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Cos’è la Dieta mima digiuno

La dieta mima digiuno è il regime alimentare che promette grandi risultati in termini di rallentamento del processo d’invecchiamento, prevenendo l’obesità e altre malattie croniche come il morbo di Alzheimer.Non è una dieta per perdere peso: per quanto possa avere effetti su persone particolarmente grasse, ha come obiettivo quello di ridurre i fattori di rischio di malattie cardiovascolari e oncologiche.

A metterla a punto è stato Valter Longo, professore dell’istituto di oncologia molecolare FIRC di Milano e della University of Southern California School of Gerontology di Los Angeles, inserito dalla rivista americana Time nell’elenco delle 50 personalità più influenti nell’ambito della salute.

Si caratterizza per un regime ipocalorico (800-1100 calorie al giorno con una precisa selezione dei cibi), con pochi zuccheri e proteine, ma ricca di grassi insaturi che può avere effetti anti-aging, allontanando quindi malattie legate all’invecchiamento. Questa dieta sposterebbe il metabolismo del corpo e aumenterebbe il potere delle cellule per proteggere da malattie croniche come il diabete di tipo 2 e le malattie cardiovascolari.

La dieta mima digiuno comunque può, essere pericolosa per persone fragili o anziane (l’età consigliata per seguirla va dai 20 ai 70 anni), per i diabetici insulino-dipendenti e le persone anoressiche o sottopeso. Ma può essere dannosa un po’ per tutti se non si seguono le giuste indicazioni.
Quindi, se si vuole iniziare la dieta, sarebbe sempre meglio consultare il proprio medico.

Un patto nazionale per bilanciare il regionalismo differenziato

“Un progetto dal significato schiettamente separatista”: così Ernesto Galli della Loggia in un ‘fondo’ di prima pagina sul Corriere della Sera di martedì scorso, 16 luglio 2019, illustrando il progetto di “autonomia rafforzata” portato avanti da alcune regioni del Centro-Nord e, segnatamente, da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna.

Data l’autorevolezza dell’Autore dell’articolo e della sede di pubblicazione di quest’ultimo, non è necessario dilungarsi in spiegazioni particolareggiate per segnalare quale sia il pericolo dell’attuazione del regionalismo differenziato non solo per le regioni del Sud ma per l’intero Paese. Giustamente, però, faceva notare sempre Galli della Loggia che la divisione dell’Italia non è solo un pericolo che si profila a causa del regionalismo differenziato ma addirittura un dato di fatto che già connota la realtà che costituisce l’Italia: il Nord (con Milano), sempre più lanciato verso traguardi di sviluppo da poter competere con i territori più avanzati del Continente se non del Pianeta, ed il Sud (con Roma risucchiata nel suo ambito), sopraffatto dalla sua inefficienza, dall’evidente degrado ambientale, dal diffuso strapotere della delinquenza, dalla generalizzata incapacità delle amministrazioni locali ed, infine, dalla mancanza di serie prospettive. In altri termini, la condizione socio-economica che connota il nostro Paese è la riprova più esplicita della distanza sempre maggiore che ormai separa Nord e Sud e quindi la prova indiscutibile della sua divisione.

Come, peraltro, conferma il drammatico divario emerso in questi giorni in materia di istruzione: con riferimento alla quale alla sostanziale tenuta del Centro-Nord fa riscontro il continuo avanzare dell’analfabetismo e dell’ignoranza nel Mezzogiorno.
Ora, di fronte ad una simile crisi dell’unità del Paese ed al suo continuo approfondirsi, ciò che fa veramente paura è la mancanza di ogni sua consapevolezza, il disconoscimento delle conseguenze della sua possibile ulteriore degenerazione e, soprattutto, l’assenza di un qualche tentativo tra le forze politiche con il baricentro rivolto a meridione di assumere una iniziativa di rilievo per cercare di porvi rimedio. Manca, insomma, una qualsiasi prospettiva. Non c’è alcun progetto generale che si proponga di affrontare la quistione. Al massimo si conducono battaglie difensive per limitare le perdite sempre più incalzanti e per preservare ambiti di potere sempre più insignificanti se non per chi lo esercita. Stante questa situazione, è inevitabile che il progetto “separatista” delle Regioni dello Nord vada avanti, non contrastato veramente da nessuna idea alternativa, e presto trasformi da situazione “di fatto” in situazione “di diritto” il gap che separa il Sud dal Nord, relegando il Mezzogiorno ad appendice periferica del Paese, utile ad un’unica funzione: quella di farsi depredare.
Naturalmente, detto questo, sarebbe necessario vedere quali siano le cause principali di questo declino. Se, come sostenuto in un recentissimo libro di Antonio Accetturo e Guido de Blasio [Morire di aiuti.

I fallimenti delle politiche per il Sud (e come evitarli), IBL Libri], non tanto l’abbandono delle aree meridionali da parte dello Stato quanto piuttosto l’erroneo sostegno che ha favorito solo gli interessi di una classe dirigente parassitaria di basso livello che ha gestito i trasferimenti “in modo indecente”. Oppure, il cambio di indirizzo politico registratosi dopo l’uccisione di Piersanti Mattarella che ricacciò le regioni del Sud nella loro condizione di frammentarietà che la politica della Cassa per il Mezzogiorno, in qualche modo, e la strategia macroregionale del presidente siciliano ucciso, vieppiù, avevano cominciato a superare, ottenendo risultati indiscutibilmente positivi, riscontrabili proprio in ordine alla diminuzione del divario Sud-Nord. O, ancora, se l’istituzione tout court delle regioni a statuto ordinario che spostarono l’asse della politica in direzione Centro-Nord. Non è questa, però, la sede per un approfondimento di queste cruciali quistioni.
Piuttosto, a me pare che nel contesto del ragionamento che si accennava il principale problema da affrontare sia un altro. E, cioè, che di fronte al disastro documentato dai numeri che si possono trovare nelle statistiche di qualunque parte politica (tanto che una legge dello Stato, la n. 18 del 2017, ha dovuto sancire -restando naturalmente lettera morta- che gli investimenti delle amministrazioni statali debbano corrispondere alla percentuale degli abitanti del Sud, vale a dire il 34%) al Mezzogiorno oggi manca ogni visione nazionale ed europea dei processi di ‘modernizzazione’ che sicuramente non possono prescindere dalla considerazione degli scenari globali. Come, invece, avvenne al tempo della Cassa per il Mezzogiorno quando l’intervento straordinario fu il risultato di un programma condiviso tra Stati Uniti, Italia e Sud del Paese che seppe coinvolgere organismi internazionali come la Banca mondiale.

Dunque, è di una vision, di una visione di quale sia il corso della storia, ciò di cui dovremmo dotarci per affrontare i problemi ed i pericoli di una regionalizzazione sempre più autocentrata che pensa di risolvere le quistioni del proprio futuro aggrappandosi allo status particolare di ogni singola regione ed aggregandosi tra regioni più forti e ricche, dimentica di ogni ragione di solidarietà e di coesione territoriale.
Ma se così è, il primo obbiettivo di quello che potrebbe essere il progetto di carattere generale da lanciare da parte del Sud è l’idea di un patto nazionale, che coinvolga tutto il mondo delle autonomie, per dare unitarietà alla politica del Paese e far capire che quest’ultimo può competere a livello europeo e globale solo se si rafforza come sistema unitario, nel suo complesso. Non certo se spezzoni di esso pensino di rafforzarsi individualmente. Se questa idea di un patto nazionale per bilanciare il regionalismo differenziato -sempre più tendente verso una sostanziale secessione- dovesse poi alla fine essere accolta, allora sì che potrebbero immaginarsi alcuni provvedimenti immediati e, forse, anche una grande proposta.

Cominciando dai primi, si potrebbe innanzi tutto cercare di ricomporre la frammentazione oggi esistente tra politiche per il Mezzogiorno e politiche per la coesione avviando un’opera di coordinamento degli interventi che qualcuno propone di realizzare intorno a Invitalia, l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa collegata con la Banca del Mezzogiorno. In secondo luogo si potrebbe cercare di ottenere dall’Unione Europea l’istituzione di una agenzia per lo sviluppo euro-mediterraneo che coinvolga quanto più possibile gli stati della costa africana ed aiuti tutti i Paesi del bacino a proiettarsi verso le opportunità create dal raddoppio del canale di Suez e dall’apertura della nuova via della seta. Un altro provvedimento dovrebbe poi riguardare i diritti garantiti costituzionalmente sul territorio nazionale -mi riferisco in particolare a sanità ed istruzione- che devono essere assicurati con lo stesso livello minimo di servizi. Infine, un altro punto irrinunciabile di questo patto nazionale dovrebbe essere la permanenza in capo allo stato del governo di alcune politiche nazionali come quelle della cultura e dei trasporti.
Ma la proposta più qualificante di questo patto dovrebbe essere costituita da una ferma volontà di dar vita ad una macroregione del Mediterraneo occidentale fra tutte le regioni del bacino del Mediterraneo per realizzare, finalmente, una politica di coesione sociale, economica e territoriale, che oggi costituisce la piattaforma indispensabile per lanciare le terre di mezzo (il Mediterraneo) nella competizione globale.

Non sarà facile. Perché si ha la sensazione che delle strategie macroregionali dell’Unione Europea la politica meridionale non sappia nulla ed ancora peggio non le interessi alcunché. Ma se così è, è inutile stracciarsi le vesti per il regionalismo differenziato di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna in quanto queste regioni è vero che si battono per allargare i margini della loro autonomia in base all’art.116, comma 3, Cost. ma il loro vero disegno politico-istituzionale è il rafforzamento della loro presenza in seno alle macroregioni (Alpina e Adriatico-Ionica) alle quali rispettivamente aderiscono e che certo non possono essere osteggiate da miopi politiche localistiche di gruppi potere ormai sconfitti dalla storia.

Il primo uomo sulla luna : che cosa ci ricorda o che sappiamo ? La ricerca scientifica è la base della conquista spaziale

Il VI Congresso Confederale della CISL, tenutosi a Roma, si concluse nella notte fra il 20 e il 21 luglio 1969, con la rielezione di Bruno Storti a Segretario Generale. Una strana coincidenza con quanto stava accadendo sulla Terra e nell’Universo di quel giorno storico per l’umanità. Era stato il Congresso che sancì l’incompatibilità tra cariche politiche e cariche sindacali, il sindacato non aveva più rappresentanza parlamentare, ma erano gli anni delle grandi lotte dei lavoratori, insieme a quelle studentesche, ma erano anche gli anni dell’inizio del terrorismo brigatista e neofascista, e il sindacato si impegnò in modo attivo nella difesa delle libertà democratiche.

In quella serata del 20 luglio 1969, il giorno in cui il primo uomo camminò sulla Luna, il mondo seguì con il fiato sospeso l’impresa di Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins, nell’ambito della missione spaziale Apollo 11, nella Sala dei Congressi dell’EUR si parlava solo dell’impresa spaziale. Diventava realtà quanto scritto nel romanzo di fantascienza, nel 1865, da Jules Verne dal titolo “Dalla Terra alla Luna”, un libro letto da generazioni di giovani di tutto il mondo.

“Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un passo gigantesco per l’umanità.”

Con queste parole Armstrong, il primo uomo in assoluto a mettere piede sulla Luna, coronava un lungo sogno, fatto proprio da John Kennedy, che il 25 maggio 1961 aveva dichiarato :”Credo che questo Paese debba impegnarsi a realizzare l’obiettivo di far arrivare un uomo sulla Luna e farlo tornare sano e salvo sulla Terra. Non c’è stato mai stato nessun progetto spaziale così impressionante per l’umanità..”

Sono trascorsi 50 anni da quell’evento, che non ha riscontro nella storia dell’uomo, forse non sappiamo molto, perché di quella eccezionale ed unica impresa, fino a quel periodo. I ricordi sono vaghi, la conoscenza labile e oggi si rimuove tutto in fretta, perché il presente vede solo l’arida quotidianità, e non offre spesso memoria storica, il futuro è difficile da immaginare.

Erano gli anni della guerra fredda e il mondo era sostanzialmente diviso in due blocchi, era l’eredità della Seconda Guerra mondiale : da un lato i sovietici e dall’altro gli americani.

Nel 1957, l’URSS aveva mandato in orbita un satellite – lo Sputnik – e in rapida successione la cagnetta Laika, il primo uomo Gagarin, la prima donna Valentina Tereshkowa. E poi s’era impantanata in una serie di tonfi nella corsa verso la Luna.

Nel famoso discorso del 1961, il Presidente Kennedy sostenne che :” Non sarà un uomo solo ad andare sulla Luna, sarà un’intera nazione”, questo anche per far comprendere l’onerosità dell’impresa agli americani.

Otto anni dopo, Kennedy non c’era più, ma la sua America aveva mantenuto la promessa fatta, un atto di fede nei valori della ricerca scientifica.

E non c’era solo l’America con Neil Armstrong, tutto il mondo era lì, il 20 luglio 1969, quando l’astronauta disse:”Houston, qui è la base del Mare della Tranquillità. L’Aquila ( il Lem Eagle) ha atterrato.” Doveroso è ricordare che Michael Collins, che era il pilota del modulo di comando dell’Apollo 11, era nato a Roma, il 31 ottobre 1930, in via Tevere, 16, perché il padre lavorava presso l’Ambasciata Statunitense in Italia. Oggi, all’ingresso di quel palazzo c’è una lapide di marmo che ricorda Collins.

In Italia, due famosi giornalisti : Tito Stagno e Ruggero Orlando, inviato a Houston, raccontarono in televisione “Lo speciale Luna,” in una diretta, che durò più di 24 ore.

Alle 22,17 avvenne l’allunaggio, e Stagno urlò :” Ha toccato il suolo lunare” più volte, sembrava un impazzimento di gioia collettiva, in quella calda notte d’estate che venne considerata storica.

Dubbi e critiche non sporcarono l’euforia di quel momento.

Le peggiori aberrazioni del ventesimo secolo erano alle spalle e l’ultima frontiera era lì, a portata di Lem.

La sfida con l’apparato militar-industriale del Cremlino sembrava vinta per sempre, “non servivano

i giganteschi razzi sovietici, ma congegni elettronici sempre più miniaturizzati nelle capsule, anche con vettori meno potenti,” spiegarono i tecnici Usa con un sorriso.

Erano giovani e freschi, come le loro menti. L’età media degli ingegneri impegnati nel lavoro di calcolo per i voli lunari era di 23 anni, l’ufficiale che guidò dalla base di controllo di Houston la drammatica fase di allunaggio, Steve Bales, ne aveva 26.

La ricerca scientifica consenti innovazioni sui motori e sui materiali, sui computer e sulle comunicazioni radio. Si costruì lo scudo termico della navicella con un foglio che sembrava una stagnola da forno. Si inventarono delle nuove plastiche leggerissime e resistentissime. Con i transistor e i nuovissimi circuiti integrati stava iniziando la civiltà digitale basata sul silicio. Su tutto ciò si fece una scommessa azzardata che si rivelò vincente.

Discendono da quell’ardimento le moderne telecomunicazioni : computer, cellulari, iPod, Internet. Così come vengono dall’impresa della conquista dalla Luna i tanti nuovi materiali utilizzati, che hanno rivoluzionato le auto, l’aviazione, lo sport, gli ospedali, gli impianti per l’energia.

Era la generazione che poi ha fatto nascere Silicon Valley e istruito i vari “ genietti informatici” del ventunesimo secolo a costruire circuiti integrati sempre più piccoli. Il futuro, cioè l’oggi.

Il mondo dopo lo sbarco sulla Luna è diventato veramente un “grande villaggio globale” così come lo aveva intuito, immaginato e profetizzato il canadese Mc Luhan, in una meravigliosa metafora degli anni ’60.

La conquista della Luna di colpo è diventato un passatempo costoso, l’entusiasmo si è sciolto rapido come neve al sole, c’erano altre priorità nel mondo e le risorse quasi esaurite, e nessun altro essere umano ha camminato sulla Luna; in totale gli uomini che hanno allunato sono stati 12, tutti americani.

Lo Spazio è rimasto terra di conquista per satelliti e sonde, incaricati di osservare e gestire soprattutto la Terra, la sua evoluzione meteorologica, il frenetico scambio di parole, suoni e immagini dei suoi abitanti. In questo senso astronauti ( come sono chiamati dagli americani) e cosmonauti ( cosi definiti dai russi), interessano sempre meno, anche se senza di loro l’esplorazione spaziale non avrebbe avuto i risultati e i successi che oggi ricordiamo.

A 50 anni da quella storica e universale impresa, questo è quello che ricordiamo o sapevamo? Speriamo di no! Gli uomini di domani: europei (italiani compresi), indiani, cinesi, russi o americani, che siano, avranno più tecnologia, tute più leggere, comunicazioni impeccabili, intelligenza artificiale, sistemi robotizzati e si scriverà, certamente, un’altra storia dell’umanità, nella conquista dello spazio al di là della Luna, verso Marte e oltre! La sfida è nuovamente ripartita, anche perché non si è mai fermata. E oggi tutti celebrano, dalle Televisioni ai giornali, dai social ai mezzi di comunicazione, il mezzo secolo di quel giorno meraviglioso!

Ursula von der Leyen: “è necessario riformare il regolamento di Dublino”

La presidente designata della Commissione europea, Ursula von der Leyen intende modificare il regolamento di Dublino sulla gestione dell’immigrazione. In particolare, von der Leyen ha dichiarato: “Non ho mai veramente capito perché il regolamento di Dublino contenga questa semplice equazione: un migrante deve rimanere nel primo Stato membro dell’Ue dove arriva”.

La presidente della futura Commissione europea ha aggiunto che l’Ue avrà “un solido confine esterno se forniremo aiuto sufficiente agli Stati membri più esposti” ai flussi migratori. A tal fine, per von der Leyen “è necessario riformare il regolamento di Dublino per ottenere maggiore equità e condivisione”

Produzione costruzioni: Istat, a maggio in lieve calo ma cresce del 2% su base annua

A maggio 2019, rispetto al mese precedente, si stima una lieve flessione (-0,1%) per l’indice destagionalizzato della produzione nelle costruzioni.

Nella media del trimestre marzo-maggio 2019, la produzione nelle costruzioni aumenta dello 0,1% rispetto al trimestre precedente.

Su base annua, l’indice corretto per gli effetti di calendario (i giorni lavorativi sono stati 22, come a maggio 2018) cresce del 2,0%. L’indice grezzo della produzione nelle costruzioni registra lo stesso aumento (+2,0%) rispetto a maggio 2018.

Esodo, 4 italiani su 10 sfidano code e bollini neri

Più di 4 italiani su 10 (42%) sui 39 milioni in viaggio per le vacanze 2019 sfidano le previsioni sul traffico e non si fanno spaventare da bollini neri o rossi. E’ quanto emerge da una indagine Coldiretti/Ixè sull’estate 2019 diffusa in occasione della presentazione del piano di Viabilità Italia per l’esodo estivo al Ministero dell’Interno, con il capo della Polizia Franco Gabrielli, il direttore Centrale delle Specialità della Polizia di Stato Prefetto Armando Forgione e i vertici di Anas, Aiscat e Autostrade per l’Italia. Le strade delle vacanze quest’anno saranno contrassegnate – sottolinea Coldiretti – con ‘bollino nero’ la mattina di sabato 3 agosto e di sabato 10 agosto, mentre sarà bollino rosso nell’ultimo fine settimana di luglio e negli altri weekend del mese di agosto.

A motivare la scelta di chi – spiega Coldiretti – decide di partire comunque nonostante i rischi di lunghe code, soprattutto sulle autostrade, c’è spesso il fatto di poter godere solo di periodi limitati e prestabiliti di ferie, che costringono a sfruttare al massimo i giorni a disposizione.

L’86% dei vacanzieri si metterà in viaggio – sottolinea Coldiretti – verso una località del Belpaese. Sarà il mare a fare la parte del leone per 7 italiani su 10 (70%), la maggior parte dei quali si riverserà sulle autostrade della linea Adriatica e Tirrenica. Subito a seguire la montagna ma l’estate 2019 vedrà anche – precisa la Coldiretti – la ricerca di alternative meno affollate con la campagna che è scelta dall’8% dei turisti.

La spesa media destinata dagli italiani alle vacanze estive è di 779 euro per persona in aumento del 5% rispetto allo scorso anno. Un terzo degli italiani (33%) – sottolinea la Coldiretti – resterà comunque al di sotto dei 500 euro di spesa, il 42% tra i 500 ed i 1000 euro, il 18 % tra i 1000 ed i 2000 euro mentre percentuali più ridotte supereranno questo limite.

Oltre la metà degli italiani o – continua la Coldiretti – ha scelto di alloggiare in case di proprietà, di parenti e amici o in affitto, ma nella classifica delle preferenze ci sono nell’ordine anche alberghi, bed and breakfast, villaggi turistici e gli agriturismi che nelle 23mila strutture fanno segnare un aumento del 3% rispetto allo scorso anno grazie alla qualificazione e diversificazione dell’offerta, ma anche all’ottimo rapporto tra prezzi/qualità.

Bookolica, il festival dei lettori creativi

Bookolica, il festival dei lettori creativi torna quest’anno in una versione più ampia dal 22 luglio al 4 agosto 2019 nei Comuni di Tempio Pausania, Bortigiadas, Orani e Torralba per una seconda edizione tutta da scoprire, alla presenza di ospiti di portata nazionale e internazionale.

Il tema che animerà il ricco calendario di eventi del festival, con la direzione artistica di Fulvio Accogli, sarà il dialogo tra la letteratura e le arti visive e performative, accentuando la centralità del lettore e della comunità locale nel proprio contesto ambientale e promuovendo l’importanza della lettura in tutte le sue molteplici sfaccettature.

Fra gli eventi di spicco di questa edizione la retrospettiva dedicata allo scrittore di culto Antonio Moresco, nel programma della tre giorni diversi appuntamenti, infatti, andranno ad approfondire la poetica dell’autore, e il tanto atteso incontro con il leggendario illustratore, fumettista e regista Lorenzo Mattotti che incontrerà il pubblico per parlare delle nuove edizioni Logos dei suoi libri L’uomo alla finestra e Lettere da un tempo lontano.

Per il programma nel dettaglio: http://www.bookolica.it

Altri Comuni nella Riserva della Biosfera dell’Appennino Tosco Emiliano

E’ stato appena presentato il dossier di candidatura per l’ampliamento della Riserva della Biosfera dell’Appennino Tosco Emiliano (MaB Unesco). Dopo gli atti deliberativi da parte dei Comuni interessati, è stato redatto il documento di allargamento, inviato al Ministero dell’Ambiente avviando così un nuovo processo che dovrà svilupparsi nei prossimi mesi con la costituzione del Comitato di sostegno alla candidatura. La Riserva Mab dell’Appennino Tosco Emiliano è nata nel 2015 ed oggi è un’area di 223.000 ettari, in una zona che comprende 34 Comuni tra le province di Reggio Emilia, Parma e Massa Carrara, riconosciuta dall’Unesco come un territorio in cui le comunità sono in sviluppo armonico con la biodiversità.

Il territorio della Riserva è molto vario in quanto comprende la Lunigiana, che si trova a circa 100 metri di altitudine, ma anche vette come il Monte Cusna, 2.120 metri ed è coperto principalmente da boschi (faggete, querceti e castagneti), coltivazioni (foraggere, uliveti, vigneti, cerealicole) e pascoli, con numerosi allevamenti zootecnici. Nel territorio vengono prodotti alcuni alimenti di alta qualità tra i quali, per citare quelli conosciuti a livello internazionale, il Parmigiano Reggiano e il Prosciutto di Parma.

Nella Riserva è presente oltre il 70% della biodiversità italiana, con alcune emergenze quali la primula appenninica, il lupo, l’aquila reale. Sono presenti oltre 2.000 specie, di cui 122, tra uccelli, anfibi, rettili, mammiferi, pesci ed invertebrati, di interesse conservazionistico. La Riserva si estende nel territorio di 34 comuni dell’Appennino tra Emilia Romagna e Toscana, dove vivono complessivamente oltre 100.000 abitanti, e contiene fortezze ed edifici storici, pievi, siti geologici, vie storiche, laghi glaciali, la vallata del Secchia nei Gessi Triassici, la Pania di Corfino. Luoghi d’incanto.

Cirrosi epatica. Che cos’è?

La cirrosi epatica è una patologia epatica cronica e progressiva, caratterizzata dal sovvertimento diffuso e irreversibile della struttura del fegato, conseguente a danni di varia natura (infettiva, alcolica, tossica, autoimmune) accumulatisi per un lungo periodo. La cirrosi epatica rappresenta quindi il quadro terminale della compromissione anatomo-funzionale dell’organo.

