetto politico della Lega e della destra è sideralmente lontano da tutto ciò che, seppur lontanamente, è riconducibile alla Democrazia Cristiana. Tranne, forse, per il consenso elettorale che accomunano i due partiti. Ma, se questo fosse il metro che viene usato per paragonare i partiti di ieri e di oggi, dovremmo arrivare alla singolare e grottesca conclusione che tutti i partiti che superano o si avvicinano al 30% sono automaticamente simili se non uguali alla Dc. Nei numeri certamente si. Ma nella politica ovviamente no. E la differenza non è marginale ma è semplicemente decisiva. Stupisce che un osservatore attento ed intelligente come Galli Della Loggia continui a non coglierlo.

Quando Andreotti e Pertini salvarono i “boat people” del Vietnam

L’emittente radiofonica tedesca “Deutschlandfunk” ieri ha dedicato un approfondimento all’evento che vide la Marina militare intervenire al largo delle coste del Vietnam in soccorso dei “boat people”, i profughi che lasciavano il paese via mare spesso su imbarcazioni di fortuna.

In un clima difficilissimo per il Paese, nel luglio del 1979, su iniziativa del presidente della Repubblica Sandro Pertini di concerto con il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, fu deciso l’invio di tre navi verso il Golfo del Siam: gli incrociatori Vittorio Veneto e Andrea Doria e la nave appoggio Stromboli. La data di partenza fu fissata il 4 luglio. La guida “politica” dell’operazione fu affidata al ministro della Difesa, Attilio Ruffini, e al deputato Giuseppe Zamberletti.

Un’operazione che durò 45 giorni e portò al salvataggio di 907 profughi vietnamiti di cui 125 bambini, percorrendo 2640 miglia marine e perlustrando 250mila chilometri quadrati.

Rientrato a Venezia, l’ottavo gruppo navale, con il suo equipaggio e i “boat people”, venne accolto con entusiasmo dalla folla accorsa al porto della città e dal ministro della Difesa Attilio Ruffini, il sottosegretario agli Esteri Giuseppe Zamberletti, il vescovo ordinario militare Mario Schierano, il patriarca di Venezia Marco Cé.

L’Italia paese dei bonus senza controllo

Ci sono almeno tre dati che gli opinionisti dei talk-show televisivi (così frizzanti se comparati alle vecchie, noiose tribune politiche) dovrebbero sempre tenere presenti mentre discettano del “particulare” dell’oggi: i 67 governi in 70 anni di repubblica, la bulimia legislativa generata dal desiderio del governo di turno di ricominciare tutto da capo, come in una sorta di gioco dell’anno zero, e infine la smania di protagonismo dei ministri di lasciare un ricordo del proprio passaggio.

Questo è il dato più soggettivo ma non certo il meno influente sui deludenti risultati che si riassumono in alcuni indici eloquenti: il debito pubblico irreversibile, l’evasione fiscale irrefrenabile, la stagnazione economica, la decadenza del ceto medio, la precarizzazione del lavoro, la fuga dei cervelli e dei pensionati all’estero, compensata da una immigrazione che – absit iniuria verbis – produce solo problemi e un diffuso disagio sociale. Un minestrone rancido di problemi rimescolato in casa e maldigerito dall’Europa, di cui siamo sempre osservati speciali.

Da alcuni anni ci si preoccupa più di elargire contentini simbolici piuttosto che immaginare modelli organici di ripresa e sviluppo, attraverso riforme radicali sempre rinviate e giocando sulla sponda dei decimali sperando che producano miracolosi effetti moltiplicatori. E’ la politica dei bonus, delle mance e delle elargizioni mirate che avrebbe l’ambizione di compensare deficit di status e riappianare la distribuzione delle risorse. Anche in questa fase che precede il DEF se ne parla, ma nel caleidoscopio dei provvedimenti ipotizzati c’è più retorica che sostanza: una storia di lunga deriva che mi ricorda un aneddoto personale. Nei primi anni 90 (del dopo tangentopoli) incontrai – l’occasione fu casuale, allora vivevo a Genova – un vecchio amico che di lì a breve avrebbe assunto un importante incarico in uno dei tanti governi del cambiamento e della rinascita.

