11.8 C
Roma
mercoledì, 5 Novembre, 2025
Home Blog Pagina 471

Vi racconto Eco, la nuova moneta africana. L’analisi di Valori

Fonte Formiche.net a firma di Giancarlo Elia Valori

L’undici giugno 2019, nel corso di una riunione tenutasi ad Abuja, la capitale federale della Nigeria, i quindici membri dell’Ecowas (Economic Community of West African States) hanno deciso di coniare, molto probabilmente per il 2020, una nuova moneta africana, il cui nome è stato già scelto: “Eco”.

I quindici Stati dell’Ecowas (la stessa associazione che in sigla francofona, si chiama Cedeao e che si occupa soprattutto di una parte dell’applicazione del Franco Cfa) sono, lo ricordiamo, Benin, Togo, Burkina Faso, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea-Bissau e Liberia, che pure fondò Ecowas nel 1964, poi con la ulteriore definizione del trattato di Lagos nel 1975, arrivarono Mali, Niger, Nigeria, Senegal e Sierra Leone.

Si noti che, mentre la Mauritania ha abbandonato completamente l’Ecowas nel 2000, il Regno Alawita del Marocco, dal 2017, ha invece richiesto ufficialmente di parteciparvi.

Il progetto di “Eco”, che dura, almeno programmaticamente, dal 2015; e che risuona molto come l’”Euro”, è nato però all’interno di una associazione fra Stati più ristretta di ECOWAS, ovvero la Wamz, West African Monetary Zone, che si compone di Gambia, Ghana, Guinea, Liberia, Nigeria, Sierra Leone.

Stati che appartengono anche all’Ecowas, come si può vedere, ma che intendono arrivare ad un’unione economica e monetaria molto simile a quella dell’Ue, avendo peraltro economie meno distanti tra di loro di quelle dell’intero insieme di Ecowas.

Il lancio di Eco, lo ricordiamo, è stato rimandato fin dal 1983, e oggi si prevede nel 2020, ma sempre sulla carta.

I francesi lo definiscono, con una vecchia formula del gergo giornalistico estivo, un “serpente di mare”, ma bisogna stare sempre molto attenti alle eccessive semplificazioni e alla scarsa stima per amici e avversari.

Certo, otto tra i Paesi dell’Ecowas-Cedeao dovranno quindi abbandonare il Franco Cfa, mentre gli altri sette la loro moneta nazionale.

Si richiede per la nuova Eco, come dice il comunicato finale dell’ultima riunione dei 15, un “approccio graduale” a cominciare da quei Paesi che mostrano un più evidente “livello di convergenza”.

Per l’Ue e il suo euro, i criteri di convergenza furono, lo sappiamo bene, la stabilità dei prezzi, che è vista come unico segno dell’inflazione, ma non sappiamo quanto questa idea sia corretta, poi le finanze pubbliche “sane e sostenibili”, che non vuole dire nulla ma che, in Ue, vuol dire disavanzo non superiore al 3% del Pil e debito pubblico non oltre il 60% del Pil.

I NUMERI DELL’AFRICA

In Africa, da questo punto di vista, le cose non vanno troppo bene.

Da poco, il debito di tutto il continente nero ha superato i 100 miliardi di euro, dopo che il Ghana ha acceso da poco tempo un debito, denominato in euro, e in un sol colpo, di 2,6 miliardi.

Nel solo 2018 i Paesi africani sono arrivati a un debito totale e solo in euro di 27,1 miliardi, ma nel 2017 Egitto, Ghana e Benin hanno preso euro in prestito per 7,6 miliardi. La Nigeria arriverà poi ai 17,6 miliardi di euro di debiti alla fine di quest’anno. Dieci Paesi africani hanno già emesso eurobond, tra poco ce ne saranno 21.

Ma è anche vero che il rapporto debito/Pil dei Paesi africani è in media del 53%, mentre negli anni ‘90 e nel primo decennio del 2000 eravamo arrivati al 90%-100%.

Ovvie le cause dell’aumento recente del debito in euro (e in dollari) dei Paesi africani: le conseguenze della crisi finanziaria globale e la diminuzione strutturale del prezzo delle materie prime.

Peraltro, molti investitori hanno iniziato a operare anche in Africa, visto il bassissimo livello degli interessi in Usa ed Europa.

L’Egitto è oggi il Paese più indebitato, con 25,5 miliardi di euro in totale.

Poi c’è il Sud-Africa, con 18,9 miliardi, la Nigeria con 11,2, il Ghana con 7,8 miliardi di Euro, la Costa d’Avorio con 7,2, l’Angola con 5 miliardi, il Kenya con 4,8 miliardi di euro, il Marocco con 4,5, il Senegal con 4 miliardi di Euro e, infine, lo Zambia con soli 3.

Gli analisti delle banche internazionali prevedono che, in futuro, il debito, in euro e in dollari, per i Paesi africani non sarà un problema.

Anzi, secondo la Banca Mondiale il rapporto debito-Pil dovrebbe cadere, in media, fino al 43% per tutti i maggiori Paesi africani.

La quota degli eurobond per il totale del debito è, nel caso peggiore, il Senegal, del 15,5%, mentre il migliore standard rimane la Tunisia, con 6,3 miliardi di euro di debito emessi tramite eurobond.

Altre variabili sono, come è facile immaginare, il costo del servizio del debito, che è raddoppiato in due anni fino a raggiungere il 10%, e l’aleatorietà del prezzo al barile dei mercati petroliferi, dato che tutti questi Paesi, salvo la Nigeria, sono importatori netti di petrolio.

Quindi, parlare di finanze “sostenibili” non lo si può fare di certo, anche se molti Paesi Ecowas hanno un rapporto debito-Pil che suscita, in questi giorni, le nostre invidie.

Poi c’è la stabilità del tasso di cambio, richiesta per l’entrata nell’Euro e che è, come sappiamo, uno dei primari criteri di “convergenza”.

Per l’associazione africana a quindici, si prevede una crescita media del Pil annuo del 6,3%, data l’espansione dell’estrazione petrolifera in Costa d’Avorio, Sierra Leone, Burkina Faso e Ghana, mentre la stabilità fiscale, in media di circa l’1,7% in più per il 2019, è accettabile.

Quindi, se applichiamo i criteri soliti dell’euro, la nuova moneta Eco appare quindi difficilissima da creare, ma non impossibile, almeno in tempi lunghi.

L’Ecowas ha caldeggiato il progetto della sua moneta unica molte volte: all’inizio, venne teorizzato addirittura nel 1983, poi ancora nel 2000, infine nel 2003 e oggi si parla, lo abbiamo visto, del 2020.

Certo, c’è già un accordo, tra i Paesi Ecowas, di abolizione dei permessi per i viaggi, e molti dei 15 carezzano progetti di integrazione economica e produttiva.

Ma, per quel che riguarda la convergenza per il deficit di bilancio, solo cinque Paesi, ovvero Capo Verde, Costa d’Avorio, Guinea, Senegal e Togo possono mantenere fede già oggi al programma della moneta unica africana, avendo un deficit di bilancio di non oltre il 4% e un tasso di inflazione non superiore al 5%.

Se quindi ci sarà convergenza in tempi ragionevoli, cosa che non possiamo certo escludere, è però improbabile che ciò avvenga entro il 2020.

Peraltro, i livelli di sviluppo tra i 15 sono molto differenti.

Diversi livelli di indebitamento, di tassi di interesse, di debito pubblico, sono quindi tali da non essere unificabili in breve tempo, visto che la quota della manifattura, in Africa, sta diminuendo e le economie che operano sulle materie prime sono, da sempre, particolarmente anelastiche.

La Nigeria, poi, vale da sola il 67% del Pil di tutto l’Ecowas, quindi l’Eco sarebbe, alla fine un naira allargato.

Con gli stessi problemi che abbiamo noi, che godiamo di un euro che è, di fatto, un marco tedesco allargato.

Si va, per quel che riguarda l’inflazione, da un tasso del 27% in Liberia all’11% in Nigeria, con Senegal e Costa d’Avorio che hanno una inflazione “europea” dell’1%.

IL FRANCO CFA

Certo, il franco Cfa, è uno strumento “coloniale” ma, comunque, ha garantito la stabilità monetaria e una forza negli scambi che, sicuramente, le varie monete delle ex-colonie francesi non avrebbero potuto raggiungere da sole. Il meccanismo del franco Cfa, lo ricordiamo, è che gli Stati aderenti devono depositare il 50%, oggi, delle loro riserve esterne in un conto presso il Tesoro francese.

È però da evitare il danno dell’euro, che è quello di non poter evitare gli shock asimmetrici. È una moneta, l’euro, che è soprattutto un accordo di cambi fissi. Si pensi poi qui agli aggiustamenti che la Nigeria ha messo in opera nel 2016; e peraltro le inflazioni dei vari Paesi Ecowas sono stabili ma non omogenee. Dall’11% all’1% dalla Nigeria al Senegal.

Tra il 2000 e il 2016, il Ghana è oscillato tra un tasso di inflazione del 16,92%. Il fatto è che tutti i Paesi Ecowas, e anche gli altri stati africani, sono importatori netti. I Paesi dell’ovest africano non commerciano, poi, primariamente tra di loro. Se le monete uniche sono fatte soprattutto per stimolare gli scambi, allora questo non è certo il caso.

Il franco Cfa era, comunque, un modo di rendere omogenei, geo-politicamente e finanziariamente, i Paesi ex-colonie francesi da unire contro la Nigeria, avamposto degli interessi britannici (e statunitensi) nell’Africa sub-sahariana. Nessuno dei governi Ecowas vuole inoltre trasferire potere finanziario o politico alla Nigeria, né Abuja ha alcun interesse a trasferire potere decisionale a Paesi alleati certo, ma molto più piccoli e meno globalmente importanti.

L’articolo completo si può leggere qui 

Papa Francesco prega per i migranti uccisi nel raid aereo in Libia

Dopo la recita dell’Angelus, il Papa ha invitato i fedeli a pregare rivolgendogli queste parole: “anche se sono passati alcuni giorni, invito a pregare per le povere persone inermi uccise o ferite dall’attacco aereo che ha colpito un centro di detenzione di migranti in Libia. La comunità internazionale non può tollerare fatti così gravi.

Prego per le vittime: il Dio della pace accolga i defunti presso di sé e sostenga i feriti. Auspico che siano organizzati in modo esteso e concertato i corridoi umanitari per i migranti più bisognosi. Ricordo anche tutte le vittime delle stragi che recentemente sono state compiute in Afghanistan, Mali, Burkina Faso e Niger. Preghiamo insieme”.

La preghiera e la riflessione del Papa riguardano dunque i contesti regionali scossi da guerre civili e violenze settarie che, anche negli ultimi giorni, hanno provocato numerose vittime.

Udine: “Magnifici ritorni. Tesori aquileiesi dal Kunsthistorisches Museum”

Uno straordinario esempio di accoglienza e di dialogo tra culture diverse, oggi come 2200 anni fa.
È questa Aquileia, la città archeologicamente più preziosa dell’antico Stato asburgico, unita a Vienna da uno storico dialogo artistico e culturale, e presto anche da una mostra che rinnoverà il prezioso fil rouge tra l’antica città romana, patrimonio Unesco, e il Kunsthistorisches Museum.

“Magnifici ritorni. Tesori aquileiesi dal Kunsthistorisches Museum” fino al 20 ottobre riporterà, a distanza di quasi 200 anni tra le sale del Museo Archeologico Nazionale recentemente riallestito, 110 reperti archeologici restituiti dal ricco sottosuolo aquileiese ed esposti nella collezione permanente del museo austriaco.

Tra i pezzi più attesi in mostra – voluta dalla Fondazione Aquieia, dal Polo Museale del Friuli Venezia Giulia e dal Kunsthistorisches Museum di Vienna per celebrare i 2200 anni dalla fondazione della città friulana – c’è la massiccia croce bronzea del IV secolo con il monogramma dato dall’intersezione delle lettere alpha e omega appese al braccio orizzontale della croce latina. Questo oggetto, molto caro agli abitanti di Aquileia, fu rinvenuto durante i lavori per l’aratura di un vigneto in località Monastero, e fu donato a Vienna dal barone Ettore van Ritter.

Superticket. Il Veneto lo abolisce dal 2020 per i redditi inferiori a 29mila euro

Nella sanità veneta, a partire dal primo gennaio 2020, sarà abolito il “superticket” nazionale sulla prestazioni specialistiche ambulatoriali, introdotto nel 2011, per tutte le persone economicamente vulnerabili, con un reddito inferiore a 29 mila euro annui. Lo ha deciso la Giunta regionale, nella sua ultima seduta su proposta dell’Assessore alla Sanità Manuela Lanzarin.

La decisione è stata resa possibile dal riparto tra le Regioni italiane di una somma complessiva di 60 milioni di euro, dei quali 6 milioni 879 mila 302 sono andati al Veneto.

 

Renzi “Cannoniere”

I pianeti, ordinatamente, ruotano attorno al sole perché la forza di gravità dell’astro li trattiene in orbita. Dovesse perdere tale forza, i corpi giranti potrebbero prendere una via rettilinea e andarsene via.

Ora, fuor di metafora, se l’astro rappresenta l’idea e i pianeti i soggetti che la seguono, se la prima smarrisce la sua intensità, i soggetti fanno le valige e se ne vanno. L’idea è, in questo caso, il PD; i pianeti sono i soggetti che riempiono quello spazio.

Fino ad oggi, se escludiamo Bersani, D’Alema e Speranza, che se ne sono andati due anni e qualche mese fa, è sembrato che l’intero carro mantenesse le sue parti. Ma è di ieri, la notizia principesca che un soggetto, già in precedenza recalcitrante, ne ha sparata una grossissima. Quando s’intende passare dalla guerriglia intestina a una vera e propria guerra di frontiera, si lancia il missile sulle pagine dei giornali.

Matteo Renzi, con vigile coscienza, ha cercato di ferire a morte alcuni suoi conterranei di parte. Non ha mirato al Segretario Zingaretti, né ai quartieri a lui distanti, ha alzato il fucile su Gentiloni e Minniti. Per chi avesse memoria corta, due suoi luogo tenenti di prim’ordine.

Il recente passato ha visto costoro avvicinarsi al profumo della sedia principale e Renzi, con la sua penna ha inteso marcare una bordata micidiale. In questo caso, è vero, rivolta ai due soggetti, ma in realtà la finalità era colpire il PD.

Ho estremizzato?

No. Per nulla.

Da quand’è che i commentatori suggeriscono quale sia la via prediletta dal fiorentino? Almeno dalla sconfitta elettorale nazionale. E forse qualcuno ipotizzava un allontanamento ancora precedente, vale a dire dopo la sconfitta del referendum del 4 dicembre 2016. Quindi, come vedete, resto sulla scia già tracciata. Nulla di nuovo. Di nuovo c’è l’intensità dell’operazione, è un dispositivo pensato e ripensato, calibrato e gettato nella mischia: l’articolo sul giornale è la misura di una volontà non solo esplicitata ma senz’altro lungamente coltivata.

Tutto questo indurrà il comandante e le sue truppe, di strappare dalla terra madre? Il coraggio o c’è o non c’è. Se il suo desiderio, ormai esplicito, è quello di non condividere quel soggiorno, e la sua vecchia casa è ai suoi occhi diventata inospitale, dovrebbe rimboccarsi le maniche e non cincischiare tanto. Insomma, mostrare il coraggio delle sue vere intenzioni.

Un po’ dappertutto tra le fila dei partiti di opposizione – escludo per ora FdI – sono in corso lacerazioni a non finire: in FI; in LeU; e nel PD, come detto. Deve esserci proprio un clima rovente e invece di irrobustire le fila per opporsi a Salvini e compagni, questi si perdono a misurare chi ce l’ha più grande. Un bel esempio di stupidità politica.

Ogni giorno ci riserva qualche sorpresa e noi che invece desideriamo ardentemente consumare un’estate tranquilla sotto gli ombrelloni.

Usa contro Cina? L’appello controcorrente

Articolo già apparso sulle pagine di Formiche.net

Il Washington Post pubblica una lettera redatta da cinque menti delle relazioni estere americane – professori di Harvard, MIT, Yale, analisti del Wilson Center e del Carnegie Endowment for International Peace – che chiedono al presidente Donald Trump e al Congresso di non esagerare  nello scontro con la Cina, perché aprire qualsiasi genere di guerra con Pechino non sarebbe conveniente per nessuno, a cominciare dagli Stati Uniti, ma anche per il mondo (e dunque per gli interessi degli Stati Uniti e degli alleati). La lettera riporta in calce la firma di dozzine di studiosi, il gotha del pensiero americano sulla politica estera ed economica, a cui è stato sottoposto il documento.

LE POLICY E IL CONTESTO

Si tratta di una bozza di policy, perché delinea i contorni del problema e spiega come comportarsi, e arriva in un momento favorevole perché in questa fase il presidente Trump, che ha da poco chiuso una proficua chiacchierata a latere del G20 col suo omologo cinese, Xi Jinping, potrebbe essere un po’ più ricettivo – ha addirittura messo sul piatto di un accordo a tutto tondo col Dragone la possibilità di stracciare la politica di isolamento contro Huawei, e non è poco come contenuto e simbolo.

Sia chiaro, “China is not an enemy” – questo il titolo del documento – si apre con un prologo fondamentale: “[…] siamo molto turbati dal recente comportamento di Pechino, che richiede una forte risposta”, conditio sine qua non affinché chi legge, la Casa Bianca e congressisti, vadano avanti senza buttare la lettera nel cestino. Perché se c’è una cosa abbastanza chiara in questo momento è che la competizione/confronto con la Cina è un argomento sentito da tutti gli apparati di qualsiasi colore politico o posizione all’interno della catena del valore e della macchina della sicurezza americana. Oltre le analisi accademiche.

PRAGMATISMO VS NAZIONALISMO, IN CINA

Il documento è costruito in sette punti, vediamoli. Si parte così: la maggiore repressione interna, un maggiore controllo statale sulle imprese private, il mancato rispetto di molti dei suoi impegni commerciali, maggiori sforzi per controllare l’opinione straniera e una politica estera più aggressiva, fanno della Cina un problema che però non è risolvibile con “l’attuale approccio” che è “fondamentalmente controproducente”, ossia rischia di inasprire le linee nazionaliste di Pechino. La Cina, scrivono, è un competitor economico, ma “non è una minaccia per la sicurezza nazionale che deve essere affrontata in ogni ambito”. E qui c’è una grande distanza con la postura attuale che ingaggia contro il Dragone uno scontro globale. Secondo gli studiosi potrebbe essere meglio un mix di “concorrenza e cooperazione” che potrebbe far crescere “le élite […] dall’approccio moderato, pragmatico e genuinamente collaborativo” che a Pechino soffrono contro i nazionalisti.

CHIUSURA = AUTO-DANNEGGIAMENTO

Altro aspetto: gli “Stati Uniti non possono rallentare in modo significativo l’ascesa della Cina senza danneggiarsi”. La teoria è: se Washington cerca di limitare la Cina facendo pressioni sugli alleati, rischia di danneggiare la propria reputazione internazionale, chiedendo a quegli alleati qualcosa che non possono fare – “trattare la Cina come un nemico economico e politico” – e isolandosi da loro. Secondo il suggerimento dei redattori del documento, invece, Washington dovrebbe lavorare con i propri partner per creare un mondo più aperto, perché “gli sforzi per isolare la Cina semplicemente indeboliranno l’intenzione cinese di sviluppare una società più umana e tollerante”.

IL DRAGONE NON È FORTE

La Cina, inoltre, non ha la forza politica – e forse nemmeno l’interesse – per sottrarre agli Stati Uniti la leadership globale, ha spinto per la costruzione di un esercito sempre migliore, che ha messo in difficoltà gli Usa in alcune aree di controllo come il Pacifico, ma gli autori suggeriscono che per Washington basterà giocare la propria deterrenza con gli alleati per riequilibrare le cose. “Pechino sta cercando di indebolire il ruolo delle norme democratiche occidentali all’interno dell’ordine globale. Ma non sta cercando di rovesciare componenti economici vitali e altre componenti di quell’ordine di cui la stessa Cina ha beneficiato per decenni”, per questo gli studiosi pensano che gli Stati Uniti dovrebbero impegnarsi a coinvolgere Pechino in regimi globali nuovi e modificati.

L’articolo completo è disponibile qui 

Migranti: l’11 luglio alla Camera convegno “Perché ci conviene”

Introdurre canali di ingresso per lavoro che facilitino l’incontro dei datori di lavoro italiani con i lavoratori dei Paesi terzi e regolarizzare gli stranieri radicati nel territorio che si trovino in situazione di soggiorno irregolare a fronte della disponibilità di un lavoro o di legami familiari, sul modello di Spagna e Germania.

Sono i due aspetti della proposta di legge di iniziativa popolare “Nuove norme per la promozione del regolare permesso di soggiorno e dell’inclusione sociale e lavorativa di cittadini stranieri non comunitari” su cui si concentrerà il convegno “Perché ci conviene: nuovi strumenti per la promozione del lavoro e dell’inclusione della popolazione straniera in Italia” in programma giovedì 11 luglio nella Sala dei Gruppi della Camera dei deputati (ore 10-13).

L’iniziativa è dei promotori della campagna “Ero straniero – L’umanità che fa bene” con la volontà di suscitare un confronto tra i parlamentari e i rappresentanti di Banca d’Italia, Confindustria, Cia-Agricoltori italiani, Istat, Inps e Fondazione Leone Moressa.