Il sovvertimento strutturale della cirrosi epatica è il risultato della necrosi del parenchima epatico, causata dal danno protratto, e dei conseguenti processi riparativi, ovvero la rigenerazione nodulare per iperplasia (proliferazione cellulare) e la formazione di ponti fibrosi cicatriziali che sostituiscono il parenchima necrotico e si dispongono sia all’interno che tra i lobuli, le unità elementari che costituiscono il fegato. Questo disordine architetturale conduce non solo a un malfunzionamento del fegato dal punto di vista metabolico (catabolico e sintetico), ma anche a gravi ripercussioni sulla circolazione portale (ipertensione portale). Il termine cirrosi è talvolta utilizzato per estensione anche per descrivere processi patologici fortemente sclerotici a carico di organi diversi dal fegato, quali lo stomaco, i reni e i polmoni, quando questi vanno incontro a degenerazione con necrosi cellulare seguita da fibrosi.

Durante gli esordi della malattia, spesso non si presentano sintomi, ma con il progredire della condizione il paziente può accusare, insieme a sintomi aspecifici (stanchezza, dispepsia), prurito, edema agli arti inferiori, colorito giallo delle sclere (subittero) o della cute (ittero), raccolta di liquido nella cavità peritoneale (ascite) o sviluppare un angioma stellare (delle “macchie” rossastre simili a ragnatele) sulla cute.

Le principali complicanze includono encefalopatia epatica, sanguinamento dalle varici esofagee e tumore del fegato. L’encefalopatia epatica provoca confusione mentale e può portare a perdita di coscienza. L’accumulo di liquidi nell’addome può diventare spontaneamente infetto.

La cirrosi è più comunemente causata da un abuso di alcol, dall’epatite B, dall’epatite C e dalla steatosi epatica non alcolica.

In genere, per la cirrosi alcolica occorre assumere più di due o tre bevande alcoliche al giorno per alcuni anni.

La steatosi epatica non alcolica conta una serie di cause, tra cui il sovrappeso, il diabete, alti livelli di grassi nel sangue e ipertensione.

Alcune cause meno frequenti della cirrosi possono essere l’epatite autoimmune, la colangite biliare primitiva, l’emocromatosi, l’assunzione di alcuni farmaci e la presenza di calcoli biliari.

La diagnosi si basa sull’esame obiettivo, sulle analisi del sangue, sulle tecniche di imaging biomedico e sulla biopsia epatica.

Non esiste una cura per la cirrosi, ma è possibile trattare sintomi e complicanze, rallentando così la sua progressione. La terapia si basa sull’allontanamento dei fattori di rischio e degli agenti eziologici (astensione dall’alcol, terapia anti-virale per i virus B e C) e in una dieta equilibrata che aiuti la rigenerazione del fegato e prevenga la malnutrizione, in particolar modo il deficit di zinco, vitamina B1 (in caso di consumo cronico di alcol) e vitamine liposolubili A, D, E e K, mentre le proteine vanno limitate.

È prevista una dieta giornaliera contenente 35-40 kcal e 1,2-1,5 g di proteine per Kg di peso corporeo. Gli esperti consigliano uno spuntino ricco di proteine in tarda serata per evitare un effetto catabolico sulla muscolatura e una conseguente sarcopenia.

Occorre anche una terapia farmacologica che riduca il rischio di complicanze. In casi particolarmente gravi e selezionati è necessario procedere con un trapianto di fegato

Crisi di Governo? Esiste sui Giornali, non alla Camera.

Alla fine Salvini ce l’ha fatta: le prime pagine dei giornali di oggi parlano di una crisi di Governo che almeno in questa fase non c’è per niente, invece di parlare dell’imbarazzo sulla Russia, che invece c’è.

Avrebbe potuto non farcela?

Sì, se buona parte dell’informazione avesse considerato l’angolo visuale della sala del Mappamondo, al quarto piano della Camera, dove in Commissione è stato fatto di tutto da lunedì fino a ieri per far passare integralmente la pupilla degli occhi di Salvini, il decreto sicurezza-bis, che va in aula da lunedì e che va convertito nei prossimi quindi giorni. Con una crisi decadrebbe.

Ora è vero che per spiegare la politica non basta l’angolo visuale della Sala del Mappamondo e che bisogna cercare di capire dappertutto, però esso non può essere né ignorato né rimosso per ché se lì tra i più importanti parlamentari leghisti e grillini si muovono passando coi carri armati sui diritti dei gruppi di opposizione, con insulti e provocazioni al fine di votare prima possibile il decreto, vorrà dire qualcosa o no? Contra factum non valet argumentum.

E invece per buona parte dell’informazione i fatti non contano: siccome si ritiene (non a torto) che il Governo debba cadere, allora si interpretano forzatamente le cose in quel senso, sperando che scrivendo così si possa davvero determinare il fatto desiderato.

La stessa scorciatoia di quella parte del mondo politico che anziché discutere laicamente i pro e i contro degli strumenti da adottare in questa fase (come la mozione di sfiducia) su cui ci possono essere valutazioni diverse, legge tutto in chiave di complotto: presentare la mozione sarebbe fatto apposta per evitare una crisi altrimenti scontata.
Il problema è che vista dalla Sala del Mappamondo non solo la crisi non era scontata, ma semplicemente non esisteva. Se avete ignorato quell’angolatura, quanto meno per problematizzare le chiavi di lettura, avete ideologia, non informazione  e neanche politica efficace.

Da lunedì, svanite le illusioni della crisi, appuntamento in aula con la realtà, il decreto sicurezza-bis.

(Dal profilo FB dell’autore)

Il Pd e le alleanze intercambiabili.

Dunque, il segretario del Pd Zingaretti punta esplicitamente all’alleanza tra il suo partito e il movimento di Grillo e di Casaleggio. Ovviamente senza dirlo pubblicamente. E quindi, secondo un antico copione troppo conosciuto e collaudato per essere ulteriormente descritto. Il tutto, pare di capire, per estromettere definitivamente dal Governo la Lega di Salvini, che resta il nemico da abbattere e da liquidare definitivamente. E sin qui, nulla di nuovo sotto il sole.

Al contempo, prosegue l’avventura tortuosa e sempre più complicata di un governo giallo verde che sistematicamente litiga tutti i giorni su tutta l’agenda politica. Una navigazione misteriosa che rende sempre più difficile comprendere quale sia la bussola politica che realmente orienta l’esecutivo. Ma, per fermarsi al Pd e al suo capo, forse è arrivato il momento per capire realmente qual’e’ la prospettiva politica che persegue e, con lui, la fantomatica alleanza di centro sinistra che si vorrebbe ricostruire dalle fondamenta. Ora, forse, e’ arrivato il momento per sciogliere un nodo politico decisivo: e cioè, o si ricostruisce il “campo del centro sinistra” oppure, al contrario, si punta direttamente a perseguire un’altra strada.

Quella, cioè, che punta direttamente ad una alleanza con i 5 stelle con un solo obiettivo: cercare di distruggere il nemico comune, ovvero quella destra che si ritiene un pericolo mortale per la nostra democrazia. E’ inutile continuare nell’equivoco. Se si ripete, come si dice nei giorni pari, di volere ricostruire il cosiddetto “campo largo” centro sinistra allora si deve lavorare per quella prospettiva che richiede, però, coerenza, lungimiranza e politiche funzionali a quell’obiettivo. Senza, come ovvio, costruire la coalizione a tavolino secondo l’ormai famoso “lodo Calenda” che prevede l’autorizzazione e il permesso del segretario del Pd per poter scendere in campo ed organizzarsi politicamente. Al netto di questa curiosa prassi che prevede solo la presenza di partiti satelliti che accompagnano l’avventura del Pd, se si vuol ricostruire una alleanza credibile di centro sinistra ci si deve concentrare solo su questo obiettivo.

Se, invece, la ragione sociale del nuovo corso del Pd/Pds di Zingaretti e’ quello di stabilizzare un rapporto politico con il movimento di Casaleggio per ragioni di potere e di convenienza momentanea, si tratta di un disegno politico altrettanto legittimo che va però spiegato con chiarezza e trasparenza. Senza equivoci e contorcimenti verbali. Ecco, quindi, il bivio di fronte al quale il Partito democratico deve dare adesso una risposta politica chiara e convincente. E questo per una semplice ragione: ora più che mai e’ necessario mettere in campo un progetto politico riformista, democratico e di governo.

Un progetto che non può non coincidere con una coalizione di centro sinistra capace di unire in una sintesi politica efficace e feconda le migliori culture costituzionali del nostro paese. Senza autorizzazioni di sorta e senza permessi da rilasciare da parte dell’azionista di maggioranza della coalizione. Su questo versante, adesso, il Pd di Zingaretti deve essere estremamente chiaro e netto di fronte all’opinione pubblica. Per il bene del futuro centro sinistra e, forse, della stessa qualità della democrazia italiana.

La Ragione indaga se stessa

Val la pena soffermarsi su queste ultime vicende relative al dossier Russia-Lega, al fine di capire qualcosa che magari sulla prime potrebbe anche sfuggire alla nostra attenzione.

Non che io intenda fare un’analisi dettagliatissima o persino teorica di questi ultimi eventi, però indugiare un po’ di più su qualcosa che è balzato in prima pagina come un fatto squisitamente ordinario, ecco, su questo, val la pena rifletterci sopra.

Mi riferisco alla presa di posizione del Ministro degli Interni Matteo Salvini su quanto sta accadendo e sulla dichiarazione illustrata in modo fulmineo che tutti ricordano: “Io non rispondo alle cose che non esistono, non ho preso alcun rublo, né dollari, né euro, io mi occupa di cose concrete, reali quali il problema della flat-tax, dell’autonomia e di cosi simili”.

A questo, fa seguire la sua netta e risoluta posizione di non rispondere, se non per qualche minuto al question time, alla discussione in aula del Senato o della Camera.

Questa presa di posizione che sembra a tutta prima dettata da una incontrovertibile premessa, vale a dire sono tutte fantasie, si basa su un presupposto del tutto rinviabile a un giudizio personale. E la conclusione ne viene conseguentemente condizionata, sembrando persino ovvia. In tutta questa argomentazione vi sono, però, alcuni aspetti che andrebbero de-costruiti e, quindi, esaminati con massima attenzione.

Prima osservazione, è del tutto legittimo che Matteo Salvini dica che sono tutte cose che non esistono. Personalmente può pensare quello che vuole. A tutti è dato il sacrosanto diritto di avere dei giudizi individuali e di farsene la ragione che più essi credano.

Ma, è il Ministro degli Interni che non può fermarsi al giudizio individuale, è questo il vero punto. Un Ministro, come qualsiasi altra figura pubblica, è tenuto a superare il proprio gusto individuale e rispondere a un “tribunale” più ampio, vale a dire all’opinione pubblica e, in questo caso, al Parlamento italiano.

In ragione di ciò, la conclusione del Ministro Salvini è del tutto inconferente alla sua funzione di Ministro della Repubblica italiana. È indispensabile che un Ministro sia trasparente da capo a coda e che debba rispondere, per le funzioni pubbliche, alla richiesta del Parlamento italiano che tra le sue prerogative registra il compito del controllo politico.

L’Europa degli ultimi due secoli e mezzo, si è costruita su un asse moderno e democratico proprio perché ha assunto come un suo indispensabile principio che la Ragione stessa sia sottoposta al vaglio e al giudizio di se stessa: vale a dire ogni autorità, perché non cada in un inconcepibile autoritarismo, deve farsi trasparente a se stessa e agli occhi di chicchessia.

La democrazia si regge su questo grande principio. Non si può derogare da ciò, altrimenti si precipiterebbe dentro le fosche strutture di stampo autoritario presenti in tutta Europa prima che s’illuminasse il principio che ho testa ricordato.

Se le opposizioni chiedono un confronto parlamentare, qualsiasi Ministro, ha il dovere di soddisfare quella richiesta.

Non può essere che il Presidente del consiglio dei ministri Conte, che pur ha saggiamente ricordato tutto questo – senza esplicitarlo nei modi che invece sto proponendo io – risolva con il suo nobile gesto il problema che invece è tutto ascrivibile al Ministro degli Interni.

Come sempre, nel caso in cui avessi proposto una lettura non chiara o, ancor peggio, con errori, invito gli attenti lettori a correggermi. Sarei grato e del resto è questa la mia funzione a chi volesse illustrarmi eventuali mie imprecisioni.

Straparlando di futuro

Articolo già pubblicato sulle pagine di Italia Informa

Sono passati più di dieci anni dalla crisi mondiale del 2008. Il “casus belli” è stato di natura finanziaria ed è dovuto – l’analisi è ormai consolidata – all’incepparsi, nel mercato globale, del mercato finanziario “aperto” (senza regole, senza controllo e senza supervisione) che ha dominato, negli ultimi decenni, le politiche economiche dei principali paesi.
Non si può, a questo proposito, non condividere la convinzione dell’ economista Paul Samuelson  che  i sistemi di mercato non regolamentati finiscano per distruggere se stessi. Questo fenomeno viene ampliato dalla globalizzazione, che estende all’intero globo fenomeni  che avrebbero mantenuto, altrimenti, una dimensione locale. La loro internazionalizzazione porta inevitabilmente ad incidere sulle economie reali: cioè sul sistema delle imprese che non viene finanziato a dovere, creando un circuito vizioso che ha fatto mandare in tilt il sistema. Di qui l’urgenza di ripensare l’attuale paradigma dello sviluppo, per avere una nuova idea di futuro.

Il futuro, per le nuove generazioni, vuol dire grande fiducia  nella tecnologia. Ma l’etica di una società può fondarsi solo su splendide piattaforme tecnologiche? Temo sia ingenuo pensare di delegare all’intelligenza artificiale la creazione di un nuovo “homo sapiens”, che ricrei l’armonia dei mercati, per superare un presente che fa paura alle nuove generazioni, non allenate ad affrontare gli squilibri sociali che fanno del momento attuale una realtà dura, complessa e difficile.

Vengono, così, formulati scenari negativi per la “felicità” umana: un esempio allarmante, e non solo per i giovani, è la guerra dei dazi di Donald Trump. Il Presidente statunitense si contrappone con pericolosa forza al suo principale antagonista mondiale, la Cina, stimolandone le reazioni altrettanto bellicose. Come sempre è accaduto nella storia dei popoli, questi scontri determinano convergenze tra forze politiche e sociali diverse tra loro, che però vengono prontamente intercettate dagli egoismi sovranisti nazionali tradizionalmente poco interessati a un’idea di futuro fatta di pace e solidarietà.
In questo contesto di conflitto, la globalizzazione liberista pare avere esaurito le sue potenzialità di sviluppo solidale. Anche in Europa la concorrenza internazionale è durissima, e crea tensioni sociali che possono diventare croniche, se non si concretizza l’utopia di nuove regole che distribuiscano equamente i benefici della crescita.  Sia nel presente che nel recente passato abbiamo assistito a una ossessiva e pervasiva politica di apertura al libero mercato, senza  freni in tutte le aree dell’economia, con risultati poco esaltanti. Infatti l’Italia, e non solo, sta vivendo una lunga crisi, che indebolisce alle radici il consenso sociale alle istituzioni democratiche.

è ormai indispensabile ripensare a un nuovo paradigma tra tecnologia, sviluppo e investimenti pubblici  per una politica di impiego sociale che punti alla crescita produttiva e non gravi sull’indebitamento pubblico, come accade attualmente nel nostro paese. Da qui, un ragionamento sui meccanismi di crescita. Nell’idea di un futuro attraente, ci può essere spazio per una nuova vigorosa economia? Potrà lo Stato, come già in passato, essere nuovamente protagonista di sviluppo? Oggi lo Stato ha a disposizione meno strumenti per recuperare sul gap con le altre economie. Nell’immediato futuro, le variabili del nostro modello di sviluppo vanno cambiate dall’azione delle forze sociali, cominciando dai salari che sono nettamente inferiori a quelli degli altri sistemi  produttivi, a partire da quello tedesco. Anche gli imprenditori dovranno fare un salto di qualità nella loro visione dell’impresa. Vanno adottate strategie a medio termine sull’innovazione e sulla concorrenza. Occorre, al tempo stesso, saper attuare una politica di investimenti nel sociale per una rinnovata legittimazione dei processi di accumulazione.
Inoltre, è strategico, per la formulazione di unidea di futuro, il ruolo della Pubblica Amministrazione. I vincoli europei e internazionali, infatti, richiedono un radicale cambiamento o meglio, come scrive Linda Lanzillotta  (“Il Paese delle mezze riforme“) di una  “palingetica  discontinuità” rispetto al passato. è necessario un elevato investimento in formazione e in tecniche organizzative: in altri termini, si dovranno realizzare sia un lavoro profondo sulle persone  che un  serio investimento negli strumenti metodologici e tecnologici dell’organizzazione amministrativa pubblica. è indispensabile cioè un nuovo DNA nel futuro della Pubblica Amministrazione, la cui attuale e acclarata inefficienza è un indubbio fattore di arretratezza che paralizza qualsiasi prospettiva solida di benessere sociale.
Ragionando di futuro, e di nuovi scenari, va ricordato come, alle origini dell’Unione Europea, vi sia stato un progetto di pace: mettendo in comune risorse strategiche come il carbone e l’acciaio si è evitato il rischio, con questa comunione di beni, di un ipotetico terzo conflitto mondiale nel clima avvelenato e rancoroso del dopo guerra. Questo dato di fatto ci consente di ripensare all’idea di futuro di un’Europa che ha saputo rinunciare ad una parte della propria sovranità nel nome della pace, evitando che i forti interessi nazionali postbellici sortissero effetti disastrosi.

L’Unione Europea dunque, nata da un’idea di pace, è stata anche finora, e alla faccia dei suoi detrattori, motore di sviluppo economico, contribuendo significativamente al benessere dei cittadini europei. Malgrado ciò, davanti  a un’idea di futuro il cittadino europeo appare svuotato di contenuti  vitali, timoroso di un domani  che prevede “nuvoloso e con poco sole” (J. Claude Hollerich, “Civiltà Cattolica” del 20/04/2019). Lo Stato-comunità, ovvero la Comunità di Stati, sembra arretrare rispetto ai nuovi egoismi statali.
La paura di un degrado sociale è molto diffusa, in Europa come in Italia. L’economia e la finanza sono orientate alla produzione di profitto senza obiettivi di creazione di posti di lavoro e quindi di benessere diffuso. Aumentano le disuguaglianze sociali: i giovani temono per il loro futuro in un ambiente sociale che si va degradando, e giustamente scendono in piazza per manifestare a favore di nuove politiche ambientali, denunciando una generazione di adulti che appare ai più egoisticamente materialista e consumista.
Una rara nota di ottimismo sul futuro ci viene dal recente  libro di Ferruccio de Bortoli (“Ci salveremo” Ed.Garzanti) che rileva come in Italia ci sia un notevole capitale sociale di alta qualità formato da tante associazioni impegnate nel sociale, che potranno costituire la base popolare per un movimento vivace di rinnovamento, che aspiri a una società più giusta, più unita, in grado di curare i bisogni sociali e di supplire ad una burocrazia inefficiente. Proprio il cosiddetto terzo settore, con il suo volontariato e le sue associazioni, potrebbe già nell’immediato materializzarsi in un corpo intermedio che favorisca i cittadini  che vogliano attivarsi sul tema della solidarietà, anche contro un  governo  propenso a penalizzarli, magari con un raddoppio dell’imposizione fiscale.

Da questo punto di vista il quadro politico attuale appare incapace di azioni incisive, al di là della facile propaganda elettorale, per risolvere  seriamente le problematiche di povertà e disoccupazione, che non dipendono (come qualcuno vorrebbe farci credere) principalmente dall’Unione Europea, ma piuttosto dalla mancanza di regole del libero mercato e dalla inevitabile diffusione su scala globale della cosiddetta  “intelligenza artificiale” che sta  rivoluzionando il mondo del lavoro.
Anche in Italia il timore di perdere l’attuale benessere accresce un diffuso malessere popolare, che si manifesta in forme diverse e trasversali, contagiando varie categorie di cittadini. Tuttavia, la storia  passata e le recenti vicende umane ci hanno insegnato che senza speranze, anche utopistiche, non si va molto lontano.
Il futuro non ce lo può garantire nessuno: dobbiamo meritarcelo, reinventandolo (sicuramente sarà diverso da come lo pensavamo fino a poco tempo fa) e conquistandolo con la forza delle nostre capacità e della nostra  intelligenza. Umana.
L’ultima votazione europea sembrerebbe indicare che una parte consistente dell’elettorato italiano propenda per un governo di destra. E’ un risultato che è in contraddizione con la recente storia politica e sociale dell’Italia Repubblicana; soprattutto alla luce del primo  provvedimento invocato dal vincitore delle elezioni, l’On. Salvini, cioè l’applicazione della cosiddetta “flat tax”, un’imposta  decisamente a favore dei ceti sociali più ricchi.
La politica della “flat tax” viene proposta contro la generale domanda di giustizia fiscale, che ha attraversato nel tempo le forze sociali italiane. Le stesse che si sono sempre dichiarate a favore di una significativa redistribuzione del reddito.

Gli stessi elettori di destra richiedono al Governo una politica di crescita economica. Ciò non è ottenibile con una politica all’insegna della “flat tax“, che nell’attuale contesto di mutamenti strutturali dell’economia non produrrebbe effetti moltiplicativi sull’economia reale, essendo portatrice essenzialmente di liquidità alla finanza speculativa.
Già dalle prime mosse del “Governo Salvini” si può rilevare che il voto  europeo è stato una scelta di un programma in contraddizione con gli interessi di una buona parte degli stessi elettori che hanno votato Salvini; cioè, un programma che a breve farà sentire il proprio peso sociale negativo. Infatti, la “flat tax“ è il primo passo di un percorso che accentua le disuguaglianze sociali, mettendo in pericolo la stessa democrazia.
è, invece, auspicabile che i ceti medi e popolari ritrovino se stessi  e la propria coscienza repubblicana nella solidarietà, nel dialogo sociale e nella difesa dei più deboli.

Perché Stato e mercato siano inclusivi

Fonte Servire l’Italia di di Vittorio Emanuele Parsi docente di Relazione internazionali alla facoltà di Scienze politiche e sociali direttore dell’Alta Scuola Economia e Relazioni internazionali

C’è una profonda attualità nell’appello lanciato cento anni fa ai “liberi e forti” da don Sturzo, che evidentemente non sta nella tentazione antistorica e intempestiva della creazione di un nuovo “partito dei cattolici italiani”. Alla conclusione di un sanguinoso conflitto, che chiudeva definitivamente un’epoca senza riuscire compiutamente a inaugurarne un’altra, Luigi Sturzo poneva una questione che oggi ritorna a chiedere di essere affrontata: come far convivere la sovranità delle nazioni in un sistema che fondasse una “pace giusta e durevole”? Ovvero, ancora nelle sue parole, come “trovare il reale equilibrio dei diritti nazionali con i supremi interessi internazionali e le perenni ragioni del pacifico progresso della società”? 

È la sfida alla quale il progetto dell’ordine liberale internazionale ha cercato di offrire una risposta nel corso della seconda parte del Novecento, a partire dall’intuizione wilsoniana e poi nell’evoluzione concepita da F.D. Roosevelt durante la II guerra mondiale e costruito dopo il 1945. Si è trattato di un ordine parziale e limitato, che però coglieva l’urgenza di limitare contemporaneamente gli “errori” della sovranità statale e quelli del mercato, incanalandone le rispettive energie in eccesso in un fitto reticolo di istituzioni internazionali, che rendessero la cooperazione tra gli Stati possibile e vantaggiosa.

Era un progetto consapevole della necessità che tanto lo Stato quanto il mercato dovessero diventare “inclusivi”, offrire opportunità concrete di rappresentanza, sviluppo e crescita alle classi subalterne, rendendo “popolari” l’uno e l’altro attraverso la creazione di un solido e diffuso ceto medio. 