Fu in quella circostanza che mi anticipò una profezia che si è poi avverata puntualmente: “Il problema degli anni a venire sarà come mettere nel modo più indolore le mani nelle tasche degli italiani”.
Il progetto si è realizzato e pare indirizzato verso un demagogico livellamento sociale: per far ripartire l’ascensore della crescita, fermo al piano terra e con le ragnatele e per alzare i redditi bassi si è finito per imbastire la più pesante e punitiva campagna di annientamento della borghesia e del ceto medio produttivo: si va dai dipendenti pubblici a reddito fisso – li chiamerei “bancomat umani” – agli imprenditori che tentano di spiccare il volo ma sono frenati dalla palla al piede di una burocrazia bizantina, ai pensionati perennemente sotto la lente di ingrandimento del fisco che li considera imputati sì, proprio loro, dopo 40 e più anni di lavoro, di privilegi inaccettabili.

Colpa della politica birbona e disonesta che ha stabilito certe tassonomie sulle pensioni d’oro, nella quale rientrano praticamente tutti, eccetto coloro che vivono alle soglie della povertà. Ed ecco che le politiche compensative per redistribuire i redditi e spezzare il gap tra ricchi e poveri (e qui ci vorrebbe il virgolettato) riesumano logiche corporative per status, età e professioni: l’Italia è un Paese di culle vuote? Ecco subito il bonus bebè, da protrarsi fino ai 18 anni. I giovani non studiano e non lavorano, non leggono e passano ore in discoteca o a farsi i selfie? Pronto un bonus speciale per loro. La scuola lascia a desiderare perché i docenti sono demotivati? Da quattro anni li si incentiva con un bonus di 500 euro: spendibile per libri, computer o spettacoli teatrali.
Ma a prescindere da questa fattispecie , la politica dei bonus sembra dispendiosa e non strutturale.

Non vengono richieste fatture o scontrini ma solo dichiarazioni, se del caso.
Senza contare che prima di tutto questo viene calcolata in 80 euro la misura dell’obolo di Stato, in larga parte recuperato in sede di dichiarazione dei redditi. Aggiungere 80 euro al reddito familiare significa attribuire a questa cifra una funzione compensativa di disuguaglianze sociali ben più profonde, che vanno “oltre” il reddito lavorativo, perché afferiscono ad una condizione di status, di censo e persino di classe sociale, senza considerare variabili come la casa, l’affitto, la composizione del nucleo familiare, le spese scolastiche e quelle per la salute. Ricordo una parlamentare che si era presentata in TV con uno scontrino chilometrico per dimostrare che 80 euro di spesa risolvevano tanti, ma proprio tanti problemi delle famiglie a reddito medio-basso.

Il capolavoro del teorema della resurrezione dei senza lavoro attraverso la dazione di denaro pubblico arriva infine con il reddito di cittadinanza: la sperimentazione è partita ma è avvolta in una nebulosa che ingloba sia i navigator, retribuiti ormai da mesi (come sono stati selezionati? Da quali esperti vengono formati? Cosa stanno facendo per scoprire posti di lavoro in un Paese in cui il lavoro latita e non si può inventarlo? Come sono cambiati i centri per l’impiego, gli uffici finora più inutili della P.A.?) che i naviganti, cioè coloro che ne beneficiano in media ben al disotto degli ipotizzati 780 euro e solitamente in modo del tutto svincolato da un lavoro se pur a termine. A seguito di controlli della GDF su 982 mila percettori del reddito (rispetto a un milione e mezzo di domande presentate) solo una minima parte ha attivato un patto per il lavoro. Da un monitoraggio delle Regioni emerge che a fronte di 200.795 titolari del reddito e dopo 69.234 colloqui effettuati solo 49.896 risultano i patti per il lavoro sottoscritti. Secondo dati forniti dall’INPS l’importo medio erogato è di 520 euro per il RdC e 214 euro per la pensione di cittadinanza. Il quotidiano Il Mattino del 27/10 u.s. riporta casi di spacciatori, contrabbandieri ed usurai che arrestati o inquisiti a motivo delle attività illecite risultavano percepire il RdC, senza che fosse stato esperito un adeguato controllo di tipo amministrativo.