La campagna “Ero straniero” è promossa da Fondazione Casa della carità “Angelo Abriani”, Acli, Arci, Asgi, Centro Astalli, Cnca, A Buon Diritto, Cild, Radicali Italiani, insieme a Oxfam Italia, ActionAid Italia, Legambiente Onlus, Ascs-Agenzia Scalabriniana per la cooperazione allo sviluppo, Aoi, Federazione Chiese evangeliche italiane, con il sostegno di numerosi sindaci e organizzazioni impegnate sul fronte dell’immigrazione.

Oggi la Grecia è chiamata al voto

Oggi  in Grecia, i cittadini saranno chiamati alle urne per eleggere il nuovo Parlamento. Le elezioni anticipate sono state convocate dal presidente greco, Prokopis Pavlopulos, su richiesta del premier uscente Alexis Tsipras a seguito della sconfitta del suo partito, Syriza, alle elezioni europee del 26 maggio scorso.

In quell’occasione il principale partito di opposizione, Nuova Democrazia (ND), ha ottenuto ben 9 punti percentuali in più di quello del primo ministro, e raggiunto ottimi risultati anche alle elezioni locali e regionali che si sono svolte contestualmente.

Secondo gli ultimi sondaggi, si profila, infatti, una netta vittoria dei conservatori di Nuova Democrazia che, per l’istituto demoscopico Alco, potrebbero distanziare di quasi dieci punti percentuali Syriza.

Nello specifico, secondo l’istituto, il premier Alexis Tsipras crollerebbe dal 35,5% del 2015, al 29,2%, mentre i conservatori potrebbero conquistare il 38,6% (oltre 10 punti in più rispetto a quattro anni fa). Con queste percentuali, e grazie al premio di maggioranza, ND avrebbe una maggioranza di 160 deputati su 300.

Per il sondaggio, gli altri partiti che hanno buone possibilità di entrare in Parlamento sono lo schieramento di centrosinistra Kinal (Movimento del cambiamento) con il 7%, i comunisti con il 5% e il partito di estrema destra Alba Dorata con il 4%. Al di sotto della soglia di sbarramento invece Mera25, la formazione dell’ex ministro alle Finanze Yanis Varoufakis.

La leggenda del pasticciere aviatore

Nel mondo attuale, così immerso in un eterno presente, assistiamo sempre più spesso a un black-out della memoria, in una malinconia senza luce, rispetto alla quale solo la forza delle parole, libere nella propria essenza, può imporsi con spirito resiliente. In tal senso, Barbara Appiano offre ai suoi lettori un percorso di resilienza, articolato in ventidue capitoli dal taglio eterogeneo ed estremamente dinamico.

L’autrice si abbandona al logos, da intendere quale una folgorazione verso la fantasia e l’immaginazione, esplicitata attraverso analogie e metafore, con uno stile talora ungarettiano. La parola rimane così scolpita nella mente del lettore, come un forte grido verso la democrazia. Infatti, il libro è la storia di un’utopia, poiché il protagonista Franco è un pasticciere aviatore, che si occupa di distribuire il latte ai bambini cileni, prima dell’affermazione del regime dittatoriale di Augusto Pinochet. Barbara Appiano introduce tale tematica a partire dai ricordi di un vecchio pensionato incontrato in ospedale, dove la malattia lascia il posto, per un istante, alle ali delle parole, in nome del motto “Adelante palabra”. Il pasticciere sfida le turbolenze, allenandosi al volo vertiginoso per arrivare in un paese turbato dalla folla sanguinante, in un ring ossimorico tra la libertà liberticida e le ombre dei desaparecidos.

Il volume costituisce un addestramento verso la libertà, sulla scorta delle poesie di Pablo Neruda, anch’egli raffigurato icasticamente mentre aspetta il suo turno per il latte insieme ai bambini, o mentre si accinge a sedersi a tavola con Pinotto, zio dell’autrice e archetipo della forza dell’uomo contro ogni dittatura, tanto concreta, quanto morale. Così l’11 settembre 1973, giorno in cui Pinochet attuò il colpo di stato in Cile, evoca un altro 11 settembre, quando tutto l’occidente vide crollare il proprio sogno con lo sgretolarsi delle Torri Gemelle. La Dirección de Inteligencia Nacionaldel Cile diventa un esempio di storia negata, rispetto alla quale si erge soltanto la pietà dell’indifferenza, dal tono montaliano. Tuttavia, finché si continuerà a tacere, l’oblio della memoria sarà di per se stesso una morte, o meglio una cancrena, di fronte a cui l’autrice ha il coraggio di urlare.

Con una follia di pirandelliana memoria, il libro, in una saga del grottesco in cui il poeta Neruda diventa il cameriere di Pinochet nel banchetto della vita, mostra ai lettori una terza via rispetto all’asservimento servile e al cupo distacco, ossia la resistenza di chi trova nella parola, vivida e granitica, la soluzione per plasmare il mondo, rendendo la realtà un’immagine nitida della nostra essenza umana. In tal senso, l’intellettuale non può rimanere in silenzio, chiuso nel proprio elitarismo narcisista, bensì, di fronte all’analfabetismo etico, diventa un caterpillardella libertà.

Prof.ssa Francisetti Brolin Sonia

L’ordinanza emessa dalla Regione Lazio per far fronte all’emergenza rifiuti della Capitale.

Per assicurare l’immediata pulizia e raccolta dei rifiuti la regione impone ad Ama di:

  • provvedere all’immediata pulizia, raccolta dei rifiuti e disinfezione/disinfestazione in adiacenza di siti sensibili (ovvero in adiacenza di strutture sanitarie e socio-assistenziali, strutture per l’infanzia, mercati rionali, cucine ed esercizi di ristorazione), da completare entro il termine di 48 ore dalla notifica della presente ordinanza.
  • provvedere alla pulizia e alla raccolta dei rifiuti nel restante territorio di Roma Capitale entro 7 giorni a decorrere dalla notifica della presente ordinanza.
  • anche a seguito degli ultimi eventi che hanno diminuito il numero dei cassonetti disponibili, entro 7 giorni a decorrere dalla notifica della presente ordinanza Ama dovrà assicurare la provvista dei primi 300 cassonetti entro 3 giorni. 
  • Più mezzi per la raccolta rifiuti sia differenziata che indifferenziata, stradale o porta a porta, al fine di minimizzare la permanenza dei rifiuti per le strade, anche con l’ausilio di ditte appaltatrici, entro 7 giornia decorrere dalla notifica della presente ordinanza.
  • Garantire raccolta, trasporto e lavorazioni nei propri impianti anche nei giorni festivi 
  • Assicurare la funzione di trasferenza nell’ambito del territorio di Roma Capitale verso gli impianti di trattamento, mantenendo in esercizio il sito attualmente autorizzato o individuando uno o più siti alternativi, anche di trasbordo, da avviare all’esercizio entro 15 giorni.

Nel caso di individuazione di siti alternativi che richiedano l’avvio di una procedura di autorizzazione, questa potrà essere presentata all’amministrazione competente, anche contestualmente alla messa in esercizio e comunque non oltre 7 giorni successivi a tale data.

Per il monitoraggio degli obiettivi: Ama e Roma Capitale dovranno fornire aggiornamenti ogni 3 giorni sullo stato di adempimento degli ordini sopra elencati. I Dipartimenti di igiene e sanità pubblica delle aziende sanitarie Roma 1, Roma 2 e Roma 3 dovranno attivare protocolli di verifica e monitoraggio;

Per assicurare la fase del ciclo di gestione dei rifiuti relativa al trattamento:

  • ai seguenti operatori: AMA spa, E.Giovi – Amministrazione Giudiziaria per gli impianti TMB 1 e 2 di Malagrotta, Ecologia Viterbo srl, Rida Ambiente srl, SAF spa, Porcarelli Gino & C., Ecosystem, CSA e Acea Ambiente srl per l’impianto di termovalorizzazione, di operare con decorrenza immediata al massimo della capacità di trattamento autorizzata su base giornaliera, garantendo i trattamenti anche nei festivi, secondo le richieste che AMA spa formalizzerà, garantendo le prestazioni stabilite dalle BAT di settore al minimo di quanto stabilito nei vari flussi di trattamento
  • agli impianti TM e TMB/TBM, con decorrenza immediata: di privilegiare la predetta capacità di trattamento con i rifiuti avente EER 200301,
  • di procedere allo svuotamento delle fosse di ricezione dei rifiuti indifferenziati quando ciò sia possibile, anche in deroga a specifiche prescrizioni indicate nelle autorizzazioni integrate ambientali
  • di ricorrere al deposito temporaneo nel rispetto di quanto previsto all’art. 183 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, per necessità riconducibili all’allontanamento degli scarti
  • a tutti gli operatori e, in particolare, ad ACEA Ambiente srl, società indirettamente controllata da Roma Capitale, di procastinare tutte le manutenzioni programmate successivamente alla 34° settimana, tenuto conto del fisiologico calo della produzione di rifiuti nel mese di agosto
  • ad AMA spa di attivare entro 7 giorni l’impianto mobile già autorizzato e presentare una relazione sulla situazione dello stesso
  • ai fini dell’attuazione della presente ordinanza e per il periodo della sua durata, non sono modificate le tariffe di accesso agli impianti che pertanto rimangono invariate;
  • con l’obiettivo di monitorare il perseguimento degli obiettivi ordinati nei punti da 3. A 6., ad Arpa Lazio di verificare il rispetto delle prescrizioni ordinate.

Per assicurare la fase del ciclo di gestione dei rifiuti relativa allo smaltimento:

1)      agli operatori degli impianti Lazio Ambiente srl (Colleferro), MAD srl (Civitavecchia e Roccasecca) ed Ecologia Viterbo srl di garantire la massima operatività, con turni ulteriori di lavoro anche nei festivi per soddisfare alle richieste di smaltimento degli  scarti prodotti dal ciclo dei rifiuti urbani

2)      allo scopo di monitorare il perseguimento degli obiettivi ordinati nei punti da 3. A 6., ad Arpa Lazio di verificare il rispetto delle prescrizioni ordinate.

Per la stabilità del complessivo sistema di gestione del ciclo dei rifiuti:

–       AMA e Roma Capitale dovranno avviare ogni attività amministrativo contabile finalizzata ad assicurare la stabilità dell’azienda e dei rapporti con soggetti fornitori quali, a titolo non esaustivo:

  1. approvazione entro 30 giorni dei bilanci 2017 e 2018;
  2. stipula di accordi e contratti ulteriori rispetto a quelli vigenti in grado di far fronte ad ulteriori emergenze oltre alla chiusura del TMB Salario al momento non risolte dal giorno 11 dicembre 2018;
  3. approvvigionamento di ulteriori eventuali impianti mobili.

Il raffreddore può curare il cancro alla vescica

Gli scienziati, coordinati dal professor Hardev Pandha, docente presso il Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’ateneo di Guildford, si sono concentrati su un virus del raffreddore chiamato coxsackievirus (CVA21). Una settimana prima di essere sottoposti all’intervento chirurgico i 15 pazienti sono stati coinvolti nella terapia sperimentale, legata all’inserimento del virus direttamente nel tumore attraverso un catetere.

Dall’esame del tessuto prelevato è emerso che non solo le cellule tumorali erano state uccise e la massa tumorale si era ridotta in tutti i partecipanti, ma uno dei pazienti è risultato completamente libero dalla malattia. Si tratta di un risultato straordinario, in particolar modo per un tipo di tumore tendente al rischio di recidive e molto difficile da trattare.

 

Rete Bianca, un’esperienza da proseguire.

All’indomani delle elezioni politiche del marzo 2018 con un gruppo di amici cattolici democratici e popolari sparsi nelle varie regioni italiane, abbiamo dato vita a Rete Bianca. Un movimento politico e culturale che aveva, ed ha, come unico obiettivo quello di favorire e agevolare una potenziale ricomposizione di un’area culturale che da troppo tempo vive nell’incertezza, nel disorientamento e nella cronica frammentazione. Non c’era, e non c’è come ovvio, alcuna volontà di dar vita ad un partito organizzato ma l’ambizione – quella si’ – di accelerare un rinnovato impegno politico di quest’area culturale. 

Ora, ad oltre un anno dalla nascita di questo movimento, il bilancio non può che essere schiettamente positivo e anche incoraggiante. E questo per 3 motivi di fondo. 

Innanzitutto, e anche grazie al nostro stimolo intellettuale, culturale e politico, abbiamo contribuito a richiamare l’attenzione per una nuova stagione di impegno pubblico organizzato dei cattolici italiani. Con un metodo che ci ha sempre accompagnati e caratterizzati. E cioè, nessuna deriva clericale, nessuna regressione confessionale e, soprattutto, nessuna tendenza a rappresentare in modo esclusivo la rappresentanza politica di quest’area. Un metodo che ci ha resi immuni sin dall’inizio dalla cronica tentazione di molti gruppi e realtà associative cattoliche che si dichiarano disponibili al confronto e al dialogo con tutti ma poi, concretamente, coltivano il retro pensiero di essere i depositari esclusivi della esperienza storica dei cattolici italiani. Rete Bianca, al riguardo, ha sempre sostenuto che è sicuramente positivo ricomporre – per quel che è possibile – i vari spezzoni dell’area cattolico democratico e cattolico popolare nel nostro paese ma, al contempo, si è sempre resa disponibile a costruire un percorso politico per la definizione di uno strumento politico laico, plurale, sinceramente riformista e autenticamente democratico. 

In secondo luogo Rete Bianca ha sostenuto, sin dall’inizio, la necessità di riproporre nella dialettica politica italiana il tema del “centro”. Ma, per fugare ogni equivoco o regressione nostalgica, un centro mobile, plurale, innovativo e moderno. Ovvero, l’esatto contrario di un centro che coltiva solo un posizionamento geometrico e funzionale alla sola logica del potere. Un centro, invece, espressione di un progetto politico, di una cultura politica accompagnato da una classe dirigente qualificata, espressiva e fortemente radicata nel territorio. Un centro che, tra l’altro, è ritornato a far breccia nel dibattito politico, culturale e accademico del nostro paese e che viene riproposto, paradossalmente, proprio da coloro che l’hanno delegittimato e rimosso del tutto per oltre vent’anni. Per ironia della sorte, oggi sono proprio costoro i principali sostenitori della cultura, del progetto e del partito di centro nella dialettica democratica del nostro paese. 

In ultimo, e forse questo è l’elemento più rilevante, Rete Bianca ha sostenuto sin dall’inizio della sua esperienza che in politica si è credibili, e si resta protagonisti ed interlocutori, solo se si è anche portatori di una cultura politica. E quindi di un progetto politico. Per dirla con il Presidente Ciriaco De Mita, di un “pensiero”. Ed è proprio su questo versante che entra in gioco la categoria politica che ha caratterizzato la miglior stagione del cattolicesimo politico, sociale e popolare nella storia democratica del nostro paese: e cioè, la capacità di saper declinare un progetto politico frutto di una cultura politica e non di una improvvisazione superficiale e dettata dalla sola ricerca di spazi e ruoli. Cioè di potere. 

Ecco perché l’esperienza di Rete Bianca merita di continuare. Dialogando con tutti e sempre disponibile, com’è nella sua ragione sociale, a mettersi in gioco per ricercare la strada dell’unità e della “contaminazione” culturale ed ideale con altri filoni ideali ed esperienze sociali. Senza arroganza, senza esclusivismi e, soprattutto, senza presunzione. Del resto, la presunta, e ridicola, superiorità etica e moralistica appartiene di diritto alla sinistra italiana che l’attuale partito di Zingaretti interpreta alla perfezione. Un vizio che non appartiene alla nostra storia, alla nostra cultura e al nostro modo d’essere nella politica e nella società. 

L’autonomia regionale e il silenzio del Pd

Articolo già pubblicato dalla rivista Il Mulino a firma di Gianfranco Viesti

Uno degli aspetti più interessanti delle complesse e assai importanti vicende dell’autonomia regionale differenziata è che le richieste non provengono solo da regioni a guida leghista, e cioè Veneto e Lombardia, ma anche dall’amministrazione regionale dell’Emilia-Romagna, a guida Pd.

Vi sono importanti differenze. Sotto il profilo del processo, in Emilia-Romagna – a differenza degli altri due casi – si è proceduto per via amministrativa, senza l’indizione di un referendum popolare. Sotto il profilo delle competenze, l’Emilia-Romagna (a differenza delle altre due regioni) non richiede ad esempio una vera e propria regionalizzazione della scuola, con il passaggio dei dirigenti scolastici e del personale degli uffici del Miur alle dipendenze della regione e poi con il reclutamento su base territoriale dei docenti o il passaggio di competenze in materia energetica. Infine, i responsabili politici emiliano-romagnoli hanno sempre sostenuto che la loro iniziativa non mira a ottenere maggiori risorse finanziarie, e che si inserisce perfettamente nell’attuale quadro di unità nazionale.

Vi sono tuttavia alcune criticità. La prima attiene all’estensione delle richieste emiliano-romagnole. È straordinariamente ampia: se per alcuni aspetti è inferiore a quella lombardo-veneta, per altri è superiore, come nei casi di sanità, cultura, ambiente, governo del territorio, infrastrutture, rischio sismico e protezione civile; tale da far concludere – ad esito di un’attenta analisi comparata – che se “Emilia-Romagna, da un lato, e Veneto e Lombardia, dall’altro, hanno in definitiva interpretato in maniera diversa la propria richiesta di maggiore autonomia, ciò sembra sia avvenuto con riguardo più alla forma che alla sostanza”. Purtroppo non si può far riferimento alle più recenti bozze di Intese (16.5.2019) per verificarlo, perché esse sono segrete, e neanche la regione ha provveduto a renderle note. Dunque anche per l’Emilia-Romagna valgono i gravi interrogativi di fondo sollevati nel dibattito e ripresi in un recente documento del dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio: quali sono le specificità regionali che giustificano queste richieste differenziate? Con queste richieste non si sta prefigurando una regione a statuto speciale? Se estese a tutte le regioni, come possibile (forse inevitabile), non si prefigura un surrettizio cambiamento dell’articolo 117 della Costituzione? Certamente la regione Emilia-Romagna – con tutta probabilità rompendo con una lunghissima tradizione politica – non ha proposto una diversa visione di regionalismo per l’intero Paese, ma ha richiesto maggiori competenze per se stessa: se vi è un problema nazionale di certezze di fondi per l’edilizia scolastica interessa che sia risolto nel proprio territorio.

L’articolo completo è presente qui 

 

Luigi Sturzo e Adriano Olivetti: due “anime gemelle”

di Giovanni Palladino Segretario Generale dell’Associazione di Cultura Politica “Servire l’Italia”

Non risulta che Luigi Sturzo e Adriano Olivetti si siano mai incontrati “de visu”, ma certamente si conoscevano e si stimavano, come risulta dalle loro due lettere qui allegate, nonché dal fatto che nel 1948 l’Ing. Olivetti possedeva una copia del libro più importante scritto dal sacerdote di Caltagirone, “La Vera Vita, Sociologia del Soprannaturale”, come rivelato dalla lettera qui allegata di Lina Morino. Non vi è dubbio che fra questi due grandi italiani vi sia stato un comune “idem sentire” su come affrontare e risolvere i principali problemi della società. Furono due grandi italiani dotati di una dote rara: quella di essere stati sia uomini di pensiero che uomini di azione. Infatti entrambi hanno ben scritto e ben fatto.

Molto di più ha potuto scrivere Sturzo, grazie al suo lungo esilio a Londra e a New York (1924-1946) e alle centinaia di articoli scritti dopo il suo ritorno a Roma (1) sino a pochi giorni dalla sua scomparsa, avvenuta a circa 88 anni. Non vi è dubbio che la sua voluminosa Opera Omnia (oltre 50 libri) sia anche il frutto della sua lunga esperienza di “uomo del fare” come promotore sociale, consigliere comunale, consigliere provinciale di Catania, pro-sindaco di Caltagirone e segretario politico del Partito Popolare Italiano. Olivetti, sempre molto impegnato nel “fare impresa” e scomparso prematuramente a 59 anni, ha scritto di meno, ma la qualità innovativa dei suoi libri e opuscoli rivela anche la dote di grande uomo di pensiero, che “volò” dall’architettura istituzionale dell’Italia all’architettura ambientale e sociale delle sue “comunità” a Ivrea, Pozzuoli e Matera.

UNA GRANDE FEDE NEI VALORI RESPONSABILIZZANTI DEL CRISTIANESIMO Perché due “anime gemelle”, anche se distanziate da 30 anni di età? Innanzitutto le univa una grande fede nei valori responsabilizzanti del cristianesimo, valori da loro ritenuti fondamentali per la realizzazione di una società libera e giusta. In Sturzo la “scintilla” si manifestò con la “Rerum novarum” del 1891, quando aveva 20 anni. L’Enciclica di Leone XIII gli fornì la pietra angolare su cui costruire gran parte della sua attività politica e sociale. Fu l’Enciclica che infranse il mito del liberalismo individualista (“laissez faire, laissez passer”) e il mito del nascente comunismo, definito dal Papa come una medicina peggiore del male che voleva curare.

La “Rerum novarum” contribuì a radicare in Sturzo un solido convincimento: gli ideali di libertà e di giustizia sociale si possono realizzare solo nel rispetto dei valori del cristianesimo che alla loro base hanno innanzitutto l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Valori che richiedono l’uso responsabile del dono più prezioso donato da Dio agli esseri umani: la libertà. Né il liberalismo né il comunismo si fondavano su questi valori e non potevano quindi essere utili per la società. Il liberalismo o, meglio, il liberismo selvaggio non poneva limiti alla libertà e quindi sacrificava la giustizia sociale a favore degli imprenditori-padroni, i cosiddetti possidenti, che consideravano i lavoratori come semplici strumenti di produzione. Invece il comunismo sperava di raggiungere la massima giustizia sociale ponendo in “fuori gioco” l’iniziativa privata e affidando la gestione dell’economia all’unico imprenditore-padrone: lo Stato.