Guardiamoci intorno e osserviamo come la trasformazione del mercato in una “istituzione totale” abbia progressivamente rotto quell’equilibrio evocato da Sturzo e contenuto nel progetto di Wilson. In questo senso, l’appello ai liberi e forti torna attuale. Oggi occorre ricostituire un ordine internazionale che non si illuda di poter trovare scorciatoie verso il bene comune immaginando il superamento della sovranità dello Stato o confidando nella capacità autoregolativa del mercato. È necessario invece riaffermare con forza che tanto la politica quanto l’economia sono strumentali rispetto alla ricerca della felicità e della centralità umana, intese nel loro senso più completo e profondo. Ancora una volta bisogna chiarire che il popolo è un corpo costituzionale e non un soggetto politico, di cui nessun partito e nessun leader può intitolarsi l’esclusività della rappresentanza o il monopolio dell’interpretazione. È infine decisivo, oggi come cento anni fa, ribadire con sereno coraggio che le culture politiche non sono tutte equivalenti le une rispetto alle altre e che sviluppo, pace e libertà e democrazia non possono essere garantiti attraverso ideologie che alimentino l’odio, la paura, la chiusura e la discriminazione. 

Incentivare la natalità, un investimento sul futuro

Articolo a firma di Liliana Ocmin (edizione odierna di Conquiste del lavoro)

Far fronte al continuo calo demografico rappresenta oggi una delle priorità più urgenti da inserire nell’agenda politica del Paese. Ma su questo versante, purtroppo, dobbiamo registrare ancora un nulla di fatto e questo ci preoccupa non poco sia come donne che come sindacaliste. Un tema quello della denatalità di cui si è tornato a parlare nei giorni scorsi dopo la pubblicazione del Bilancio demografico nazionale dell’Istat e del libro “Italiani poca gente” scritto da Antonio Golini, docente Luiss, e Marco Valerio Lo Prete, giornalista Rai, con la prefazione di Piero Angela.

L’Istat conferma che dal 2015 la popolazione residente è in continua diminuzione, “configurando per la prima volta negli ultimi 90 anni una fase di declino demografico. Al 31 dicembre 2018 la popolazione ammonta a 60.359.546 residenti, oltre 124 mila in meno rispetto all’anno precedente (-0,2%) e oltre 400 mila in meno rispetto a quattro anni prima. Il calo è interamente attribuibile alla popolazione italiana, che scende al 31 dicembre 2018 a 55 milioni 104 mila unità, 235 mila in meno rispetto all’anno precedente (-0,4%). Rispetto alla stessa data del 2014 la perdita di cittadini italiani (residenti in Italia) è pari alla scomparsa di una città grande come Palermo (-677 mila). Si consideri, inoltre, che negli ultimi quattro anni i nuovi cittadini per acquisizione della cittadinanza sono stati oltre 638 mila. Senza questo apporto, il calo degli italiani sarebbe stato intorno a 1 milione e 300 mila unità. Il saldo naturale della popolazione complessiva è negativo ovunque, tranne che nella provincia autonoma di Bolzano”.

Insomma, il continuo peggioramento di una situazione drammatica che tratteggia un futuro non molto lontano in cui il ricambio generazionale sarà messo a dura prova. Il dato positivo è che siamo ancora in tempo per intervenire ed invertire questa discesa senza freni. Stessa situazione se scorriamo le pagine del volume di Golini e Lo Prete: “oggi in Italia abbiamo il più basso indice di fertilità e natalità in Europa. In Europa la media è molto più alta e si è visto che nei Paesi in cui la donna lavora, la coppia ha due redditi, si hanno più figli, a condizione di avere uno stato sociale che aiuta con asili nido, detassazioni. In Italia siamo a poco più di uno; è una situazione patologica che a medio-lungo termine comporterà rivolgimenti che i giovani dovranno affrontare forse anche in modo drammatico”. Noi del Coordinamento donne sono anni che cerchiamo di far capire che non è tenendole a casa che le donne fanno più figli ma aiutandole a lavorare e soprattutto a conservare il posto di lavoro, specie dopo la nascita di un figlio.

Oggi le donne che lavorano sono solo il 48,9% rispetto ad una media europea del 62,4%, per non parlare del Mezzogiorno dove si toccano finanche livelli del 30%. Ha ragione Piero Angela quando dice che “ci si occupa poco di demografia, perché è qualcosa di prospettiva, non la vediamo davanti. La mente umana reagisce quando vede un problema davanti a sé, ma non quando deve immaginarlo”. Bisogna, dunque, superare anche questo tipo di scoglio comunicativo per aumentare la consapevolezza su una questione che tra qualche decennio potrebbe trovarci impreparati. Occorrono politiche a sostegno della natalità e della famiglia che ad oggi non si riescono ad intravedere, non si va oltre le solite dichiarazioni che ormai non producono alcun effetto sulle speranze degli italiani, sempre più increduli senza risultati concreti. La Cisl già lo scorso anno aveva condiviso le preoccupazioni del Forum delle Associazioni familiari e aveva chiesto un Patto per la famiglia e la natalità sottolineando l’importanza di politiche che supportino concretamente le famiglie e agevolino la libera scelta di maternità, perché questa non rappresenta solo un importante evento confinato nel privato, ma un fattore fondamentale per la crescita sociale e per lo sviluppo economico del Paese. Aiutare e favorire la maternità, dunque, non è un costo ma un investimento, che non devono perciò sostenere solo le famiglie.

I dati elencati sono un richiamo forte per la politica affinché metta in campo un impegno straordinario con misure coordinate, mirate e strutturali sia di carattere fiscale sia attraverso incentivi ai servizi per l’infanzia e l’adolescenza, nonché alla contrattazione collettiva per un maggiore sviluppo di misure in favore della conciliazione famiglia/lavoro.
La Cisl ritiene urgente aprire anche su questi temi un tavolo di confronto con istituzioni e forze sociali per ridare quella dignità e quel valore sociale alla maternità che oggi sembrano perduti. Non c’è più tempo per pensare, bisogna agire subito per dare un colpo d’ala al futuro dell’Italia.

Mattarella: “la ricostruzione deve procedere parallelamente, con la stessa velocità, in tutti i suoi versanti”

Desidero rivolgere a tutti i presenti un saluto cordiale: alle autorità, particolarmente ai protagonisti di questa giornata, ai ragazzi e ai bambini che ringrazio per la compostezza con cui stanno seguendo la cerimonia.

Sono molto lieto di condividere con voi questo momento, che sottolinea il traguardo conseguito con questa scuola, dovuto all’intervento congiunto di tante realtà, ma soprattutto all’impegno generoso e ampio della Fondazione Ferrari. Sono lieto che il Presidente John Elkann sia presente questa mattina e anch’io desidero rivolgere un pensiero di riconoscenza a Sergio Marchionne, la cui figura va ricordata nel nostro Paese con riconoscenza e ammirazione per tutta la sua attività e il suo impegno.

Vorrei sottolineare – ragazzi – che siete voi i protagonisti di questa mattina.

Questa cerimonia può essere vista in tanti modi; ma le scuole vengono inaugurate dagli studenti quando vi entrano e cominciano a frequentarle, insieme ai docenti.

Questo è un momento che consacra l’inserimento della scuola nel tessuto sociale, e questa scuola così bella, così accogliente e funzionale, è un grande traguardo e un grande risultato. Dimostra che ad Amatrice, con il concorso delle risorse, delle energie, dei protagonismi, delle attività che abbiamo ricordato questa mattina, la pista della scuola si è realizzata, è andata avanti, si è compiuta in maniera importante. Continua ancora ad avere esigenze, ma ha raggiunto un grande traguardo.

Sono qui questa mattina con voi soprattutto per due ragioni.

La prima è quella di ringraziare il mondo della scuola di Amatrice, perché anche nei giorni immediatamente successivi al terremoto la scuola non si è interrotta. In quel settembre, la scuola ha ripreso a funzionare. E di questo vorrei ringraziare i docenti e la Preside di allora, la professoressa Pitoni.

Vi stata una grande e generosa attività di impegno dei docenti in quei giorni che ha consentito di non interrompere la continuità del servizio scolastico. Questo è un motivo di riconoscenza importante che voglio esprimere.

L’altro motivo è la ricostruzione.

Abbiamo ascoltato le considerazioni importanti del Sindaco, del Presidente della Regione, del Commissario.

Vorrei fare mie le parole della studentessa Silvia Guerrini, così ben espresse: il sogno della realtà concreta della ricostruzione non si esaurisce nella scuola, deve procedere parallelamente, con la stessa velocità, in tutti i suoi versanti: la pista dell’ospedale, quella delle abitazioni private che richiede un concorso di responsabilità delle istituzioni e dei soggetti privati; la pista dei beni culturali e di culto; la pista delle strutture produttive. Sono tutte piste di ricostruzione indispensabili, per restituire vitalità piena al territorio, a questa città, per realizzare e rendere concreto il sogno di cui Silvia ha parlato, per rimuovere definitivamente il senso di precarietà che il terremoto ha introdotto in queste zone.

Questo vale naturalmente per tutte le zone colpite dal terremoto, per tutti i comuni interessati, nel Lazio, in Umbria, in Abruzzo, nelle Marche.

Proprio per quest’ampiezza, per questa grande fascia che attraversa l’Italia, per i Comuni colpiti dal terremoto e danneggiati nella loro vita e dinamicità, occorre un grande impegno perché proprio in questo impegno si gioca anche il futuro dell’Italia nel suo complesso.

È un impegno che va non soltanto riconfermato, ma sempre più – con tanti sforzi che si cerca di fare – tradotto in pratica concreta, reale, effettiva, con traguardi raggiunti, uno dopo l’altro, ma necessariamente con velocità.

È un elemento importante per la vita complessiva del nostro Paese, anche perché si tratta delle nostre aree interne che sono non soltanto preziose, ma essenziali al nostro Paese, alla sua vita sociale, economica, storica e culturale.

Le aree interne, non meno delle zone urbane e delle aree metropolitane, sono protagoniste della vita del nostro Paese e vanno tutelate e rassicurate con opportunità pari a quelle delle grandi città.

E naturalmente, in questa fascia così ampia colpita dai terremoti, va garantita la ricostruzione perché le aree interne riprendano piena vitalità e dinamicità.

È l’augurio – ma anche l’impegno – che vorrei esprimere, soprattutto davanti a voi, ragazzi, facendovi gli auguri per i vostri studi, per la frequenza che avete già compiuto in questa scuola nei mesi passati e per quella che vi svolgerete in futuro.

Auguri, ragazzi! È una bella giornata. Ed è tutta vostra.

Rifiuti speciali: “in Italia nel 2017 gestiti 147,1 milioni di tonnellate”.

“Nel 2017 i rifiuti speciali, complessivamente gestiti in Italia, sono pari a 147,1 milioni di tonnellate, di cui 137,6 milioni di tonnellate (93,5% del totale gestito) sono non pericolosi e i restanti 9,5 milioni di tonnellate (6,5% del totale gestito) sono pericolosi. Il totale gestito è comprensivo dei rifiuti rimasti in stoccaggio presso gli impianti e presso i produttori al 31/12/2017, pari a 16,6 milioni di tonnellate”. Lo si legge nel Rapporto dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) “Rifiuti speciali 2019”, presentato oggi a Roma, nella sala capitolare presso il chiostro di Santa Maria sopra Minerva del Senato.
Rispetto al 2016, “si assiste ad un aumento, del 4,1%, del quantitativo complessivamente gestito; in particolare le quantità avviate a operazioni di recupero aumentano del 7,7%, mentre quelle avviate a smaltimento diminuiscono dell’8,4%.” Nel 2017 “il recupero di materia è la forma di gestione predominante, con il 67,4% (99,1 milioni di tonnellate), seguono con il 10,9% (16 milioni di tonnellate) le altre operazioni di smaltimento e con l’8,2% (12 milioni di tonnellate) lo smaltimento in discarica. Appaiono residuali, con rispettivamente l’1,4% e lo 0,9%, le quantità avviate al coincenerimento (2 milioni di tonnellate) e all’incenerimento (1,2 milioni di tonnellate)”.

In linea generale “si registra un aumento di quasi tutte le operazioni di recupero di materia”: i rifiuti recuperati attraverso le operazioni di “riciclo/recupero di metalli e dei composti metallici” e il “riciclo/recupero di altre sostanze inorganiche” aumentano rispettivamente di 3,2 milioni di tonnellate e 1,7 milioni di tonnellate; seguono lo “scambio di rifiuti”, con 1,5 milioni di tonnellate in più, lo “spandimento sul suolo a beneficio dell’agricoltura o dell’ecologia” e il “riciclo/recupero di altre sostanze organiche” con un aumento di 479mila tonnellate e 309mila tonnellate. L’analisi relativa ai dati sulle operazioni di smaltimento mostra che, anche nel 2017, il ricorso alla discarica e al trattamento chimico-fisico rimangono le forme di smaltimento più utilizzate, rappresentando, rispettivamente, 40,1% ed il 29,6% del totale smaltito. Rispetto al 2016, i rifiuti sottoposti al trattamento biologico e chimico fisico diminuiscono entrambi di 1,3 milioni di tonnellate; i rifiuti smaltiti in discarica si riducono di 63mila tonnellate. Aumenta, invece, il quantitativo di rifiuti sottoposti a incenerimento di 55mila tonnellate.

Riparte il progetto Neom

L’Arabia Saudita non è soltanto sinonimo di oro nero. La strada è già tracciata e si chiama “Neom”, la smart city più grande del mondo. Sorgerà nella provincia di Tabuk,  tra il Mar Rosso e il Golfo di Aqaba in luoghi pressoché desertici, dai panorami mozzafiato e scarsamente abitati, che ora aspirano a popolarsi di nuove tecnologie. Il costo della smart city è stimato in circa 500 miliardi di dollari.

Neom punta a divenire la prima città al mondo completamente high tech e anche la più estesa. Le prime tre lettere del nome rimandano al prefisso greco nέο, che significa “nuovo”. La quarta lettera è l’abbreviazione di Mostaqbal, parola araba che sta per “futuro”. Il progetto della rivoluzionaria dimensione urbana che il regno vuole costruire si fonda su 16 settori innovativi:

energia; acqua; mobilità; biotech; cibo; manifattura; media; entertainment, cultura e moda; scienze tecnologiche e digitali; turismo; sport; design e costruzioni; servizi; salute e benessere; educazione; vivibilità. La città sarà, pertanto, alimentata interamente da fonti rinnovabili, la connessione Internet sarà libera e ultra veloce in tutti i quartieri, mentre i trasporti utilizzeranno la tecnologia driverless con mezzi a guida autonoma. Di conseguenza, Neom scommetterà sulla smart mobility, sulla connettività, sui droni, sul rispetto dell’ambiente. Utilizzerà, pertanto, big data, intelligenza artificiale e riconoscimento facciale. Il tutto in un’area 33 volte più grande di New York. Il fiore all’occhiello, tuttavia, sarà proprio la smart mobility. L’ambizione è diventare un “hub internazionale di connettività per terra, aria e mare”, ospitando all’interno dei propri confini “sistemi di trasporto innovativi, automatizzati e 100% verdi che procederanno in modo scorrevole e sicuro” con un notevole impatto anche sul panorama. E nuovi collegamenti fuori dai confini verranno creati per collegare più celermente Asia e Africa.

In Germania obbligatorio il vaccino contro il morbillo

In Germania diventa obbligatorio il vaccino contro il morbillo.

Da marzo 2020 per far ammettere i propri figli in un asilo nido, materna o scuola i genitori dovranno dimostrare l’avvenuta vaccinazione.

L’obbligo di vaccinazione contro la malattia esantematica si applicherà in particolare negli asili e nelle scuole, ma anche nei campi profughi. In caso di violazione della legge, multe fino a 2500 euro.

Un Governo di transizione operosa, senza Salvini e senza Lega.

Se c’è una critica da fare al comportamento di Di Maio, essa consiste nel rilevare quanta prudenza rallenti il chiarimento del M5S con la Lega. A questo la pubblica opinione è molto attenta.

Sul “caso Metropol” il distinguo si nota, ma resta ancorato a procedure formali, fermandosi laddove parrebbe necessario, invece, formalizzare la richiesta di dimissioni del Ministro dell’Interno. Questi ha perso credibilità, non solo in Italia, perché conduce maldestramente una sua politica estera dai contorni ambigui, e dunque pericolosi.

In Europa Salvini è isolato da tutto e da tutti. Nonostante le proposizioni più aggressive, resta fuori dai giochi che contano. Trump e Putin, per ragioni diverse ma convergenti, diffidano di lui, che pensa di muoversi con disinvoltura, quando in realtà esibisce un mix di inesperienza e spregiudicatezza.

Come può guidare, un leader tanto controverso per i modi eterodossi e l’inconcludenza ammantata di decisionismo, un dicastero chiave del governo della Repubblica? Il passaggio a un’altra fase della vita democratica italiana è iscritta nel circuito delle cose inevitabili. Non è detto, allora, che l’attuale Presidente del Consiglio non possa essere obbligato dalle circostanze a gestire una transizione necessaria.

Tutto si muove in queste ore. Conte rivendica il suo ruolo, annuncia la sua volontà di rispondere in Parlamento sullo scandalo dell’hotel moscovita, rivendica la sua coerenza come uomo delle istituzioni, prima ancora che garante di un patto bipartitico. Esclude operazioni trasformistiche, in contrasto con il suo credo e il suo agire da fresco “commis d’Etat”. Ma questo che significa?  Sì può escludere, qualora salti il connubio Lega-M5S, un governo Conte-bis sostenuto in Parlamento da una nuova maggioranza, a schema libero, magari con il concorso esterno del Pd?

Zingaretti è tornato a parlare di elezioni anticipate. In sostanza ha frenato gli ardori o le paure del Pd. Sa che l’apertura ai Cinque Stelle offre a Renzi l’occasione per rompere, con o senza Calenda. Insomma, a sinistra domina il timore che un eventuale cambio di maggioranza determini a cascata la temuta e sempre esorcizzata scissione del Pd.

Il momento della verità non è molto lontano. Che la sinistra, un po’ ovunque in Europa e nel mondo, sia preda della confusione, non è una novità dell’ultimora: anche i socialdemocratici tedeschi, rileva sconfortato e perfido D’Alema, hanno votato contro Ursula von der Leyden, ministro fino all’altro ieri del governo Merkel, di cui la Spd è componente essenziale e decisiva. Davvero inspiegabile!

Qualcuno potrà argomentare, non senza buone ragioni, che Lega e M5S rappresentano facce diverse della medesima involuzione della politica italiana. Tuttavia, con discernimento, occorre capire quali siano i margini per correggere la traiettoria che a portato alla saldatura tra i due partiti di governo. Soprattutto occorre stabilire quale sia l’obiettivo da raggiungere, se sfasciare tutto e precipitare nel vuoto di elezioni anticipate o, al contrario, lavorare in direzione di una tregua operosa, affidata a un governo tecnico-politico senza Salvini e senza Lega.

Immaginare che le opposizioni riescano nell’impresa di mandare a casa il governo, vincere le elezioni organizzate a tamburo battente e allestire, subito dopo, un esecutivo di sinistra e poco più, non appartiene al novero delle ipotesi ragionevoli. È probabile, invece, che si vada a sbattere.

Scalfari fa confusione

Pubblichiamo questa nota dell’amico Giuseppe Davicino, sempre attivo sulla chat di Rete Bianca, anche se non condividiamo (per intero) il suo punto di vista.

Tanta confusione nell’articolo di Scalfari. Il vero volto di Conte è quello del milieu accademico, alto-burocratico e affaristico della Capitale – a cui tutto sommato le politiche di Berlino non dispiacciono – la sua missione quella di tenere a bada i velleitari gialloverdi. Certo Sassoli e il decisivo appoggio dei 14 euro-utili idioti grillini alla VDL (Ursula von der Leyen) , sono (anche) suoi capolavori.

Ma l’accostamento a Moro è da colpo di sole estivo. Quali equilibri democratici più avanzati si possono mai costruire con politiche economiche ritagliate su misura della minoranza più ricca a scapito di una grande maggioranza che si impoverisce? Perché questo significherebbe il dialogo M5S-PD, blindare l’austerità.

Mentre le aperture a sinistra della DC furono fatte non per partito preso, ma su cose concrete come le nazionalizzazioni, lo statuto dei lavoratori, le grandi infrastrutture e le grandi partecipazioni dello Stato. Il contrario di quanto impone adesso l’Ue-Germania.
Per non dire del richiamo al 1789? Ma lo sa Scalfari com’è messa la Francia del 2019? Hanno da poco celebrato il 14 Juillet, con Macron fischiatissimo mentre percorreva gli Champs-Élysées, trasformatisi subito dopo la fine della parata in teatro di lunghi scontri, i gilet gialli non sono ormai che uno dei volti delle molteplici proteste che stanno emergendo insieme, come quella dei gilet neri (solo di pelle per fortuna!) che hanno occupato il Panthéon parigino. Non è sufficiente il silenzio dei media su ciò che sta succedendo, a fermare la deriva cui la Francia pare incamminata e che senza i necessari cambiamenti, di cui non s’intravede manco l’ombra, finirà per travolgere tutto, dentro e fuori l’Esagono. Ma questi rischi forse non interessano all’esimio fondatore di Repubblica. E può anche starci, visto il siderale distacco della sinistra al caviale dal popolo.

Molto meno giustificabile sarebbe, se non interessassero a chi in qualche modo si rifà all’eredità politica di Moro e del popolarismo. Non è difficile cogliere il crescente malcontento e delusione popolare nei confronti di Lega e 5 Stelle dopo appena un anno. Un elettorato che supera ampiamente la maggioranza assoluta e che assai difficilmente potrà tornare a riconoscersi nei partiti tradizionali, se non in minime frange ideologizzate pur presenti al suo interno.

Chi finirà per subentrare in prospettiva in questo vuoto politico? È su questo, a mio avviso, che deve svilupparsi il dibattito, su come esser politicamente significativi anche per questo popolo “scetomedizzato” (fine del ceto medio, almeno nella figura storica del secondo Novecento). Sapendo che quell’elettorato non è più disposto a far sconti a nessuno, su lavoro, sviluppo, pressione fiscale, natalità, sicurezza sociale. Tutti obiettivi per i quali servono politiche economiche, monetarie, fiscali profondamente diverse, per non dire agli antipodi, da quelle attuali. E il coraggio, il patriottismo costituzionale e l’autentico europeismo, di qualcuno che le proponga prima che la storia trovi comunque una sua via d’uscita, senza garanzia che possa essere la più auspicabile.

Codice Rosso: un’occasione mancata

Comunicato stampa a firma di Giorgia Fattinnanzi – Liliana Ocmin – Alessandra Menelao CGIL-CISL-UIL

L’approvazione del “Codice Rosso” è un’occasione mancata per fare un vero passo avanti sul tema della violenza maschile contro le donne. Pur apprezzando l’introduzione di fattispecie di reato importanti come il “revenge porn”, i matrimoni forzati e le lesioni permanenti del viso, riscontriamo che le criticità che avevamo avanzato, durante le audizioni, non sono state prese in considerazione.

In particolare, ci preoccupa l’ascolto della vittima entro tre giorni, perché rappresenta un’arma a doppio taglio. Il momento successivo alla denuncia è quello a più alto rischio per la vittima poiché essa è lasciata sola. Riteniamo che la donna debba sentirsi protetta e sostenuta. Talvolta la donna non sentendosi adeguatamente salvaguardata ritratta la denuncia. Inoltre, si rifà strada l’idea che la vittima menta, che usi la denuncia per violenza come vendetta nei confronti dell’ex compagno.

Non ci convince l’istituzione dell’Osservatorio presso il Ministero di Grazia e Giustizia perché riconduce questo tema a fatto da risolvere solo sul piano repressivo, mentre la battaglia che stiamo portando avanti è culturale e riguarda i temi della Prevenzione, della Protezione, della Punizione e delle Politiche integrate. Per questo riteniamo importante agire correttamente sul piano formativo in particolare per quanto riguarda la formazione degli operatori di polizia, dei carabinieri dei magistrati e di tutti gli operatori che a vario titolo hanno a che fare con le vittime di violenze.

Vogliamo ricordare che è stato appena svolto un censimento dei centri antiviolenza, sostenuto con fondi pubblici, che rischia di essere inutile perché il “Codice Rosso” non annovera i risultati del censimento all’interno della norma.
Infine, il “Codice Rosso” ha un’invarianza di spesa e questo ne riduce di fatto la sua efficacia e portata.

Appello Caritas: i Governi ascoltino il grido dei poveri

Caritas Italiana rivolge “un appello ai governi impegnati nel vertice di New York, perché affrontino una situazione preoccupante, e assumano decisioni in grado di servire veramente alla causa dei poveri e della giustizia globale. Lo fa attraverso il Dossier “Vertici internazionali: servono veramente ai poveri?” e con il documento “Impegnarsi nell’Agenda 2030 nella prospettiva della Laudato si’”, elaborato con le Caritas di diversi Paesi, dove i temi dell’Agenda 2030 sono ripresi alla luce della Laudato si’ e della dottrina sociale della Chiesa.