In un Paese afflitto dalla piaga dell’evasione fiscale occorre dunque ancora una volta contare sui controlli della Guardia di Finanza per verificare la liceità della dazione di Stato non funzionando modalità di verifica a posteriori nell’ambito del “sistema reddito di cittadinanza”?
Tutto questo dimostra che la politica dei bonus a pioggia non funziona e finisce per creare nuove sacche di ingiustizie sociali o per diventare una forma legiferata di spreco del denaro pubblico.
In secondo luogo evidenzia l’incapacità della politica di elaborare riforme e misure lungimiranti di medio –lungo periodo capaci di ipotizzare modelli sociali sostenibili, attuando una politica di redistribuzione dei redditi che non produca solo omologazioni verso il basso.

Ma il dato più eclatante – come emerso dai primi monitoraggi e dall’incrocio dei dati- riguarda la totale assenza di meccanismi di controllo sull’utilizzo dei bonus.
Non esiste un organismo amministrativo in grado di verificare a posteriori se i bonus elargiti sono stati correttamente utilizzati.
Un vulnus normativo grave, considerato che si tratta di denaro pubblico.
Una pessima immagine che la politica restituisce quando chiede rigore e punta l’indice sui privilegi di alcune categorie di cittadini.

Una sorta di finanza allegra e irresponsabile che non possiamo permetterci: basterebbero dei controlli a campione per accertare quale via di spesa e di utilizzo hanno preso i bonus elargiti, una verifica a posteriori con tanto di documentazione da esibire.
Ma la cosa più singolare è che non ne parli quasi nessuno: come se applicare le regola del “buon padre di famiglia” nella gestione delle finanze pubbliche fosse una sorta di fastidiosa e indebita intromissione e non un dovere morale da assumere.

Digitalizzazione delle scuole: nuove iniziative in campo

Da anni il Miur sostiene progetti per l’introduzione delle tecnologie in classe e la loro integrazione con le risorse tradizionali (il piano nazionale di diffusione delle Lavagne Interattive Multimediali – LIM, il progetto Cl@ssi 2.0, il percorso iTEC). Gli obiettivi sono quelli tesi a diffondere la conoscenza riguardo ai nuovi modelli di apprendimento e formazione dotando le scuole di linee guida per l’inserimento, alla base della metodologia didattica, delle nuove tecnologie promuovendo, altresì, l’interattività tra docenti e studenti. E guarda in questa direzione il protocollo d’intesa triennale siglato la scorsa settimana dal titolare dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, insieme all’amministratore delegato di TIM, Luigi Gubitosi. La finalità è quella di accelerare il processo di trasformazione digitale delle scuole italiane di ogni ordine e grado, puntando ad elevare la qualità dell’offerta formativa degli istituti scolastici attraverso l’innovazione didattica e l’integrazione delle nuove tecnologie nei processi di apprendimento. L’iniziativa sarà aperta anche al contributo delle altre aziende attive nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie per la didattica.

L’accordo permetterà di realizzare azioni per portare nelle scuole e negli ambienti di apprendimento l’accesso alla rete internet, individuando casi pilota in tutta Italia anche in aree disagiate o caratterizzate da alta dispersione scolastica. Saranno inoltre attivate iniziative di formazione del personale docente e degli studenti volte a favorire lo sviluppo delle competenze digitali e promuovere la cultura scientifica nelle scuole, per ispirare i ragazzi nella scelta di percorsi formativi e professionali nel campo delle discipline STEM.