Leone XIII, ben “istruito” dal grande economista cattolico (e ora Beato) Giuseppe Toniolo (1845-1918), introdusse una terza via tra queste due visioni conflittuali, ma entrambe sbagliate, parlando per la prima volta di “stretta alleanza” tra imprenditori e lavoratori per risolvere la “questione operaia”. È con la libertà economica responsabile, cioè con la buona formazione culturale degli imprenditori e con il cointeressamento dei lavoratori alla salute e agli utili dell’impresa, che si può realizzare la giustizia sociale. L’idea “rivoluzionaria” dell’Enciclica leoniana è sintetizzata nel seguente concetto fondamentale:

“Nella presente questione operaia lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra, quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile, cosa tanto contraria alla ragione e alla verità (…), perché la natura volle che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie. Ora a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa.” 

Era questa la positiva esperienza maturata da Giuseppe Toniolo in Veneto a diretto contatto con il diffuso fenomeno delle cooperative sociali e delle casse rurali. Fu così che Sturzo, studente all’Università Gregoriana e allievo del Prof. Toniolo, si rese conto delle tragedie umane causate da tanta “confusione e barbarie” nel corso dei secoli, e si convinse che benessere e giustizia sociale si potevano conseguire solo con la “conversione” del capitalismo ai valori e ai principi del cristianesimo. Una fede, che si fonda sul reciproco amore tra Dio e gli esseri umani, e di questi fra loro, non può che invitare alla massima concordia e intesa anche nel campo economico e sociale. L’ispirazione cristiana era quindi indispensabile per favorire la libertà responsabile di tutti e la giustizia per tutti.

TUTTI PROPRIETARI NON TUTTI PROLETARI

L’etica cristiana dell’economia si basa su questa stretta alleanza fra capitale e lavoro, senza la quale non può che prevalere l’egoismo dei poteri forti e lo sfruttamento dei più deboli, due mali contro i quali si scagliò Marx. Ma la sua era una cura sbagliata, perché lo Stato – per voler fare giustizia sociale – avrebbe prodotto l’ingiustizia dell’abolizione del diritto di proprietà privata, ossia di un diritto naturale che spettava a tutti.

L’incisivo auspicio di Leone XIII, forse suggerito proprio da Toniolo (“tutti proprietari non tutti proletari”), rimase impresso nella mente del giovane Sturzo, che poi agì per tutta la sua vita con una “missione” ben precisa da compiere: promuovere la funzione sociale del diritto di proprietà. Bisognava far capire quanto importante fosse il valore della libertà economica responsabile e il conseguente principio della difesa e della promozione dell’iniziativa privata. Si poteva così diffondere al massimo il diritto di proprietà privata per il benessere di tutti e non – come era sempre avvenuto nei secoli passati – per il benessere di pochi. L’incisivo auspicio di Leone XIII, espresso con soltanto cinque parole, abbatteva d’un colpo il monumentale impianto dottrinale di Marx.

Ma quelle cinque parole rappresentavano anche un atto di accusa contro l’esperienza storica del potere temporale della Chiesa (“sono lieto di essere nato nel 1871, un anno dopo la fine di quel potere” diceva Sturzo), perché anche i Papi – prima di Leone XIII – affermavano rassegnati: “Così va il mondo, chi nasce povero muore povero e chi nasce ricco muore ricco”. Ciò equivaleva a dire che Dio aveva creato il mondo per donare ricchezze naturali immense solo a una ristretta minoranza di esseri umani, vietandole a tutti gli altri; o a dire che il “crescete e moltiplicatevi” si doveva rivelare come un generoso invito al paradiso terrestre per pochi e come una ingiusta condanna all’inferno su questa terra per tutti gli altri; o a dire che “il sudore della fronte” era riservato a molti per porli al servizio dell’esclusivo piacere di pochi. Come dire che l’ingiustizia sociale era in effetti di origine divina. Ma Sturzo capì che l’ingiustizia sociale era invece di origine umana, prodotta dal violento predominio del ristretto vertice dei poteri forti sull’ampia e debole base della società.

Pertanto lo stimolo culturale e pedagogico della “Rerum novarum” fu determinante nel motivarlo all’azione sociale. In breve tempo egli si rivelò nella sua Caltagirone come un efficiente promotore di iniziative produttive e solidali, dando vita a cooperative di lavoro e di consumo, nonché alla costituzione nel 1897 di una cassa rurale in funzione anti-usura. Fu il suo metodo concreto di tradurre il pensiero – nutrito di buona cultura – in azione costruttiva. Il sistema economico-sociale della sua città doveva trasformarsi in un sistema aperto a tutti, a partire dall’istruzione di base, cioè dalla scuola elementare, sino ad allora praticamente “chiusa” ai figli dei poveri, ossia alla maggioranza dei bambini.

Il saggio incitamento, che Dante fece dire a Ulisse per motivare i suoi marinai – esausti e bloccati dalla mancanza di vento – a mettere di nuovo mano ai remi per proseguire il loro coraggioso viaggio (“Considerate la vostra semenza, fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”), non fu mai capito dai governanti del mondo né dalla Chiesa. La conoscenza (nell’italiano di Dante “canoscenza”) fu sempre riservata al vertice, mentre la base – per lo più formata da soldati e contadini – era condannata a sudare utilizzando soltanto i muscoli delle braccia; muscoli deboli, poco produttivi e quindi mal pagati, causa prima della povertà di massa, dell’ingiustizia sociale e del “viver come bruti”.

LA VERA “RIVOLUZIONE” È QUELLA DEL CRISTIANESIMO

Se questa era stata la “cultura” prevalente nella lunga storia dell’umanità, non sorprende che nel 1894 – all’inaugurazione dell’anno giudiziario – il Procuratore della Repubblica di Caltagirone dicesse: “Il saper leggere e scrivere ha dato luogo a molti inconvenienti e, specie nelle contese elettorali, alla rovina delle masse”. E nelle sue memorie, Giolitti ricordava che da Caltagirone, in quegli stessi anni, venne la richiesta dell’abolizione dell’istruzione elementare, “perché i contadini non potessero, leggendo, assorbire idee nuove”. Quelle idee nuove che invece Leone XIII promuoveva con la sua Enciclica più famosa, che infiammò la mente del seminarista Luigi Sturzo, divenuto sacerdote proprio nell’anno in cui il suddetto Procuratore della Repubblica si lamentava dei danni prodotti dalla “conoscenza”.

E nei 15 anni in cui fu pro-sindaco di Caltagirone (1905-1920), Sturzo riuscì a portare nel territorio calatino molte innovazioni “rivoluzionarie” (ma si trattava della più vera delle “rivoluzioni”, quella cristiana, non della più falsa, quella comunista), così da trasformare un popolo da sempre “estraneo” allo sviluppo economico-sociale in un popolo destinato – nelle sue intenzioni – a essere sempre più “partecipativo”, ossia partecipante allo sviluppo dell’economia, in quanto coinvolto e cointeressato in questo sviluppo. Di qui il nome di “popolarismo” dato al suo metodo di governo, quando nel 1919 fondò il Partito Popolare Italiano.

In quell’anno Adriano Olivetti, 18enne, conobbe Piero Gobetti a Torino. Fra i due giovani si stabilì subito una sincera amicizia, poi consolidata in una forte intesa culturale, quando nel 1922 Gobetti – poco più che ventenne – fondò la rivista di cultura politica “Rivoluzione Liberale” sotto l’influenza di Gaetano Salvemini. Fu quindi tramite Gobetti che ci fu il primo contatto indiretto tra Sturzo e Olivetti. Questi certamente sapeva della grande stima che Gobetti nutriva per il fondatore del PPI. Il 26 aprile 1923, a pochi giorni dalla fine del Congresso del PPI svoltosi a Torino (12-14 aprile), dove si decise l’uscita dei ministri popolari dal governo Mussolini, Piero Gobetti scriveva la seguente lettera a Sturzo: “Non ho voluto disturbarLa al Congresso, perché La vedevo preso in tante cose più importanti, ma L’ho seguita con animo da liberale. Anche per ‘Rivoluzione Liberale’ Ella mi aveva promesso qualche frammento di studio o qualche spunto: ce lo manderà?” 

Altroché “frammento di studio” o “spunto”… Sturzo era talmente in sintonia culturale con il giovane Gobetti che nei mesi successivi decise di affidare alla sua Casa Editrice ben tre libri: “Popolarismo e fascismo”, “Pensiero antifascista” e “La libertà in Italia”. Furono decisioni coraggiose, sia per l’Autore che per l’Editore, perché l’esito del Congresso di Torino determinò la fine dell’attività politica di Sturzo (nel luglio del 1923 egli fu costretto a dimettersi da Segretario Nazionale del PPI su pressione del Vaticano) sino a obbligarlo all’esilio nell’ottobre del 1924. La fama di editore antifascista costrinse anche Gobetti all’esilio, che fu di breve durata, in quanto morì a Parigi nel febbraio del 1926 in seguito alle ferite causate da diversi violenti pestaggi subiti per mano di fanatici fascisti italiani.

L’IMPRESA COME “FABBRICA DI BENE”

Il destino di Adriano Olivetti si intrecciò con quello di Sturzo e di Gobetti, perché nel 1925 suo padre Camillo – seriamente preoccupato per l’amicizia del figlio con il giovane editore antifascista e con Carlo Rosselli – decise di allontanarlo da queste amicizie “pericolose” e di inviarlo negli Stati Uniti per un lungo viaggio di studio, che lo portò a visitare ben 105 imprese. Ritornò in Italia dopo sei mesi con una cinquantina di libri di economia e di organizzazione scientifica del lavoro che lo influenzarono molto, sino a maturare nel tempo una sua originale concezione dell’impresa come “fabbrica di bene”. Questa doveva essere un luogo a misura d’uomo, nel pieno rispetto della dignità del lavoratore e del suo vivere in armonia con l’ambiente circostante. Riuscì a realizzare il suo sogno nel secondo dopoguerra, culturalmente arricchito da tante letture (fra i quali alcuni libri dell’Opera Omnia di Sturzo) e dalla conversione al cristianesimo, che lo portarono a vedere la salvezza dell’economia attraverso l’economia della salvezza contenuta nel Vangelo e nelle Encicliche sociali da lui certamente lette e meditate.

Il lungo viaggio negli Stati Uniti, compiuto quando Olivetti aveva solo 24 anni, contribuì anche ad “aprirlo” al concetto di multinazionalità dell’impresa e di globalizzazione dell’economia, che lo portò dapprima a sviluppare la rete commerciale della Olivetti all’estero e più tardi – negli anni ’50 – ad aprire negli Stati Uniti un laboratorio di ricerca sui calcolatori elettronici, uno stabilimento a San Paolo in Brasile e infine ad acquisire la Underwood, storica azienda Usa di macchine da scrivere con quasi 11.000 dipendenti. Alla prematura morte di Adriano (27 febbraio 1960), la Olivetti poteva considerarsi – con circa 40.000 dipendenti – la prima impresa italiana multinazionale e una delle più innovative.

STURZO PROFETA: LA GLOBALIZZAZIONE SARÀ UN FENOMENO INARRESTABILE, MA SARÀ UNA NOVITÀ POSITIVA SOLO SE BEN GESTITA

Nello stesso periodo del primo viaggio americano del giovane Olivetti, Sturzo – già in esilio a Londra – iniziò a riflettere sui benefici e sui pericoli di un fenomeno da lui ritenuto inarrestabile: la globalizzazione dell’economia mondiale. Nel libro “La comunità internazionale e il diritto di guerra”, pubblicato nel 1928, egli fa capire cosa ci avrebbe riservato il futuro con il graduale abbattimento dei confini fisici e ideologici. Ecco un brano significativo:

“Alcuni hanno timore della potenza enorme che ha acquistato e acquista sempre più il capitalismo internazionale, che – superando confini statali e limiti geografici – viene quasi a costituire uno Stato nello Stato. Tale timore è simile a quello per le acque di un fiume. Davanti al pericolo di uno straripamento, gli uomini si sforzano di garantire città e campagne con canali, dighe e altre opere di difesa. Nel medesimo tempo lo utilizzano per la navigazione, l’irrigazione, la forza motrice e così via. Il grande fiume è una grande ricchezza, ma può essere un grave danno: dipende dagli uomini, in gran parte, evitare questo. Quello che non dipende dagli uomini è che il fiume non esista.  Così è del grande fiume dell’economia internazionale. La sua importanza moderna risale alla grande industria del secolo scorso: il suo sviluppo, attraverso invenzioni scientifiche di assai grande portata nel campo della fisica e della chimica, diverrà ancora più importante, anzi gigantesco, con la razionale utilizzazione delle grandi forze della natura. Nessuno può ragionevolmente opporsi a simile prospettiva. Ciascuno deve concorrere a indirizzare il grande fiume verso il vantaggio comune. 

Contro l’allargamento delle frontiere economiche, dai singoli stati ai continenti insorgono i piccoli e grandi interessi nazionali, ma il movimento è inarrestabile: l’estensione dei confini economici precederà quella dei confini politici. Chi non sente ciò è fuori dalla realtà”. 

Con la sua innovativa azione di imprenditore, Olivetti cercò di non restare fuori dalla realtà e anticipò i tempi aprendosi all’estero. Ma per i posteri Sturzo lanciò un ammonimento sin dal 1928: il buon capitalismo prevarrà se il mondo della politica e dell’economia riuscirà a stabilire e a rispettare le buone regole di navigazione, nonché a costruire canali scorrevoli, dighe solide e altre opere di difesa contro le avversità causate dai comportamenti irrazionali e quindi immorali dei naviganti. Comportamenti che comunque esisteranno sempre, ma si tratta di ridurli e isolarli gradualmente nel tempo per neutralizzare i loro effetti negativi. Di qui l’enorme importanza del rispetto dei valori morali nel fissare le regole di navigazione e nel controllare che i naviganti le rispettino.

I VALORI DEL CRISTIANESIMO VANNO POSTI ALLA BASE DELLA SOCIETÀ CIVILE

Pertanto Sturzo e Olivetti si possono considerare “anime gemelle” soprattutto per la loro convinzione di porre i valori morali del cristianesimo alla base della società civile. Tutto ciò che inquina o annulla quei valori danneggia la vita umana fino al rischio di distruggerla. Sono valori non solo di promozione, ma anche e soprattutto di difesa dell’uomo. In un articolo pubblicato sul quotidiano El Matì di Barcellona del 12 novembre 1933 dal titolo “Schiavitù antiche e moderne”, Sturzo scriveva:

“Occorre avvicinare gli uomini fra di loro, padroni e operai, capi di Stato e cittadini, popoli e popoli, per rompere i vincoli di schiavitù che si vanno formando, come cerchi infrangibili. Occorre perciò elevare il senso morale dei popoli, riabilitare la personalità e la dignità umana, ridare valore alla responsabilità personale, proclamare il primato dell’amore del prossimo. Tutto ciò è in sostanza cristianesimo e solo dal cristianesimo può trarre forza e vigore ogni azione diretta a sì nobile fine. 

La civiltà cristiana, per quello che ha realizzato di bene nel mondo, è tutta fondata sull’amore del prossimo. Tutto ciò che vi contraddice deriva dall’egoismo dell’uomo. La penetrazione dello spirito cristiano nei rapporti sociali è un ideale altissimo, che deve spingere i cattolici a lavorare e a lottare sul terreno politico-sociale, nazionale e internazionale”. 

Sono parole che Adriano Olivetti avrebbe sottoscritto in pieno. Anche dal seguente profondo pensiero, espresso nella sua principale opera sociologica (“La società sua natura e leggi”), si capisce come secondo Sturzo ogni elemento sociale – e quindi anche il capitalismo – per porsi in maniera positiva e costruttiva al servizio dell’uomo, doveva avere un forte contenuto morale, doveva cioè rispettare i valori fondamentali del cristianesimo: “La base della vita individuale e della vita sociale è identica: conoscenza e amore. È impossibile concepire una società senza questo binomio (…) Non può darsi perfezione umana senza la verità, che è l’oggetto della conoscenza, e senza il bene, che è l’oggetto della volontà. Ogni elemento sociale, se non è trasformato in verità e amore, non ha valore”. 

Un sistema economico dominato dal conflitto fra capitale e lavoro o sullo sfruttamento del primo sul secondo, non importa se in mano pubblica o privata, non può avere valore e non può quindi creare valore. Pertanto tutto il pensiero economico sturziano si fondava sulla solida base morale del cristianesimo. È poi interessante il suo ammonimento contro chi desiderava tirare l’acqua al proprio mulino nell’interpretare la dottrina sociale della Chiesa. Il 18 marzo 1939, in un articolo pubblicato sul quotidiano “Il Lavoro” di Lugano dal titolo “Quadragesimo anno e Divini Redemptoris”, egli scriveva:

“Non mi pare esigere troppo che a fianco della giusta critica e autorevole condanna del socialismo marxista e del comunismo ateo, si parlasse anche un po’ del capitalismo anonimo e sfruttatore. Ma, secondo me, mentre è un dovere mettere in guardia gli operai per non correre dietro a teorie pericolose e condannate dalla ragione naturale e dalla morale cristiana, è un più pressante dovere attuare quel che le encicliche sociali dei papi suggeriscono o comandano per il bene della classe operaia in nome della giustizia e della carità. 

Se dal lato dei padroni ci fosse un po’ più di giustizia; se dal lato dei governi ci fosse più premura a sviluppare il lato sociale degli organismi professionali e corporativi per migliorare la legislazione assicurativa; a rendere meno acuta la crisi di disoccupazione; a diminuire le spese militari improduttive per migliorare la produzione e i commerci, allora ci sarebbero meno motivi per gli agitatori socialisti e comunisti a eccitare le masse e a monopolizzarne le rivendicazioni. 

Le due encicliche di Pio XI hanno i due aspetti: critica e costruzione; insegnamenti e pratica; condanne ed esortazioni. Non bisogna pigliare solo quello che ci piace: i padroni prendono la condanna del socialismo e del comunismo; gli operai prendono le proposte pratiche sui salari, il giusto prezzo, le unioni professionali e così via. Solo nell’integrità dottrinale e nell’esecuzione pratica si onorerà la memoria di Pio XI e si creerà tra i cattolici lo spirito e la realtà cristiano- sociale”. 

IL CAPITALISMO PERICOLOSO E IL CAPITALISMO VIRTUOSO

È bene ricordare che la “Quadragesimo anno” del 1931 sottolineava la grande importanza e validità di una proposta-cardine della “Rerum novarum” di Leone XIII e che il Partito Popolare Italiano tentò invano nel 1920 di realizzare con una legge sull’azionariato dei lavoratori. L’Enciclica di Pio XI giustamente diceva: “Se quel che più conta – l’intelligenza, il capitale e il lavoro – non si associano, quasi a formare una cosa sola, l’umana attività non può produrre i suoi frutti”. 

Alla fine della seconda guerra mondiale l’attuazione di questo principio fondamentale (la stretta alleanza fra capitale e lavoro) veniva considerato da Sturzo come una condizione per la realizzazione di una vera pace a livello mondiale: “Il problema della pace, che deve seguire questa guerra, sarà un problema di organizzazione economica sul piano internazionale o non vi sarà pace. Il capitale e il lavoro dovranno collaborare per trovare una giusta soluzione, abolendo il capitale anonimo e irresponsabile, e dirigendo la produzione e l’occupazione verso grandi lavori di ricostruzione per il benessere generale”. 

Negli anni ’50 Sturzo ritornò più volte sul capitalismo pericoloso (quello anonimo, invadente, oppressivo, speculativo) e sul capitalismo virtuoso (quello popolare e partecipativo, funzionante in un sistema di vera democrazia economica, qualità indispensabile per avere un sistema di vera democrazia politica). In piena sintonia con Olivetti, anche Sturzo avrebbe detto che l’impresa privata poteva rivelarsi “fabbrica di bene” solo se inquadrata in un sistema capitalistico popolare e partecipativo, cioè il capitalismo di tutti auspicato da Leone XIII nel lontano 1891 (“tutti proprietari non tutti proletari”). Ma certamente non proprietari del capitalismo di carta oggi rampante in seguito all’invenzione di prodotti finanziari puramente speculativi, che nulla hanno a che fare con il sostegno dell’economia reale. Concetti poi ripresi e approfonditi da altre encicliche formidabili come la “Mater et magistra”, la “Populorum progressio”, la “Gaudium et spes”, la “Centesimus annus”, la “Caritas in veritate” e dalle recenti “esortazioni” di Papa Francesco. È un prezioso patrimonio culturale rimasto sulla carta e che ancora attende – da ben 128 anni! – di essere tradotto in pratica…

Altro punto di incontro fra le due “anime gemelle” riguarda il principio di sussidiarietà, “coniugato” da Sturzo con la sua visione municipalista e da Olivetti con la sua visione comunitaria, visioni entrambe finalizzate a difendere l’autonomia creativa, organizzativa e decisionale del singolo comune (Sturzo) e della singola comunità (Olivetti) contro l’invadenza e l’incompetenza – se non altro per ragioni di “distanza” – dello Stato. Per sua natura questo è incapace di gestire il “particolare” della vita locale che può essere ben conosciuto solo da chi vive vicino alle esigenze e ai problemi dei cittadini. È la democrazia dal basso che nella visione sturziana e olivettiana va inquadrata in un sistema federale, intelligente gestore del decentramento amministrativo. Purtroppo l’abilità di Sturzo nel gestire per ben 15 anni il suo comune e l’abilità di Olivetti nel gestire la sua comunità di Ivrea e quelle nascenti di Pozzuoli e Matera non hanno fatto scuola in un Paese dominato dal centralismo invadente e inefficiente dello Stato. Ma possono ancora essere di esempio e di insegnamento per le prossime generazioni chiamate a riparare i guasti dello statalismo e del liberismo selvaggio. Le buone “medicine” esistono, ci dicono da tempo Luigi Sturzo e Adriano Olivetti. Un nuovo partito di vera e coerente ispirazione cristiana non può farne a meno. L’Italia (e non solo) ne ha un gran bisogno!