Mentre è in corso a New York la consueta analisi annuale nell’High level political forum (Hlpf) e alla vigilia dell’Assemblea generale dell’Onu del 24 e 25 settembre che farà il punto sui meccanismi di attuazione dell’Agenda 2030, Caritas Italiana ricorda che “è necessario affrontare con decisione i problemi di un pianeta dove la lotta alla povertà non progredisce certo alla velocità sperata, e dove la comunità globale non sembra aver ancora pienamente preso in conto la grande sfida del cambiamento climatico”.

Secondo l’organismo pastorale della Cei, occorre “costruire un sistema in cui si interviene a monte, nella fase di costruzione delle politiche: il dialogo è fondamentale, e deve essere costruito in modo efficace”. “L’impegno sulla ‘tutela dei diritti’ non è facile, e spesso non produce risultati osservabili nell’immediato. È però fondamentale – conclude Caritas – che le diverse realtà della società civile trovino il modo per lavorare insieme, nell’affrontare e trasformare i meccanismi strutturali che causano la povertà e gli squilibri che ci sono nel mondo”.

Terzo settore: al via il cambio degli statuti

Avanti, nonostante tutto. In attesa di decreti e precisazioni da parte di Parlamento e governo, il Terzo settore ha aperto la stagione del cambiamento.

Più della metà delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale, in queste settimane, hanno in programma le assemblee per la modifica degli statuti. Un primo passo importante, dopo la proroga dal 3 agosto prossimo al 30 giugno 2020 concessa per adeguare gli statuti di tutte le realtà interessate dalla riforma, imprese sociali comprese.

L’obiettivo è evitare un disallineamento sui tempi, garantendo un passaggio lineare dal vecchio sistema normativo a quello nuovo. Proprio la natura nuova di questi soggetti sarà la prima sfida da affrontare, mentre cooperative e mondo non profit attendono in questi mesi altri importanti decreti attuativi.

Mipaaft: per l’olio di oliva nuovi provvedimenti di riconoscimento e controllo

La prima disposizione “in materia di riconoscimento e controllo delle organizzazioni di produttori del settore olio di oliva e delle olive da tavola e le loro associazioni”, rende più chiare le modalità per l’attuazione del Regolamento Omnibus sulle attività delle Organizzazioni di produttori, sia per quanto riguarda la loro revoca, sia per la deroga dei requisiti di riconoscimento per calamità naturali, condizioni climatiche avverse o casi di infezione da Xylella, il batterio che talvolta colpisce gli ulivi.

Il secondo provvedimento riguardante “disposizioni nazionali concernenti i programmi di sostegno al settore olio di oliva e olive da tavola”, e su cui è stata raggiunta l’intesa in Conferenza Stato Regioni, posticipa al 15 luglio di ciascun anno il termine entro il quale le amministrazioni, competenti al riconoscimento delle organizzazioni e delle associazioni di produttori olivicoli, dovranno trasmettere all’Agea i risultati sui controlli svolti per accertare il mantenimento dei requisiti indispensabili per accedere ai programmi di sostegno.

Donald Trump non venderà gli F-35 alla Turchia

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha confermato che gli Stati Uniti non venderanno aerei da combattimento F-35 alla Turchia, dopo che Ankara ha confermato l’acquisto del sistema di difesa missilistica S-400 dalla Russia.

“E’ una situazione molto difficile quella in cui si trovano ed è una situazione molto difficile quella in cui sono stati messi gli Stati Uniti. Detto tutto ciò, ci stiamo lavorando, vedremo cosa accadrà. Ma non è davvero giusto”, ha commentato Trump.

Il Pentagono sostiene che la presenza degli S-400 sul suolo turco sia incompatibile con quella di altri sistemi d’arma Nato, poiché la Russia potrebbe ottenere informazioni cruciali sulla vulnerabilità degli F-35. Al momento Washington non ha ancora risposto alla proposta di Ankara di istituire una commissione tecnica per risolvere la disputa.

Lo scorso 6 giugno il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha riferito di aver dichiarato agli Stati Uniti che la Turchia era disposta ad acquistare il sistema Patriot, di produzione statunitense, dopo la consegna degli S-400 e in caso di un’offerta economica alla pari di quella di Mosca,

Arrivederci Andrea

Andrea Camilleri, scomparso ieri all’età di 93 anni, è stato una delle figure più prolifiche del panorama artistico-culturale dell’ultimo secolo, attraversando diverse forme di narrazione con lo stesso successo per oltre 60 anni: dalla sceneggiatura alla regia televisiva e teatrale, dalla saggistica alla narrativa.

Titoli come Il birraio di Preston (1995) (quasi 70.000 copie vendute), La concessione del telefono e La mossa del cavallo (1999) vanno a ruba, mentre la serie televisiva su Montalbano, interpretato da Luca Zingaretti, ne fa ormai un autore cult. Nel 2001 viene pubblicato il romanzo Il re di Girgenti, ambientato nel Seicento, interamente scritto in siciliano inframmezzato con lo spagnolo.

Alla fine del 2002 accetta la nomina di direttore artistico del Teatro Comunale Regina Margherita di Racalmuto, inaugurato nel febbraio 2003 alla presenza del Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi.

Pubblica, sempre con Sellerio, altri romanzi: nel 2004 La pazienza del ragno, nel giugno 2005 La luna di carta: tutti con protagonista Salvo Montalbano. A marzo 2005 viene edito Privo di titolo. Tra il 2006 e il 2008, pubblica altri cinque romanzi che hanno per protagonista Montalbano: La vampa d’agosto, Le ali della sfinge, La pista di sabbia, Il campo del vasaio, L’età del dubbio. Nel 2007 vince il Premio letterario “La Tore – Isola d’Elba”.

Il 2009 incomincia con il romanzo La danza del gabbiano, vincitore nello stesso anno della XXVI edizione del Premio Cesare Pavese. Tutti presso Sellerio nella collana La Memoria, fondata da Leonardo Sciascia.

Nel 2010 nella stessa collana escono i successivi romanzi di Montalbano, La caccia al tesoro e Il sorriso di Angelica, ai quali si affianca un terzo romanzo, Acqua in bocca, pubblicato da minimum fax. Scritto insieme con Carlo Lucarelli nella forma “epistolare” già sperimentata con successo ne La scomparsa di Patò, il romanzo vede per la prima volta il commissario Montalbano interagire con un altro investigatore letterario, l’ispettore Grazia Negro creata appunto da Lucarelli.

Il filone narrativo del Commissario Montalbano è destinato a una conclusione in quanto nel 2006 Andrea Camilleri ha consegnato all’editore Sellerio l’ultimo libro con il finale della storia, chiedendo che questo venisse pubblicato dopo la sua morte; dichiarerà in proposito:

«Ho scritto la fine dieci anni fa… ho trovato la soluzione che mi piaceva e l’ho scritta di getto, non si sa mai se poi arriva l’Alzheimer. Ecco, temendo l’Alzheimer ho preferito scrivere subito il finale. La cosa che mi fa più sorridere è quando sento che il manoscritto è custodito nella cassaforte dell’editore… È semplicemente conservato in un cassetto.»

Aids, 1,7 milioni di nuovi casi nel 2018

Nel 2018 nel mondo ci sono state 770mila morti per Aids, un numero in calo rispetto all’anno precedente ma ancora troppo alto per raggiungere gli obiettivi di eradicazione della malattia.

Lo afferma il rapporto Unaids presentato oggi a Durban, in Sudafrica, secondo cui 37,4 mln di persone vivono con l’Hiv e le nuove infezioni sono state 1,7 milioni.

I morti sono appena 30mila in meno rispetto al 2017, con l’obiettivo di arrivare a 500mila totali entro il 2020 che resta lontano. Pure i nuovi casi calano molto lentamente.

“Con Ursula von der Leyen vince l’europeismo”

  • Intervista già apparsa sulle pagine dell’huffingtonpost a firma di Angela Mauro

Oggi abbiamo capito questo: chi è fuori dal gioco europeista, gioca in serie B. Per giocare in serie A, invece, devi stare nello schema europeista”. Nel suo studio al 15esimo piano del Parlamento europeo con vista mozzafiato su Strasburgo, David Sassoli è soddisfatto della giornata di oggi, cruciale per l’inizio della nuova legislatura. Il Parlamento ha votato Ursula von der Leyen presidente della Commissione europea, seppure con soli 9 voti di scarto (383 sì su una maggioranza di 374). Non era scontato. Ma soprattutto non era scontato che l’aula si esprimesse con una maggioranza composta da forze europeiste, scongiurando il rischio, reale fino a due giorni fa, che la nuova guida di Palazzo Berlaymont ricevesse l’ok dei sovranisti. E’ da questo dato che il presidente del Parlamento europeo parte, in questa intervista in cui ci spiega che lo stesso gioco europeista regolerà il voto del Parlamento sui commissari della squadra von der Leyen. Difficile insomma che passi un commissario sovranista, per esempio un leghista. Sassoli non lo dice esplicitamente, ma il suo ragionamento è questo: la nuova presidente dovrà “presentare dei commissari che tengano fede agli impegni che lei ha assunto in Parlamento. Il suo collegio dovrà avere un’omogeneità al suo interno sui punti programmatici su cui lei ha assunto degli impegni. Se i commissari vanno in ordine sparso l’iniziativa della commissione sarebbe più debole”. Consiglio per l’Italia? “Rientrare nella dinamica europeista, questa è la sua vocazione”.

Presidente Sassoli, solo fino a qualche giorno fa sembrava che von der Leyen attraesse più i voti dei sovranisti che quelli degli europeisti. Come si è arrivati al risultato di oggi?

Ascoltare il Parlamento fa bene. Le proposte sono state precisate in questa settimana. Il discorso di von der Leyen stamane in aula ha raccolto tanti umori del Parlamento: dall’immigrazione, ai temi della solidarietà, della stabilità e flessiblità fino alla grande proposta di riconciliarsi con il metodo degli Spitzenkandidaten (i capolista dei partiti che alle elezioni erano candidati per la guida della Commissione, von der Leyen non era candidata, ndr.) che è stato tradito, avviando una conferenza interistituzionale che possa precisare gli strumenti della democrazia. E poi ha accolto una grande richiesta del Parlamento di rafforzare il suo potere di iniziativa. Von der Leyen lo ha detto chiaramente: quando il Parlamento proporrà a larga maggioranza, io darò seguito alle sue iniziative. Ecco, questo cambia molto la scena e rafforza il Parlamento.

Solo la scorsa settimana la presidente designata faceva trattative con tutti, senza badare ai colori politici né al tasso di europeismo dei partiti. Cosa le ha fatto cambiare idea?

Diciamo che si è guardata intorno, ha ascoltato, ha capito e ha precisato le sue proposte. C’è stata una vera negoziazione col Parlamento. Ha incontrato tutti i gruppi, ha messo in chiaro le proposte, le ha scritte, ha ricevuto le priorità dei gruppi europeisti e ha precisato anche quale è il punto di caduta in Parlamento degli interlocutori che in qualche modo hanno deciso di sostenerla: sono le forze che hanno vinto le elezioni, le forze europeiste. E’ stato un percorso trasparente, fatto di interventi pubblici, assemblee, incontri, twitter, post su facebook, interviste; un percorso in cui di segreto e riservato non c’è stato nulla.

Alla fine von der Leyen ha scelto il campo europeista. Si può dire che il ‘cordone sanitario’ anti-sovranista ha funzionato?

Il Parlamento ha fatto delle scelte politiche. Quella di ‘cordone sanitario’ è una bruttissima espressione. Non si tratta di escludere nessuno, ma si è trattato di un percorso democratico e trasparente, come avviene in tutti i Parlamenti d’Europa. Non mi risulta che a Montecitorio si faccia in maniera diversa e che la maggioranza italiana abbia fatto in maniera diversa. Si fa il presidente se si ha il consenso per farlo. Credo che stamane lei sia stata molto chiara in aula: voglio lavorare con le forze che vogliono un’Europa più forte. E poi ha rifiutato i voti sovranisti con una battuta al leader dell’Afd, l’eurodeputato Meuthen…

Il metodo europeista dunque bloccherà la nomina di candidati sovranisti per la squadra dei Commissari guidata da von der Leyen?

Il voto di oggi non è un voto sulla Commissione ma per iniziare il percorso sulla Commissione. A settembre ci aspettiamo che ci siano nomi e cognomi per fare le audizioni dei commissari e formare il collegio. Poi il Parlamento darà il suo giudizio finale sulla Commissione. Oggi abbiamo capito che chi è fuori dal gioco europeista, gioca in serie B. Per giocare in serie A, devi stare nello schema europeista che in questo caso viene fuori dal risultato elettorale perché i cittadini non hanno premiato le forze che vogliono meno Europa, ma le forze che vogliono un’Europa più forte, protagonista sulla scena internazionale, che affronti i nodi strutturali della democrazia europea ma per renderla più forte e non più debole. Chi partecipa a questo gioco, gioca in Champions. Gli altri giocano in serie B.

Nel governo italiano i cinquestelle l’hanno capito: hanno votato sì a von der Leyen…

Io penso che l’Italia debba rientrare nella dinamica europeista, questa è la sua vocazione. Ogni volta che l’Italia gioca in Europa può anche vincere e far valere le sue idee. Se naturalmente si sottrae, abbiamo visto che può diventare un problema. Tra l’altro questo vale per tutti i governi e per tutti i commissari che arriveranno qui. Devono essere all’altezza di una legislatura che deve iniziare per rendere più forte l’Europa. E mi auguro anche il mio paese lo possa fare. Del resto è un bene se più gruppi si aggiungono con chiarezza a chi vuole un’Europa più forte. Von der Leyen ha detto una cosa precisa: il punto di caduta della sua iniziativa in Parlamento saranno le forze che vogliono un’Europa più forte.

Come sono state queste prime settimane alla presidenza?

Sono stato subissato da messaggi di tutto il mondo. Mi sono trovato in un frullatore acceso ad altissima velocità e in una fase complicata di avvio della legislatura, ma con un Parlamento molto orgoglioso e con tanti parlamentari nuovi, tanti presidenti di gruppo nuovi, molti non si conoscono nemmeno tra loro. C’è una dinamica anche inedita, spesso difficile da interpretare se uno non è dentro il gioco parlamentare. Mi sono trovato buttato nella mischia. Io ho una funzione di garanzia in difesa delle prerogative del Parlamento, però non sono stato votato da tutti. Penso che un Parlamento europeo forte sia quello che serve per un’Europa più forte.

Abbiamo parlato dei lati positivi di von der Leyen, ne avrà di negativi. Quali? In fondo lei ha ricevuto il placet dei paesi di Visegrad, che tanti problemi creano all’Europa unita.

Dovrà presentare dei commissari che tengano fede agli impegni che lei ha assunto in Parlamento. La Commissione ha anche un’iniziativa politica. Avere una omogeneità nel collegio sui punti programmatici su quali lei ha assunto degli impegni è fondamentale. Se i commissari vanno in ordine sparso, l’iniziativa della commissione sarebbe più debole.

Anche se in questa fase von der Leyen può promettere la qualunque e poi se le proposte non passano può dare la colpa agli Stati membri. E’ successo col piano Juncker sulle relocations dei migranti…

Abbiamo bisogno di una Commissione che scommetta sulla solidarietà tra i paesi. Poi sappiamo che i meccanismi non sono solo in mano alla Commissione. Per esempio la politica sull’immigrazione continua a essere nazionale, abbiamo bisogno di trasferire la politica dell’immigrazione all’Europa. Ecco perché ho fatto riferimento alla riforma del regolamento di Dublino perché è un modo per dotare l’Europa di alcuni strumenti operativi. Se arrivi in Italia, arrivi in Europa e quindi l’Ue se ne deve far carico. Ma se questa riforma non si sviluppa, se i trasferimenti di poteri dal piano nazionale all’Europa non avvengono, di quella gente chi se ne deve occupare? Se ne può occupare solo l’Italia, la Grecia o la Spagna, insomma i paesi del confine sud dell’Europa. La Commissione può fare molto, ma non può fare tutto. Però certamente avere una Commissione che si pone il problema di spingere per una maggiore solidarietà è importante.

Qui l’intervista completa

Rete Bianca, quale proposta?

Impossibilitato a partecipare all’incontro di Rete Bianca, in programma a Roma (Palazzo della Cooperazione, Via Torino 146,  lunedì 22 luglio, con inizio alle ore 15.00), l’ex Ministro della Salute ha voluto consegnare questa sui contributo scritto, che volentieri pubblichiamo.

Ringrazio i promotori per l’invito a prendere la parola quest’oggi e per la cortesia di accogliere un breve testo scritto, nell’impossibilità da parte mia di posticipare un impegno universitario all’estero che inizia proprio oggi e che era fissato da molti mesi. 

Ci riunisce qui una duplice consapevolezza: in primo luogo, che il concorso da parte nostra, cioè da parte dell’ispirazione cattolico-democratico, alla determinazione della politica nazionale non è mai stato così modesto nell’esperienza repubblicana; in secondo luogo, che di questo concorso c’è bisogno oggi più che mai, per contrastare derive autoritarie e disgregazione civile. 

Avvertiamo tutti l’importanza di collegarci e coordinarci. Sta altresì crescendo la consapevolezza di dovere evitare tentazioni di primogeniture e di posizionamenti, comportamenti che appartengono a epoche e contesti ormai lontani. E altresì di dovere evitare nostalgismi, in parte comprensibili almeno per i meno giovani tra noi e che tuttavia sono da rifuggire con decisione, salvo decidere di dare vita non a un movimento politico, ma a circoli storico-culturali, sempre utili, ma che non risponderebbero all’esigenza di un concorso diretto e forte alla vita politica. 

Tra i nostalgismi, includo anche le ricorrenti discussioni sull’introvabile centro politico, sul suo essere luogo di moderazione e non di moderatismo, sulla sua strutturale non confessionalità e apertura a idealità diverse. Discussioni – che forse sarebbe meglio chiamare disquisizioni – che testimoniano certo il nostro attaccamento a una storia, ai suoi simboli e ai suoi personaggi, ma che presuppongono un contesto assai diverso rispetto all’attuale e altresì un radicamento e un’attitudine popolare profondamente differenti da quelli odierni: un’ispirazione politica caratterizzata dalla valorizzazione dei corpi intermedi non può avere il medesimo impatto in un contesto nel quale questi ultimi si sono profondamente indeboliti e trasformati, anche in ragione di un deliberato attacco concentrico nei loro confronti. 

Non voglio dire che non vi sia un problema di posizionamento politico o che l’antico asse destra- sinistra abbia del tutto perduto interesse. 

La destra continua a esserci, a livello italiano e a livello internazionale, nella sua ormai prevalente declinazione estremista, populista e arrogante che coniuga l’attaccamento a un modello di sviluppo economico arcaico e pericoloso (basti pensare alle sue conseguenze, sistematicamente sottovalutate, in tema di emergenza ambientale) con una prassi politica e un linguaggio che mette al centro la costruzione di un nemico e la creazione di un fittizio e strumentale richiamo identitario. Oggi il nemico sembra essere prevalentemente il migrante, ma non è difficile scorgere, neanche tanto in filigrana, che il vero nemico di questa destra internazionale e interna è il Vescovo di Roma. E dunque anche noi, nella misura in cui proprio la nostra storia ci porta naturalmente a privilegiare, pur nell’autonomia delle scelte politiche, quei principi e quei sentimenti che questo pontificato ha rimesso all’attenzione di tutti. 

Quanto all’offerta politica attuale nel nostro Paese, diversa da quella appena ricordata, la sensazione largamente dominante in noi (ed è questa sensazione che ha dato al centenario dell’appello sturziano una connotazione non soltanto simbolica) è quella della sua inadeguatezza. 

La costruzione di un movimento politico che voglia colmare tale inadeguatezza dovrebbe tuttavia tenere in attenta considerazione il contesto appena sintetizzato, e dunque evitare di saltare qualche passaggio. 

Il primo passaggio da non saltare è la costruzione di una condivisione politico-programmatica, che non può essere data per scontata o limitarsi a profili di carattere generale. Nel grande cambiamento che attraversiamo, vi sono evidenze che hanno cessato di essere tali e che dunque vanno rideclinate, vi sono sentieri inediti da percorrere, vi sono pratiche sociali da attivare. 

Per brevità (e non certo perché lo voglia portare a modello!) faccio un cenno all’itinerario che, dallo scorso gennaio abbiamo avviato ad Alessandria e provincia, dando vita a un percorso chiamato Impegno 

Liberi e Forti, che ha visto convenire persone provenienti da diversi centri della provincia e che ha individuato come primo tema di proposta politica quello dell’immigrazione. Utilizzando principi e strumenti di democrazia deliberativa, il percorso si è snodato attraverso molteplici momenti sfociati poi in una proposta che è stata in un primo momento rappresentata all’autorità prefettizia locale e che sarà oggetto di diffusione e di condivisione nei prossimi mesi, concernete: 1) le attività di integrazione dei migranti in corso nella provincia, 2) le iniziative di cooperazione internazionale attivate da realtà territoriali, 3) la comunicazione del fenomeno offerta dai media locali. 

Fulcro della proposta è il cosiddetto “punto a punto”, che mette in collegamento i migranti presenti sul territorio con il loro territorio di origine, e che dunque tiene insieme integrazione e cooperazione, attribuendo realmente un ruolo attivo alle comunità locali e uscendo dalla logica del “piccolo aiuto”, che rischia di avere uno scarso impatto e non attivare realmente progetti virtuosi di sviluppo. Alla prefettura si chiede di promuovere sedi stabili di coordinamento e confronto tra istituzioni, operatori, associazioni impegnate nel sistema dell’accoglienza dei migranti sul territorio, anche attraverso la riattivazione in forma allargata del Consiglio territoriale per l’immigrazione, quale sede per ridisegnare una geografia dei soggetti impegnati nel settore e per favorirne l’interazione, nel rispetto e nella distinzione dei ruoli. 

Ambiente, lavoro, rapporto con l’Europa e cambiamenti istituzionali saranno i temi oggetto di proposta nei prossimi mesi, con metodi analoghi a quelli sperimentati sul tema dei migranti. 

Collegare e coordinare quanto si sta facendo in tanti luoghi d’Italia secondo intenzioni e approcci non dissimili da quello ora brevemente evocato è allora uno dei nostri obiettivi prioritari. Prima di organigrammi, posizionamenti e alleanze sta la condivisione di alcune risposte politiche alle paure e alle domande dei nostri concittadini. 

Inflazione: Istat, a giugno si conferma ancora su livelli bassi.

Nel mese di giugno 2019, si stima che l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), al lordo dei tabacchi, registri un aumento dello 0,1% rispetto al mese precedente e dello 0,7% su base annua (era +0,8% a maggio); la stima preliminare era +0,8%.

La lieve decelerazione dell’inflazione è dovuta principalmente all’inversione di tendenza dei Beni energetici non regolamentati (che passano da +2,4% a -0,6%) e all’ampliarsi della flessione di quella dei Beni durevoli (da -1,2% a -1,9%). Questi andamenti sono stati in parte mitigati dalla crescita dei prezzi dei Servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (da +1,0% a +1,3%) e dall’attenuazione della flessione di quelli dei Servizi relativi alle comunicazioni (da -7,2% a -5,9%).

L’“inflazione di fondo”, al netto degli energetici e degli alimentari freschi e quella al netto dei soli beni energetici rimangono entrambe stabili, rispettivamente a +0,4% e a +0,5%.

Il lieve aumento congiunturale dell’indice generale è dovuto per lo più alla crescita dei prezzi dei Servizi relativi ai trasporti (+2,1%), su cui incidono fattori stagionali, e che prevale sul calo dei prezzi dei Beni alimentari non lavorati (-1,1%), dei Beni durevoli (-0,8%) e dei Beni energetici non regolamentati (-0,7%).

Cattolici e politica, attenti alle divisioni

Fonte servire l’Italia a firma di Agostino Giovagnoli  docente di Storia contemporanea, facoltà di Lettere e filosofia. 