I progetti diversi progetti arricchiranno il curriculum attraverso percorsi di formazione e orientamento alle competenze digitali, in linea con i nuovi trend tecnologici e le richieste del mercato del lavoro. Agli studenti saranno offerti servizi e programmi formativi gratuiti, per diffondere le competenze necessarie alla trasformazione digitale delle imprese e alle conseguenti sfide che il mondo del lavoro sarà chiamato ad affrontare.

L’Italia dei trapianti

Il segreto dell’eccellenza italiana si cela dietro un ottimo sistema di rete, che permette di valorizzare le grandi qualità delle scuole chirurgiche grazie a un’organizzazione che mette insieme la raccolta delle dichiarazioni di volontà alla donazione, i prelievi di organi, la conservazione e il trasporto, fino al trapianto e al follow up.

La Rete trapianti è un esempio di come il fare squadra sia un valore aggiunto, specialmente in sanità, perché i trapianti non sono un lavoro da solisti.

Il trapianto in Italia è inserito nei livelli essenziali di assistenza, quindi è una terapia gratuita, assicurata da un sistema sanitario solidaristico.

La Chiesa sinodale e la religione dell’io

Articolo pubblicato sull’Osservatore Romano a firma del direttore  Andrea Monda

Chi ci separerà dall’amore di Cristo? chiedeva l’apostolo Paolo ai cristiani di Roma. E la risposta era incoraggiante: niente e nessuno, «né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 38-39).

Il Papa nell’omelia di domenica per la messa di conclusione del Sinodo speciale per l’Amazzonia, ha voluto però mettere in allarme il cuore dei cattolici rispetto a qualcosa di potente e insidioso che potrebbe spezzare questo legame, qualcosa che è un altro legame, quello che Francesco chiama “la religione dell’io”, una religione «ipocrita con i suoi riti e le sue “preghiere” — tanti sono cattolici, si confessano cattolici, ma hanno dimenticato di essere cristiani e umani —, dimentica del vero culto a Dio, che passa sempre attraverso l’amore del prossimo. Anche cristiani che pregano e vanno a Messa la domenica sono sudditi di questa religione dell’io».

Solo una religione può vincere un’altra religione, meglio ancora: solo un amore scalza un altro amore. Emerge evidente la lezione di Sant’Agostino che nel quattordicesimo capitolo de La città di Dio parla delle due città (terrena e celeste) e dei due amori (amor sui e amor Dei), per cui la prima è contraddistinta da «un egoistico amore di se stessi tale da arrivare a disprezzare tutto ciò che riguarda Dio», la seconda da «un amore spirituale verso Dio tale da mettere da parte ogni amore di sé». È come se questo amore egoistico creasse una coltre di nubi capace di non far arrivare il raggio luminoso dell’amore di Dio e isolasse l’uomo in un illusorio senso di onnipotenza che lo astrae dalla realtà e dalla propria verità (che per Paolo VIè la sostanza della virtù dell’umiltà).

C’è però un rimedio, esiste qualcosa che riesce ad aprire un varco, a permettere il ricongiungimento con il divino e secondo il Papa è una voce, anzi un grido: «In questo Sinodo abbiamo avuto la grazia di ascoltare le voci dei poveri e di riflettere sulla precarietà delle loro vite» ha detto Francesco esortandoci a una preghiera precisa, concreta: «Preghiamo per chiedere la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa» e ha ripetuto: «Il grido dei poveri è il grido di speranza della Chiesa. Facendo nostro il loro grido, anche la nostra preghiera, siamo sicuri, attraverserà le nubi». Il discorso prosegue con le immagini di luce, «Perché dal diavolo vengono opacità e falsità […] da Dio luce e verità, la trasparenza del mio cuore. È stato bello e ve ne sono tanto grato, cari Padri e Fratelli sinodali, aver dialogato in queste settimane col cuore, con sincerità e schiettezza, mettendo davanti a Dio e ai fratelli fatiche e speranze».