COPIA INVIATA ALL’ING. OLIVETTI

Roma 12 novembre 1948

Egregio Ingegnere, come rimasti d’accordo, Le invio, a parte, i due volumi di Luigi Sturzo: L’Eglise et l’Etat, ritenuto in America il “libro classico dei rapporti tra Chiesa e Stato”; la frase non è mia, è del Times; e L’Essai de Sociologie, di cui l’importante volume “La Vera Vita” pubblicato nella collezione di don Giuseppe de Luca, e che Lei possiede, è in un certo senso il proseguimento.

Già Le dicemmo di viva voce, l’On. Giordani ed io, come la pubblicazione delle opere di don Luigi Sturzo sia da lungo tempo auspicata non solo dal Partito e da tutti gli ammiratori del pensiero del grande democratico cristiano, ma sarà indubbiamente di lustro per la Casa Editrice. È quasi incredibile, ma proprio di questo mondo, che un pensiero originale e moderno come quello di don Sturzo sia così poco conosciuto in Italia.

Grata se Ella vorrà avere l’amabilità, appena Le sarà possibile, di rendermi i due volumi, che sono l’unica copia in possesso di don Sturzo. Del resto sono introvabili in Italia, ma io spero di poterglieli procurare, se Lei vuole, presso le Case Editrici di Parigi.

Molto lieta di averla conosciuta, La prego di voler gradire i miei distinti saluti

F.to Lina Morino

Il Canto delle cose beatamente perdute

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Silvia Guidi

La bellezza non basta, la musica delle parole non basta, la poesia deve anche essere “buona”, nutriente. Se non amplia gli orizzonti di chi legge, se non porta effetti collaterali positivi nella vita di chi la frequenta può essere serenamente, beatamente dimenticata, facendo posto ad altri nutrimenti letterari più corroboranti. È una delle regole di quel decalogo implicito che connota la vita e l’opera di Margherita Guidacci, e che rende così interessanti, così concretamente “utili” i suoi saggi critici (e così belli e originali i suoi versi). Lo ha messo in luce con chiarezza Ilaria Rabatti nella documentatissima, appassionata introduzione al libro Il fuoco e la rosa. Quattro Quartetti di Eliot e Studi su Eliot (Petite Plaisance, 2006) che ripropone traduzioni e saggi tanto interessanti quanto poco noti; in due casi, pubblicati anche dal nostro giornale (Itinerario dalla terra Desolata il 21 maggio 1986 e Una Lady silenziosa e dolcissima indica la rotta ai naviganti il 26-27 settembre del 1988). 

Nei curricola vitae dei grandi scrittori ci sono spesso entusiasmi giovanili e infatuazioni letterarie destinate a non lasciare traccia. Per Margherita Guidacci, ad esempio, l’innamoramento per il cosmo simbolista è stato tanto violento quanto passeggero, una full immersion che risale al periodo degli studi universitari legata, spiega Rabatti, alla «gran mole di lavoro andata poi beatamente perduta» compiuta durante l’elaborazione della tesi di laurea su Ungaretti, assegnatale da Giuseppe De Robertis nel 1943. 

In realtà, ricorda la scrittrice fiorentina nell’articolo Coscienza di un confine («Stagione, lettere ed arti», anno III, n. 11, p. 8), «la mia tesi di laurea doveva vertere sulla poesia italiana contemporanea (si era allora negli anni di guerra, in pieno rigoglio dell’ermetismo) poi per ragioni di tempo e di salute si restrinse invece al solo Ungaretti. Posso dire (…) di non avere fatto mai studi più coscienziosi. Nella fornitissima biblioteca di Giovanni Papini, in cui, per gentile concessione dello scrittore, mi recavo ogni sera percorrendo a tastoni, nell’oscuramento, il tratto fra via della Mattonaia e via Guerrazzi, il materiale non mancava davvero (…) riempivo quaderni su quaderni di appunti, inseguendo le diramazioni dalla triplice fonte di Rimbaud-Verlaine-Mallarmé, oltre alla larga arteria di Valéry, fino ai rigagnoli più capillari ed esterni, dei Ghil o dei Fabre (…) Come poi tanta mole di lavoro abbia potuto andare per me così beatamente perduta, è un altro fatto, che resta da spiegare. Ognuno di noi è naturalmente selettivo, permeabile a certe esperienze, impermeabile ad altre, indipendentemente dal tempo e dall’applicazione che vi dedica: come ogni pianta sceglie dal terreno determinate sostanze e non altre, e non cresce finché non ha trovato quelle che la nutrono». 

Il decadentismo «evidentemente non mi nutriva — confessa la Guidacci — né quello di cui mi ero cibata nella biblioteca di Giovanni Papini, né quello di cui avevo osservato, con un timore reverenziale, i riflessi nella Firenze ermetica del mio tempo».

Ben più sostanziosa per la scrittrice è la poesia di Emily Dickinson, di John Donne e di T.S. Eliot, o la prosa di Ernest Hemingway e, in generale, la voce di quegli autori che sentono la necessità di una letteratura più aderente alla vita, usando magari un linguaggio meno “puro”, ma più concreto e denso di pensiero. Scrittori in cui l’impegno intellettuale è sempre sorretto da una immaginazione plastica e lussureggiante, forse più difficili da tradurre, ma sicuramente più interessanti e “nutrienti”. Il tema del nutrimento interiore che deriva dalla traduzione torna anche nell’intervista concessa dalla scrittrice a Ennio Ercoli, La coscienza e il senso dell’assoluto. «Quello della traduzione — racconta Guidacci — è stato per me un lavoro formativo, mi ha nutrita, mi ha aperto delle prospettive. Soprattutto rispetto ad Eliot per quanto riguarda quel concetto dell’intersezione dell’eterno nel tempo che venne acquisito in un momento di crisi della mia generazione e che ci ammoniva ad agire bene, distaccati dal frutto dell’azione, che richiamava il valore cristiano riproposto con voce moderna. Sì, posso dire che in quel momento la poesia di Eliot è stata un conforto infinito». 

Un sollievo profondo e duraturo; un cibo per l’anima senza date di scadenza a breve termine, scaturito però da una costante, aspra battaglia con testi complessi, difficili da traslare in un altro universo simbolico.

Sui problemi della traduzione poetica la Guidacci tornerà spesso, in molti scritti e in tante interviste. «In tutte, comunque, con decisione — nota Ilaria Rabatti nella sua prefazione/saggio — afferma la strada che seguirà sino alla fine: non tradurre mai sistematicamente, ma perseguendo con paziente impegno un’ambizione di bellezza». 

Una bellezza, anche qui, non fine a se stessa ma utile a uno scopo ben preciso, capace di donare al testo tradotto una nuova incarnazione, nel senso letterale (e cristiano) del termine. «Tradurre — scrive Guidacci parlando dei suoi studi su Eliot — è sempre stata per me un’esperienza molto importante. Un’esperienza che sento, in qualche modo, affine a quella creativa. Non si tratta, infatti, di travasare da una lingua all’altra, ma di far rivivere nella lingua d’arrivo ciò che era vivo e produceva effetti vitali nella lingua di partenza: arrivare, insomma, all’anima di una poesia e offrirle una nuova incarnazione. Per ottenere tale risultato si devono mettere in opera esattamente gli stessi mezzi che ci soccorrono nel creare una poesia originale; risolvere gli stessi problemi di senso, di suono, di ritmo; armarsi della stessa pazienza e capacità di attesa e, qualche volta, affrontare la stessa disperazione». 

La riflessione sul testo precede, accompagna e segue sempre il duello corpo a corpo con il solenne, sentenzioso periodare del poeta di Saint-Louis. Durante il lavoro di traduzione, la Guidacci metterà mano, infatti, al saggio I Quartetti di Eliot, pubblicato sulla rivista «Letteratura» nell’ottobre del 1947.

«Fu uno dei primi se non addirittura il primo in Italia — sottolinea con legittimo orgoglio la stessa autrice — a trattare diffusamente del capolavoro eliotiano»; un testo uscito in inglese nel 1944 e conosciuto in Italia solo dopo la fine della guerra. 

Ai versi di Eliot Guidacci riconosce un alto valore nutritivo, talvolta persino terapeutico, apprezzando soprattutto la poesia drammatica, nel tentativo di recuperare quella dimensione corale della poesia che nel Novecento è stata spesso trascurata. 

I poeti del secolo breve, nota la scrittrice, fanno fatica a usare la prima persona plurale; perso di vista il “noi” e la dimensione epica del bene comune rischiano di affondare nelle secche di un intimismo sentimentale sterile. 

Eliot, invece, nei suoi momenti più alti — come nei cori de La Rocca o nel lamento delle donne di Assassinio nella cattedrale — è capace di ricomporre «la frattura fra l’artista e il tempo». 

Ed è facile allora rendersi conto di come la lirica «fra tutte le forme poetiche — scrive la Guidacci nel testo “Il pregiudizio lirico” (ampiamente citato nel saggio di Rabatti) — non solo non sia oggi la più indicata ad esprimere questa realtà, ma sia addirittura intrinsecamente la più insufficiente. Quanto era viva e operante nel primo Ottocento la spinta individualistica, tanto viva e operante è oggi l’aspirazione ad una comunità in cui l’individuo si sviluppi in armonia con gli altri, in un contemperamento di diritti e di doveri». 

Al mito della solitudine dei vittoriosi o dei vinti di stampo romantico «si contrappone oggi — continua Guidacci — un desiderio di fraternità: tanto più dopo che due guerre mondiali ci hanno insegnato (specialmente la seconda) come gli uomini su questa Terra si salvino o si dannino insieme (…) È la crisi inversa, e l’alba di una fase sociale molto differente da quella su cui germinò la lirica romantica. Ed essendo una fase in cui l’uomo non è considerato isolato, ma al centro di rapporti con altri uomini, alla poesia si offrono come vie di agganciamento alla realtà molto meglio le forme pluralistiche, quali la drammatica, la satira, che non la lirica».

D’altronde, chiosa Guidacci, gli esempi positivi, anche nel tanto vituperato secolo breve, non mancano. «Se guardiamo alle direzioni più valide della poesia mondiale, vediamo come il passaggio, ad esempio, dalla lirica alla drammatica sia da più parti in atto: basterebbe ad esemplificarlo il cammino di Eliot. E oltre che da Eliot le più alte cime della poesia di questo secolo sono state, per l’appunto, toccate da un poeta anche drammatico come Federico Garcìa Lorca e da un poeta essenzialmente drammatico come Bertolt Brecht». Ciò che dà voce alle domande più autentiche dell’uomo è di per sé religioso, anche se non viene mai citata la parola Dio, ribadisce Guidacci nei suoi saggi critici. «Non comprendo come si possano contrapporre la prima e la seconda metà dell’opera di Eliot chiamando religiosa soltanto quest’ultima, da Ash-Wednesday in poi. Si integrano a vicenda come due emisferi di una medesima sfera». E il cristianesimo di Eliot, precisa la scrittrice (descrivendo, inconsapevolmente, anche la propria lotta interiore) «non ha niente dell’evasione, di un ripiego a cui l’anima si determini per sfuggire a un’intollerabile angoscia. Eliot non è giunto al cristianesimo perché stanco di una intense moral struggle abbia a un certo punto, deciso di concedersi dei bewildering minutes, un appagamento sentimentale; vi è giunto proprio al termine di quella moral struggle, accettata e combattuta fino in fondo con immenso coraggio».

Il rischio di balcanizzazione dell’Etiopia

Articolo già pubblicato sulla rivista Atlante della Treccani a firma di Giacomo Natali

Il 22 giugno scorso, milizie nazionaliste dell’Amhara, nel Nord dell’Etiopia, hanno messo in atto un tentativo di colpo di Stato nell’omonimo Stato regionale, uccidendone il governatore e il procuratore capo, mentre in un’azione congiunta ad Addis Abeba veniva freddato il capo di Stato Maggiore etiope. Nel giro di poche ore il governo federale ha poi ripreso il controllo della zona e ha confermato l’arresto di oltre 250 persone e l’uccisione del generale Asaminew Tsige, considerato a capo del piano. Ma l’episodio ha messo al centro dell’attenzione internazionale le crescenti tensioni etniche all’interno del secondo più grande Paese del continente africano. E c’è chi si chiede se le coraggiose riforme messe in atto negli ultimi sedici mesi dal nuovo primo ministro, Abiy Ahmed, stiano aumentando il rischio che esplodano conflitti settari aperti, con una conseguente frammentazione simile a quella vissuta dalla Iugoslavia negli anni Novanta. Ma su scala assai superiore.

Al governo dall’aprile del 2018, Abiy Ahmed ha elettrizzato il Paese e la comunità internazionale con annunci e decisioni che gli hanno fatto guadagnare paragoni con Mandela e Gorbačëv. Innanzitutto in politica estera, con la sorprendente pacificazione ottenuta nel decennale conflitto con l’Eritrea. Ma è forse nelle scelte di politica interna che la sua volontà di apertura e cambiamento è ancora più evidente. Il primo ministro ha rilasciato decine di migliaia di prigionieri politici, ha decriminalizzato gruppi armati di oppositori e rimosso lo stato di emergenza che teneva sotto scacco il Paese. Lo stesso Asaminew Tsige era stato rilasciato l’anno scorso dal carcere dove scontava l’ergastolo, ricevuto per un precedente tentativo di cospirazione.

Ma la notte del golpe, il governo regionale era stato riunito dal governatore, poi ucciso nell’attacco, proprio per discutere il reclutamento che il generale ribelle aveva ripreso a portare avanti apertamente tra le milizie della comunità Amhara, la seconda più numerosa del Paese. E il crescente aumento di queste tensioni mette ora a rischio una delle riforme più attese tra quelle promesse dal primo ministro Ahmed: quella di tenere libere elezioni democratiche nel maggio del 2020. Già per due volte, infatti, è stato rinviato il censimento necessario a stabilire il corpo elettorale. Mentre al contempo sono ripresi gli arresti e da giorni è stato bloccato l’accesso a Internet.

L’Etiopia è una Repubblica federale di oltre 100 milioni di abitanti, in gran parte giovanissimi, composta di nove Stati regionali, i quali ospitano a loro volta oltre 70 gruppi etnici riconosciuti. Per tenerli uniti, per decenni sono state portate avanti due strategie parallele. Da un lato quella di alimentare la cosiddetta identità culturale ‘habesha’: un termine di origine dibattuta, che fa comunque riferimento con orgoglio alla mescolanza degli abitanti di Etiopia ed Eritrea, superando le differenze di cittadinanza, etnia, tribù, lingua, o religione. Dall’altro il pugno di ferro di un governo centralizzato autoritario, in grado di soffocare ogni tentativo di ribellione locale. Ovviamente a costo di libertà individuali e politiche.

Lo stesso partito che ha eletto Abiy Ahmed a capo del governo, il Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiopico (FDRPE) è in realtà un’alleanza formata da quattro partiti regionali, con forti legami con le formazioni politiche che amministrano gli altri cinque Stati regionali. Giunto al potere nel 1991, con una rivoluzione che ha ribaltato il regime Derg, l’FDRPE ha ottenuto nei due decenni successivi grandi risultati, trasformando l’Etiopia delle carestie in una potenza economica regionale, ma sempre mantenendo l’approccio autoritario dei predecessori, almeno fino allo scorso aprile.

La scelta del giovane Abiy Ahmed come nuovo primo ministro aveva un forte significato simbolico anche dal punto di vista etnico. Fino ad allora, infatti, l’FDRPE era stato gestito dalla minoranza tigrina, che pur rappresentando solo il 6% della popolazione deteneva gran parte del potere politico ed economico, avendo, a loro volta, preso il posto degli Amhara, che non sono propriamente un’etnia, ma costituivano tradizionalmente l’élite alla guida del Paese fino alla deposizione di Hailè Selassiè nel 1974. Ahmed è invece il primo leader proveniente dall’etnia Oromo, la principale in Etiopia, ma storicamente marginalizzata. Inoltre ha origini familiari miste cristiane e musulmane e parla fluentemente le tre principali lingue del Paese.

L’articolo completo è leggibile qui

Il Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira aderisce alla campagna nazionale #IoAccolgo

In vista della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato del 29 settembre 2019, il Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira di Firenze aderisce alla campagna nazionale #IoAccolgo, promossa da svariati enti del terzo settore e realtà ecclesiali.
È una campagna sociale e culturale, finalizzata però a dare risposte concrete a tutti coloro che si trovano in difficoltà in ogni città, parrocchia e territorio del nostro Paese.
L’oggetto simbolo della campagna è la coperta termica: esporla sui balconi o in altri luoghi pubblici, sarà la prima maniera di aderire.

Se volete avere più informazioni potete consultare il sito www.ioaccolgo.it, dove troverete il manifesto della campagna e il documento fondativo.
La campagna durerà almeno un anno e proverà a fornire stimoli ed idee per agire in ambiti diversi.
La campagna si prefigge di promuovere un coinvolgimento vero e attivo per conoscere e incontrare altre realtà della propria città e per immaginare iniziative che aiutino tutti a percepirsi comunità locale solidale col desiderio di incontrarsi e aiutarsi reciprocamente.

Istat: in Italia si “conferma uno scenario a breve termine caratterizzato dalla debolezza dei livelli produttivi”

I segnali di ripresa dell’economia internazionale appaiono episodici e nel complesso i dati hanno segnalato tendenze meno positive rispetto alle attese, sia nei paesi emergenti sia in quelli avanzati.

Le previsioni per l’area dell’euro indicano un possibile rallentamento nel secondo trimestre.

L’economia italiana appare caratterizzata dal proseguimento della fase di debolezza dei ritmi produttivi associata però a miglioramenti sul mercato del lavoro e del potere d’acquisto delle famiglie.

Ad aprile, l’indice della produzione industriale ha segnato una diminuzione, per il secondo mese consecutivo, interrompendo la tendenza positiva evidenziata nei primi mesi dell’anno.

A maggio, è proseguito l’aumento del numero di occupati in presenza di una forte riduzio-ne del tasso di disoccupazione.

L’inflazione italiana si mantiene su tassi moderati e inferiori a quelli dell’eurozona, con un differenziale significativamente più ampio per la componente core.

A giugno, l’indice del clima di fiducia dei consumatori ha mostrato una diminuzione significativa diffusa a tutte le sue componenti e anche la fiducia delle imprese ha registrato un peggioramento. L’indicatore anticipatore conferma uno scenario a breve termine caratterizzato dalla debolezza dei livelli produttivi.

Cybersecurity, tutelare dalle minacce il settore dell’acqua potabile

Quello della cybersecurity è uno scenario in continua evoluzione. Un campo orientato alla protezione dei sistemi informatici e, tra questi, delle reti idriche, elettriche e delle telecomunicazioni. Nelle prossime settimane, le linee guida riferite alla sicurezza del settore acqua potabile saranno condivise con le organizzazioni pubbliche e private che garantiscono i servizi essenziali. Il programma è stato realizzato e condiviso con gli altri Dicasteri competenti (Sviluppo economico, Infrastrutture e Trasporti, Economia e Finanze, Salute), come previsto dal decreto legislativo n. 65/2018 di attuazione della direttiva comunitaria Network and information security (Nis).

“Le linee guida – ha detto il titolare del Mattm, Sergio Costa – costituiscono uno strumento operativo di supporto al processo di gestione e trattamento del rischio cyber, per affrontare in modo organico e qualificato la gestione della sicurezza delle reti e dei sistemi informativi. A tale scopo sono basate sul Framework Nazionale per la Cyber Security e la Data Protection, all’interno del quale è possibile inquadrare le misure di sicurezza, gli standard e le norme di settore, secondo un principio di neutralità tecnologica, che non va ad imporre agli operatori l’impiego di una specifica dotazione strumentale, bensì suggerisce un approccio razionale e dinamico strettamente legato all’analisi del rischio”.

“Allo stesso tempo – ha aggiunto il Ministro – si vogliono promuovere azioni concrete di prevenzione attraverso meccanismi di early warning che fanno uso del sistema delle notifiche volontarie per la condivisione delle informazioni sugli incidenti con la comunità di sicurezza nazionale posta a protezione dello spazio cibernetico, fermo restando gli obblighi di notifica degli incidenti rilevanti sulla continuità dei servizi essenziali forniti. L’acqua è un bene universale e l’accesso di tutti a essa è un diritto che va tutelato, anche attraverso misure di prevenzione e protezione dalle minacce di tipo cyber”.

Il Ministero dell’Ambiente è l’Autorità competente Nis per il settore fornitura e distribuzione di acqua potabile destinata al consumo umano, al quale afferiscono i servizi essenziali di fornitura all’ingrosso, captazione, potabilizzazione, adduzione e distribuzione. In tale settore il Mattm ha già provveduto lo scorso dicembre, d’intesa con le Regioni e Province autonome, all’individuazione degli Operatori di servizi essenziali (Ose) presenti su tutto il territorio nazionale.