Ai liberi e ai forti”. Anzitutto per queste parole, che ne costituiscono l’incipit, appare oggi molto attuale l’Appello lanciato, cento anni fa, dai fondatori del Partito popolare. Fin all’inizio del 2019 questo centenario è stato celebrato da molte parti e spesso con convinzione. Ed è significativo che anche l’Università Cattolica del Sacro Cuore senta il bisogno di ricordare la fondazione del Ppi. Padre Gemelli, infatti, non condivideva l’impianto aconfessionale del partito sturziano (ma poi ha sostenuto la Dc che ne è stata la prosecuzione). Oggi, però, tutti i cattolici italiani guardano positivamente a quella esperienza e ne considerano attuale la lezione. Queste celebrazioni, tuttavia, sono state accompagnate anche da qualche nostalgia e da alcune incertezze. Nostalgia, perché il Partito popolare ha rappresentato un’esperienza luminosa, benché sfortunata, con cui i cattolici italiani sul piano politico hanno dato il meglio. Ma anche incertezza perché evocare il Ppi significa evocare una prospettiva della cui realizzabilità nessuno appare sicuro: quella di un impegno diretto dei cattolici in un partito politico. Da quando è finita la Democrazia cristiana, nel 1994, i motivi contro questa prospettiva sono apparsi superiori a quelli a favore. Nel tempo questa esperienza è stata ampiamente rivalutata. Ma, soprattutto tra vescovi e parroci, continua a prevalere la convinzione che la politica divida e che non convenga sostenere questa o quella iniziativa politica promossa da una parte dei cattolici, in cui certamente un’altra parte non si ritroverebbe. 

In realtà, le divisioni veramente pericolose sono quelle che vengono dall’esterno. È accaduto proprio con Sturzo, la cui iniziativa è stata fermata da una parte del mondo cattolico, abilmente manovrata da una forza estranea in grado di utilizzare strumentalmente temi cari ai cattolici. Le conseguenze, per la Chiesa e per il paese, sono state terribili. Consapevoli di questa pesante lezione, nel secondo dopoguerra Pio XII e i suoi collaboratori, in particolare monsignor Giovanni Battista Montini (poi Paolo VI), hanno sostenuto con convinzione la Democrazia cristiana anche se inizialmente tra i cattolici c’era chi sosteneva altri partiti e successivamente c’era chi avrebbe voluto creare un’alternativa alla Dc. Tutto ciò può sembrare molto lontano, ma le situazioni cambiano rapidamente. Pochi giorni fa, il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Gualtiero Bassetti, ha dichiarato che «staccare i fedeli dal Papa è una manovra sbagliata e controproducente» e ha aggiunto che «non basta dirsi cattolici per diventare De Gasperi». Anche oggi, insomma, ci sono forze che vogliono dividere i cattolici, mascherandosi da sinceri cattolici, come De Gasperi, senza esserlo. Se le cose stanno così, il problema si rovescia: non si tratta di evitare che i cattolici si dividano sulla base di scelte politiche diverse – che non incrinano certamente il nucleo centrale della loro fede – ma di respingere iniziative che dall’esterno possono dividerli pericolosamente – giungendo fino a toccare persino quel nucleo. Come è avvenuto nel primo dopoguerra. Non fu Sturzo, allora, a sbagliare né gli altri “liberi e forti” che lo seguirono, ma coloro che ebbero troppa paura di manovre insidiose e di minacce pesanti. A volte, prendere iniziative che possono anche non raccogliere subito un consenso unanime è l’unico modo per evitare divisioni più profonde e conseguenze più pesanti. Ma è necessario saper essere veramente liberi e forti: ecco la grande attualità dell’Appello di cento anni fa. 

Vacanza, l’85% degli italiani parte nonostante il meteo

Non cambia la propria decisione di partire anche in caso di previsioni sfavorevoli la stragrande maggioranza dell’85% degli italiani che consulta il meteo prima di mettersi in viaggio per le vacanze estive. E’ quanto emerge da una indagine Coldiretti/Ixè in occasione del weekend di grandi partenze sull’impatto delle condizioni climatiche sulle vacanze nell’estate 2019.

Più di 3 italiani su quattro (77%) – sottolinea la Coldiretti – cercano informazioni in televisione, alla radio sui giornali e on line sulle condizioni del tempo per il viaggio, ma raramente sono disponibili a cambiare i comportamenti programmati. Il risultato è che le giornate estive segnate dal bollino rosso – precisa la Coldiretti – sono influenzate dal maltempo o dalla grandine solo marginalmente. Un comportamento che dipende tra l’altro dalla lunghezza delle vacanze mentre – precisa la Coldiretti – il discorso cambia totalmente nel caso di spostamenti in giornata nei quali sole e caldo sono determinati nella decisione.

La durata media della permanenza fuori casa dei 39 milioni di italiani in vacanza nell’estate 2019 è stimata in 11,4 giorni con più di un italiano su cinque (21%) che – riferisce la Coldiretti – starà fuori un periodo compreso tra 1 e 2 settimane, ma c’è un fortunatissimo 3% che rientrerà a casa addirittura dopo oltre un mese. Se è il mare a fare la parte del leone per 7 italiani su 10 (70%), seguito dalla montagna, si assiste – precisa la Coldiretti – alla ricerca di alternative meno affollate con la campagna e i laghi. La spesa media destinata dagli italiani alle vacanze estive è di 779 euro per persona in aumento del 5% rispetto allo scorso anno. Un terzo degli italiani (33%) – sottolinea la Coldiretti – resterà comunque al di sotto dei 500 euro di spesa, il 42% tra i 500 e i 1000 euro, il 18 % tra i 1000 ed i 2000 euro mentre percentuali più ridotte supereranno questo limite.

Oltre la metà degli italiani in viaggio – continua la Coldiretti – ha scelto di alloggiare in case di proprietà, di parenti e amici o in affitto, ma nella classifica delle preferenze ci sono nell’ordine anche alberghi, bed and breakfast, villaggi turistici e gli agriturismi che nelle 23mila strutture fanno segnare un aumento del 3% rispetto allo scorso anno grazie alla qualificazione e diversificazione dell’offerta, ma anche all’ottimo rapporto tra prezzi/qualità. Per individuare la struttura migliore il consiglio è di rivolgersi – spiega la Coldiretti –  a siti come www.campagnamica.it o scaricando la nuova App di Campagna Amica che permette di scegliere le strutture dove poter soggiornare nei più bei paesaggi della campagna italiana, i mercati di Campagna Amica, le fattorie e le botteghe dove poter comprare il vero made in Italy agroalimentare, a partire dai Sigilli, i prodotti della biodiversità salvati dall’estinzione, ma anche i ristoranti che offrono menù con prodotti acquistati direttamente dagli agricoltori.

Il Cdm analizza dati, dinamiche e prospettive dei flussi migratori

Dagli elementi a disposizione è emerso che rispetto allo scorso anno vi stato una rilevante diminuzione degli sbarchi sulle nostre coste. A tale proposito è stato concordato che il Governo italiano contribuirà a offrire ulteriore sostegno alla Guardia costiera libica in termini di risorse materiali e di training. In relazione al continuo flusso di piccole imbarcazioni che arrivano nel nostro Paese dalla Tunisia, inoltre, dopo le interlocuzioni dei ministri Salvini e Moavero con i rispettivi omologhi tunisini, anche il premier Conte ha annunciato che avvierà un dialogo aperto con il primo ministro tunisino, Youssef Chahed, per concordare un’azione di intensificazione delle attività di sorveglianza delle coste tunisine e per cercare di rafforzare gli accordi di rimpatrio già esistenti.

E’ stato convenuto, altresì, d’insistere nelle varie sedi europee per ottenere un efficace meccanismo di redistribuzione dei migranti che sbarcano in Italia. Istanza, questa, che verrà rappresentata sia dal titolare del Viminale, Matteo Salvini, alla prossima riunione dei ministri degli Interni europei a Helsinki, sia dal titolare degli Affari esteri, Moavero, nella prossima riunione Ue, nonchè dallo stesso presidente Conte al prossimo Consiglio europeo utile. Nel corso della riunione è stato, infine, fatto il punto sugli emendamenti già presentati al decreto Sicurezza bis, che rafforzeranno ancora di più gli strumenti a disposizione per combattere i traffici illegali.

Al tempo stesso, in tema di immigrazione, è l’Unhcr a sottolineare la necessità di garantire maggiore assistenza ai circa 50.000 rifugiati e richiedenti asilo registrati e agli 800.000 migranti che vivono attualmente in altre aree della Libia, affinché le loro condizioni di vita migliorino, i diritti umani siano salvaguardati, e un numero minore di persone cada nelle reti della tratta di esseri umani. E’ necessario compiere ogni sforzo per impedire che le persone soccorse nel Mediterraneo siano fatte sbarcare in Libia, Paese che non può essere considerato porto sicuro, ribadisce l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.

In passato le imbarcazioni degli Stati europei che conducevano operazioni di ricerca e soccorso hanno salvato migliaia di vite, grazie anche alla possibilità di effettuare sbarchi in porti sicuri. Esse dovrebbero poter riprendere a svolgere questo compito vitale e si dovrebbe istituire con urgenza un meccanismo di sbarco temporaneo che consenta una condivisione di responsabilità a livello europeo. Le navi delle Ong hanno svolto un ruolo analogamente fondamentale nel Mediterraneo e non devono essere penalizzate per il soccorso di vite in mare. Alle imbarcazioni commerciali non deve essere chiesto di ricondurre in Libia i passeggeri soccorsi. La protezione di vite umane, insomma, deve rappresentare la priorità assoluta.

Huawei: “Investiremo in Italia 3,1 miliardi di dollari

il Ceo di Huawei Italia, Thomas Miao, durante un incontro con la stampa in occasione della sponsorizzazione della mostra ‘Leonardo mai visto’ al Castello Sforzesco ha dichiarato che : “Huawei investirà in Italia nei prossimi tre anni 3,1 miliardi di dollari (2,75 miliardi di euro) e creerà 1.000 posti di lavoro diretti più 2.000 di indotto”.

Miao ha parlato anche del 5G. L’azienda chiede al governo italiano “regole trasparenti” per l’applicazione del golden power in Italia.

“Al momento si applica solo ai fornitori non europei, invece, dovrebbe essere rivolto a tutti, perché la tecnologia è neutrale e non è legata a questioni geopolitiche”, ha detto aggiungendo che la tecnologia 5G è l’unica “infrastruttura sicura e affidabile” e si è detto “insoddisfatto” per il fatto che il governo abbia aumentato da 25 a 165 i giorni necessari per una idonea valutazione dei rischie possibili violazioni alla sicurezza nazionale.

Nello specifico, gli investimenti prevedono “1,9 miliardi di dollari in acquisto di forniture, 1,2 miliardi in marketing e operations e 52 milioni in ricerca e sviluppo”.

 

Torino: Per la prima volta in Italia impiantata una protesi aortica attraverso la carotide

Per la prima volta in Italia nei giorni scorsi è stata impiantata una protesi aortica con un intervento innovativo attraverso la carotide su un uomo di 53 anni. L’intervento è stato effettuato alle Molinette di Torino dalle équipe coordinate da Mauro Rinaldi (Direttore di Cardiochirurgia universitaria) e da Gaetano Maria De Ferrari (neo Direttore della Cardiologia universitaria, appena arrivato dal Policlinico di Pavia) dell’ospedale Molinette, in particolare dai cardiochirugi, Stefano Salizzoni e Michele La Torre; dai cardiologi interventisti Maurizio D’Amico e Federico Conrotto, e dal chirurgo vascolare Fabio Verzini.

Il paziente, sottoposto tre volte a settimana a dialisi per una malattia congenita, aveva anche una grave malattia cardiaca che non permette l’inserimento in lista per il trapianto.

Si pensa pertanto di operare l’uomo con una TAVI,ossia impiantando una valvola aortica passando attraverso l’arteria femorale della gamba, tecnica ormai diventata tradizionale. Ma i tanti anni di dialisi hanno rovinato le arterie periferiche e l’aorta, rendendo impossibile l’intervento con gli accessi normalmente utilizzati.

Grazie però al lavoro di squadra dell’Heart Team tra cardiochirurghi, cardiologi, cardioanestesisti, chirurghi vascolari è stato possibile, per la prima volta in Italia, eseguire l’intervento passando dal collo, attraverso l’arteria carotide, e con il paziente sveglio grazie all’anestesia locoregionale.

Perché Sant’Egidio si è espressa contro lo sgombero delle persone a Primavalle

Roma, 15 lug. (askanews) - Di fronte allo sgombero dell`ex scuola di via Cardinale Capraia, avviato la notte scorsa, la Comunità di Sant`Egidio lancia un appello perché non si ripetano più scene come quelle a cui si è assistito nelle ultime ore. Condannando ogni forma di violenza, si resta convinti che solo con il dialogo - e non con esibizioni di forza - si possano trovare soluzioni concordate e dignitose per chi occupa, per necessità alloggiative, alcuni edifici della capitale. Nel caso di Primavalle si trattava di famiglie residenti ormai da anni in quello stabile, con genitori in gran parte inseriti nel mondo del lavoro e bambini (tanti) iscritti nelle scuole di quella zona della città, che ora si troveranno di fronte a immaginabili difficoltà per il trasferimento in un altro quartiere. Di fronte ad un`emergenza abitativa, che nella Capitale ha dimensioni preoccupanti e tocca tantissime famiglie, forse più che il grande dispiegamento di forze a cui si è assistito ci si attenderebbe uno sforzo maggiore da parte di tutte le istituzioni pubbliche per trovare risposte adeguate - e meno costose per la collettività - che siano rispettose della dignità delle persone, degli adulti in difficoltà, ma soprattutto dei minori ai quali non giova certo assistere a situazioni del genere. (Foto diffusa via social dalla Comunità di Sant'Egidio).

Fonte Askanews

Di fronte allo sgombero dell’ex scuola di via Cardinale Capraia, avviato la notte scorsa, la Comunità di Sant’Egidio lancia un appello perché non si ripetano più scene come quelle a cui si è assistito nelle ultime ore. Condannando ogni forma di violenza, si resta convinti che solo con il dialogo – e non con esibizioni di forza – si possano trovare soluzioni concordate e dignitose per chi occupa, per necessità alloggiative, alcuni edifici della capitale. Nel caso di Primavalle si trattava di famiglie residenti ormai da anni in quello stabile, con genitori in gran parte inseriti nel mondo del lavoro e bambini (tanti) iscritti nelle scuole di quella zona della città, che ora si troveranno di fronte a immaginabili difficoltà per il trasferimento in un altro quartiere.

Di fronte ad un’emergenza abitativa, che nella Capitale ha dimensioni preoccupanti e tocca tantissime famiglie, forse più che il grande dispiegamento di forze a cui si è assistito ci si attenderebbe uno sforzo maggiore da parte di tutte le istituzioni pubbliche per trovare risposte adeguate – e meno costose per la collettività – che siano rispettose della dignità delle persone, degli adulti in difficoltà, ma soprattutto dei minori ai quali non giova certo assistere a situazioni del genere.

La logica paradossale del Vangelo in risposta al rischio della disumanità. Intervista a Chiara Giaccardi

Articolo già pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Monda

Portare «il messaggio dell’eccedenza» in una società dominata dal «messaggio dell’eccesso», ricordando che chi vuol trattenere la propria vita la perde, mentre «chi è disposto a perderla la riceve moltiplicata!». Per Chiara Giaccardi, professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università Cattolica di Milano e membro del comitato di direzione del mensile «donne, chiesa, mondo», è questo il contributo che ci si attende dalla Chiesa di fronte a una società sempre più impaurita e chiusa in se stessa. 

Giuseppe De Rita su queste pagine ha affermato che per il buon governo c’è bisogno di due autorità: una civile e una spirituale-religiosa. Quella civile garantisce la sicurezza, quella spirituale offre un orizzonte di senso. L’uomo ha bisogno di tutte e due le cose. Se invece si esclude una delle due, la società soffre, diventa schizofrenica. Quale potrebbe essere il ruolo della Chiesa nell’attuale situazione italiana?

L’ossessione sicuritaria è diventata un tratto quasi nevrotico della nostra società, che esprime una diffidenza e un rifiuto totale per tutto ciò che sfugge al controllo. Come insegna la psicanalisi, per il nevrotico vale solo la ripetizione e ciò che è conosciuto: l’inedito, tutto ciò che può interferire con le abitudini, diventa intollerabile. 

Sicurezza viene da sine-cura, senza preoccupazione. Ci sono due modi per alleggerire la preoccupazione: delegare ad altri il compito di controllare, e così evitare di coinvolgersi; oppure “prendersi cura”, e in questo modo correre un rischio che paradossalmente riduce il pericolo. In fondo l’ospite (hospes) è il nemico (hostis) di cui ci si prende cura (-pa), riducendo la distanza e le ragioni di rancore.

Una società incapace di prendersi cura (dei bambini, degli anziani, dei fragili) è una società che delega l’esercizio del controllo a scopo sicuritario, nello stesso tempo chiamandosi fuori dalle condizioni che determinano lo stato di criticità. Una società dove l’altro diventa una minaccia. Così si corre il rischio di far diventare permanente quello che Agamben chiamava “stato di eccezione”, dove la violenza (fisica, verbale, simbolica) è legittimata, così come la sospensione dei diritti più elementari, anche quelli conquistati nel tempo con fatica. Il rischio della disumanità è dietro ogni angolo della nostra vita quotidiana oggi.

Da una parte mi pare che quello dei migranti sia un capro espiatorio sul quale canalizzare il disagio delle classi sociali che più hanno risentito degli effetti collaterali di una globalizzazione che ha avvantaggiato pochi e prodotto tanta umanità di scarto, per evitare di affrontare questioni ben più cruciali. Siamo ben lontani da quella ecologia integrale di cui parla Papa Francesco nella Laudato si’, che è tuttavia sempre più necessaria. 

Non ci si è presi cura del pianeta, non ci si prende cura delle persone, la tecnoeconomia è il principale motore dello sviluppo e questo sta rendendo il mondo disumano.

Dall’altra parte c’è una questione antropologica urgente da affrontare: la società che non si prende cura è anche una società che non genera: una società stagnante dove alla fine prevalgono le logiche mortifere, la rassegnazione, la difesa contro gli altri, la violenza.

La sfida è proprio questa: riscoprire il movimento antropologico co-originario al consumo (mettere dentro), che è generare (mettere fuori, mettere al mondo). Oggi siamo educati solo al primo, che sembra la soluzione per tutte le questioni, dalla realizzazione di sé alla crescita economica. Ma quando viene assolutizzato, lo vediamo, si rovescia nel suo contrario. 

Mettere al mondo, dare inizio è un movimento “contributivo” altrettanto originario, che invece è poco raccontato e valorizzato (fuori da schemi ideologici). Per Hannah Arendt fare esistere qualcosa che non c’era, piuttosto che scegliere tra opzioni predeterminate, è il segno più alto della libertà umana. Un modo non individualistico di autorealizzazione che ha nell’unicità del fatto della nostra nascita la radice della propria possibilità.

La Chiesa oggi ha il compito di ricordarci (e testimoniare) che “tutto è connesso”, che accogliere l’embrione e il migrante sono due passi di uno stesso movimento: un sì a quella vita che sempre ci eccede, e portandoci fuori di noi ci libera e ci regala una pienezza che non sapremmo mai fabbricare. Romano Guardini scriveva che l’autonomia che consente la realizzazione di sé è sempre in rapporto con la totalità, mentre l’“autonomismo” che pretende di sciogliere i legami o di renderli irrilevanti alimenta solitudine, fragilità e allontana dalla vita.

Perché la vita ci porta sempre al di là di noi stessi e delle forme, pur indispensabili, che sappiamo costruire e che sono dunque sempre dinamiche e perfettibili. Una vita che mai può essere imbrigliata, posseduta, tantomeno trasformata in bandiera ideologica. Anche su questo la Chiesa ha il compito di vigilare. 

Ma soprattutto la Chiesa oggi ha da portare il messaggio dell’eccedenza (quel “di più” che ci arriva solo quando accettiamo il rischio della perdita, della morte: chi vuol trattenere la propria vita la perde, chi è disposto a perderla la riceve moltiplicata!) a fronte di quello dell’eccesso (un aumento quantitativo di tutto, per riuscire a provare quell’intensità che sempre sfugge se si pretende di dominare la vita). 

Entrambi i movimenti rispondono al bisogno di autotrascendenza tipico dell’essere umano (l’unico animale che non si accontenta di essere ciò che è, come scriveva Camus) ma solo il primo lo realizza, in modo sempre dinamico e mai dato una volta per tutte; il secondo lo anestetizza temporaneamente, per lasciarlo insoddisfatto alimentando i tratti più patologici della nostra società.

L’ossessione per la sicurezza tradisce un rifiuto della vita, mentre dichiara di proteggerla pretendendo di azzerare il rischio. Ma il “rischio zero” non esiste: è espressione ideologica, falsamente consolatoria e per di più incompatibile con la vita piena. Abbiamo ridotto il rischio alla sua faccia più negativa (il rischio di perdere qualcosa, in ultima istanza il rischio della morte) senza dimenticare che esso articola vita e morte in modo tale che la disponibilità ad accettare la perdita e la morte apre un orizzonte di “più vita”. 

Solo chi è disposto a rischiare la propria vita può trovarla. La vita vera è avventura. Lo scriveva Romano Guardini alla fine degli anni ’20 con parole di straordinaria attualità: «Tanto più viva si sperimenta la vita, quanto più libera sgorga da se stessa; quanto più essa è audacia e avventura; quanto più decisamente essa si regge su ciò ch’è sempre nuovo e mai prevedibile, libero da schema e da regola. Si sente espandere in ampiezza la vita nella misura in cui continuamente si arrischia. Nemica al borghese, che pretende sicurezze e ferme tradizioni e vie già percorse».

Invece una società che rimuove la morte e pratica in ogni ambito la misura stretta del calcolo costi-benefici non può che considerare il rischio solo come una minaccia di perdita, che vede l’altro come un pericolo, come chi ci può solo togliere qualcosa.

L’autorità civile che assolutizza il proprio compito sicuritario dimenticando lo spirito che è vita si trasforma in stato di polizia che rende la vita insicura per tutti, soprattutto per i più vulnerabili. La società che sogna il “rischio zero” è una società morta.

La società italiana oggi sembra dominata dal rancore. Da dove nasce questo rancore? In questa situazione emerge un dato che ha una sua ambiguità, anche inquietante, cioè il dato dell’identità come risposta alla globalizzazione ma una risposta che si colora di chiusura e violenza.

Il rancore non è che la reazione di chi ha compreso che le promesse della globalizzazione hanno avvantaggiato pochi a scapito di tanti. La forbice sociale si è allargata, moltissime persone hanno visto peggiorare le proprie condizioni. Cosa ancor più insopportabile a fronte delle retoriche cosmopolitiche tuttora forti e di una imminenza dell’uscita dalla crisi annunciata ma ben lontana dal realizzarsi. La reazione sovranista non è che un esito della disillusione di chi ha sperato di avanzare e si è trovato a retrocedere: se questo è l’effetto della globalizzazione meglio chiamarsi fuori: ciascuno per sé — tanto, peggio di così… 

Gli psicologi sociali parlano di senso di “deprivazione relativa” nella relazione tra gruppi diversi quando lo stato di soddisfazione di una persona o di un gruppo dipende meno dalle condizioni oggettive che dal confronto con altre persone o gruppi che vengono percepiti come maggiormente avvantaggiati nella situazione di comune difficoltà. Una sorta di “guerra tra poveri” insomma, che generalmente si accompagna alla logica del capro espiatorio: il gruppo ugualmente (o maggiormente) svantaggiato dalla situazione viene percepito come la causa dei mancati benefici. In questo caso non sarebbe la forma tecnoeconomica che la globalizzazione ha preso, bensì la presenza dei migranti a impedire a tanti di godere dei benefici che erano stati promessi. Ci sono forze politiche populiste che hanno tutto l’interesse a cavalcare questa insoddisfazione e alimentare questa “dislocazione” del malcontento per evitare di affrontare questioni reali e urgenti — in primis quella che Gael Giraud chiama la “transizione ecologica” — che richiederebbero nuovi equilibri e trasformazioni profonde che nessuno ha la forza e la visione per realizzare.

Una transizione che ha bisogno di tempo, mentre ora tutto è schiacciato sullo spazio dei confini, degli schieramenti, della contrapposizione tra blocchi irrigiditi. 