Ecco allora un primo frutto del Sinodo per l’Amazzonia che ha visto la vivace presenza delle popolazioni indigene all’interno dell’aula dell’assemblea: spezzare la religione dell’io, offrire la possibilità alla Chiesa di allargare lo sguardo uscendo dall’autoreferenzialità, allargare e insieme alzare lo sguardo, che si innalza proprio se riesce a chinarsi verso chi si trova nel bisogno: «Preghiamo per chiedere la grazia di sentirci bisognosi di misericordia, poveri dentro. Anche per questo ci fa bene frequentare i poveri, per ricordarci di essere poveri, per ricordarci che solo in un clima di povertà interiore agisce la salvezza di Dio. Sono loro che ci spalancheranno o meno le porte della vita eterna, loro che non si sono considerati padroni in questa vita, che non hanno messo se stessi prima degli altri, che hanno avuto solo in Dio la propria ricchezza. Essi sono icone vive della profezia cristiana». Un Sinodo dunque profetico, capace di attraversare le nubi dell’egoismo e gettare una luce di speranza per una Chiesa che lentamente sta apprendendo il modo per essere veramente sinodale, per camminare insieme.

Bogotà, per la prima volta il sindaco è una donna

Claudia Lopez sarà la prima sindaco donna di Bogotà. La candidata del Partito Verde, voce di una nuova sinistra colombiana distante dalle Farc, ha infatti vinto le elezioni amministrative che si sono svolte ieri per eleggere i governatori di 32 dipartimenti e i sindaci di un migliaio di comuni fra cui Bogotà e Medellin.

“Non solo abbiamo vinto, ma stiamo cambiando la storia”, ha detto l’ex senatore Lopez su Twitter.

Nata nel 1970 e laureatasi in Scienze politiche alla Northwestern University di Chicago, la neo-prima cittadina della capitale, ha raggiunto il 35,23% dei consensi  battendo così il liberale Carlos Fernando Galán (32,47%).

Claudia Lopez, ex senatrice e vicepresidente, ha promesso più agenti di polizia in strada per aumentare la sicurezza, di combattere il lavoro minorile e la gravidanza adolescenziale e di ampliare le opportunità educative per gli adulti oltre i 45 anni.

 

Potenza virtuosa nella raccolta differenziata

Da quando, nel 2016, il Comune di Potenza e Conai hanno iniziato a lavorare insieme, la media della raccolta differenziata è passata dal 25,71% al 48,12% del 2017, raggiungendo nel 2018 il risultato del 63%. Dati di tutto rispetto che quest’anno si sono attestati al 67%.

“Prosegue il cammino sinergico e virtuoso intrapreso con Conai che ringrazio per il prezioso supporto fornito e che continua a offrirci, con professionalità e grande esperienza – ha detto il Sindaco di Potenza Mario Guarente -. Ma il mio grazie va soprattutto ai cittadini di Potenza che hanno saputo raggiungere risultati di indubbio rilievo, in grado di collocarci tra gli esempi positivi a livello nazionale, nell’ambito della raccolta differenziata dei rifiuti. Certamente è importante proseguire sulla strada intrapresa, onde evitare che il comportamento scorretto di pochi infici il lavoro sin qui realizzato, grazie all’impegno dei lavoratori Acta, del suo Amministratore unico e degli uffici comunali”.

Dallo scorso anno sul territorio comunale vi sono tre diversi sistemi di raccolta, implementati sulla base delle caratteristiche della città: porta a porta (area industriale e parte del centro urbano), di prossimità (area delle contrade), con cassonetti a bocca tarata e conferimento assistito (centro storico e area Bucaletto). Con l’avvio del nuovo sistema di raccolta differenziata, l’Amministrazione ha anche approvato il nuovo regolamento della Tari, passando di fatto alla Taric.