Gli impianti e i sistemi di gestione e controllo del servizio idropotabile possono avere, infatti, una componente digitale significativa. I gestori di questi servizi sono chiamati, dunque, a garantire un livello comune ed elevato di sicurezza cibernetica, attuando le misure tecniche e organizzative adeguate e proporzionate alla gestione dei rischi per la sicurezza della rete e dei sistemi informativi utilizzati. Le linee guida saranno messe a disposizione delle Autorità competenti Nis presso le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano per attività di ispezione e verifica, in itinere, presso gli Ose.

Colpo di calore

L’ipertermia è una condizione patologica dell’organismo umano caratterizzata da un forte aumento della temperatura corporea, conosciuta anche come colpo di calore, che può verificarsi a causa di particolari condizioni climatiche tipiche dell’estate.

È diversa dalla febbre, perché questa è una risposta dell’organismo a uno stato di infezione (o più genericamente a uno stato di infiammazione) e insorge a prescindere dalla temperatura esterna, su comando della regione pre-ottica dell’ipotalamo anteriore; l’ipertermia invece insorge senza questo comando, indotta solo dalla temperatura esterna.

Il primo soccorso in casi di ipertermia deve tendere a mantenere le funzioni vitali dell’infortunato, portandolo in un ambiente arieggiato ma senza provocare un raffreddamento repentino.

Il rischio di shock ipovolemico, dovuto ad una perdita eccessiva di sali, rende indispensabile la richiesta di soccorso medico qualificato e l’ospedalizzazione. Se l’infortunato è cosciente, può essere somministrata dell’acqua, se possibile con integratori salini. Assolutamente da evitare alcolici e caffè, per le loro proprietà vasodilatatorie. Nell’attesa del soccorso, in caso insorgano i sintomi dello shock, l’infortunato può essere messo in posizione antishock, con gli arti inferiori sollevati.

I colpi di calore si possono evitare seguendo alcune precauzioni dettate dal buonsenso per evitare il surriscaldamento e la disidratazione. Portare vestiti leggeri e ampi per facilitare la traspirazione, mettere cappelli di colori chiari e a tesa larga per tenere fresca la testa, evitare di fare lavori pesanti o esercizi fisici durante le ore più calde, evitare gli interni delle automobili e gli spazi ristretti. Chi lavora all’aperto deve ricordare che la forte umidità e la luce diretta del sole possono portare a una temperatura percepita di circa 10 °C superiore a quella indicata dal termometro.

Altrettanto importante è tenere l’organismo bene idratato, bevendo molto per reintegrare i liquidi persi con la traspirazione. Non ci sono sintomi fisici particolari che indichino uno stato di disidratazione: la sensazione di sete non è un indicatore affidabile, soprattutto nelle persone anziane. Un test molto attendibile dello stato di idratazione dell’organismo è il colore delle urine: più è scuro, più il corpo ha bisogno di liquidi. Tè e birra hanno un effetto diuretico, ma apporteranno più liquidi di quanti ne facciano perdere: il caffè espresso, il vino e i superalcolici invece no, e per questo vanno evitati. Comunque l’acqua pura e semplice resta di gran lunga la scelta migliore.

 

Torino: Adunata per i “liberi e forti”

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il comunicato dei Popolari piemontesi

Come Popolari piemontesi ci siamo recentemente chiesti “Che fare?” per provare a dar vita ad una nuova stagione dei “liberi e forti”, così necessaria per il nostro Paese.

Era nata la proposta che dalle testate web impegnate a veicolare i contenuti del popolarismo partisse l’organizzazione di una “adunata nazionale” dei democratici popolari di ispirazione cristiana, per favorire l’ineludibile passaggio dall’io dell’autoreferenzialità al noi della comunità politica. Per alcuni questa consapevolezza non è ancora matura, e richiede altro tempo. Ma il tempo potrebbe essere poco.

Così tra le realtà dei Popolari e altre del Nord legate alla cultura cattolico democratica, con cui si è creata immediata sintonia, abbiamo pensato di fare un passo avanti e organizzare un pomeriggio di confronto e proposte per definire una possibile azione comune.

L’incontro nasce per far incontrare persone accomunate dal riferimento alla tradizione del popolarismo, la cultura che ha saputo tradurre sul piano politico, e con assoluta laicità, l’ultracentenaria dottrina sociale cristiana, all’insegna del “bene comune” e della giustizia sociale, qualificando il proprio pensiero con gli aggettivi “democratico”, “popolare”, “sociale”, “solidale”, e con uno sguardo privilegiato agli “ultimi”.

Tutti coloro, singoli e associazioni, che si riconoscono in questo ambito sono invitati a partecipare. L’incontro è aperto, senza posti riservati e gerarchie preordinate. Speriamo soltanto nella più ampia adesione dalle Regioni più vicine.

L’appuntamento è per giovedì 11 luglio a Torino, presso l’Hotel Diplomatic di via Cernaia 42.

Ci aspettano quattro ore intense di discussione.

Accoglienza dei partecipanti dalle ore 14.30 e inizio alle 15 con la relazione introduttiva (Cosa farebbe oggi Sturzo) tenuta da Alberto Guasco, docente di Storia contemporanea alla Link University di Roma, bolognese di adozione e autore di un importante volume su “Cattolici e Fascismo” e di una fresca biografia sul Cardinal Martini.

Seguirà un confronto a tre voci su Costruire un percorso comune tra Domenico Galbiati, rappresentante lombardo di Politica Insieme, Giorgio Merlo, portavoce piemontese di Rete Bianca, e Lorenzo Dellai, che porterà la sua esperienza dell’Unione per il Trentino. E arriviamo all’ampio spazio di dibattito che chiuderà la prima parte.

La seconda sarà introdotta da una mia relazione su I capisaldi di un programma condiviso ed efficace, che avvierà il secondo spazio di dibattito tra i presenti, per individuare i punti caratterizzanti di un “partito di programma” nella più autentica – e moderna – concezione sturziana.

Nell’ultima mezz’ora si cercherà di definire un documento conclusivo con gli impegni futuri.

Se sarà possibile una nuova stagione dei “liberi e forti” lo capiremo dalle presenze e dalle opinioni espresse alla riunione torinese del prossimo giovedì.

Per leggere il programma dell’incontro cliccate sul link seguente: Programma_Torino_11_luglio

Mario Draghi, l’uomo che ha salvato l’euro

Articolo già pubblicato dall’Agenzia AGI

“La Bce farà tutto il necessario per preservare l’euro. E, credetemi, sarà sufficiente”. Il 26 luglio 2012 Mario Draghi è a Londra per una conferenza. La divisa unica europea è sotto l’attacco della speculazione internazionale, l’uscita dei Paesi ‘periferici’ è considerata a un passo.

L’utilizzo dell’Esm è bloccato in attesa del via libera della Corte costituzionale tedesca. Pesano le obiezioni della Bundesbank e di alcuni esponenti politici conservatori. La condanna pare già scritta. Una manna per chi scommette sulla fine dell’euro. Quando Draghi sale sul palco, nessuno si aspetta che quel discorso cambierà la storia della crisi.

Dopo sei minuti di introduzione, però, il presidente della Bce scandisce le due frasi. Il discorso passa agli annali. La locuzione entra nel lessico comune, utilizzata persino per una dichiarazione d’amore: “Sei bella come il ‘whatever it takes’ di Draghi”.

Sulla sua poltrona a Francoforte arriverà Christine Lagarde, direttrice del Fondo monetario internazionale. E qualcuno ha ipotizzato che Draghi potrebbe prenderne il posto a Washington. Chi lo conosce bene dice che di sicuro non tornerà in Italia per un incarico politico. Più facile una scelta legata al suo vecchio amore, l’insegnamento. In molti continuano a chiamarlo ‘professore’.

A strapparlo alla cattedra nel 1991 fu Guido Carli che lo nominò direttore generale del Tesoro su consiglio di Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca governatore della Banca d’Italia. Da quella poltrona Draghi ha seguito tutta la stagione delle privatizzazioni e la stesura delle nuove regole sulla finanza, che sfoceranno nel testo unico del 1998, informalmente battezzato con il suo nome.

Nel 2002 lascia l’incarico e passa in Goldman Sachs. A richiamarlo in Italia nel dicembre 2005 è il governo Berlusconi, che lo nomina governatore della Banca d’Italia. L’istituto è scosso dagli scandali che hanno costretto alle dimissioni Antonio Fazio. Nei sei anni di incarico a palazzo Koch, Draghi ridà autorevolezza all’istituto centrale e ne modifica profondamente la governance.

Datato giugno 2011 è il suo sbarco alla Bce. Un battesimo non facile. Il 5 agosto, con una lettera firmata insieme al suo predecessore Jean Claude Trichet, invita il governo italiano a “rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali”.

Un passaggio che porterà alla crisi del governo Berlusconi e alla nascita dell’esecutivo tecnico guidato da Mario Monti. Il 2011 e il 2012 sono anni di crisi profonda per l’euro. A tenerlo in piedi è una serie di misure straordinarie: l’introduzione dell’Ltro per finanziare il settore bancario, il taglio dei tassi d’interesse, lo sblocco dell’Esm.

Ma la rivoluzione vera è il Quantitative easing, con cui l’Eurotower riacquista i titoli di Stato in pancia alle banche immettendo liquidità da destinare al finanziamento di famiglie e imprese. Un programma, rinnovato sino a fine 2018 nonostante le resistenze tedesche, che ha immesso nel sistema circa 2.600 miliardi di euro, pari a quasi il 20% del Pil dell’Unione europea. “Whaterver it takes”, appunto.​

 

“Incontro soddisfacente” fra Putin e il Papa. Ma Francesco non molla gli ortodossi di Costantinopoli

Articolo già apparso sulle pagine dell’huffingtonpost a firma di  Maria Antonietta Calabrò

Non c’è stato nessun invito in Russia per Papa Francesco, come anticipato ieri sera dal Cremlino, dato che dopo la crisi ucraina i rapporti tra la Chiesa di Roma e il Patriarcato di Mosca si sono raffreddati.

Ma non era scontato il commento dello stesso zar russo che congedandosi ha detto a Francesco: “Grazie per il tempo che mi ha dedicato. È stato un discorso molto sostanzioso e interessante”. Mentre il portavoce vaticano ad interim Alesandro Gisotti  ha sottolineato la “sincera e gioiosa soddisfazione del Santo Padre”, per una conversazione “di così alto livello con il presidente russo”, cui Francesco ha rinnovato l’ “augurio per tornare ancora”.

Riparte insomma il dialogo di Francesco con Putin e con gli ortodossi russi, ma senza che questo voglia dire per il Vaticano e per il Papa abbandonare gli ortodossi di Costantinopoli.

Quanto al viaggio nella capitale della Federazione dovranno passare forse anni (come ha dichiarato lo stesso Putin) ma adesso la prospettiva è di nuovo aperta.

L’arrivo in ritardo di Putin era scontato. Il Presidente infatti arriva sempre in orario diverso da quello ufficialmente comunicato ai mass media. È avvenuto per Trump e per la Regina d’Inghilterra, dal nordcoreano Kim si è presentato in anticipo. Motivi di sicurezza.

Quello che non era scontato è stata invece la durata del colloquio con Papa Francesco durato quasi un’ora. Seguito da un lungo incontro con i vertici della Segreteria di Stato, guidata dal cardinale Pietro Parolin (con Trump, Francesco parlò in tutto 30 minuti).

Un evento inusuale. “Preghi per me”, ha risposto con umiltà Francesco a Putin, e anche questo suona inusuale se detto da un Papa ad un uomo di Stato e di potere del calibro di Putin.

Il comunicato ufficiale Vaticano è stato molto sobrio. Dodici righe in tutto, spaziature comprese. La “sostanza” cui si è riferito Putin riguarda soprattutto le ultime tre righe: “Nel prosieguo della conversazione ci si è soffermati sulla questione ecologica e su alcune tematiche dell’attualità internazionale, con particolare riferimento alla Siria, all’Ucraina e al Venezuela”.

Ma è normale che tanto più è stato “sostanzioso il discorso”, tanto più sintetico debba essere il comunicato finale.

Del resto il motivo principale della breve visita di Putin in Italia era proprio l’incontro (da lui richiesto) con Papa Francesco. Il terzo (dopo il primo del 2013 e il secondo del 2015) in qualche modo reso necessario, dal cambio di baricentro degli interessi strategici vaticani. Sembrano oggi lontanissimi i tempi della visita a Cuba del Pontefice (settembre 2015) e del colloquio di Francesco con il patriarca di Mosca Kirill (febbraio 2016).

Il sogno di Francesco adesso è la Cina, come ha dichiarato a fine maggio di ritorno dalla Romania.

Ma soprattutto la guerra in Ucraina e lo scisma della Chiesa ortodossa ucraina dal Patriarcato di Mosca (che di fatto ha sottratto alla potestà di Kirill quasi metà di tutti i fedeli ortodossi russi) hanno fatto il resto.

Bisogna ricordare che lo scisma ucraino  ha avuto la benedizione del Patriarca ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo I, molto vicino a Francesco su le più spinose tematiche (futuro del Creato, migranti…), capo di una Chiesa “divisa” da mille anni, eppure “sorella”.

Non è forse un caso che appena dopo aver accettato la richiesta di Putin, ufficializzata il 6 giugno scorso, il Papa in occasione della Festa di San Pietro e Paolo (29 giugno), a pochi giorni dall’arrivo dello zar, abbia voluto donare a Bartolomeo sette reliquie di San Pietro (frammenti di ossa) ritrovate nei sotterranei vaticani e particolarmente venerate da un altro Pontefice, San Paolo VI .

Una donazione che ha creato qualche malumore in Vaticano ( dove esiste un forte partito “filorusso”) e che ha un significato inequivocabile: il dono, le reliquie più preziose di cui un Papa possa disporre, è un segno di fratellanza e unità che nessuno può intaccare.

Come a dire che Francesco (successore di Pietro) non si allontanerà da Bartolomeo (successore dell’apostolo Andrea), a causa dello scisma all’interno dell’ortodossia o per la pressione di Mosca. Pietro ed Andrea apostoli erano e rimarranno fratelli.

La questione Ucraina, dunque, è stata determinante nello spingere Putin ad essere ricevuto da Francesco. Ed è stato il main topic. La sua richiesta è avvenuta dopo che era stato annunciato un importante incontro che avverrà  domani e dopodomani in Vaticano dei vertici dei cattolici ucraini, chiamati da Francesco ad affrontare i problemi spirituali e politici del Paese in modo da ristabilire la pace.

L’articolo completo è leggibile qui 

Michel De Certau e la teologia

Tratto dalla rivista La Civiltà Cattolica a firma di Paul Gilbert

Il contesto dell’articolo. Michel de Certeau, gesuita morto nel 1986 a 61 anni, è stato soprattutto uno storico della mistica del XVII secolo, con particolare attenzione ai gesuiti Pierre Favre e, soprattutto, Jean-Joseph Surin. Il suo percorso intellettuale è stato segnato dalla cultura nella scienza storica, che si sviluppava al di fuori degli ambienti ecclesiastici, in qualche modo in una terra di missione per la Chiesa. 

Perché l’articolo è importante?

L’articolo, attraverso il pensiero di de Certau, affronta la complessa relazione tra la cultura e la mistica, considerandone anche i suoi eccessi. La mistica infatti mette in questione il punto di vista della filo­sofia tradizionale, perché offre un’aper­tura a un mondo ignoto, al di là del razionale, al mondo dell’«altro»: un tema, questo, diventato importante nella riflessione filosofica del XX secolo.

De Certeau vede la ricerca intrapresa dai mistici come un sintomo della difficoltà di vivere la scomparsa del senso. Egli era impressionato dalle difficoltà incontrate dal cri­stianesimo nel mondo contemporaneo, che non comprendeva più il linguag­gio dei teologi. Non solo a causa della secolarizzazio­ne ma soprattutto a causa dell’assenza di significato del discorso teologico. Nel 1969, de Certeau sostiene l’«idea» che Dio è diventato lo «straniero».

L’articolo poi espone la riflessione di de Certeau sull’interpretazione che Surin offre della cosiddetta indifferenza ignaziana, e di come essa contempli anche «l’indifferenza» di Dio verso le nostre scelte: il suo rispetto per la nostra libertà, insieme alla continuità della sua bontà, ci lascia responsabili di noi stessi. «Dio indifferente [significa che] tutto rimane da fare per chi vuole impegnarsi sui sentieri non tracciati dell’avve­nire, secondo il dinamismo di una creazione sempre rinnovata» (P. Lecrivain).

Quali sono le domande che l’articolo affronta?

  • Perché le epoche dei grandi scricchiolii dei sistemi culturali sono spesso accompagnate da fenomeni «de­vianti», mistici?
  • Cosa è un mistico e qual è dunque il suo ruolo nel tempo che vive?
  • Cosa si intende per «indifferenza» di Dio e per «teologia negativa»?

 

Per leggere l’articolo integrale clicka qui 

Arriva lo stop ai fondi per il muro di Trump

Una corte d’appello di San Francisco ha confermato la decisione di congelare i fondi del Pentagono destinati alla lotta antidroga e dirottati con un ordine esecutivo del presidente Usa verso la costruzione della barriera antimigranti.

“Quanto all’interesse pubblico, concludiamo che è meglio servito rispettando l’assegnazione costituzionale del potere di spesa al Congresso”, hanno scritto due dei tre giudici (uno nominato da Barack Obama, l’altro da George W. Bush).

Inoltre, la corte ha annullato una precedente sentenza che consentiva all’amministrazione Trump di imporre ulteriori restrizioni alle strutture cui si rivolgono le donne con basso reddito per abortire.

 

 

Putin a Roma: l’embargo russo costa all’Italia oltre un miliardo di euro

a una analisi della Coldiretti, divulgata in occasione della visita del presidente Vladimir Putin in Italia, alla vigilia dell’anniversario dell’embargo deciso quasi 5 anni fa con decreto n. 778 del 7 agosto 2014 e più volte rinnovato come ritorsione alla decisione dell’Unione europea di applicare sanzioni alla Russia per la guerra in Ucraina, emerge che: “Le esportazioni agroalimentari made in Italy in Russia hanno perso oltre un miliardo di euro negli ultimi cinque anni a causa del blocco che ha colpito una importante lista di prodotti agroalimentari con il divieto all’ingresso di frutta e verdura, formaggi, carne e salumi, ma anche pesce, provenienti da Ue, Usa, Canada, Norvegia ed Australia”.

“L’agroalimentare italiano – spiega la Coldiretti – è infatti l’unico settore colpito direttamente dall’embargo che ha portato al completo azzeramento delle esportazioni dei prodotti presenti nella lista nera, dal Parmigiano Reggiano al Grana Padano, dal prosciutto di Parma a quello San Daniele, ma anche frutta e verdura come le mele, soprattutto della varietà Granny Smith dal colore verde intenso e sapore leggermente acidulo particolarmente apprezzate dai cittadini russi”.
“Si tratta di un costo insostenibile per l’Italia e l’Unione europea ed è importante che si riprenda la via del dialogo”, afferma il presidente della Coldiretti Ettore Prandini, sottolineando che “ancora una volta il settore agroalimentare è stato merce di scambio nelle trattative internazionali senza alcuna considerazione del pesante impatto che ciò comporta sul piano economico, occupazionale e ambientale”.
Alle perdite dirette subite dalle mancate esportazioni “si sommano – continua la Coldiretti – quelle indirette dovute al danno di immagine e di mercato provocato dalla diffusione sul mercato russo di prodotti di imitazione che non hanno nulla a che fare con il made in Italy. Nei supermercati russi si possono ora trovare fantasiosi surrogati locali che hanno preso il posto dei cibi italiani originali”.

“Un blocco dunque dannoso per l’Italia anche se “nel 2018 l’export agroalimentare italiano è cresciuto del 7% rispetto all’anno precedente raggiungendo i 561 milioni di euro grazie ai comparti non colpiti dall’embargo, come il vino, le paste alimentari, pomodori pelati e polpe, tabacchi e olio, a conferma della fame d’Italia dei cittadini russi. I valori – conclude la Coldiretti – rimangono comunque nettamente inferiori a quelli del 2013, l’ultimo anno prima dell’embargo, quando le esportazioni agroalimentari made in Italy avevano raggiunto i 705 milioni di euro”.

Sea Watch: il conflitto Rakete Salvini

Premetto che gli attori in campo sono tutti infarciti di idee che orientano giudizi e comportamenti, e che l’ideologia sovrasta comunque ciascuno di noi. Ad esaminare il caso della Sea Watch non possiamo esimerci dalla osservazione che ho premesso. Per essere ancor più chiaro, tanto la comandante Carola Rakete, quanto il Ministro degli Interni Matteo Salvini, devono fare i conti con la scena che sta alle loro spalle e che condiziona fortemente tanto l’una quanto l’altro.

Fatta questa precisazione, cerco di rappresentarmi la vicenda nel seguente modo: Carola si prodiga a salvare 40 naufraghi, Salvini intende respingere qualsiasi approdo che non sia preventivamente garantito dai flussi regolari.

Il conflitto tra i due protagonisti è del tutto evidente. Sono due atteggiamenti tra loro contrapposti: ciò che vuole l’uno è respinto dall’altro.

Ora, sappiamo che cosa sia accaduto. Televisioni e giornali ci hanno fatto mille volte riandare con gli occhi e con la mente ai fatti. È pertanto inutile aggiungere una mia ulteriore versione. Tanto, già sapete tutto. Il mio compito è da che parte collocarmi.

Perché è evidente che qui una posizione va pur presa.