Nessun dialogo è possibile con queste premesse. Solo una dialettica bellica e sterile, incapace di costruire e volta semplicemente a distruggere l’avversario. La violenza verbale è legittimata dalle massime autorità dello stato, e sui social innesca molto più movimento e interazioni della comunicazione positiva. Anche su questo la Chiesa può avere un compito, che non è censorio né moralistico bensì costruttivo: “avete sentito… ma io vi dico”, la logica paradossale del Vangelo che esce dalle dicotomie dei luoghi comuni e riconfigura il livello della comunicazione, l’accoglienza del nemico che lo spiazza anziché la guerra per annientarlo sono tutti elementi tratti dal patrimonio della sapienza cristiana che oggi possono essere preziosissimi, indispensabili direi. E non solo per i credenti, ma per tutti.

Il Papa propone ormai da anni il tema anzi il metodo della sinodalità, cioè il camminare insieme, il conoscersi, il fare qualcosa insieme, alto e basso che si intrecciano armoniosamente. Si avverte però un po’ di fatica a capire bene come realizzare questa sinodalità all’interno della Chiesa e della società, come mai?

Papa Francesco viene dall’altra parte del mondo, da un cattolicesimo diversamente “inculturato”. Questo aspetto viene sottovalutato. A me, per esempio, colpisce come l’Islam cambi a seconda della cultura sulla quale si innesta, con differenze profonde, per esempio, tra Est Europa, Nordafrica, Centro Africa, Pakistan… Così è anche per il cattolicesimo. In Europa ha attecchito sulla cultura greca che ha senz’altro grandi meriti ma della quale conserva un certo dualismo, razionalismo, formalismo, una aspirazione alla perfezione (e immutabilità) della forma, un disprezzo per il divenire e la corporeità. Con non pochi problemi a comprendere pienamente il messaggio rivoluzionario dell’incarnazione. 

Papa Francesco proviene da una cultura diversa, dalla teologia del popolo, da una cultura dell’incarnazione appunto. Le critiche di “eresia” che gli vengono rivolte risentono moltissimo di questo pregiudizio culturale, di cui non si è per nulla consapevoli. A mia memoria è la prima volta che un pontefice subisce attacchi così pesanti dall’interno della sua stessa chiesa, e la forma eurocentrica che il cattolicesimo ha assunto, contraddicendo la sua vocazione universale (“tutto l’uomo e tutti gli uomini”, Caritas in veritate 55) ne è certamente almeno in parte responsabile. Peccato che in Europa il cattolicesimo sia in gravissima crisi, mentre è molto più vitale in America Latina e anche in Asia!

L’opzione decisa di Papa Francesco per il metodo della sinodalità è vista con sospetto da chi continua a guardare la Chiesa dallo specchietto retrovisore.

La scelta della sinodalità ha a che fare inevitabilmente con la questione della perdita: perdita di controllo, perdita di potere… Può essere letta (e lo è da qualcuno) in chiave solo negativa: per chi sogna il “rischio zero” anche nella Chiesa, quello della sinodalità è un tema fastidioso. Eppure vale anche per la Chiesa, oggi infragilita dalla secolarizzazione e dalla drammatica questione degli abusi (sessuali, finanziari, di potere), il monito evangelico che chi vuol salvare la propria vita la perde, e solo chi è disposto a perderla la trova moltiplicata. Difendersi è come sotterrare i talenti per paura di perderli.

Quella della sinodalità è al contrario una via per ritrovare la vita accettando il rischio della perdita. Un modo di “scommettere” (nel senso pascaliano) sulla vita, che eccede sempre tutti gli sforzi di “metterla in sicurezza”.

Ai tentativi difensivi che irrigidiscono la dimensione dottrinale e sognano di restaurare il potere della Chiesa, Papa Francesco risponde con il metodo del camminare insieme, dell’inclusione, del coinvolgimento, dell’attribuzione di responsabilità. E, parallelamente, dell’alleggerimento delle strutture e degli apparati che, nati per tutelare, rischiano invece di soffocare.

È un’autorità generativa quella che fa crescere, “autorizza” a farsi compartecipi del cammino di rinnovamento della chiesa, invita a prendere iniziative tenendo conto del passo dei più fragili. Un’autorità capace di “lasciar andare”: movimento senza il quale il generare si volge in dominio mortifero.

In fondo è in gioco il tema della libertà, un nodo da sempre spinoso per la Chiesa. Eppure Dio ha creato l’uomo libero, e solo alla nostra libertà fa appello il suo invito. Il movimento dell’affidarsi (perché la fede è affidamento — da fides, legame, da cui anche fiducia, fedeltà…), dello scegliere liberamente a cosa legare la nostra vita, entrando in una relazione che nutre ogni altro legame: è questo il senso della fede oggi, cui Papa Francesco ci richiama. La fede come “affidamento”, una relazione intima che ci costituisce dal di dentro, come quella coi genitori e i fratelli, e ci porta oltre noi stessi, anziché come “adesione” a un corpus di precetti e dottrine che rimane sempre esteriore, rispetto al quale si è sempre inadeguati, e che rischia di alimentare un dualismo tra purezza dei principi e pratiche che vanno da tutt’altra parte. In fondo Gesù ha detto «Io sono la via, la verità e la vita». Non c’è verità fuori da questo rapporto personale e da questo cammino. L’invito di Gesù è camminare insieme, sulla strada che Lui ha aperto con la sua vita. L’invito è proprio a una Chiesa sinodale.

Che poi è una Chiesa viva, che non avendo paura di perdere si ritrova. Come scrive ancora Guardini: «Quanto più forte è l’energia vitale, tanto più pienamente la vita si conserva».

Ed è una Chiesa di popolo. Camminare insieme è anche rispondere all’individualismo esasperato che produce tanta disumanità e solitudine. Il popolo non è una somma di individui, una massa. È un corpo sociale, dove l’identità è frutto della relazione, dove la molteplicità non impedisce l’unità ma la nutre, la rende viva. Dove le differenze non scavano fossati e dove le tensioni non diventano guerre. Dove si comunica riducendo le distanze, tessendo un “dialogo dialogico” (come lo chiamava Panikkar) anziché alimentare una dialettica bellica. 

Il popolo cammina col ritmo salutare della prossimità e abita la casa comune, della quale si prende cura. Il popolo è il modo di abitare la terra nella consapevolezza che “tutto è connesso”: che ogni nostro gesto può inquinare o ossigenare il mondo; che la mia libertà si compie in quella degli altri; che l’ospitalità è il modo umano di vivere sulla terra, perché non si può amare Dio senza amare il prossimo. E il “come te stesso” per me non è un paragone tra esteriorità, una similitudine, bensì il segno di un legame intimo, profondo, costitutivo: ama il prossimo “in quanto” te stesso. Nessuno di noi è separabile dalla rete dei legami che ci costituisce; il “chi siamo” è sempre relazionale; non ci si libera né ci si salva da soli. 

L’antropologia del popolo è profondamente evangelica e il sinodo è il modo, sempre in divenire e mai “perfetto” (finito) di abitare il mondo.

Una Chiesa viva è una Chiesa di popolo, in cammino, fedele a Gesù. Solo così si può rigenerare, e può rinnovare il mondo. Lo ha scritto, in modo splendido, Romano Guardini tanti anni fa: «Ogni cosa viva, essere od opera o azione, è in ultima analisi cosa nuova. In essa non è stato adattato qualcosa di preesistente, ma generato qualcosa di nuovo. Essa non realizza schemi dati, ma ci mette davanti ciò che non era mai esistito. Ogni cosa viva esiste una volta sola. Vivere significa creare. E tanto più viva è la vita, quanto più è creatrice. Tanto più originale, quanto più c’è di sorgivo in essa, di primitività zampillante dal fondo creativo. Vita è fecondità».

Cose discutibili e cose non discutibili

Mi rifaccio a un commento fulmineo che ho proposto qualche giorno fa. Mi rifaccio ancora a quello. Si trattava della vicenda soldi russi alla Lega. Non ho espresso giudizi, ho rinviato all’inchiesta che spetterà alla Magistratura. Sono ancora di quel avviso. Infatti, tra le mie dita e sotto gli occhi non ho più di quanto voi sapete. E, pertanto, non mi spingo a scrivere giudizi di alcun tipo.

Sicuramente sul piano politico è una pagina poco chiara e per nulla piacevole, ma sul piano giuridico non mi spingo oltre quello che è di mia spettanza: attendere che gli inquirenti facciano il loro mestiere.

Altra cosa, invece, è quanto è emerso nei giorni successivi. E qui, con certezza, ho, come voi tutti, elementi probanti per dare un giudizio personale. Ho sentito la viva voce di Matteo Salvini pronunciare la seguente frase: “Non ho invitato Gianluca Savoini all’incontro con Vladimir Putin”. Da ciò, deduco che a invitarlo sia stato qualcun altro. E così, come voi, ho pensato sia. Ma la cosa ha assunto un tenore completamente diverso dopo quanto dichiarato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte. È di qualche ora fa la notizia che Conte rinvia al rappresentante di Matteo Salvini il compito di aver invitato alla cena di Roma Gianluca Savoini.

Questa è una vera e propria dimostrazione, si direbbe matematica, della bugia espressa in diretta dal Ministro degli Interni. Bugia, ricordiamolo, pronunciata in veste di Ministro degli Interni. A me non interessa, perché non sono un moralista, se Matteo Salvini o chiunque altro intenda avvalersi di non verità nei suoi fatti privati, mentre sono del tutto coinvolto se tale espressione fosse pronunciata dal Ministro degli Interni. In un qualsiasi paese europeo, Germania, Inghilterra, Francia, di fronte a un simile evento, si chiederebbe all’istante le dimissioni del Ministro degli Interni.

Non so che cosa accadrà. Come vedete, per chi scrive, non c’è una scorciatoia né quando trattasi di partiti di centro, né di destra, né di sinistra. Il mio servizio non può certo deviare. Non avrebbe senso che io scrivessi. Del resto, visto che anche io sbaglio, ciascuno, come sovente capita, ha il sacrosanto diritto di bacchettarmi o di suggermi cambiamenti di rotta.

Questi miei brevi commenti hanno lo scopo di tenere vivo il senso critico, il dialogo, il confronto, perché solo così, a mio giudizio, si può salvare la qualità della politica del nostro Paese.

Nel caso avessi scritto cose logicamente infondate, prego una puntuale correzione, al fine di raddrizzare al meglio lo sguardo.

I rigurgiti reazionari che non sappiamo combattere

Articolo già pubblicato sulle pagine della rivista il Mulino a firma di Alfio Mastropaolo

Nella letteratura specialistica la spiegazione più accreditata del successo populista è quella economicista. E chiama in causa i modernisation losers, o i left behind. I quali, per una prima variante, non sono in grado di adattarsi, per loro carenze culturali, al cambiamento imposto dallo sviluppo tecnologico. Che ha preteso un radicale aggiornamento del capitalismo, in ragione del quale gli individui devono mobilitare le loro capacità personali e smetterla di contare sulle dispendiose sicurezze offerte dallo Stato. Stando a una seconda lettura, i losers sono vittime dell’evoluzione, spietata, del capitalismo. Vuoi incapaci, vuoi vittime, i losers, provenienti dalle classi popolari e dal ceto medio, si volgerebbero comunque ai populisti: nella prima ipotesi confermando la loro inferiorità culturale e morale; nella seconda solo per vendetta, comprensibile in chi non disponga di altre possibilità di autodifesa. Conferma questa seconda ipotesi il fatto che talvolta l’ascesa populista è stata frenata dall’ingresso in scena di nuove forze politiche più coerenti con quelle a cui gli elettori erano abituati: Podemos in Spagna, la France Insoumise oltralpe, i Verdi in Germania.

Per parte loro, i partiti populisti da tempo si dedicano con impegno ai perdenti, per aggiungerli al loro target originario e tuttora preminente (troppo spesso messo in ombra: cfr. G. Passarelli e D. Tuorto, La Lega di Salvini, Il Mulino, 2018), che è il ceto medio autonomo, interessato alla loro offerta di deregulation e lassismo fiscale, preconfezionata dal neoliberismo. Radicalizzato questo segmento elettorale, con il loro nazionalismo (o regionalismo) esclusivista, i partiti populisti, forte del nome loro attribuito, si sono rivolti al popolo, o ai ceti popolari. Si sono cioè adoperati per espandersi tra coloro che versano in condizione di vulnerabilità, disuguaglianza, insicurezza, non solo sociale ed economica, ma pure politica, intendendo quest’ultima come effetto del decadimento dell’azione di rappresentanza dei partiti convenzionali: di sinistra e moderati.

È difficile valutare quanto ascolto i populisti abbiano trovato tra i losers. Forse meno di quanto amano raccontare coloro che intendono addossare loro l’avanzata populista, assolvendo le devastazioni sociali prodotte dal neoliberalismo. Ciò non toglie che una porzione non irrilevante di losers abbia abboccato, sospinta da ultimo da due moventi aggiuntivi: la Grande recessione, col suo contorno di misure di austerità, che ha aggravato le condizioni di vita, e la crisi migratoria, che il framing populista ha proposto ai losers come una minaccia ulteriore.

Le migrazioni, specie se massicce, non sono mai fenomeni pacifici. Suscitano insofferenza, tensioni e divisioni, sia per chi migra, sia per chi accoglie. Li suscitano a maggior ragione allorché se ne delega il framing agli imprenditori populisti della paura: nell’esperienza italiana la viltà mostrata dal governo Gentiloni e dal Pd nella vicenda del cosiddetto ius soli, insieme alle misure del ministro Minniti, ha segnato la resa definitiva.

Se però le ragioni economiche contano, non è detto che le cose non siano, come sempre succede, più complicate di quanto appare. È possibile che l’intreccio tra crisi economica e migrazioni abbia consentito alla propaganda populista di riportare a galla dalle viscere del Paese qualcosa di più profondo. Ovvero, c’è da chiedersi se il successo del populismo, oltre ad avere qualche movente economico, non abbia pure un movente culturale e non corrisponda a una fonte di rischio che c’è sempre stata. Il fascismo nella storia d’Europa non è stato un incidente. La modernità europea è stata segnata dalla presenza di un cospicuo grumo di pensiero e sentimenti reazionari: fatto via via di anti-Illuminismo, organicismo, antiparlamentarismo, antipartitismo, antisemitismo, razzismo, nazionalismo, antidemocrazia. Questo grumo non si è disciolto solo perché il fascismo è caduto.

Non solo militanti, quadri, attivisti, circoli di estrema destra si sono riprodotti, magari sotto altre vesti. Ma pure i sentimenti che erano stati l’humus del fascismo hanno seguitato a percolare tra vasti strati della popolazione e tuttora lì si depositano. Come ricorda il bel romanzo di Géraldine Schwarz (I senza memoria, Einaudi, 2019), la bonifica del passato criminale del fascismo da parte dei regimi democratici è stata superficiale e affrettata. Mentre l’antifascismo è stato messo a lungo fuori corso. Magari soffocato da una pretesa simmetricità con l’anticomunismo.

Tanto per dire che il successo populista è anche effetto del percolato di antichi sentimenti reazionari e antimodernisti. Il quale può produrre manifestazioni estreme: come la vergognosa aggressione verbale di cui è stata vittima Carola Rackete sul molo di Lampedusa e come i tanti episodi d’intolleranza e violenza verso i migranti. Ma anche manifestazioni più sottili e forse più inquietanti, come l’indifferenza che in tanti mostrano per la tragedia dei migranti in mezzo al mare e l’indisponibilità all’accoglienza.

La propensione di tanti a minimizzare le brutalità verbali del ministro dell’Interno e le violenze reali che fanno loro eco è senz’altro motivo di sgomento per molti. Sgomenta che qualcuno si rifugi dietro la maschera di una legalità immorale, che sarebbe stata violata dalle Ong o da Mimmo Lucano. Ma turba soprattutto che il percolato reazionario sia riaffiorato nei sentimenti dei benpensanti che stanno accanto a noi. Sono uomini e donne comuni, spesso discretamente o ben istruiti, pronti a commuoversi in caso di disastri naturali, a contribuire alle collette di Telethon: il tabaccaio sotto casa, l’insegnante devota agli studenti, la signora tutta Caritas e nipotini, il colto studioso di storia locale, la badante (italiana) della zia, l’operaio prepensionato, qualche studente, alcuni anche osservanti. Se li accusi di razzismo, lo negano. Al più denunciano un’attenzione dei pubblici poteri verso i migranti che è loro negata. Comunque, ad ascoltarli, si avverte più una frattura culturale che una rivalsa economica: una frattura confermata dall’interessante ricerca condotta da Niccolò Bertuzzi, Loris Caruso e Carlotta Caciagli (Popolo chi?, Ediesse, 2019) circa i sentimenti degli strati popolari e di spezzoni del vecchio elettorato di sinistra. Così come la frattura trova conferma in quei paesi del Mezzogiorno dove di migranti non c’è ombra, ma che si sono convertiti alla Lega. Non perché (come chi scrive riteneva fino a ieri) qualche capoccione locale, già democristiano e poi forzaitaliota, si è fatto due conti. Che Salvini in linea generale abbia profittato del decadimento, anche personale, del berlusconismo è fuor di dubbio. Ma tanti italiani trovano pure qualcosa di condivisibile nelle parole e nei gesti di Salvini. A vedere i sondaggi, qualcosa di condivisibile ce lo trovano perfino un po’ di elettori del Pd.

Le ricerche americane sulla cultura politica degli italiani a fine anni Cinquanta restituivano un Paese tradizionalista, conservatore e non troppo democratico. Da allora sono successe molte cose. Ma quel Paese, che il referendum sul divorzio aveva dimostrato minoritario, ha resistito e, dopo lungo silenzio, sottoposto allo stress dell’immigrazione, è ricomparso e apertamente confessa il suo allarme. Forse non solo per il sopraggiungere dei migranti. È inutile nascondere gli effetti destabilizzanti che possono avere su alcuni la nuova condizione femminile, le nuove convivenze familiari, la complessità crescente della vita cittadina, la rarefazione delle relazioni sociali in tutti quei comuni medi e piccoli in decremento demografico.

Se non che, posto che provare sgomento è una reazione ovvia, sarebbe sociologicamente e politicamente sbagliato indignarsi constatando la divisione del Paese in due tipi umani irriducibili. Anche perché certi sentimenti restano inquietanti, ma sono stati smussati, o si sono contaminati con altri, si sono anche scomposti, col trascorrere dei decenni. La loro persistenza entro una società democratica li ha diluiti, lasciando persistere un fondo che si è risvegliato e che adesso Salvini prova a rieccitare. Non si deve stare al suo gioco, ma sventarlo. È un problema non solo italiano, anche se i dosaggi sono probabilmente diversi. Occorre piuttosto persuadersi che questi sentimenti, che da sempre covano nelle viscere dell’Europa, sono la grande palude che tocca ancora bonificare con un’appropriata e razionale azione politica, che non demonizzi, o non si arrenda alle paure, ma che elabori un’alternativa.

Da Moro a Moro…and more

Nasce la prima Summer School diocesana di formazione socio-politica, dal 25 al 27 luglio a Villa Campitelli, a Frascati. Tre giornate residenziali che scorreranno tra incontri frontali, dibattiti, workshop, tavoli di approfondimento, ma anche aperitivi e momenti di preghiera. Si parlerà di economia, istituzioni, democrazia, cultura, immigrazione, famiglia, educazione, giustizia, ambiente. Il tutto con personalità quali il cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin (venerdì 26), il vescovo Gianrico Ruzza (giovedì 25), il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti (sabato 27), il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti (il 27), il giurista Francesco D’Agostino (il 25). E ancora Piero Damosso, Silvia Costa, Leonardo Becchetti, Alberto Gambino, Andrea Monda, Antonio Tajani, Gaetano Quaglieriello, Maria Monteleone, Enrico Giovannini solo per citare alcuni dei protagonisti

Saranno coinvolte  tutte le esperienze di formazione sociopolitica laiche ed ecclesiali presenti a Roma: la Scuola di formazione sociale e politica della parrocchia di San Tommaso Moro; “Connessioni” di padre Francesco Occhetta; la Scuola di formazione permanente della Fondazione De Gasperi; la Fuci diocesana; la Scuola di formazione sulla dottrina sociale della Chiesa del Meic; la Scuola di formazione sociopolitica “7 parole della politica” di San Barnaba; la Scuola di alfabetizzazione sociopolitica delle Acli di Roma; la Scuola di politiche “Formiamo il futuro”; e la Scuola Sinderesi del Centro Alberto Hurtado della Pontificia Università Gregoriana. In tutto, un centinaio di ragazzi dai 19 ai 30 anni.

Cortina d’Ampezzo nel ricordo di Giovanni Paolo II

A Cortina d’Ampezzo mercoledì 17 e giovedì 18 luglio prossimi si terranno 2 importanti iniziative: un convegno su Giovanni Paolo II e la benedizione del luogo sulle Dolomiti bellunesi in cui sarà issata la croce  processionale più alta al mondo. Due iniziative che avranno come filo conduttore la memoria di un santo, Giovanni Paolo II, e il suo apostolato nel mondo.

Ed è lo stesso Papa Wojtyla ad esser raffigurato, quale ultima scultura con una mano protesa verso Dio in cielo, nella croce  processionale che egli stesso aveva voluto per rendere omaggio alla città di Roma e che è poi stata dimenticata fino a quando il veronese Mirko Zanini l’ha riscoperta e acquistata per rendere omaggio alla comunità cortinese.

Alta 18 metri e unica di questa misura, la croce è stata realizzata dallo scultore romano Andrea Trisciuzzi, che ne ha prodotte altre sette da 2,20 metri su indicazione di Giovanni Paolo II portate anche al Polo Nord, al Polo Sud e su vette alpine per ricordare il mandato di Gesù ai discepoli “Mi sarete testimoni no agli estremi confini della terra”.

Il convegno su Giovanni Paolo II

“Giovanni Paolo II, Papa sportivo” è il titolo del convegno che inizierà alle ore 18 di mercoledì 17 luglio  nella basilica minore di Cortina dedicata ai santi Filippo e Giacomo, moderato da don Maurizio Viviani, direttore del Museo diocesano di Verona.

Cinque i relatori che interverranno dopo i saluti del parroco della basilica, don Ivano Brambilla, del sindaco di Cortina Giampietro Ghedina e del sindaco di San Giovanni Lupatoto (Verona) Attilio Gastaldello.

Monsignor Giuseppe Zenti, vescovo di Verona, parlerà di “Giovanni Paolo II, atleta di Dio, gigante dello spirito”; l’architetto Guido Rainaldi, responsabile della Sala Nervi del Vaticano, interverrà su “La scultura con il Papa amico Giovanni Paolo II”; Padre Augusto Chendi, direttore della pastorale della salute della Diocesi di Ferrara, analizzerà la “coscienza critica per il mondo”; la campionessa olimpica Sara Simeoni ricorderà il suo incontro con Papa Wojtyla e, infine, il vescovo emerito di Fidenza, Monsignor Carlo Mazza, cappellano della squadra italiana per ben sette Giochi olimpici, descriverà “Le mie Olimpiadi nel segno dello spirito di Giovanni Paolo II”.

“Migranti e Religioni”: un convegno CEI a Roma

“Migranti e religioni”: questo il tema di un convegno di studi promosso dall’Ufficio Nazionale per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso della Conferenza Episcopale Italiana, insieme ai rappresentanti delle Chiese cristiane che sono in Italia – Amministrazione delle Parrocchie del Patriarcato di Mosca in Italia, Arcidiocesi Ortodossa di Italia e Malta del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, Chiesa Apostolica Armena d’Italia, Chiesa d’Inghilterra, Diocesi Copto Ortodossa di San Giorgio Roma, Diocesi Ortodossa Romena d’Italia, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia.

“Vorremmo – si legge nel comunicato – fare un discorso positivo sull’immigrazione, evitando fake-news e dibattiti solo negativi, evidenziando il valore degli immigrati che sono nel nostro paese ed anche il contributo che le religioni, nelle loro diverse espressioni, danno per rendere possibile la convivenza nella diversità”.

Al convegno, dal 18 al 23 novembre, interverranno studiosi e esponenti delle diverse confessioni cristiane.

Contro il cybercrime informazioni e interventi condivisi di prevenzione

L’intesa siglata dal capo della Polizia, direttore generale della Pubblica sicurezza, Franco Gabrielli, e dall’amministratore delegato di Cdp, Fabrizio Palermo, rientra nell’ambito delle direttive del Viminale per il potenziamento dell’attività di prevenzione della criminalità informatica attraverso la stipula di accordi con gli operatori che forniscono prestazioni essenziali. La convenzione rappresenta una tappa significativa nella collaborazione tra le due istituzioni, un progetto per contrastare i rischi derivanti dalle minacce informatiche, uno strumento per la realizzazione di un efficace sistema di contrasto al cybercrime, basato sulla condivisione informativa e sulla cooperazione operativa.