“Casi come quello di Potenza sono la prova che anche le regioni del Sud possono riscoprirsi virtuose nel recupero dei rifiuti di imballaggio – ha sottolineato il responsabile progetti territoriali speciali del Conai Fabio Costarella -. L’Italia, purtroppo, è ancora un Paese che in questo viaggia a due velocità. Eppure, dove c’è una chiara volontà politica, si possono ottenere in poco tempo grandi risultati. Da vent’anni, del resto, Conai lavora sulle aree in ritardo supportando i Comuni sia sul piano tecnico ed economico sia su quello della corretta comunicazione ai cittadini. Un impegno politico e ambientale che vuole migliorare le già ottime performance del sistema consortile: non dimentichiamo che, con una percentuale di imballaggi recuperati superiore all’80%, l’Italia è oggi un modello di economia circolare in Europa”.

Vaccini. Emilia-Romagna oltrepassa il 97% di copertura per gli obbligatori.

L’Emilia-Romagna accelera sulle coperture vaccinali, oltrepassando – al 30 giugno 2019 – la percentuale del 97% per le vaccinazioni rese obbligatorie dalla legge regionale (difterite, tetano, poliomielite ed epatite B) per la frequenza al nido. E continuano a salire, in tutte le province comprese quelle storicamente più indietro, i dati di copertura anche per le vaccinazioni introdotte dalla successiva normativa nazionale: oltre a pertosse ed emofilo di tipo B, il gruppo ‘Mpr’, cioè morbillo, parotite e rosolia, che in Emilia-Romagna era sceso a livelli allarmanti: 87% a fine 2015.

Oggi è arrivato al 96,5%, mettendo a segno un recupero di quasi 10 punti percentuali in meno di quattro anni. Un dato particolarmente significativo, considerando i casi di morbillo che negli ultimi anni hanno interessato tutto il Paese, compresa l’Emilia-Romagna.

 

Elezioni Regionali 2019 in Umbria: chi ha vinto, chi ha perso

Analisi pubblicata dall’Istituto Cattaneo.

Domenica 27 ottobre si sono tenute le elezioni regionali in Umbria. A quattro anni di distanza dalle consultazioni precedenti (31 maggio 2015), queste elezioni si preannunciavano particolarmente rilevanti per almeno due ragioni. Innanzitutto, perché si trattava delle prime elezioni regionali immediatamente successive alla formazione del governo Conte II, e i risultati del voto sono inevitabilmente interpretati dalle forze politiche e dai commentatori come un primo test elettorale, per quanto limitato e parziale, dell’esecutivo attualmente in carica. A ciò si aggiunga la profonda trasformazione osservata nell’offerta elettorale, con la formazione di due schieramenti che vedevano contrapposti, da un lato, il centrodestra in formato classico (da Forza Italia a Fratelli d’Italia, con il baricentro della Lega) e, dall’altro, una nuova alleanza giallo-rossa composta dal Partito democratico (Pd) e dal Movimento 5 stelle (M5s). Le Regionali umbre hanno fornito, dunque, un primo banco di prova per i due schieramenti e, soprattutto, per capire se l’anomala alleanza tra Pd e pentastellati può essere trasferita strutturalmente anche a livello locale. 

In secondo luogo, il voto di domenica era considerato rilevante anche perché inserito all’interno di una regione che, fino a qualche decennio fa, avremmo definito stabilmente «rossa», mentre da qualche tempo si caratterizza per la sua elevata contendibilità elettorale. Se fino alla settimana scorsa l’Umbria è sempre stata controllata e amministrata, senza alcuna interruzione, dai partiti di sinistra o centrosinistra, le elezioni di domenica hanno presentato uno scenario nettamente più competitivo in cui la stessa vittoria del centrodestra veniva considerata molto probabile già alla vigilia del voto. Quindi, il voto regionale di domenica ha assunto una rilevanza che va oltre gli stretti confini dell’Umbria e potrebbe avere importanti ripercussioni sulle dinamiche politiche nazionali. Per questo motivo, l’Istituto Cattaneo ha deciso di analizzare in maniera dettagliata i risultati elettorali delle Regionali umbre, tenendo insieme una prospettiva storica di lungo periodo con un’analisi più recente sulla geografia dei consensi ai principali partiti. 