Alla luce della sentenza del Giudice, è chiaro che l’azione della giovane tedesca non può essere in alcun modo punita. Ragioni di elevato spessore umano elevato reggono la decisione del Giudice. Il conflitto, in una società civile, è sempre rigorosamente demandato alla corte della giustizia. Il politico ha altri compiti e le persone possono, per fortuna, criticare i dispositivi della Magistratura, ma devono comunque rigorosamente rispettarli. Quello che fa specie, invece, è che Salvini, da Ministro degli Interni, ha apertamente, in forma diretta, in chiaro, protestato nei confronti della sentenza, apostrofando pure il Giudice, affermando che quello che ha espresso va rubricato come atto politico.

Non posso, per ragioni squisitamente razionali, non mettere all’indice una posizione così espressa; Salvini, in quanto individuo può permettersi qualsiasi avversione al giudizio del Gip, ma non può, perché rappresenta anche me, oltre voi tutti, farlo da Ministro dell’Interno.

È bene sottolineare questo aspetto perché ci sono tante questioni delicate sotto questa vicenda; pertanto, esaminare con serietà il fenomeno può essere molto utile per chiunque, al fine di dipanare un’intricata matassa politica.

Potrei anche sbagliarmi, potrei anche scrivere delle cose non del tutto fondate. Questo è sempre possibile. Ma scrivo proprio perché qualcuno possa rilevare le mie vuotezze e correggere quanto vado dicendo. In fondo, essendo stato io un democristiano vicino al pensiero di Aldo Moro, ho appreso in quel partito, il sacrosanto diritto di esprimere apertamente la propria convinzione, ma di riconoscere anche le osservazione degli altri nei miei riguardi perché la democrazia, in fondo, è un esercizio che si pratica, almeno credo, in questo modo.

Non so se io, nella condizione data, mi sarei comportato come la comandante Carola. Non lo so. Anzi, pensandoci su, probabilmente non ho la stoffa per gettarmi in simili imprese; posso però dire, con certezza, che, pur avendo anche io più volte criticato alcune sentenze, so distinguere ciò che è lecito fare da libero cittadino rispetto a quello che non andrebbe in alcun modo compiuto se rappresentante delle Istituzioni.

Per concludere, ciò che di sacro ci ha dato la società moderna, è la netta separazione tra potere legislativo, politico e giudiziario; bisogna sempre salvaguardarlo, per non cadere nelle conformazioni che la storia ci ha orribilmente consegnato sotto vesti e forme dittatoriali.

Piccoli Comuni: Uncem contro il divieto di integrare le tariffe scuolabus

Nelle scorse settimane una deliberazione della sezione di controllo piemontese della Corte dei Conti ha stabilito che ai comuni non è consentita l’erogazione gratuita del servizio di trasporto pubblico scolastico, trattandosi di servizio che deve avere a fondamento una adeguata copertura finanziaria (vedi qui il nostro precedente articolo al riguardo). Sulla vicenda è tornato Marco Bussone, Presidente Uncem, ponendo l’accento in particolare sulle difficoltà che questa decisione creerà in particolare ai piccoli Comuni e a quelli di area Montana.”È assurdo e lontano dalla realtà affermare che lo scuolabus debba essere interamente pagato dagli utenti, dalle famiglie, e non possa essere attivato grazie a un’integrazione della tariffa da parte del Comune. Che potrebbe anche decidere di regalarlo. Vale in particolare per i Comuni piccoli e montani. Se non ho la scuola elementare o la media, devo poter organizzare come voglio lo scuolabus nel mio Comune verso i paesi vicini. Una decisione anche di spesa che Sindaco e Amministrazione comunale devono poter fare, con la forza della loro autonomia, investendo risorse del bilancio, per permettere a chi vive sul territorio di non scappare inseguendo servizi che peraltro lo Stato ha chiuso e limitato imponendo parametri mutuati dalla città. E invece no. Ancora la Corte dei Conti, non capendo le realtà territoriali del Paese, dice che lo scuolabus deve essere pagato dagli utenti, senza possibilità di integrazione comunale. Assurdo”.

Così Bussone sulla delibera 46/2019 della Corte dei Conti, Sezione di controllo del Piemonte, in cui è stata esclusa qualsiasi discrezionalità per l’azione amministrativa dell’ente che intenda agevolare la frequenza all’attività didattica da parte dell’utenza scolastica. L’invarianza finanziaria per lo scuolabus è prevista dall’articolo 5, comma 2, del Dlgs 63/2017 dove si afferma che: “Il servizio di scuolabus è assicurato su istanza di parte e dietro il pagamento di una quota di partecipazione diretta, senza nuovi o maggiori oneri per gli enti territoriali interessati”.

“È fuori da ogni logica perché il Paese vero è ben altro – commenta Bussone – Comuni senza scuola, frazioni lungo le valli, borgate nelle aree interne. Chilometri e chilometri di scuolabus da fare nelle zone montane del Paese per scendere più a valle verso i plessi scolastici. È naturale, ovvio, che il singolo Comuni o più Comuni in Unione scelgano di integrare la tariffa, di far pagare ai cittadini una cifra simbolica. Lo fanno perchè senza quel servizio, lo spopolamento sarebbe ancor più grave, ancor più tragico. E invece no. La Corte dei Conti ci dice che non possiamo. Sono le famiglie a dover pagare tutto. Mentre in città per il trasporto pubblico si mandano i bilancio in rosso, nei piccoli Comuni è dunque vietato integrare con 5 o 10 mila euro annui del bilancio la spesa per lo scuolabus. Già è assurdo avere pullman gialli che non possono portare altre persone. Poi arrivano norme, sentenze, delibere così lontane dalla realtà, che sembra di essere presi in giro da chi non capisce cosa è l’Italia, cosa solo i piccoli Comuni, come sono organizzati i servizi, cosa vuol dire presidio del territorio e impegno degli Enti locali. La norma su scuolabus e bilanci comunali va cambiata, ma anche gli organi di controllo potrebbero essere più vicini al Paese vero”.

Il festival dei lettori creativi annuncia la seconda edizione

Dopo l’esordio della prima edizione, Bookolica, il festival dei lettori creativi torna nella cornice dell’Alta Gallura in Sardegna per una seconda edizione tutta da scoprire.

Nel weekend dal 26 al 28 luglio 2019 Bookolica animerà le strade dei comuni di Tempio Pausania e Bortigiadas con una tre giorni dedicata alla letteratura e alle arti visive alla presenza di ospiti di portata nazionale e internazionale. L’evento sarà il punto di incontro per un pubblico ampio e variegato che avrà l’opportunità di partecipare a un ricco calendario di eventi dove la “cultura del libro” ne farà da protagonista in tutte le sue molteplici sfaccettature. Appuntamenti ed incontri che animeranno suggestive locations in uno scambio virtuoso di saperi e cultura.

Anche per l’edizione 2019 il file rouge del festival è il dialogo tra parola e immagine nonché tra la letteratura e le arti visive e performative. La letteratura diventa luogo di convergenza e propulsione degli altri linguaggi creativi per generare – attraverso le parole – immagini e immaginario, visioni e visionarietà: una contaminazione di segni e codici diversi che vuole essere il tratto distintivo della manifestazione.

Bookolica si pone l’obiettivo di accentuare la centralità del lettore e della comunità locale nel proprio contesto ambientale, riscoprendo i luoghi come libri interattivi da sfogliare, ri-leggere e nei quali sentirsi protagonisti consapevoli. Il festival si fa promotore attivo dell’importanza della lettura, intesa come piacere individuale e bene comune, essenziale per la crescita culturale, per lo sviluppo della conoscenza e della personalità e per la costruzione di “lettori forti”, maturi, consapevoli e liberi. Un particolare sguardo sarà poi rivolto all’editoria digitale, un mercato in continua crescita in Italia, che offre un approccio sempre più interattivo e integrato e apre nuovi scenari per il futuro.

Il colesterolo cattivo troppo basso alza il rischio di ictus

Un nuovo imponente studio che ha coinvolto quasi 100.000 persone mette in guardia sul fatto che avere livelli troppo bassi di colesterolo LDL, quello ritenuto cattivo, alza il rischio di essere colpiti dall’ictus emorragico. La ricerca è stata svolta dall’Università della Pennsylvania in collaborazione con la Harvard Medical School di Boston.

È importante quindi mirare a un controllo del colesterolo adeguato, evitando di scendere sÈ importante quindi mirare a un controllo del colesterolo adeguato, evitando di scendere sotto i 79 milligrammi, specie per chi è già di per sé a rischio di ictus emorragico, concludono gli autori del lavoro.

Il passo in avanti dei cattolici di Politica Insieme

  1. Se l’obiettivo di Politica Insieme era quello di accogliere e far sentire a casa tutti i molteplici soggetti che compongono la variegata galassia del popolarismo italiano, credo che l’incontro di ieri pomeriggio all’Istituto Sturzo abbia colto nel segno. 

Nessuna rivendicazione di primogenitura, nessun pacchetto preconfezionato da offrire, grande disponibilità al dialogo e alla convergenza programmatica. E, cosa ancora più importante, capacità di portare il confronto su tematiche alte, anche grazie ad interventi di respiro come quelli di Stefano Zamagni o Leonardo Becchetti che, sia pure in pillole, hanno fatto scorgere il senso di un rinnovato impegno in politica di chi si ispira alla Dottrina Sociale della Chiesa.

Eppure rimangono ancora grandi ostacoli sulla via, che l’incontro stesso ha evidenziato. 

In primo luogo l’eterogeneità dei soggetti della “galassia bianca” convenuti lascia aperto il problema della definizione di posizioni nette e chiare sulla quali convergere. Se è da respingere l’inevitabilità della diaspora dei cattolici, neppure si può assumere per vero il contrario: ci sono visioni ampiamente divergenti nel mondo cattolico e queste erano assommabili nella Democrazia Cristiana solo grazie al nemico esterno e alla sua vocazione maggioritaria, di grande partito che regolava i posizionamenti con la sua democrazia interna. Dato che è impensabile oggi riproporre un simile schema, si dovrà creare un manifesto netto, chiaro, senza ambiguità alla ricerca di ecumeniche convergenze da parte di tutti. 

L’incontro di ieri ha plasticamente mostrato molti dei volti del nostro mondo cattolico (ed altri ancora ve ne sono…) lasciando aperti dubbi sulla loro effettiva capacità di lavorare insieme per il bene comune.

Un secondo elemento problematico sta nella costruzione del soggetto politico. Se è emersa con forza l’istanza di sviluppare un percorso nuovo e originale, con parole d’ordine, modello organizzativo e volti nuovi – senza nuovismi, ma con “spirito generativo”, per usare le parole di Becchetti – d’altro lato è parsa ancora molto labile la proposta. 

Alcune preziose indicazioni le ha fornite nel suo intervento Giancarlo Infante, che ha parlato della necessità di anteporre a tutto l’organizzazione del pensiero ed il confronto, su questo, con le comunità locali. Pensare ed agire politicamente necessita oggi di ripartire dal “civismo di partecipazione”, dalle tante liste civiche del Paese, spesso animate proprio dai cattolici, che attendono uno sbocco alle loro istanze di bene comune. Non a caso l’intervento della sindaca di Assisi Stefania Proietti è stato seguito con grande attenzione dalla sala ed ha avuto applausi calorosi. 

Bene quindi lavorare all’elaborazione di pensiero e di proposte, ma per poi tradurle subito in azioni politiche sul territorio, che deve essere coinvolto nel processo di sviluppo del nuovo soggetto politico.

L’impressione, quindi, è che il sasso nello stagno sia stato gettato, che l’attenzione sia alta, ma che solo con molto coraggio ed altrettanta tenacia si possano affrontare le sfide che sono emerse nell’incontro. Manca forse un poco di entusiasmo, come è naturale in un mondo che ha consumato in un ventennio decine di sigle, progetti e leadership, ma c’è la consapevolezza, come ha detto Becchetti verso la conclusione, che è necessario “mettere in moto processi che nel tempo cambino il mondo”. 

Ieri un passettino è stato fatto nella giusta direzione ma ciò ha reso più evidente quanto ancora sia lungo il cammino.

 

 

Auguri David

Ci sono eventi, nella vita pubblica, che trasmettono un immediato calore di gioia. Non valgono divisamenti e retropensieri, associati di solito ai fatti di cronaca politica. L’elezione di David Sassoli alla Presidenza del Parlamento europeo è uno di questi eventi. Sì è affacciato timidamente all’orizzonte ed è esploso, in poche ore, come fulgida sorpresa per tutti. Gli italiani hanno potuto alzare gli occhi da terra: il momento dell’orgoglio è scattato.

Sassoli ha iniziato a far politica da ragazzo. Aveva ideali e passioni, gli stessi che ancora coltiva in età matura. Quando nei primi anni ‘70, al circolo F. L. Ferrari del quartiere Prati, incrociavi l’imponente figura di Paolo Giuntella, dietro potevi scorgere la zazzera di un ragazzo magro e vivace, nutrito alla scuola di un cattolicesimo democratico impenitente e severo, contro le “povere cose” della Dc romana. È cresciuto con il vezzo di proclamarsi democristiano – di sinistra – senza avere la tessera di partito. Era stato Dossetti a stabilire, per sé, questa regola di consonanza e diversità, in nome di una superiore identificazione con il messaggio “democratico e cristiano”.

Poi ha fatto altre scelte, anteponendo la professione all’impegno politico. Chi non ricorda Sassoli conduttore del Tg1? Di lontano ha visto la fine della Dc, sicuramente con distacco sofferto, rinunciando a partecipare alle operazioni di salvataggio della tradizione cattolico democratica. No ai Popolari, no alla Margherita: si è tenuto perciò alla larga da questa fatica di reinvenzione di una storia complessa. Solo con il Pd ha ritrovato il gusto del coinvolgimento nella lotta politica.

Nel 2009 fu chiamato, inaspettatamente, a guidare la lista per le europee nel collegio dell’Italia centrale. Ora, a maggio scorso, è stato rieletto per la terza volta consecutiva. Chi lo ha votato – e sono stati molti – ha dato credito alla sua immutata generosità. È così. Aveva messo nel conto di “stare nel gruppo”, nulla avendo a che pretendere, in questo Parlamento guardato a vista, come tutte le istituzioni europee, dai nostri impavidi sovranisti e populisti. Adesso tocca a lui sedere sullo scranno più alto dell’Aula di Strasburgo. È il premio che merita, per la serietà e l’onestà da sempre assunte a costume di vita politica. La sorte gli assegna una funzione di alta rappresentanza in virtù della quale, specie nei momenti più delicati, potrà dare all’Italia una mano importante, ponendosi idealmente al fianco del suo e nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

 

Auguri, David!

Sassoli: “Non siamo un incidente della Storia”

Cittadine e cittadini dell’Unione europea, signore e signori parlamentari, cari amici, colleghi, rappresentanti delle Istituzioni, dei Governi, donne e uomini di questa Amministrazione.

Tutti voi capirete la mia emozione in questo momento nell’assumere la Presidenza del Parlamento europeo e di essere stato scelto da voi per rappresentare l’Istituzione che più di ogni altra ha un legame diretto con i cittadini, che ha il dovere di rappresentarli e difenderli. E di ricordare sempre che la nostra libertà è figlia della giustizia che sapremo conquistare e della solidarietà che sapremo sviluppare.

Permettetemi di ringraziare il Presidente Antonio Tajani per il lavoro svolto in questo Parlamento, per il suo grande impegno e la sua dedizione a questa Istituzione. Voglio anche dare il benvenuto ai nuovi colleghi, che sono il 62% di quest’Aula, un bentornato ai parlamentari confermati e alle donne, che rappresentano il 40% di tutti noi. Un buon risultato, ma noi vogliamo di più.

In questo momento, al termine di una intensa campagna elettorale, ha inizio una legislatura che gli avvenimenti caricano di grande responsabilità perché nessuno può accontentarsi di conservare l’esistente. Ce lo dice il risultato elettorale, ce lo testimonia la stessa composizione di questa Assemblea.

Siamo immersi in trasformazioni epocali: disoccupazione giovanile, migrazioni, cambiamenti climatici, rivoluzione digitale, nuovi equilibri mondiali, solo per citarne alcuni, che per essere governate hanno bisogno di nuove idee, del coraggio di saper coniugare grande saggezza e massimo d’audacia.

Dobbiamo recuperare lo spirito di Ventotene e lo slancio pionieristico dei Padri Fondatori, che seppero mettere da parte le ostilità della guerra, porre fine ai guasti del nazionalismo dandoci un progetto capace di coniugare pace, democrazia, diritti, sviluppo e uguaglianza.

In questi mesi, in troppi, hanno scommesso sul declino di questo progetto, alimentando divisioni e conflitti che pensavamo essere un triste ricordo della nostra storia. I cittadini hanno dimostrato invece di credere ancora in questo straordinario percorso, l’unico in grado di dare risposte alle sfide globali che abbiamo davanti a noi.

Dobbiamo avere la forza di rilanciare il nostro processo di integrazione, cambiando la nostra Unione per renderla capace di rispondere in modo più forte alle esigenze dei nostri cittadini e per dare risposte vere alle loro preoccupazioni, al loro sempre più diffuso senso di smarrimento.

La difesa e la promozione dei nostri valori fondanti di libertà, dignità e solidarietà deve essere perseguita ogni giorno dentro e fuori l’Ue.

Cari colleghi, pensiamo più spesso al mondo che abbiamo, alle libertà di cui godiamo…. E allora diciamolo noi, visto che altri a
Est o ad Ovest, o a Sud fanno fatica a riconoscerlo, che tante cose ci fanno diversi – non migliori, semplicemente diversi – e che noi europei siamo orgogliosi delle nostre diversità.

Ripetiamolo perché sia chiaro a tutti che in Europa nessun governo può uccidere, che il valore della persona e la sua dignità sono il nostro modo per misurare le nostre politiche…

….che da noi nessuno può tappare la bocca agli oppositori, che i nostri governi e le istituzioni europee che li rappresentano sono il frutto della democrazia e di libere elezioni…

….che nessuno può essere condannato per la propria fede religiosa, politica, filosofica… che da noi ragazze e ragazzi possono viaggiare, studiare, amare senza costrizioni…

….che nessun europeo può essere umiliato e emarginato per il proprio orientamento sessuale… che nello spazio europeo, con modalità diverse, la protezione sociale è parte della nostra identità,

….che la difesa della vita di chiunque si trovi in pericolo è un dovere stabilito dai nostri Trattati e dalle Convenzioni internazionali che abbiamo stipulato.

Il nostro modello di economia sociale di mercato va rilanciato. Le nostre regole economiche devono saper coniugare crescita, protezione sociale e rispetto dell’ambiente. Dobbiamo dotarci di strumenti adeguati per contrastare le povertà, dare prospettive ai nostri giovani, rilanciare investimenti sostenibili, rafforzare il processo di convergenza tra le nostre regioni ed i nostri territori.

La rivoluzione digitale sta cambiano in profondità i nostri stili di vita, il nostro modo di produrre e di consumare. Abbiamo bisogno di regole che sappiano coniugare progresso tecnologico, sviluppo delle imprese e tutela dei lavoratori e delle persone.

Il cambiamento climatico ci espone a rischi enormi ormai evidenti a tutti. Servono investimenti per tecnologie pulite per rispondere ai milioni di giovani che sono scesi in piazza, e alcuni venuti anche in quest’Aula, per ricordarci che non esiste un altro pianeta.

Dobbiamo lavorare per una sempre più forte parità di genere e un sempre maggior ruolo delle donne ai vertici della politica, dell’economia, del sociale.

Signore e Signori, questo è il nostro biglietto da visita per un mondo che per trovare regole ha bisogno anche di noi.

Ma tutto questo non è avvenuto per caso. L’Unione europea non è un incidente della Storia.

Io sono figlio di un uomo che a 20 anni ha combattuto contro altri europei, e di una mamma che, anche lei ventenne, ha lasciato la propria casa e ha trovato rifugio presso altre famiglie.

Io so che questa è la storia anche di tante vostre famiglie… e so anche che se mettessimo in comune le nostre storie e ce le raccontassimo davanti ad un bicchiere di birra o di vino, non diremmo mai che siamo figli o nipoti di un incidente della Storia.

Ma diremmo che la nostra storia è scritta sul dolore, sul sangue dei giovani britannici sterminati sulle spiagge della Normandia, sul desiderio di libertà di Sophie e Hans Scholl, sull’ansia di giustizia degli eroi del Ghetto di Varsavia, sulle primavere represse con i carri armati nei nostri paesi dell’Est, sul desiderio di fraternità che ritroviamo ogni qual volta la coscienza morale impone di non rinunciare alla propria umanità e l’obbedienza non può considerarsi virtù.

Non siamo un incidente della Storia, ma i figli e i nipoti di coloro che sono riusciti a trovare l’antidoto a quella degenerazione nazionalista che ha avvelenato la nostra storia. Se siamo europei è anche perché siamo innamorati dei nostri Paesi. Ma il nazionalismo che diventa ideologia e idolatria produce virus che stimolano istinti di superiorità e producono conflitti distruttivi.

Colleghe e colleghi, abbiamo bisogno di visione e per questo serve la politica. Sono necessari partiti europei sempre più capaci di essere l’architrave della nostra democrazia. Ma dobbiamo dare loro nuovi strumenti. Quelli che abbiamo sono insufficienti. Questa legislatura dovrà rafforzare le procedure per rendere il Parlamento protagonista di una completa democrazia europea.