Cassa depositi e prestiti è, del resto, l’Istituto nazionale di promozione che da anni custodisce il risparmio di moltissimi cittadini investendolo nello sviluppo del Paese. Il tema della tutela dei dati risulta quindi prioritario, anche in considerazione del fatto che Cdp garantisce la protezione di informazioni sensibili relative all’erogazione di servizi finanziari per le imprese  e per la Pubblica amministrazione, nonchè le attività di gestione di notizie relative ad asset e partecipazioni strategiche. La sicurezza informatica e delle infrastrutture fisiche e digitali è perciò al centro delle diverse attività.

In questo quadro la Polizia di Stato e Cdp s’impegnano a condividere e analizzare informazioni idonee a prevenire e contrastare attacchi o danneggiamenti alle infrastrutture informatiche di Cassa depositi e prestiti; segnalare emergenze causate da minacce e incidenti ai servizi di telecomunicazione; identificare l’origine degli attacchi contro infrastrutture critiche del Paese; realizzare e gestire un flusso di comunicazione per fronteggiare eventuali situazioni di crisi.

 

Congo, diagnosticato il primo caso di Ebola a Goma

Il ministro della Sanità del Congo ha confermato che il primo caso di Ebola è stato registrato a Goma, città di un milione di abitanti nell’est del Paese, vicino al confine con il Rwanda. La persona a cui è stato diagnosticato il virus è un pastore proveniente dalla città di Butembo. L’epidemia, iniziata nell’agosto scorso, ha finora portato alla morte di circa 1.600 persone.

Il ministro della Salute del Congo ha aggiunto che il paziente affetto da ebola arriva da Butembo, uno dei principali focolai della malattia nel paese. L’uomo aveva iniziato a sentirsi male giovedì scorso ma aveva comunque viaggiato in autobus verso Goma, dove gli è stata diagnosticata l’infezione.

 

In passato cadevano i governi. Oggi Salvini deve dimettersi

Articolo già pubblicato sulle pagine dell’huffingtonpost

Gli osservatori di politica internazionale individuano nelle mosse più recenti sia di Trump che di Putin un ritorno allo stile, se non ai contenuti, della guerra fredda. A dispetto delle analisi sullo spostamento irreversibile dell’asse geopolitico, non è il Pacifico né l’Estremo Oriente il luogo del conflitto. Il centro torna a essere l’Europa e con essa, in buona parte, l’area dei Paesi del Mediterraneo. La Cina, al momento, non entra in questo gioco.

Ora, appunto, in tale contesto che ricorda da vicino la guerra fredda, un Paese cardine dell’Alleanza atlantica s’impantana nello scandalo – se i riscontri giudiziari dovessero confermarlo – di un partito che traffica con i suoi uomini su possibili commesse petrolifere, avendo come obiettivo l’accaparramento di royalties (ovvero di tangenti) finalizzate all’assalto del potere e alla dislocazione dell’Italia nel fronte anti-sanzioni, dunque in appoggio alle pressanti richieste di Mosca.

Uno scenario inquietante. Addirittura il capo di questo partito, oggi al vertice del dicastero degli Interni, si trincera dietro la cortina fumogena di smentite e divagazioni, pur di fronte a testimonianze a dir poco imbarazzanti.

Salvini da giorni s’arrampica sugli specchi, nega l’evidenza, occulta i fatti, mente a se stesso. Non sente la responsabilità di riferire al Parlamento, né di spiegare quanto meno al partito, ovvero ai suoi organi dirigenti, la versione che considera corretta.

In passato, quando per esempio venne alla luce la rete della P2, il governo si dimise. In quel caso non era in discussione la svendita del Paese a una potenza straniera, ma l’onore delle istituzioni richiedeva un gesto forte e inequivocabile. La Dc, per la prima volta dal 1946, perdeva la guida di Palazzo Chigi.

Andrebbe anche ricordato il gesto di Antonio Bisaglia, colpito dal sospetto di aver favorito da ministro dell’Industria il settore delle assicurazioni. Aveva aumentato per legge i premi e sembrò per questo, in forza della sua attività di assicuratore prima del mandato elettorale, in conflitto d’interesse. Sì dimise, benché il sacrificio fosse ingiustificato.

Altro stile, altri tempi. Cosa dire oggi? Certo, anche se la pubblica opinione è spinta ad attribuire all’intera vicenda il carattere di un’aggressione ben studiata ai danni della maggioranza, resta il diritto delle opposizioni ad avanzare con forza la richiesta di dimissioni del ministro dell’Interno.

Prima di sapere se regge l’attuale compagine governativa – in democrazia nessuno contesta il potere che deriva dal libero consenso dei cittadini – occorre stabilire o ristabilire il principio di irreprensibilità e correttezza nella condotta di un ministro che ha il dovere costituzionale di servire, anche attraverso la scelta dei suoi collaboratori, i superiori interessi della nazione. La Lega è chiamata, in conclusione, a un atto di grande responsabilità nei confronti delle istituzioni.

Rosato, a nome dei comitati civici renziani, va oltre la scissione.

Assume contorni sempre più chiari la questione di un nuovo partito riformatore, a forte vocazione democratica e popolare. Mentre si sfilaccia l‘iniziativa del mondo cattolico ufficiale o semi-ufficiale, su un altro piano, indipendente ma non conflittuale rispetto a quello del magistero sociale della Chiesa, si va consolidando la volontà di dare sbocco adeguato alla frustrazione dell’elettorato intermedio, né di destra né di sinistra, oggi nascosto in gran parte nelle pieghe dell’astensionismo.

A riguardo, il coordinatore nazionale dei comitati civici renziani, Ettore Rosato, è andato oltre l’allusione un po’ stantia alla possibile fuoriuscita della minoranza, giusto per creare una nicchia di resistenza fuori dal Pd. Le sue parole, riprese ieri dal “Messaggero” di Roma, sono state precise e finanche impegnative. “Fare un partitino – ha dichiarato – non interessa nessuno. Fare una cosa seria, un’operazione tipo Monti a due cifre, quella è un’altra cosa”. Poi ha voluto aggiungere: “Non vuol dire che ci puntiamo, lo dico per far capire il senso. Se operazione ha da essere, vuol dire che riesce a intercettare qualcosa che nel Paese c’è, e che quindi rimette in moto tutto il quadro politico, rimescola le carte”.

Ecco, non siamo più ai balbettii sulla scissione, cioè a quel fraseggio insipido che dopo l’elezione di Zingaretti ha zavorrato, nel Pd e fuori, il dibattito sulle nuove esigenze e prospettive dell’area autenticamente riformista. Rosato fa un passo avanti. Prende di petto la questione e ne trae le conseguenze: senza una sincera e valida ambizione, distante anni luce dalla logica del partitino, non prende forma nessuna proposta di cambiamento capace di convincere ed emozionare. Questa è la sfida che l’avanzata dei populismi – avanzata vittoriosamente rappresentata in Italia dall‘intesa di governo tra Lega e M5S – impone a tutti i sinceri democratici.

Dunque, l’operazione sembra oramai in procinto di forzare gli argini. Possiede insieme elementi di forza e di debolezza, perché combina sotteraneamente un’istanza sociale, di per sé positiva e interessante, con l’inquieto autarchismo della politica renziana. È un nodo, questo, da sciogliere con cura. Un nuovo partito, oggi necessario più che mai, può trovare solo nella rigenerazione di una vera “sintesi popolare” – identità, programma, radicamento sociale – il suo fondamento di legittimità. C’è uno spazio politico, ma va occupato in forza delle idee e non per effetto di prove muscolari. Il Paese è stanco, si avverte il suo ostracismo verso disegni fumosi o spericolate avventure. Serve al contrario, nel lessico piû caro alla sensibilità dei cattolici democratici, la suggestione di nuove “idee ricostruttive“.

La crisi della società italiana e il ruolo della Chiesa – Intervista a Giovanni Orsina

Articolo già pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Monda

La riflessione sulla crisi della società italiana ed europea secondo Giovanni Orsina, Direttore della School of Government presso la Luiss e professore di storia comparata dei sistemi politici europei, deve partire dall’origine, cioè dalla crisi dell’autorità, di ogni tipo di autorità.

Da dove nasce questa crisi?

L’autorità, sia civile sia spirituale, appare oggi in grandissima difficoltà. Una crisi che nasce dall’evoluzione o trasformazione finale della modernità, il cui ultimo approdo coincide col relativismo radicale, se non col nichilismo. Il tentativo della modernità è quello di costruire un ordine privo di a priori, un ordine che non si appoggia su nessun tipo di verità data, in cui tutto è discutibile, tutto è umano. Questo è il grande sogno della modernità fin dalla fine del Settecento, da quando viene compiuta quella che Del Noce chiama “l’opzione politica per l’ateismo”: l’idea che possa fondarsi un ordine interamente umano. Dopodiché, negli ultimi due secoli ci sono stati tanti elementi che hanno controbilanciato questo sogno, costruendo via via una serie di a priori ai quali l’ordine politico e sociale si è potuto agganciare. Negli ultimi cinquant’anni, però, questi a priori si sono sciolti tutti: da qui l’ingresso nella fase terminale della modernità, e lo sforzo di capire se sia possibile costruire un ordine umano capace di autosostentarsi. I sociologi degli anni Novanta, come Anthony Giddens o Ulrich Beck, parlano di “modernità riflessiva”: gli individui si costruiscono un’identità riflessivamente, le società si costruiscono un ordine riflessivamente, la politica viene costruita riflessivamente, il che vuol dire che anche l’autorità è riflessiva. Cioè l’autorità si costruisce man mano da sé, si costruisce e si smonta costantemente, non c’è un’autorità data e definita una volta per tutte; ci sono solo una serie di punti di equilibrio che via via evolvono. La grande domanda è: sono possibili l’ordine riflessivo, la personalità riflessiva, l’autorità riflessiva — o finiscono in buona sostanza per coincidere con la dissoluzione della personalità, dell’autorità e dell’ordine?

A me sembra che la grande scommessa sia questa. Questa è stata la grande utopia degli anni Novanta: costruire un mondo di individui integralmente liberi, disincarnati, sradicati, che si costruiscono da soli, godono dei diritti garantiti dal mondo giuridico e agiscono sul mercato. Un mondo senza più il potere, una società completamente liquida, che però ha un ordine, un ordine liquido che si ricostruisce giorno dopo giorno, appunto riflessivamente. Se uno legge gli scritti degli anni Novanta (penso a personaggi come David Held o Kenichi Ohmae con la sua La fine della Stato-nazione) ci sono tanti libri che dicono: il mondo delle strutture è finito, punto, scordatevi di ricostruirlo. Il nostro orizzonte è l’orizzonte della ricostruzione costante e continua di elementi di tenuta e di organizzazione. Questo secondo decennio del XXI secolo a me appare come il momento in cui questa utopia sta entrando in crisi. Il problema è quindi da una parte il fatto che l’utopia degli anni Novanta sta entrando in crisi, dall’altra l’avvenuta dissoluzione dell’autorità. Da questo sorgono due domande. La prima l’autorità va ricostruita? E, se sì, come fare a ricostruirla? La seconda: questa crisi di un’idea di modernità riflessiva è una crisi strutturale oppure è soltanto un momento di difficoltà, ma il nostro orizzonte è comunque quello? Infine bisogna aggiungere che se da una parte questa ricostruzione costante e continua non funziona, è anche vero però che il mondo di ieri non c’è più. Questo è un enorme problema, innanzitutto per il potere politico: la modernità tradizionale contro cui la Chiesa ha sbattuto la testa duramente, non esiste più. Quella modernità aveva una sua durezza e quindi lo scontro era forte ma era uno scontro strutturato, adesso non si riesce più a capire che tipo di scontro sia.

Papa Francesco cita spesso Bauman e la condizione liquida della società. Forse quelli che noi chiamiamo populismi e sovranismi sono una reazione a questa condizione, un voler dare alla piccola comunità locale una consistenza, un calore contro la “freddezza” dell’Europa con la sua banca e i suoi protocolli burocratici.

Certamente, credo anch’io che questi sovranismi siano una reazione, un sintomo della malattia, non la causa. E bisogna curare non il sintomo ma la malattia alla fonte.

Questi studiosi, questi sociologi degli anni Novanta sono molto interessanti perché poi loro immaginano che in questa società liquida la politica rinasca sotto una nuova forma, ad esempio Ulrich Beck, il sociologo tedesco, con il suo saggio The Reinvention of Politics. La loro tesi è la seguente: l’idea del partito strutturato, organizzato, l’identità, la classe, lo Stato, tutto questo non c’è più. Però comunque i rapporti di potere ci sono ancora: sono molto più complessi, multilivello, sovranazionali, in una commistione tra potere statuale e società civile. Quindi la nuova politica è una politica di micro-organizzazioni, di organizzazioni temporanee, oppure di grandi campagne culturali che devono gestire e cambiare questi rapporti di potere. In fondo la campagna del #Me Too è un classico modello di nuova politica, così come lo è Greta Thunberg. Il #Me Too non è la politica secondo la logica dello Stato, della classe, ma dei rapporti di potere quotidiani, che si ritiene debbano essere riequilibrati a vantaggio delle donne. La politica quindi non si fa con la grande organizzazione del partito a livello dello Stato nazionale, ma si fa con una campagna culturale transazionale che deve cambiare le relazioni individuali, e anche quella è una mobilitazione politica. Tutto questo, però, è molto insoddisfacente, molto fragile, spesso si rivela come una grande esplosione emotiva, ma poi la cosa finisce perché non è ancorata a ordinamenti stabili o inquadrata dentro istituzioni. Se la politica è il desiderio degli esseri umani di avere un controllo sulla propria vita, uno strumento collettivo di controllo sulla nostra esistenza, allora questa nuova politica è molto insoddisfacente. I sovranismi sono la risposta a questo. Qual è lo slogan della Brexit? Let’s take back control, riprendiamo il controllo. Il tema del controllo sulla propria vita è un tema fondamentale. Che cosa offre Salvini? Offre il controllo sui confini dell’Italia e sul destino degli italiani come collettività. Possiamo discutere quanto questo sia praticabile o realistico, però io capisco quelli che lo votano, perché dicono io vorrei come collettività riprendere il controllo sul mio destino che sento che ho perso e non mi viene più soddisfatto dalle agenzie tradizionali, dai partiti tradizionali e nemmeno da queste forme di nuova politica.

Una crisi quella che stiamo vivendo che secondo alcuni è innanzitutto antropologica. Qualche elemento: l’innalzamento dell’aspettativa dell’età media, la tecnologia e infine la paura che gioca anche a livello politico grandi effetti, e poi la tecnologia. Siamo stati tutti colti di sorpresa e non sappiamo come affrontare la situazione totalmente nuova, “il cambiamento d’epoca” di cui parla il Papa?

C’è un’effettiva differenza di “quantità” che diventa differenza di “qualità”. I classici questa roba l’hanno prevista: la perdita di a priori, la crisi della ragione, la nascita di un ordine interamente umano nel quale non ci sono postulati, non ci sono valori non negoziabili, ma è tutto discutibile, tutto provvisorio, tutto autonomamente generato dall’uomo. E hanno previsto anche la degenerazione verso un processo di relativismo radicale, e in ultima analisi di nichilismo, che alla fine porta a un mutamento antropologico che riduce l’uomo in una creatura vuota che torna alla sua animalità, ai suoi istinti, ai bisogni primari. Penso alla distopia che Tocqueville descrive nella Democrazia in America: uomini che hanno perso qualunque criterio di giudizio, sono tutti uguali, non riconoscono più aristocrazie né eccellenze, non hanno neanche più criteri per distinguere le eccellenze, il bene dal male, quindi sono tutti quanti schiacciati in una massa uniforme, al di sopra della quale si erge un potere, come lui dice, “previdente e mite” che dà loro il soma, come lo chiamerebbe Huxley, cioè dà loro il cibo, le soddisfazioni materiali. Se alla fine hai eliminato Dio e tutti i valori nel nome della libertà resta il nulla e allora l’unica cosa che importa è la felicità quotidiana, temporanea. Tutte cose previste, ma senza dubbio abbiamo assistito a una grande accelerazione: la tradizione regge fino agli anni Cinquanta e poi viene messa in discussione negli anni Sessanta. Allora a che cosa si ancora l’ordine politico e sociale a partire dagli anni Sessanta? Alla scienza. Anche lì Del Noce vede molto chiaramente lo scientismo come soluzione. In fondo, ancora oggi noi cosa leggiamo sui giornali? La nostra vita si allungherà, non dovremo più lavorare. Noi in realtà stiamo entrando in un mondo di utopia (o distopia) scientistica, e basta guardare le serie televisive per rendersene conto (ne cito due tra le tante: Altered carbon, The 100). La crisi degli esperti oggi nasce dal fatto che negli ultimi decenni abbiamo messo un peso sulla scienza che la scienza non può sopportare come ad esempio il compito di risolvere i problemi dell’aldilà e del senso dell’esistenza.

Oggi sembra che l’uomo occidentale si trovi tra Scilla e Cariddi, da una parte liquida la religione come una vecchia fantasia superstiziosa che porta con sé fondamentalismo, fanatismo e violenza, dall’altra sente il vuoto, avverte la mancanza della religione, e si aggrappa anche a un malinteso senso della comunità, per cui vanno bene anche i simboli religiosi esibiti come strumenti d’identità il che equivale a un tradimento netto dell’essenza della religione stessa.

Questo è il punto cruciale: in nome della libertà individuale abbiamo rotto tutto. Anche la demonizzazione del fatto religioso è vista appunto nel nome di una libertà individuale che si presume debba essere priva di limiti. Quindi, siccome la religione è un elemento di vincolo, di legame, di costruzione identitaria, allora non va bene perché la tua identità, individuale, deve essere libera, te la devi poter costruire come vuoi. Dentro c’è una demonizzazione dell’identità, cioè l’identità viene letta soltanto nelle sue degenerazioni. Il progetto modernista, essendo un progetto di liberazione radicale dell’individuo, ha buttato via l’acqua sporca ma pure il bambino dell’identità. Il dilemma del modello liberaldemocratico è che quando hai liberato tutti gli individui e li hai isolati e li hai “liquefatti”, non hai neanche più la possibilità di svolgere un’azione collettiva. La politica perde potere, ma la politica è quello che ti garantisce la libertà individuale. Osservare il dogma della massima libertà individuale ha indebolito le comunità politiche che erano quelle che garantivano la libertà individuale. Questo il paradosso.

Su questo contesto s’inserisce un aspetto molto inquietante, la polarizzazione estrema della discussione e del clima pubblico. Da un lato ci sono i radicali della società liquida, dall’altra i sovranisti, tutti sul versante del ritorno della collettività, dei valori, delle identità. Una polarizzazione che sta acquisendo una dimensione geografica, con appunto the people from anywhere al centro delle città, la gente cosmopolita e liberale, e la gente invece che rivuole le radici nei piccoli borghi, nei piccoli paesi, nel contado the people from somewhere. In questa situazione mediare e ricucire i rapporti è molto difficile.

La modernità ha spinto molto su libertà e eguaglianza ma ha trascurato la fratellanza che era però l’elemento di mediazione tra le prime due, che le teneva insieme. Forse è qui che il cristianesimo può giocare un ruolo, richiamandoci alla responsabilità verso il prossimo, verso l’altro visto come un fratello?

Sono d’accordo. Il problema però è che si è fratelli rispetto a qualcosa, e questo ci riporta al problema delle basi dell’ordine sociale. La tesi dei diritti individuali nel liberalismo nasce con un ancoraggio giusnaturalistico: tutti gli uomini sono nati uguali. Tu in quanto uomo, in quanto appartenente alla razza umana, sei titolare di diritti. Perché? Da dove viene questo ragionamento? È evidente che questo ragionamento ha una radice religiosa fortissima. Poi i liberali lo laicizzano, ma, in partenza, il punto cruciale è quello dell’essere stati creati a immagine e somiglianza di Dio. Tanto è vero che la Dichiarazione d’Indipendenza Americana dice “noi crediamo che tutti gli uomini siano creati uguali”. Non “siano” o “siano nati”, ma “siano creati”. Questo fatto che siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio, dà a tutti dà dignità e ci rende tutti fratelli. Col tempo la dottrina dei diritti dell’uomo non solo si è laicizzata, ma si è anche completamente distaccata da un’idea condivisa di natura. Ma se una natura umana non c’è più, perché la natura è un costrutto culturale, allora che cosa è la razza umana, e chi vi appartiene? Tutti gli esseri umani? E perché? E perché non solo i bianchi — o i gialli, o i neri, se è per questo? E poi c’è tutto il tema dei diritti degli animali. Se l’uomo non è creato a immagine e somiglianza di Dio, ma è in totale continuità con il resto della natura, allora il “taglio” all’umanità è un taglio arbitrario. Potrei tagliare agli italiani, potrei tagliare ai bianchi, o potrei tagliare ai mammiferi superiori, o potrei tagliare ai mammiferi in generale o a tutti gli esseri viventi. Il “taglio”, e di conseguenza la nozione di fratellanza fra i “tagliati”, aveva senso perché c’era un’idea forte di razza umana, e la razza umana era tale non in virtù del Dna, ma in virtù del fatto che siamo tutti creati a immagine e somiglianza di Dio. Allora il problema che io vedo della fratellanza è questo: senza una nozione “dura” di natura umana, noi siamo fratelli rispetto a che cosa? Fukuyama, nel celebre La fine della storia, ha posto l’enfasi sul tema hegeliano del riconoscimento reciproco, ma perché il riconoscimento reciproco deve necessariamente essere universale, cioè su scala mondiale? Un italiano ha veramente interesse a essere riconosciuto da un cinese o a riconoscere un cinese? Personalmente, da cristiano e da liberale, non ho alcun dubbio — ma, appunto, da cristiano e da liberale, ossia da persona convinta che tutti gli uomini siano creati a immagine e somiglianza di Dio. Mio figlio tredicenne, che come tutti i ragazzini svegli ha un talento nel mettere il dito sulla piaga, mi risponde: “sì, ok, tutti uguali e tutti fratelli — ma solo se Dio esiste”. Non lo sa ma in qualche modo sta citando Dostoevskij: «senza Dio tutto è permesso».

La Chiesa può quindi essere d’aiuto in questa crisi epocale come lo è stata in passato?

A volte penso che forse questa è l’epoca nella quale uscirà un profeta, nei prossimi decenni, magari tra vent’anni o anche più, però a me sembra che sia maturo il tempo per un profeta, non so se dall’interno o dal di fuori della Chiesa. Da credente e da cristiano mi auguro che emerga dall’interno. In fondo, la “svolta comunicativa” promossa da Papa Francesco rappresenta un tentativo di muovere in una direzione profetica. Non so se poi non ci sia bisogno anche di molta maggiore durezza, di maggiore scandalo, cioè di qualcuno che rompa duramente col “senso comune modernista”

Forse da questo nascono gli attacchi contro Francesco, un Papa molto amato ma anche molto contrastato. La sua forte critica al paradigma tecnocratico ha il suo “costo”, suona davvero scandalosa.

A volte però sembra che quelli che gli dimostrano più amicizia siano quelli che, diciamo, lo leggono meno come scandalo, che lo recuperano di più “al secolo”. Se da una parte l’Europa è vecchia, a ogni modo, dall’altra io vedo anche la Chiesa in grande difficoltà. Forse l’altra cosa che potrebbe cambiare i giochi è il cataclisma, cioè una grande crisi, una grande frattura, un reset per usare un gergo informatico. Potrebbe essere economico, potrebbe essere ecologico, potrebbe essere militare, potrebbe essere un punto di frattura…. C’è un po’ l’aria di quelle scosse che poi a un dato punto ti portano a un punto di frattura. Ma anche lì ci vuole tempo, e poi nessuno se lo augura. Mentre un profeta uno se lo può augurare, un cataclisma no.

La tecnologia e il grande impatto sulla vita degli uomini che ruolo può giocare?