Qui il documento Analisi Istituto Cattaneo – Regionali Umbria 2019 – Chi ha vinto_chi ha perso

Se non vogliamo morire sovranisti…

Il commento non deve perdersi nei meandri delle false giustificazioni, né inseguire i tormenti del giovane Di Maio, pronto al rilancio del discorso grillino sull’andare “oltre i poli”. In Umbria si è perso, a conti fatti in maniera pesante. Tuttavia nella disfatta spunta per le forze della maggioranza un paradosso ben preciso, non depressivo, ovvero la necessità di pensare alla stabilizzazione della leadership di Conte. Il governo deve andare avanti, non ci sono alternative. Recriminare sulla scarsa tenuta dell’alleanza giallo-rossa, riprodotta frettolosamente in sede locale, equivale a ignorare le condizioni di partenza di questa campagna elettorale.

Di fronte al crollo di un sistema, senza più il mito della buona amministrazione di sinistra, ogni tentativo di recupero appariva insufficiente. Dopo gli scandali, il Pd è finito sul banco degli imputati. È maturata pertanto una svolta radicale, a ogni costo, per un desiderio di pulizia. Del resto, il distacco di 20 punti percentuali tra la Tesei e Bianconi compendia l’ansia di censura e punizione, invero dominante nell’elettorato. Da qui il trionfo della Lega.

Andare avanti non significa, però, consegnare il governo a una stanca attività di routine. Bisogna capire che una semplice operazione di contenimento, per impedire che Salvini conquisti quei “pieni poteri” da lui richiesti in apertura della crisi di questa estate, è destinata di per sé a rinfocolare la protesta popolare. Solo una frustata di orgoglio, ma di un orgoglio alimentato da una vera politica di risanamento e di progresso, consente di guardare al futuro con un carico sufficiente di speranza. Altrimenti, immersi nella palude dell’autoinganno che rende vivi a dispetto dell’evidenza, i protagonisti del non-governo certificheranno il loro fallimento.

Il Pd scopre adesso quanto pesi il fardello del suo mancato appuntamento con la promessa di novità lanciata nel 2007. Che servisse mettere insieme quel che di buono residuava dei grandi partiti popolari – in primis PCI e DC – per arrivare a prendere poco più del 20 per cento in Umbria, mai nessuno lo avrebbe pensato e tanto meno dichiarato. Invece questa è la cruda realtà. Di fatto si tratta di un declino a stento camuffato, che nasce dal presupposto di una sinistra autarchica, fiduciosa nella rigenerazione del suo dna, abusivamente contratta nella gestione di un partito che si voleva aperto e plurale, all’incrocio tra l’idea liberal-laburista della “sinistra di centro” e quella democratico-popolare del “centro a sinistra”, ma di fatto riconnesso irrimediabilmente a una formula di mera evoluzione intra-socialista.

Dall’Umbria sale dunque un vento che spazza via l’illusione di un riformismo senza autentici riformisti, senza cioè una classe dirigente capace compiere un atto di sereno discernimento del passato, magari ripartendo da lontano e impegnandosi a riconoscere, ad esempio, che De Gasperi aveva ragione e Togliatti torto. Il futuro non è una svirgolata nell’ignoto, con l’ambigua leggerezza del fare senza coscienza e senza memoria. Una forza politica in grado di unire la sinistra democratica e il centro progressista resta una necessità per la sana dialettica democratica, come forte e credibile baluardo contro la destra sovranista di Salvini e Meloni (Berlusconi è ormai una comparsa). Questa forza rinasce dalla dissoluzione e ricostruzione del quadro attuale. È più probabile che assuma le vesti di una nuova coalizione, ma non è escluso che possa essere, sulle orme del Pd o sulla base di una sua reale trasformazione, partito organizzato alla stregua di una coalizione.

In ambedue i casi, se non vogliamo morire sovranisti, ad imporsi chiaramente è l’urgenza politica di una discussione a tutto tondo. Serena e coraggiosa.