Ma non partiamo da zero, non nasciamo dal nulla. L’Europa si fonda sulle sue Istituzioni, che seppur imperfette e da riformare, ci hanno garantito le nostre libertà e la nostra indipendenza. Con le nostre Istituzioni saremo in grado di rispondere a tutti coloro che sono impegnati a dividerci. E allora diciamo in quest’Aula, oggi, che il Parlamento sarà garante dell’indipendenza dei cittadini europei. E che solo loro sono abilitati a scrivere il proprio destino: nessuno per loro, nessuno al posto nostro.

In quest’aula insieme a tanti amici e colleghi con molta esperienza, vi sono anche tantissimi deputati alla prima legislatura. A loro un cordiale saluto di benvenuto.

Ho letto molte loro biografie e mi sono convinto si tratti di una presenza molto positiva per loro competenze, professionalità. Molti di loro sono impegnati in attività sociali o di protezione delle persone, e questo è un campo su cui l’Europa deve migliorare perché abbiamo il dovere di governare i fenomeni nuovi.

Sull’immigrazione vi è troppo scaricabarile fra governi e ogni volta che accade qualcosa siamo impreparati e si ricomincia daccapo.

Signori del Consiglio Europeo, questo Parlamento crede che sia arrivato il momento di discutere la riforma del Regolamento di Dublino che quest’Aula, a stragrande maggioranza, ha proposto nella scorsa legislatura.

Lo dovete ai cittadini europei che chiedono più solidarietà fra gli Stati membri; lo dovete alla povera gente per quel senso di umanità che non vogliamo smarrire e che ci ha fatto grandi agli occhi del mondo.

Molto è nelle vostre mani e con responsabilità non potete continuare a rinviare le decisioni alimentando sfiducia nelle nostre comunità, con i cittadini che continuano a chiedersi, ad ogni emergenza: dov’è l’Europa? Cosa fa l’Europa? Questo sarà un banco di prova che dobbiamo superare per sconfiggere tante pigrizie e troppe gelosie.

E ancora, Parlamento, Consiglio e Commissione devono sentire il dovere di rispondere con più coraggio alle domande dei nostri giovani quando chiedono a gran voce che dobbiamo svegliarci, aprire gli occhi e salvare il pianeta.

Mi voglio rivolgere a loro: considerate questo Parlamento, che oggi inizia la sua attività legislativa, come il vostro punto di riferimento. Aiutateci anche voi a essere più coraggiosi per affrontare le sfide del cambiamento.

Voglio assicurare al Consiglio e alle Presidenze di turno la nostra massima collaborazione e lo stesso rivolgo alla Commissione e al suo Presidente. Le Istituzioni europee hanno la necessità di ripensarsi e di non essere considerate un intralcio alla costruzione di un’Europa più unita.

Tramite il Presidente del Consiglio europeo voglio rivolgere anche un saluto, a nome di quest’Aula, ai Capi di Stato e di Governo.

Ventotto paesi fanno grande l’Unione europea. E si tratta di 28 Stati, dal più grande al più piccolo, che custodiscono tesori unici al mondo. Tutti vengono da lontano e posseggono cultura, lingua, arte, paesaggio, poesia inimitabili e inconfondibili. Sono il nostro grande patrimonio e tutti meritano rispetto.

Ecco perché quando andrò a visitarli, a nome vostro, non sarò mai distratto. E davanti alle loro bandiere e ai loro inni sarò sull’attenti anche a nome di coloro che, in quest’Aula, non mostrano analogo rispetto.

Lasciatemi infine rivolgere un saluto ai parlamentari britannici, comunque la pensino sulla Brexit. Per noi immaginare Parigi, Madrid, Berlino, Roma lontane da Londra è doloroso.

Sì sappiatelo, con tutto il rispetto che dobbiamo per le scelte dei cittadini britannici, per noi europei si tratta di un passaggio politico che deve essere portato avanti con ragionevolezza, nel dialogo e con amicizia, ma sempre nel rispetto delle regole e delle rispettive prerogative.

Voglio salutare i rappresentanti degli Stati che hanno chiesto di aderire all’Unione europea. Il loro percorso è avviato per loro libera scelta. Tutti capiscono quanto sia conveniente far parte dell’Unione. Le procedure di adesione proseguono e il Parlamento si è detto più volte soddisfatto dei risultati raggiunti.

Infine, un in bocca al lupo a tutta l’amministrazione e ai lavoratori del Parlamento.

Ci siamo dati un obbiettivo nella scorsa legislatura: far diventare il Parlamento europeo la Casa della democrazia europea.

Per questo abbiamo bisogno di riforme, di maggiore trasparenza, di innovazione. Molti risultati sono stati raggiunti, specie sul bilancio, ma questa legislatura deve dare un impulso maggiore.

Per fare questo c’è bisogno di un maggior dialogo fra parlamentari e amministrazione e sarà mia cura svilupparlo.

Care colleghe e cari colleghi, l’Europa ha ancora molto da dire se noi, e voi, sapremo dirlo insieme. Se sapremo mettere le ragioni della lotta politica al servizio dei nostri cittadini, se il Parlamento ascolterà i loro desideri e le loro paure e le loro necessità.

Sono sicuro che tutti voi saprete dare il necessario contributo per un’Europa migliore che può nascere con noi, con voi, se sapremo metterci cuore e ambizione.

Grazie e buon lavoro.

 

Quel Muro che farebbe del Friuli una piccola Ungheria

I muri non sono mai stati un modello per separare, semmai sono utili per costruire case. Chiunque dovesse immaginare di risolvere i problemi erigendo barriere fisiche dovrebbe, innanzitutto, superare quelle che ha più o meno involontariamente costruito nella propria mente. In fondo, l’uomo è caratterizzato per proporre ponti, varchi, sentieri, autostrade.

Quindi, da qualsiasi parte provenga una idea insolita, come quella all’inizio citata, è meglio metterla subito in naftalina o, meglio ancora, farla scomparire nell’oblio.

Per imitazione si può anche commettere qualche imprudenza e indulgere in qualche errore. Negligenze, entrambe, riparabilissime. Lo stesso Donald Trump, dopo aver sbandierato ai quattro venti una biblica costruzione a difesa delle sue ricche terre, ha incontrato una intensissima resistenza della gran parte del popolo Statunitense e lui stesso è sembrato vacillare.

In Europa si sono manifestate alcune indecorose brutture. Faccio riferimento a quello che è apparso in Ungheria e in alcuni confini Balcanici. Non è questo un esempio né da pensare né tantomeno da imitare.

A volte, l’esagerazione ideologica e il momento di un infernale calore estivo, può capitare di incappare in qualche scivolone di troppo.

I giornali, ma la stessa tv, in forma diretta, hanno riportato le idee di Matteo Salvini, affiancate prontamente dal Presidente Massimiliano Fedriga, di fare anche nei confini tra il Friuli Venezia Giulia e la Slovenia un muro risolutore. Nulla di più fallace. Sarebbe una pietosa ricerca, del resto infruttuosa, di risolvere un problema che dovrebbe invece trovare il suo dissolvimento alla radice e non certo nel tratto terminale del fenomeno emigrazione.

Da quanto si capisce, però, Fedriga sembra aver ammorbidito il proclama iniziale. Oggi, sembra più volto ad intensificare la presenza di forze dell’ordine dispiegate lungo il tracciato confinario. Non è che questo impedirà e tamponerà la cosa, ma almeno fa registrare una virata radicale rispetto all’insidiosa e vuota, quanto inconcludente, idea della barriera fisica.

Sapendo che la Lega è l’unico partito vigente che registra ancora una struttura piramidale, in cui il vertice offre il verbo, è evidente che ciò che dice Salvini non viene mai messo in discussione e la sua favella è una favella quasi religiosa. Conoscendo personalmente il Presidente Fedriga, so che lui è animato da un impasto umanamente gradevole: non è aggressivo, è alla mano, parla con tutti, non è altezzoso, non gli sembra di essere il Re sul trono, ma anche lui deve fare i conti con la struttura del suo partito, per questo so quanto sia in tensione quando tratta di questi argomenti. Non a caso, nei fatti, dopo quei proclami sembra essere calato un silenzio e l’asse operativo si sia orientato a una prassi più moderata e meno chiassosa.

Auguro pertanto, al Presidente Fedriga, non certo di abiurare, perché non si deve mai pretendere una simile finalità, ma nel suo silenzio custodisca una idea che non ci faccia in alcun modo assomigliare a Viktor Orban.

Liliana Ocmin: Donne protagoniste dell’attualità nel bene e nel male

Articolo a firma di Liliana Ocmin (edizione odierna di Conquiste del lavoro) 

In queste ore abbiamo assistito ad un susseguirsi di notizie che hanno avuto come protagoniste, nel bene e nel male, le donne. Da una parte, il caso della Sea Whatch che si è svolto nell’indifferenza assordante dell’Europa, dall’altra, la nomina per la prima volta e in contemporanea di due donne alle più alte cariche istituzionali europee. La prima notizia, senza entrare nel merito delle polemiche che hanno contornato l’intera vicenda,  conclusa, dopo oltre due settimane di tira e molla, con lo sbarco e la distribuzione tra alcuni paesi delle 40 persone a bordo della nave, ci ha sollecitate ad unirci a quante e quanti hanno criticato l’episodio sotto il profilo per così dire “linguistico”.

Ci riferiamo in particolare agli epiteti irripetibili, oltre agli odiosi cori razzisti, pronunciati nei confronti della capitana Carola. Ma cosa c’entrano quelle brutte espressioni con i fatti accaduti? Abbiamo la “vaga” sensazione di essere ancora una volta di fronte alla solita manifestazione di stampo sessista che attraverso il linguaggio greve e irrispettoso non esprime nient’altro che l’immagine stereotipata della figura femminile, subalterna all’uomo, da punire come si conviene ogni qualvolta fuoriesce dai canoni  dell’immaginario collettivo e si comporta come persona capace di decidere autonomamente. Il linguaggio utilizzato crediamo faccia parte, purtroppo, proprio di quella cultura maschilista ancora diffusa e che tenta di vanificare gli sforzi che da questo punto di vista istituzioni e società civile stanno portando avanti con tanta determinazione e dedizione, consapevoli della grande sfida che hanno davanti. Ha fatto bene la nostra Segretaria generale Annamaria Furlan a bollare subito le offese sessiste contro Carola come “vergognose”.

La pari dignità tra le persone, tra uomini e donne, si realizza pienamente se accompagnata anche da un giusto grado di consapevolezza e maturità culturale. Continuare a lavorare su questo versante, come stiamo facendo anche noi del Coordinamento nazionale donne, sicuramente rappresenta la strada più difficile ma che vale la pena di percorrere se vogliamo che la parità e il rispetto della dignità della persona sia sostanziale e non solo formale. Non bisogna minimizzare questi episodi, anche se essi si presentano apparentemente isolati, perché non è vero, come ha detto qualche giornalista, che se al posto della capitana ci fosse stato un capitano sarebbe stata la stessa cosa e si sarebbero usate le stesse espressioni. Quando si tratta di una donna si sa sempre con quale arma colpire, tratteggiandola spesso come incapace e degna solo di essere stuprata, perché l’arma dello stupro è quella che per eccellenza la umilia nel profondo, che la sporca in maniera indelebile. L’episodio sessista della Sea Watch non è il primo e probabilmente non sarà neanche l’ultimo, l’importante che non passi l’dea che si tratti di qualcosa di residuale, a cui non dare peso, perché rappresenta al contrario il termometro di ciò che spesso arde sotto la cenere, potenzialmente in grado di rinfocolare ed espandersi. 

La seconda notizia parla invece della nomina di due donne – già una sola di queste sarebbe stato un gran risultato – ai vertici della nuova Europa uscita dalle urne lo scorso 26 maggio. È una grande evento che sicuramente lascerà il segno nella storia, che ci fa ben sperare, perché siamo convinte che il cambiamento culturale necessario per poter raggiungere le pari opportunità passa anche dalle scelte coraggiose delle donne nei posti decisionali strategici. Le due donne in corsa, l’una per la Presidenza della Commissisone Europea e l’altra per quella della BCE, sono la tedesca Ursula von der Leyen 60 anni, sette figli, laurea in medicina, ministra di A. Merkel, che ha introdotto importanti misure per la famiglia,  e Christine Lagarde, politica e avvocata francese, ministra dell’Economia, dell’Industria e dell’Impiego della Francia dal 2007 al 2011 e in seguito dirigente del Fondo Monetario Internazionale. Come Coordinamento auspichiamo ora una conferma delle due candidate da parte del Parlamento europeo, convinte, come lo siamo da tempo, che più donne nei ruoli apicali siano fondamentali alla promozione di una cultura che sappia mettere al centro l’equilibrata partecipazione democratica delle cittadine e dei cittadini europei.

Intervista a suor Alessandra Smerilli: Abbiamo bisogno di una Chiesa in ascolto

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Monda

Docente di Economia presso la Pontificia facoltà di Scienze dell’Educazione “Auxilium” e membro del Comitato scientifico e organizzatore delle settimane sociali dei Cattolici della Conferenza episcopale italiana, Alessandra Smerilli è una religiosa delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Ha partecipato, come uditrice, alla quindicesima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi e il 24 maggio Papa Francesco l’ha nominata tra i consultori della Segreteria generale. Forte di queste esperienze e responsabilità, suor Smerilli affronta il tema della crisi della società attuale e del ruolo che la Chiesa è chiamata a svolgere puntando l’attenzione sulla sinodalità, un’istanza sollecitata dal concilio Vaticano ii che, per prendere corpo, richiede capacità di ascolto e disponibilità a mettersi in discussione.

 

Giuseppe De Rita su queste pagine ha affermato che per il buon governo c’è bisogno di due autorità: una civile e una spirituale-religiosa. Quella civile garantisce la sicurezza, quella spirituale offre un orizzonte di senso. L’uomo ha bisogno di tutte e due le cose. Se invece si esclude una delle due, la società soffre, diventa schizofrenica. Quale potrebbe essere il ruolo della Chiesa nell’attuale situazione italiana?

Sono d’accordo con quanto afferma De Rita, anche se vedo la situazione italiana in questo momento abbastanza complessa e delicata. C’è sempre stato, e credo ci sarà sempre un bisogno di sicurezza e al tempo stesso di un orizzonte di senso. Ma due autorità sono sufficienti a garantire questo quando la società è un corpo. Oggi avvertiamo disgregazione, mancanza di fiducia nelle istituzioni, disintermediazione e sparizione dei corpi intermedi. In Italia abbiamo tanti microcosmi a volte non comunicanti tra di loro, le appartenenze si fanno più deboli e mutano in continuazione. Di fronte a tutto questo credo che innanzitutto la Chiesa ne debba prendere atto con coraggio e senza nostalgia. In secondo luogo è la trama delle relazioni sociali e spirituali che va ricostruita. E questo lo si fa mettendosi con umiltà accanto alle persone lì dove sono, nella logica di una Chiesa missionaria. Durante i lavori del Sinodo sui giovani di ottobre 2018 è emersa l’icona dei discepoli di Emmaus come chiave di lettura di una Chiesa a misura di giovani. Credo sia anche l’icona di una Chiesa a misura della contemporaneità: Gesù si fa incontro, cammina con i discepoli, suscita domande e ascolta. In Italia abbiamo bisogno di una Chiesa in ascolto, vicina alla gente, che si ferma nei villaggi, e quindi nelle periferie. Tutto questo è già in atto, ma forse va fatto con più decisione, nella comprensione che siamo davanti a un mondo, soprattutto di giovani, che da noi non si aspetta nulla e che non ha le categorie per interpretare parole e segni che per noi sono forse scontati. Saranno le nostre parole a dover cambiare? Lo potremo comprendere solo insieme e mettendoci in ascolto.

La società italiana oggi sembra dominata dal rancore. Da dove nasce questo rancore? De Rita dà una sua lettura, quasi un lutto per quello che non c’è stato, una promessa mancata, un futuro che sembra incrinato, perso.

Nel documento preparatorio alla quarantaseiesima settimana sociale dei Cattolici italiani, tenutasi a Reggio Calabria nel 2010, come Comitato scientifico ci riferivamo all’Italia come media potenza declinante, destando un po’ di scalpore tra i cattolici italiani. All’epoca avevamo tentato un’agenda di speranza con tanti spunti concreti per invertire la rotta. Ed eravamo ancora in tempo. Evidentemente le cose sono andate diversamente. La situazione economica e sociale in Italia è preoccupante, ma la narrazione che ne viene fatta è avvilente e preoccupa ancora di più: sembra che non abbiamo scampo, e questo ci indigna, ci fa sentire rassegnati e aumenta il rancore. E il rancore porta anche ad una colpevolizzazione di chi non ce la fa. Se una persona è povera, se disoccupata, se rimane indietro, è colpa sua. Una non bene intesa cultura del merito porta a legare il successo e la realizzazione nella vita ai propri sforzi. Ma sappiamo bene che non è così. Recenti ricerche citano il cosiddetto paradosso della meritocrazia: processi di selezione meritocratica che enfatizzano il valore del merito, finiscono per generare “vincitori” che tendono ad escludere altri. Basta solo l’idea dell’essere più abili di altri a rendere le persone più favorevoli a esiti non equi. Quando il successo è determinato dal merito, ogni vittoria può essere vista come il riflesso delle virtù e del valore di una persona. A tal proposito l’economista Robert Frank nel suo libro Success and Luck (2016) analizza i casi fortuiti e le coincidenze che si leggono dietro a tanti casi di successo. Tra gli imprenditori di successo ci sono molte persone premiate solo dal caso, e tra i falliti ci sono molti che hanno semplicemente trovato il vento sfavorevole. Questo non vuol dire che le persone di successo non abbiano meriti, ma che il legame tra merito e risultato è solo debole e indiretto. Sentirsi persone di successo perché meritevoli crea meccanismi di esclusione.

Il clima attuale inoltre, è favorevole ad una grande confusione in termini di lettura della situazione, ma anche di soluzioni. Come economisti ci troviamo ogni giorno davanti a soluzioni fantasiose di breve periodo, che nel lungo andrebbero ad incrinare ancora di più la situazione. L’economista John Maynard Keynes così scriveva nel 1933: «Siamo in una situazione simile a quella di due camionisti che si incrociano nel mezzo della strada stretta, e sono bloccati l’uno di fronte all’altro perché nessuno conosce in quel caso le regole della precedenza. I loro muscoli non servono; un ingegnere non potrebbe aiutarli; ipotizzare una strada più larga non servirebbe a nulla per uscire da quella empasse. Servirebbe soltanto una piccola, piccolissima, chiarezza nel pensare. Allo stesso modo, oggi il nostro problema non è un problema di muscoli e di forza. Non è neanche un problema di ingegneria. Non possiamo neanche parlare di un problema di business e di imprese. Non è neanche un problema di banche. Al contrario, il nostro è strictu sensu un problema economico, o, per dirlo meglio, un problema di Economia Politica». Abbiamo bisogno di chiarezza di pensiero, di unire le forze migliori, di mettere mano da una parte ai problemi più gravi, come quello della povertà giovanile e della conseguente emigrazione, accompagnata dal costante calo delle nascite. Dall’altra parte è necessario comprendere che le soluzioni non possono essere di breve, brevissimo periodo, per poter invertire la rotta.

In questa situazione emerge un dato che ha una sua ambiguità, anche inquietante, cioè il dato dell’identità come risposta alla globalizzazione ma una risposta che si colora di chiusura e violenza.

Se la globalizzazione e la delocalizzazione vengono associate, soprattutto nei piccoli centri, a sparizione progressiva dei servizi, disoccupazione, futuro incerto, è chiaro che la globalizzazione venga vista come un mostro. E davanti ai mostri ci si chiude, si scappa o si combatte. Il punto è che i malesseri italiani hanno soprattutto radici interne, quali per esempio corruzione, evasione fiscale, lentezze burocratiche e difficoltà a fare rete. Cercare il nemico fuori di noi da combattere è più facile, ma non risolverà i nostri problemi più gravi. E paradossalmente il dare risalto all’identità non sta diventando un collante sociale. Anzi, ci mette gli uni contro gli altri, in una guerra tra poveri, perché le identità sono tante e come a cerchi concentrici: superata una soglia ci sarà sempre qualcuno che può essere escluso dal cerchio.

Il Papa propone ormai da anni il tema anzi il metodo della sinodalità, cioè il camminare insieme, il conoscersi, il fare qualcosa insieme, alto e basso che si intrecciano armoniosamente. Si avverte però un po’ di fatica a capire bene come realizzare questa sinodalità all’interno della Chiesa e della società, come mai?

La sinodalità è un’istanza del Concilio Vaticano II che ancora stenta a prendere corpo. Camminare insieme richiede una grande capacità di ascolto, quell’ascolto vero che cambia tutti coloro che partecipano al dialogo. Richiede anche disponibilità a mettersi in discussione, di dar vita a percorsi che possono nascere in maniera inattesa. Una condizione necessaria per dar vita a processi sinodali è quella di un grande distacco da se stessi, di apertura e disponibilità ad ascoltare insieme la voce dello Spirito. E nella Bibbia l’ascolto è obbedienza in atto: ascoltare è fare (“Tu ci riferirai tutto ciò che il Signore, nostro Dio, ti avrà detto: noi lo ascolteremo e lo faremo” Dt. 5,27).

Senza questi elementi ed atteggiamenti di fondo si può anche celebrare un sinodo, ma non vivere un processo sinodale. Perché la sinodalità non diventi una moda, una parola nuova per cambiare l’involucro, ma non la sostanza del nostro agire, ritengo che sia molto importante ricordarci che essa è per la vita e la missione della Chiesa, in vista dell’annuncio e della trasmissione della fede: è nelle relazioni, sentendoci membra gli uni degli altri, che la fede diventa contagiosa.