Io sono uno di quelli che pensano che la tecnologia non sia portante, cioè che non sia quello il punto. L’eccesso di enfasi e fiducia nella tecnologia, la degenerazione della scienza in scientismo, si sviluppano perché c’è un buco, c’è un vuoto: riempiono uno spazio. Se quello spazio fosse pieno, scienza e tecnologia starebbero al posto che compete loro. Dopodiché è evidente che la tecnologia ha un ruolo fondamentale, innanzitutto come acceleratore dei processi storici, e da questo punto di vista il suo impatto è impressionante. È anche un acceleratore della mutazione antropologica. Se la gente va a cercarsi le informazioni su internet, è perché non si fida degli esperti. Viene prima la sfiducia negli esperti, e poi viene il fatto che, siccome non mi fido del mio commercialista o del mio medico, mi vado a cercare le informazioni su Internet. La sfiducia negli esperti, perciò, non è generata da internet. Dopodiché, il fatto che ci sia internet genera un circolo vizioso per il quale quella sfiducia trova una risposta e si alimenta. Quindi questo è un acceleratore mostruoso, è un amplificatore, un alimentatore di processi, e poi certo è quello che rende plausibile il sogno di onnipotenza umana e quindi l’idea che sia possibile costruire un mondo completamente de-divinizzato, completamente basato su principi compiutamente e completamente immanenti, quindi del tutto privi di Dio. D’altra parte fin dal XIX secolo la filosofia non fa altro che cercare di ricostruire Dio — Marx, l’idea del paradiso in terra, l’idea dell’utopia —, cioè di dare una risposta immanente al desiderio umano di assoluto. Questo secondo me è molto evidente.

La tecnologia sembra offrire all’uomo un potere assoluto, “divino”. Dio diventa irrilevante, inutile. Se posso immaginare che in futuro si viva per tre, quattrocento anni, conducendo una vita di piaceri, di comodità, in cui tutti i problemi saranno risolti, che me ne faccio dell’ipotesi Dio? Però io sono ancora convinto del fatto che un essere che sta nel tempo ed è in grado di pensare l’assoluto non potrà mai essere felice. L’homme révolté di Camus viene spesso letto come un inno a una rivolta sociale — ma quella di Camus è una rivolta metafisica, ontologica, è la rivolta contro la morte. Quella dimensione lì, anche se l’uomo vivesse all’infinito, e ammesso che fosse possibile, resterebbe un problema: anche chi vive all’infinito vive nel tempo, circondato di cose che muoiono ed esperienze che finiscono. Il desiderio di uscire dalla finitudine secondo me non sarà mai soddisfatto, a dispetto del divertissement pascaliano che la tecnologia sembra offrire come soluzione del problema della morte.

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Le relazioni internazionali di un Paese senza linea

Articolo già apparso sulle pagine della Società editrice il Mulino a firma di Vittorio Emanuele Parsi

A circa un anno dall’avvio della XVIII legislatura nella storia della Repubblica, l’Italia si propone agli occhi del mondo come un attore animato da eccessivo tatticismo, propenso a svilire istituzioni e trattati internazionali, cinico e maldestro nella ridefinizione della propria rete di alleanze. Convinto che la rinazionalizzazione delle questioni più complicate consenta una loro più facile soluzione e pericolosamente incline a manifestare la non irreversibilità della collocazione della sua cultura politica dominante nel novero di quelle delle democrazie occidentali. La sua politica estera sembra orientata prevalentemente, se non unicamente, ad alimentare i temi di un’infinita campagna elettorale, schiacciata sul presente e propensa a ignorare le conseguenze durature delle decisioni contingenti, irresponsabilmente disponibile a danneggiare in maniera permanente i rapporti con gli alleati chiave del Paese, mettendo a repentaglio, per riprendere Tucidide, la sicurezza, gli interessi e la reputazione della Repubblica.

La considerazione da cui partire è che, per poter avere una coerente politica estera, è necessaria una visione del mondo, della sua evoluzione e di come quelli che per brevità definiamo gli «interessi nazionali» si collochino nel quadro dell’una e dell’altra. La stessa idea di politica estera incorpora il senso del limite, dei condizionamenti che derivano dall’articolazione del sistema internazionale, sul quale la possibilità di influenza del singolo attore è per definizione modesta, perché le capacità che si hanno a disposizione sono sempre e comunque scarse. La comprensione delle dinamiche internazionali serve quindi a relativizzare questa scarsità, concentrando le risorse sugli obiettivi più importanti e cercando di porvi rimedio attraverso la tessitura di una rete di alleanze che permetta di compensarne l’insufficienza.

L’Italia si propone agli occhi del mondo come un attore animato da eccessivo tatticismo, cinico e maldestro

Pensare che l’Italia abbia degli interessi nazionali non significa essere inconsapevoli che essi siano continuamente ridefiniti dalla contrattazione politica nel governo, nelle istituzioni e tra istituzioni e società. Perché la politica estera è una «politica pubblica», né più né meno di quella sanitaria, dell’istruzione o fiscale, frutto quindi di una continua dialettica tra tutti i soggetti che in misura differente e a diverso titolo concorrono ad elaborarla. Ma in maniera del tutto peculiare la sua efficacia è determinata anche dall’accoglienza e dall’apprezzamento che riceve oltre i confini e quindi andrebbe maneggiata con estrema cautela. Essa è lo strumento attraverso il quale un Paese cerca di manifestare e attuare gli obiettivi che intende perseguire, tentando di ridurre l’impatto che deriva dai condizionamenti frutto sia del sistema internazionale sia delle politiche estere degli altri Paesi. Allo stesso tempo, nella relazione con i partner e gli alleati, ricerca quelle convergenze e quei compromessi che consentano, proprio attraverso il sostegno esterno, di meglio e più profondamente perseguire i propri interessi nazionali. Si fa squadra, per così dire, e in tal modo si cerca di guadagnare più terreno. Il continuo bilanciamento tra le pressioni interne e quelle esterne, tra il consenso domestico e quello internazionale è quindi un’elementare misura di saggezza, così come lo è la scelta di partner e coalizioni affidabili, i cui membri abbiano interessi compatibili con i propri e siano dotati di risorse importanti. Il Giano bifronte è la divinità sotto la quale una corretta politica estera dovrebbe cercare protezione: non certo in omaggio a una qualche forma di scaltra doppiezza, ma perché solo sapendo guardare ed equilibrare risorse e vincoli interni ed esterni è possibile aspirare al successo.

Come sappiamo, i cambiamenti di regime determinano una ridefinizione degli interessi nazionali, della percezione altrui e dello stesso grado di accettazione da parte degli altri. L’Italia liberale, quella fascista e quella repubblicana hanno avuto obiettivi in gran parte diversi anche e soprattutto nella loro declinazione e modalità di attuazione, al di là di una generalizzata e ovvia tutela della sovranità nazionale. E ben diverso era ed è l’atteggiamento del mondo rispetto alle pretese avanzate e alle aspettative nutrite dall’Italia in virtù non solo della loro natura (quanto conformi alla cultura politica egemone nel sistema internazionale e fino a che punto coerenti con la stabilità del sistema nel suo complesso) ma anche a seconda della reputazione del regime e del governo che le formulano (in termini soprattutto di affidabilità e consistenza tra dichiarazioni e azioni).

Oggi come ieri, se non viene specificata, la rivendicazione della sovranità è una mera banalità. Ogni Paese, e ogni classe politica, aspira infatti alla tutela della propria sovranità, alla possibilità di minimizzare l’impatto dei fattori esterni sulla propria volontà e sulle proprie decisioni. Ma la differenza sostanziale è data dal come si intende minimizzarlo, per fare che cosa e insieme a chi.

Quando, in virtù dell’esito elettorale, a formare un esecutivo è chiamata una forza dichiaratamente «antisistema», è lecito aspettarsi che ne venga influenzata pure la politica estera: del resto, negli anni i pentastellati non avevano mai cessato di rivendicare la loro radicale alterità rispetto ai partiti tradizionali anche in questo dominio. Paradossale è invece che un partito già più volte partner di coalizioni vittoriose di stampo conservatore, e membro di diversi governi di centrodestra, si ritrovi oggi a incarnare un’esibita e radicale discontinuità rispetto alla politica estera repubblicana. Gli ossessivi richiami al cosiddetto sovranismo, a un’Italia che farà da sola, padrona in casa propria, più disponibile a «nazionalizzare» le grandi questioni piuttosto che ad «internazionalizzarle», esprimono la sintesi di tale ostentata discontinuità.

Quando al governo sono forze dichiaratamente «antisistema» non può non venirne influenzata pure la politica estera

L’innaturale amalgama, ricercato caparbiamente e infine abilmente assemblato a freddo da Matteo Salvini dopo il risultato elettorale dell’8 marzo, e incarnato dall’inedito «contratto di governo» tra Lega e Movimento 5 Stelle, è possibile che non arrivi a «mangiare il panettone», come si diceva una volta degli allenatori di calcio che non portavano a casa risultati. Ma, a prescindere dalla durata della coalizione giallo-verde, è lecito domandarsi quanto potrebbero essere permanenti i danni agli interessi, alla reputazione e persino alla sicurezza del Paese che questo esecutivo è stato ed è in grado di generare.

E diciamo subito che i danni (potenziali e già in essere) a ciò che già Tucidide indicava, e poi Hobbes riprendeva, come i moventi fondamentali dell’azione esterna di uno Stato – «timore», cioè sicurezza, «interesse» e «onore», ovvero reputazione – appaiono cospicui e destinati a ingigantirsi nel loro interagire. Sappiamo bene quanto l’Italia abbia faticato, fin dal suo costituirsi in Stato unitario, per costruirsi un profilo di Paese affidabile e consistente, le cui aspettative meritassero e ottenessero la stessa considerazione di quelle dei suoi interlocutori. I fallimenti, in questo senso, sono stati molti più dei successi. Dopo la disastrosa sconfitta nella Seconda guerra mondiale, l’Italia si è ritrovata a risalire nuovamente la china, dovendo ricostruire daccapo la reputazione di solido membro della comunità internazionale, irrevocabilmente collocato tra le democrazie occidentali, in grado di riprendere quella direzione strategica di ancoraggio in Europa che già il conte di Cavour aveva intrapreso, fin dalla sua decisione di trovare nella «europeizzazione» (al Congresso di Parigi del 1856) la via per la soluzione della questione italiana.

Questa Italia ha scelto di allinearsi con gli euroscettici, invece che di trovare sponde presso i suoi storici alleati

Da Cavour a Salvini di acqua ne è passata sotto i ponti. E se è pur vero che Matteo Salvini è «solo» il ministro degli Interni, al quale non spetterebbe ruolo alcuno nella direzione della politica estera, è altrettanto incontrovertibile che «la faccia» che si distingue dietro molte delle novità della «politica estera del cambiamento» (per quanto oscurata spesso da una moltitudine di prodotti alimentari) sia la sua. Che Salvini travalichi le sue competenze di ministro è talmente ovvio che non merita neppure di essere argomentato. Ma è nella sua veste di segretario di uno dei due partiti della coalizione di governo che fa valere con veemenza le sue convinzioni, aiutato in questo dalla natura tecnica (e quindi politicamente debole) del ministro degli Esteri e da quella quasi notarile del premier. Con buona pace di Conte e di Moavero Milanesi, quando in Europa, nel Mediterraneo e oltreoceano si pensa all’attuale governo si vede Salvini. È sua innanzitutto la triangolazione semplicistica tra tutela della sicurezza nazionale, questione migratoria ed evocazione della sovranità, che lo ha condotto alla ricerca di relazioni privilegiate con la galassia sovranista che furoreggia in Mitteleuropa, mentre nello stesso tempo i rapporti con Berlino, Madrid e Parigi sono costantemente peggiorati.

Eppure la politica estera dovrebbe svolgere una funzione di cerniera tra l’ambito domestico e quello internazionale

L’Italia – uno dei sei Paesi fondatori della Comunità, ricordiamolo – è oggi marginale rispetto a quel che avviene e si decide nell’Unione e ha scelto di allinearsi con gli euroscettici, invece che di trovare sponde presso i suoi storici alleati. Nel far questo, il governo italiano non solo equivoca sulla compatibilità degli interessi dei suoi nuovi «amici» con i propri (come si possa trovare un punto di sintesi tra le concezioni anguste e scioviniste dei sovranisti è difficile capirlo), ma sopravvaluta grossolanamente la portata che una simile inedita alleanza potrà avere sulla capacità di riformare quei tratti delle politiche e delle istituzioni europee che pure necessitano di una revisione. Schierare l’Italia nel fronte di chi vuole indebolire l’Unione è una scelta le cui conseguenze potrebbero essere durature: è un danno reputazionale da cui trarranno vantaggio altri. A partire dalla Spagna che, nonostante le difficoltà politiche e istituzionali in cui si dibatte, sembra però in grado di sapersi proporre come un più affidabile interprete del malessere di un’Europa mediterranea consapevole che la «secessione» spirituale e di interessi dall’Europa carolingia non è la soluzione ai suoi mali. Ovvero che se una malattia dell’Unione esiste, la terapia proposta dai sovranisti rischia di uccidere il paziente.

Di questa nouvelle vague dell’Italia sovranista la polemica antifrancese ha rappresentato una sorta di ostentato vessillo, sostenuto vigorosamente anche dai pentastellati, che ha prodotto i suoi effetti più devastanti in Libia. Sotto l’impulso decisivo di Salvini, le sole azioni concrete nella crisi libica sono state quelle orientate al blocco dei migranti, di cui la definizione della Libia come «approdo sicuro» esprime la tragica sintesi e parodia. Sul dossier libico il governo italiano si è mosso in sostanziale discontinuità con gli esecutivi precedenti, relegando sullo sfondo preoccupazioni umanitarie, interessi energetici, stabilizzazione della Libia, sicurezza nazionale e lotta al terrorismo. A partire dalla constatazione di un fattore di rivalità oggettivo nei confronti della politica di Parigi in Libia (che rimonta all’intervento Nato del 2011), questo esecutivo ha consentito l’esibizione di una polemica a tratti persino idiosincratica nei confronti del presidente francese Macron e ha commesso un grossolano errore di valutazione circa la profondità e la costanza del sostegno da parte di Trump alla «cabina di regia» italiana sulla crisi.

Al di là dei toni felpati del premier Conte, la causa prima delle polemiche e degli errori è consistita proprio nell’aver fatto della «minaccia dell’immigrazione clandestina» l’unico punto cardinale nella bussola libica dell’Italia, cui ogni altro interesse avrebbe dovuto essere ricondotto. Il fallimento della ormai monotematica agenda libica dell’Italia si manifestava, nel corso del mese di aprile, quando da Washington giungeva il sostanziale «via libera» da parte di Trump all’offensiva del generale Haftar nei confronti del rivale al Sarraj, e il governo italiano, costretto a prendere atto che senza l’appoggio americano Roma non era in grado di tenere testa né a Parigi né al suo protégé della Cirenaica, doveva prodursi in un davvero penoso riallineamento («né con Sarraj, né con Haftar»).

L’assenza di un disegno strategico è apparsa evidente, infine, nei confronti della gestione della «Belt and Road Initiative»

Come accennavo all’esordio, la politica estera dovrebbe svolgere una funzione di cerniera tra l’ambito domestico e quello internazionale. Tutti i governi tentano legittimamente di massimizzare la propria capacità di soddisfare le pressioni domestiche e di minimizzare le conseguenze negative degli sviluppi internazionali. Rispondono cioè contemporaneamente a domande esterne e domande interne, cercando di usare strategicamente le prime per evitare concessioni sgradite alle seconde e viceversa. La sensazione è che una parte cospicua della politica estera dell’attuale governo sia invece attenta esclusivamente al consenso della platea domestica, da conseguire a qualunque costo. Ogni decisione è quindi assunta in ossequio esclusivamente a quest’ultimo obiettivo. Lo si è visto anche nei confronti degli Stati Uniti, quando si è pensato di trovare nel presidente Trump un «compagno di strada sovranista», in tal modo mettendo in ombra il carattere strutturale e permanente, strategico e non congiunturale, della relazione tra Italia e Stati Uniti. Dal voltafaccia libico ai dazi commerciali, dalle polemiche nei confronti della Nato alla denuncia unilaterale del Jcpoa (l’accordo multilaterale sul nucleare iraniano) e alle relative sanzioni verso l’Iran: non una delle decisioni più importanti di questa amministrazione americana è andata a vantaggio, anche solo tattico, dell’Italia.

L’ostentata convinzione del presidente Trump che i costi della leadership fossero sacrificabili allo scopo di riaffermare un nuovo e solitario primato americano – la paradossale pretesa di contrastare l’oggettivo indebolimento relativo degli Usa, liberandosi del «peso degli alleati» – era del resto espressa dallo slogan «America first!», quello copiato da Salvini con «prima gli italiani!». Quanto accaduto tra amministrazione Trump e governo Conte illustra fin troppo bene come coniugare i sovranismi sia un esercizio futile. Non solo. La stessa idea di utilizzare platealmente una supposta relazione speciale con gli Stati Uniti di Trump in funzione di bilanciamento dell’asse franco-tedesco significa ignorare il peso che a Washington si riconosce a Parigi e Berlino (nonostante gli attriti e le tensioni), tanto più dopo la Brexit. Non si tratta di accodarsi docilmente ai più forti, ma di agire consci dei propri mezzi. Come fece l’esecutivo Gentiloni che – mentre si muoveva in Libia per tutelare gli interessi italiani evitando però uno showdown con la Francia – lanciava insieme a Macron il progetto del «Trattato del Quirinale», volto ad evitare che gli sforzi per il rinnovamento e il rilancio della relazione franco-tedesca, formalizzati nel nuovo «Trattato dell’Eliseo», emarginassero l’Italia nell’Unione post-Brexit. Era il gennaio 2018. Nel febbraio di un anno dopo, Parigi «richiamava per consultazioni» il proprio ambasciatore in Italia.

L’assenza di un disegno strategico è apparsa evidente, infine, nei confronti della gestione della Belt and Road Initiative (Bri), promossa da Pechino. La Bri costituisce non solo il tentativo di legare in maniera strutturale i Paesi che ospiteranno le infrastrutture di collegamento tra la Cina e l’Europa occidentale, ma anche un’oggettiva sfida da parte di Pechino all’egemonia statunitense. Soprattutto per via marittima – dove gli Stati Uniti sono ancora oggi i garanti della libertà di navigazione delle principali rotte mentre la Cina è già il principale «spedizioniere» – perché le acque internazionali sono per definizione «contendibili», sono cioè un elemento in cui il confronto tra superpotenze può intensificarsi e dove si possono assumere più rischi, talvolta mal calcolati. Ma la Belt and Road Initiative rappresenta anche una sorta di materiale e concreto «manifesto» dell’idea di ordine internazionale cui Pechino punta: un ordine basato sugli affari, presentati come win-win, e non intralciato da fastidiose considerazioni «astratte» come la tutela dei diritti umani, la preferenza per le democrazie, e gli altri principi che dovrebbero concorrere a ispirare la governance del sistema.

L’adesione dell’Italia, unico Paese del G7 presente a livello di premier ai due eventi organizzati a Pechino per il lancio e il consolidamento dell’iniziativa, e il Memorandum of Understanding firmato a Roma in occasione della visita del presidente cinese Xi hanno destato perplessità se non vera e propria irritazione a Washington come a Berlino e Parigi. Anche in questo caso la continuità tra il governo Gentiloni e il governo Conte è solo apparente. Perché, mentre il governo Gentiloni manifestava un aperto interessamento per la Bri, allo stesso tempo dimostrava concretamente un costante sforzo di rinsaldare la sua appartenenza al nucleo centrale dell’Unione, garantire l’adesione di fondo dell’Italia ai principi liberali e multilaterali dell’ordine internazionale, rispettare il quadro dei trattati e delle norme internazionali cui l’Italia aderisce e obbedisce anche quando ricerchi un burden sharing meno gravoso per lei.

Per il governo Conte il sostegno all’iniziativa cinese si è invece prodotto in un contesto totalmente differente, di progressivo disallineamento rispetto all’ordine liberale internazionale: cioè quell’ordine, peraltro sempre più fragile, che ha incarnato politicamente il concetto stesso di Occidente nel secondo dopoguerra, definito dalla sua matrice atlantica ed europea, dove sicurezza e libertà si rinsaldano reciprocamente e gli eccessi delle sovranità vengono attutiti dalle istituzioni internazionali.

Si tratta di un Occidente completamente diverso da quello cui Salvini continuamente si richiama: cupamente identitario, assediato dai barbari alle porte, dai confini «murati», attraversato da paure alimentate dalla propaganda sovranista, in cui la libertà è sempre sacrificabile nel nome della sicurezza. Ed è proprio questa contrapposizione, questa evocazione e adesione dell’Italia sovranista a un Occidente tragicamente imploso nella Seconda guerra mondiale, il danno più grave e permanente che questo governo potrebbe arrecare agli interessi, alla reputazione e alla sicurezza dell’Italia.

Mettiamoci in cammino, insieme

Fonte Associazione Popolari a firma di Domenico Galbiati    

“Mettiamoci in cammino”. Insieme. Senza primogeniture, senza rivendicazioni o gelosie di ruolo, in modo collegiale, con un sentimento di grande gratuità.

Si può sintetizzare così il senso dell’ appuntamento di Torino organizzato dall’Associazione dei Popolari e che ha visto la partecipazione, oltre noi di Politica Insieme, di altre realtà piemontesi come Monviso in Movimento per il cuneese e Impegno Liberi e Forti di Alessandria, i bresciani dell’Associazione De Gasperi, l’Unione per il Trentino di Dellai, i Popolari per Cesena, collegati con l’Associazione Zaccagnini, e di Rete Bianca.

Mettiamoci in cammino, secondo l’urgenza del momento, come suggerisce Guido Bodrato.

L’ urgenza di mettere in rapporto tra loro esperienze che abbiano in comune la necessità di una interpretazione dell’attuale momento storico diretta ad impedire che si cada in una qualche forma di “democrazia illiberale”.

Per esplorare un territorio che ancora non conosciamo.

Per costruire il futuro; per rifondare una comunità; per affermare la dignità della persona e, a tal fine, la centralità del lavoro; per una nuova stagione dei “liberi e forti”, come ha affermato Alessandro Risso che, come responsabile dell’Associazione dei Popolari piemontesi, ha organizzato l’incontro.

Difficile portare a sintesi in un breve testo la mole di spunti che l’incontro ha offerto nelle relazioni e nel dibattito; a cominciare dal contributo scritto inviato da Renato Balduzzi in ordine al percorso politico-programmatico realizzato ad Alessandria in tema di migranti, attraverso il Consiglio Territoriale per l’Immigrazione; un modello importante di presenza e di azione a tutti gli effetti di carattere espressamente “politico” condotta, dentro la società civile, da componenti significative della stessa società civile ed in raccordo con le istituzioni pubbliche.

Al professor Guasco è stato affidato un compito quanto mai impegnativo: immaginare cosa avrebbe fatto Sturzo in una fase storica, in un contesto politico come l’attuale.

Ha ripercorso, dalla metà degli anni ‘90, l’intera stagione della cosiddetta “seconda repubblica”, riassumendola nel segno di una “grande contraddizione” tra le premesse programmatiche delle origini e gli esiti che ne sono seguiti.

Ha ricordato, in particolare, come Dossetti fin d’allora invitasse a prepararsi per i successivi vent’anni, avendo, evidentemente, compreso, a fronte di una fase storica dell’impegno politico del cattolici-democratici che si chiudeva, come un ripresa della loro presenza dovesse passare dalla paziente e lunga maturazione di una nuova consapevolezza.

Concetto ripreso anche da Giorgio Merlo che ha invocato una presenza unitaria dei territori e dei mondi vitali che fanno riferimento al mondo cattolico, secondo un modello federativo che riconosca a tutti gli attori che intendono concorre a questa nuova stagione di impegno, una piena e riconosciuta cittadinanza ideale, nel segno di una autonomia sostenuta dalla competenza di nuove classi dirigenti.

Un percorso che Lorenzo Dellai ha raffigurato in tre tappe, scandite in un ordine preciso: costruzione di “una” – e solo una, dunque, necessariamente comune e condivisa – comunità politica popolare, dotata di una precisa consapevolezza del proprio ruolo e della propria identità, autonoma; costruzione di una nuova idea di “centro”; solo a questo punto, costruzione di una nuova alleanza per il governo del Paese, chiamando a questa prova leadership effettivamente, radicalmente nuove.

Sapendo che, ad esse compete, anzitutto – come ha ricordato con grande determinazione, ancora una volta, Guido Bodrato – la responsabilità di affrontare a viso aperto, contrastare e combattere il dilagare di una visione autoritaria della democrazia.

La stessa riduzione del numero dei parlamentari ne è un segno.

Va, infatti, nella direzione di un contenimento della democrazia rappresentativa, a favore di una concentrazione del potere, verso forme di democrazia diretta ed illiberale, incline, ad Est, ai modelli putiniano e cinese , a quello trumpiano ad Ovest.