La fatica e le resistenze derivano forse dalla sicurezza che strutture e prassi consolidate ci offrono, dal timore di lasciare il certo per l’incerto. E mentre si preparano gli animi a processi sinodali, è importante anche cercare di comprendere se le strutture attuali sono adatte a nuovi cammini, altrimenti il rischio è quello di versare vino nuovo in otri vecchi, con conseguenze destabilizzanti. Inoltre, durante il Sinodo sui giovani l’assemblea ha riflettuto su quanto sia importante formarsi alla sinodalità, perché cammini di discernimento comunitario non si possono improvvisare. Diventa importante soprattutto tra i più giovani, iniziare a formarci insieme laici, religiosi e seminaristi (cf. df 124)

Quando si dice “chiesa italiana” può scattare l’automatismo per cui si pensa alla Cei o al Vaticano, ma la Chiesa non è né l’una né l’altro, la Chiesa è il popolo di Dio. E allora quale può essere il ruolo del popolo cattolico in questa situazione critica dell’Italia?

I ragazzi oggi molto attivi sul fronte ambientale ci stanno insegnando qualcosa: si può essere minorenni, senza diritto di voto e non avere voce in capitolo. Ma se si è in tanti e si riesce a fare rete, allora si rischia anche di cambiare il mondo. Sono spesso in giro per l’Italia e osservo che le esperienze più significative di cambiamento, di cura per le città, di innovazioni sociali ed economiche nascono laddove si riesce a lavorare insieme, senza badare alle etichette, ai ruoli e al prestigio. Mi sono recata di recente a Cefalù, dove è nato il laboratorio speranza, una fondazione di partecipazione con lo scopo di aiutare i giovani a non essere costretti a partire per trovare lavoro. L’idea è nata dal Vescovo, ma a realizzarla sono in tanti: sindaci, interi consigli comunali, associazioni, movimenti, sindacati, imprenditori. Così si apre un processo, un sogno diventa segno. I risultati non saranno immediati, ma la costanza permetterà ai sogni di prendere pian piano corpo. La tentazione più grande che vedo all’orizzonte per il popolo di Dio è quella dello scoraggiamento. È una grande tentazione perché ci fa sentire impotenti, impossibilitati ad agire. Credo che invece questo sia il tempo di aprire processi, di continuare a seminare, di innaffiare, di aver cura delle pianticelle: le foreste nascono così. Ma i frutti li avremo solo se saremo capaci di far fronte comune. Di fronte a una grande richiesta di “identità”, noi dobbiamo essere in grado di mostrare che la nostra identità è una convivialità delle differenze, dove tutti si possono sentire a casa, soprattutto chi ora è più ai margini.

Istat: prosegue il calo della popolazione

Dal 2015 la popolazione residente è in diminuzione, configurando per la prima volta negli ultimi 90 anni una fase di declino demografico. Al 31 dicembre 2018 la popolazione ammonta a 60.359.546 residenti, oltre 124 mila in meno rispetto all’anno precedente (-0,2%) e oltre 400 mila in meno rispetto a quattro anni prima.

Il calo è interamente attribuibile alla popolazione italiana, che scende al 31 dicembre 2018 a 55 milioni 104 mila unità, 235 mila in meno rispetto all’anno precedente (-0,4%). Rispetto alla stessa data del 2014 la perdita di cittadini italiani (residenti in Italia) è pari alla scomparsa di una città grande come Palermo (-677 mila). Si consideri, inoltre, che negli ultimi quattro anni i nuovi cittadini per acquisizione della cittadinanza sono stati oltre 638 mila. Senza questo apporto, il calo degli italiani sarebbe stato intorno a 1 milione e 300 mila unità.

Nel quadriennio, il contemporaneo aumento di oltre 241 mila unità di cittadini stranieri ha permesso di contenere la perdita complessiva di residenti. Al 31 dicembre 2018 sono 5.255.503 i cittadini stranieri iscritti in anagrafe; rispetto al 2017 sono aumentati di 111 mila (+2,2%) arrivando a costituire l’8,7% del totale della popolazione residente.

Nel 2018 la distribuzione della popolazione residente per ripartizione geografica resta stabile rispetto agli anni precedenti. Le aree più popolose del Paese sono, come è noto, il Nord-ovest (vi risiede il 26,7% della popolazione complessiva) e il Sud (23,1%), seguite dal Nord-est (19,3%), dal Centro (19,9%) e infine dalle Isole (11,0%).

La popolazione italiana ha da tempo perso la sua capacità di crescita per effetto della dinamica naturale, quella dovuta alla “sostituzione” di chi muore con chi nasce. Nel corso del 2018 la differenza tra nati e morti (saldo naturale) è negativa e pari a -193 mila unità.

Il saldo naturale della popolazione complessiva è negativo ovunque, tranne che nella provincia autonoma di Bolzano. A livello nazionale il tasso di crescita naturale si attesta a -3,2 per mille e varia dal +1,7 per mille di Bolzano al -8,5 per mille della Liguria. Anche Toscana, Friuli-Venezia Giulia, Piemonte e Molise presentano decrementi naturali particolarmente accentuati, superiori al 5 per mille.

Ricerca. Italia-Cina, dieci anni di cooperazione. Al via la call per partecipare alla Settimana dell’Innovazione 2019

Dal 28 al 31 ottobre 2019, si svolgerà l’annuale Settimana Cina-Italia dell’Innovazione, della Scienza e della Tecnologia, in programma nelle città di Pechino e Jinan.

Seminari tematici, tavoli di networking, incontri one-to-one e un’intensa azione di promozione istituzionale sotto l’egida dei rispettivi Governi scandiranno il ritmo dello storico programma di cooperazione bilaterale, avviato dieci anni fa tra Italia e Cina per valorizzare i sistemi innovativi di ricerca e impresa.

La Settimana dell’Innovazione avrà quest’anno un particolare rilievo anche grazie agli accordi siglati nell’ambito del Memorandum of Understanding, firmato in occasione della visita del Presidente cinese Xi Jinping in Italia e in vista del cinquantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche nel 2020.

Il programma prevede:

  • il 28 Ottobre (Pechino): lo svolgimento del Sino-Italian Exchange Event;
  • il 29 Ottobre (Pechino): la celebrazione del decimoanniversario del China-Italy Innovation Forum, alla presenza dei Ministri Marco Bussetti e Wang Zhigang;
  • il 30 Ottobre (Pechino): visite a Poli di Innovazione e Centri di Eccellenza;
  • il 31 Ottobre (Jinan): il Focus Territorialeai centri di ricerca e incubatori tecnologici.

In occasione della manifestazione, si svolgeranno inoltre le finali della Best Start-up Showcase Entrepreneurship Competition, che ha visto dall’inizio dell’anno 90 start-up impegnate in un percorso selettivo di esplorazione del contesto cinese. Infine, in occasione del decimo anniversario del Forum, sarà allestita un’area espositivaper presentare i risultati della cooperazione tra istituzioni e imprese italiane e cinesi.

Possono partecipare le imprese e tutti i soggetti pubblici e privati (centri di ricerca, università, cluster tecnologici nazionali, imprese e start-up, distretti innovativi, parchi scientifici e tecnologici, associazioni di categoria, etc.) con una sede in Italia, attivi nell’innovazione di prodotto e processo o nella ricerca scientifica e tecnologica, e che hanno interesse a confrontarsi con potenziali partner della Repubblica Popolare Cinese.

La partecipazione alla manifestazione, agli incontri one-to-one e alle sessioni di lavoro è gratuita ma è subordinata alla compilazione del modulo di registrazione.

Per partecipare alla Settimana è necessario compilare ilmodulo di iscrizione pubblicato sul sito di Città della Scienza: http://machform.cittadellascienza.it/view.php?id=158198

L’inceneritore di Ravenna verrà dismesso

Stop all’inceneritore di Ravenna che a fine anno non vedrà più il conferimento dei rifiuti urbani nell’impianto. E’ questo il primo degli obiettivi raggiunti e sottolineati nella relazione conclusiva del monitoraggio intermedio del Piano regionale dei rifiuti.

Un risultato significativo, che nasce dall’azione condivisa tra Regione Emilia Romagna, Comune di Ravenna e Hera, che insieme hanno definito un piano d’intervento che porterà, appunto, alla dismissione della struttura. Questi ultimi mesi (la fine dell’anno segnerà la chiusura definitiva) serviranno per gli adempimenti tecnici ed organizzativi. Ovviamente il programma non comprometterà l’autosufficienza della regione nella gestione e nello smaltimento dei rifiuti, che verrà garantita sia attraverso l’efficace utilizzo degli altri impianti presenti sul territorio, secondo, sia dall’aumento della raccolta differenziata, sulla quale, si sta realizzando l’obiettivo del 73% entro il 2020 previsto sempre dal Piano, essendo già arrivata al 68% nel 2018 (+3,7% sull’anno precedente).

La chiusura dell’impianto di Ravenna è stata annunciate ieri dal presidente della Regione Stefano Bonaccini, nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Bologna con l’assessore regionale all’Ambiente Paola Gazzolo e con il sindaco del Comune di Ravenna Michele De Pascale.

Lo scorso anno sono stati 81 i Comuni impegnati nei sistemi di tariffazione puntuale che consente di misurare il rifiuto prodotto e di pagare per quanto si butta come prevede la legge regionale 16 del 2015 sull’economia circolare di cui il Piano dei rifiuti è strumento attuatore.

In tal senso la riduzione dei rifiuti urbani indifferenziati è stata addirittura superiore alle previsioni. La raccolta differenziata ha invece raggiunto il record del 68% e i conferimenti in discarica sono al 4,9%, già sotto l’obiettivo del 10% fissato dall’Europa per il 2035.

Ma non è tutto: la Regione scende in campo anche contro la plastica che inquina il mare. I pescatori potranno raccogliere i rifiuti in Adriatico senza pagare la tariffa di servizio portuale. La disposizione è operativa da subito e permette di dare piena attuazione a quanto già previsto dal Piani di raccolta dei rifiuti prodotti dalle navi e dei residui del carico, già adottati dalla Capitanerie d’intesa con la Regione per i porti Rimini, Bellaria, Cattolica, Cesenatico, Goro, Gorino, Porto Garibaldi e Riccione. Un incentivo a difesa dell’intero ecosistema marino.

Un antiretrovirale per l’HIV

In una ricerca su animali, pubblicata su Nature Communications, è stato dimostrato che con una terapia antivirale a lunga azione e lento rilascio, eseguita con la tecnica del taglia e incolla del Dna  è possibile eliminare completamente il virus dell’Aids dal corpo di animali infetti, guarendoli in via definitiva dall’infezione.

Lo studio è stato condotto da Kamel Khalili della Temple University a Philapelphia e dalla University of Nebraska Medical Center e vede tra gli autori anche gli italiani Pietro Mancuso, Pasquale Ferrante e Martina Donadoni, sempre presso la Temple University.

De Mita e Nusco, si riparte dal basso e dalle comunità locali.

La visita a casa De Mita, la relazione poderosa del presidente De Mita, la partecipazione ad un convegno fortemente partecipato da amministratori locali e sindaci a Nusco, il viaggio da Roma con l’amico Lucio D’Ubaldo. Si potrebbero sintetizzare così i passaggi che sono culminati con l’incontro promosso da Giuseppe De Mita e dalla associazione Popolari per l’Italia e che ha registrato una folta presenza di persone che hanno scoperto, e forse anche riscoperto, l’impegno pubblico ed istituzionale attraverso le autonome locali.

Cioè i municipi. E il contributo di Ciriaco De Mita, al riguardo, è stato significativo e di qualità – come sempre, del resto – per ridare autorevolezza e prestigio al filone popolare in un contesto politico confuso e disordinato. Certo, De Mita richiama. E richiama ancora l’attenzione non solo del “suo” pubblico ma di un’area molto più estesa perché con la sua rielezione a Sindaco di Nusco ha ridato speranza e voce a quell’autonomismo che affonda le sue radici nel pensiero sturziano e nel popolarismo di ispirazione Cristiana. Al di là dell’anagrafe, del destino inglorioso dei vari rottamatori nostrani e dell’esperienza accumulata nel passato, un fatto è indubbio.

Con Ciriaco De Mita in campo si può far ridecollare un filone di pensiero e un modello di partecipazione politica che sino a poco tempo parevano definitivamente eclissati. E il convegno di Nusco lo ha confermato. Senza bandiere, senza vessilli, senza gigantografie, senza capitani e senza capi ma con la forza delle idee, del radicamento territoriale e della presenza istituzionale dal basso, può rinascere una nuova stagione politica. E la forza della testimonianza personale, come emergeva dal colloquio nel suo studio di Nusco gremito di libri, documenti, appunti, relazioni varie sui tavoli di lavoro, sono la conferma che forse siamo alla vigilia di una fase politica che può archiviare definitivamente quel finto nuovismo – accompagnato da un clamoroso vuoto di idee e di progetti – che ormai da troppo tempo segna il lento declino della democrazia italiana.

E quindi, proprio da un convegno come quello di Nusco può partire una rinnovata speranza per la politica italiana e per lo stesso futuro del pensiero popolare e cattolico popolare. E cioè, una presenza organizzata di amministratori locali che può essere funzionale e propedeutico per una rinnovata presenza pubblica dei cattolici popolari italiani. Al di là di qualsiasi degenerazione identitaria, delle piccole conventicole e degli stessi equilibrismi romani.

Si parte dal basso, si parte dalle comunità locali e, soprattutto, dalla testimonianza concreta di uomini che hanno contribuito, con molti altri, a rendere forte e robusta la nostra democrazia. Per questo ringrazio il neo sindaco di Nusco e, nello specifico, un testimone eccellente della lunga, nobile e travagliata stagione del popolarismo di ispirazione cristiana.

Gli eroi e gli Iseppi

Un Paese che si meraviglia perché la foto segnaletica della giovane capitana di Sea-Watch 3 sia stata diffusa è un paese che non ricorda gli applausi distribuiti non molti anni fa ai magistrati che gonfiavano il petto mandando in giro le foto di imputati in ceppi e manette. Cominciarono con Enzo Tortora. E nessuno di loro pagò mai. Eroi.

Ultimamente abbiamo capito come vanno le cose tra loro, in questo Paese. Basta leggere le intercettazioni pubblicate sui giornali, autentica nemesi: per anni sono stati loro a usarle e oggi ne vengono colpiti. C’è, tra l’altro, un alto magistrato, imputato di reati gravissimi, che viene informato da un suo collega che stanno indagando su di lui; e allora quello che fa? Lesto si rivolge alle caritatevoli cure del procuratore generale della cassazione per metterci una o più pezze. Eroi.

Un Paese che chiama eroi i pur bravissimi tecnici ai quali è stato chiesto di far esplodere ciò che restava del ponte Morandi quando semmai fu un grande – non un eroe, un grande – l’ingegner Morandi, autore di un viadotto importante e decisivo per la rinascita di Genova che soltanto l’incuria dei gestori ha poi trasformato in assassino. Eroi.
Un Paese che non orripila guardando un tizio grassoccio il quale, ogni giorno, ogni ora, in piedi e seduto, in divisa o a petto nudo, in brache e sandali da frequentatore di un qualunque “bagni da Gino”, elenca stentoreo i prescelti da odiare. Un Paese che non orripila perché è una congregazione di bisognosi di affetto e di psicofarmaci. Eroi.

Un Paese che la prima domenica d’estate affolla il romano Palazzo dello Sport per ascoltare un certo Panzironi. Che non è quello vero, quello a capo dell’Ama con Alemanno, eroi della rinascita della Capitale, prima del cambiamento avvenuto con Virginia Raggi. Quello di domenica è uno che chiamano il “messia delle diete” e assicura a chi lo paga centoventi anni di vita. Benvenuto anche a lui nel Paese nel quale va in onda, ”h24”, come si dice nella nostra neolingua da caserma, un talent di mostri, con magistrati che stanno dalla parte sbagliata, ministri panzoni e Panzironi vari. Eroi.

Il dramma italiano sta qui. Per più di mezzo secolo l’Italia non ha avuto bisogno di eroi, anzi li ha temuti e respinti. Il Paese è risorto e cresciuto facendo a meno di queste figure imbarazzanti e dannose, esagerate e ridicole. A nessuno degli uomini – e delle donne – che hanno fatto l’Italia è stato mai riservato l’ingenuo e peccaminoso titolo. Noi italiani siamo diventati, in maggioranza, dei buoni democratici e abbiamo goduto nel vivere in un grande Paese, industriale e agricolo, fondato su grandi tradizioni e geniali intuizioni. Questo grazie a guide sicure, consapevoli, tendenti al grigio. In bianco e nero eravamo forti. Nel sovranismo di selfie e marchette siamo abbagliati e isterici.

Stanno costruendo le strutture protette che accoglieranno amorevolmente questi potenti a petto in fuori e pancia in dentro: il web accende e brucia, il click è uguale per tutti. Fortunati quelli che come l’ex direttore generale della Rai all’epoca dei “professori”, 1996-1998, Franco Iseppi, oggi presidente del Touring Club Italiano, possono ricordare, come ha fatto lui, con Stefano Lorenzetto sul Corriere della Sera del 25 maggio scorso, splendori e miserie dell’ancien régime.

Libero dalla schiavitù di descriversi supereroe, parla di se stesso come uomo che ha saputo vivere i suoi ottant’anni senza dover mai tradire, interpretando correttamente i ruoli che gli sono stati assegnati. Fiero di aver collaborato con Enzo Biagi: “Raffaele Crovi e Gianfranco Bettetini non trovavano il coraggio di dire a Enzo che un suo servizio televisivo zoppicava e andava tagliato. Mi offrii di farlo io. Mi chiese; tu che ne pensi? Hanno ragione, risposi. E Biagi: visto che sei bravo, da oggi lavori con me”.

Prima di allora, Iseppi aveva condiviso l’esperienza di un gruppo, Presenza culturale, insieme a Ermanno Olmi, Raffaele Crovi, Mario Pomilio, Leandro Castellani, Ludovico Alessandrini, Gino Montesanto e molti giovani intellettuali. Nel 1970, al concorso Rai per produttori e sceneggiatori, Paolo Grassi gli fa una domanda sul teatro africano. “Iniziai a parlare di Aimé Césaire. Mi interruppe: qui siamo gli unici due a capire che cosa sta dicendo. Se tutti i cattolici fossero come lei, noi socialisti potremmo andare a spasso. Assunto”.

Quell’Italia non aveva bisogno di eroi ma di persone intelligenti.

Per la nuova democrazia di cattolici e laici, per l’applicazione della Costituzione

Il marxismo non c’è più; il liberalismo è una categoria ottocentesca. Ci sono, se mai il neoliberismo e il neostatalismo, con tutte le implicazioni negative, perché entrambi funzione l’uno dell’altro, nella non valorizzazione della persona. Dunque rimane il popolarismo.
Il popolarismo sturziano è una virtù, per un certo verso astratta e per l’altro, molto concreta. Quando i socialisti in Sicilia fanno lo sciopero contro gli agrari, Sturzo, che non aveva ancora fatto il partito a inizio del secolo scorso, va ed è solidale coi socialisti, però poi dice ai socialisti-io voglio togliere la terra agli agrari, ma per darla ai contadini, mentre voi volete togliere la terra gli agrari e darla allo Stato, quindi questo non è in funzione dei contadini-. Questa cosa l’ho ripensata spesso, perché De Gasperi, che nella vulgata generale sarebbe un conservatore, fece la riforma agraria in due mesi.

Sturzo è ancor oggi, meravigliosamente, la soluzione ai grossi problemi dell’Italia. Perché la triade impresa, lavoro, famiglia è la circolarità creativa e risolutiva del nostro paese.La DC non è mai stata un partito dei cattolici, ma di cattolici e laici nello stesso tempo, e seppe riunire uomini e donne di buona volontà, uniti nello spirito dei valori della libertà e della dignità della persona e del lavoro, con concretezza e realismo politico. La DC fu soppressa nel 1994. Non facciamo un’altra Margherita per favore, un partito cioè stampella della sinistra, come vorrebbero alcuni e come vorrebbero anche diversi “esponenti del mondo cattolico”.

Nemmeno Sturzo lo volle e si schierò in alternativa alle proposte politiche ufficiali, subendo il martirio dell’esilio. Oggi ci aspetta sicuramente un altro martirio, quello che abbiamo visto di recente e che potrebbe concretizzarsi nelle prossime regionali ( alle quali ci prepareremo con meticolosa cura senza trascurare nessun particolare) per una alleanza innaturale con le sinistre da parte di esponenti cattolici di “varia appartenenza”. Non facciamo un partito clericale, nè un partito “clericaldisinistra”, i cui preliminari li abbiamo sconsolatamente intravisti…Perché abbinare l’azione, l’anima e lo spirito dell’opera immensa e originale di La Pira a piccoli personaggi della attuale sinistra, con eminenti benedizioni, è la peggiore conclusione che noi, che crediamo nei valori universali del popolarismo di Sturzo e De Gasperi, potremmo fare. Grazie e speriamo di essere bravi a resistere alle sirene clericali.

Le teorie di un vero economista

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Sergio Valzania

«Non è vero che esiste una legge della “libertà naturale” degli individui nelle attività economiche. Non vi è nessun “contratto” che conferisca diritti perpetui a coloro che hanno o che acquisiscono. Il mondo non è governato dall’alto in modo che l’interesse privato e l’interesse sociale coincidano sempre, né è governato dal basso in modo che essi coincidano all’atto pratico». Così scrive John Maynard Keynes ne La fine del Lassez-Faire, pubblicato nel 1926 sulla traccia di una conferenza tenuta due anni prima.

Un’ottima occasione per avvicinarsi al pensiero, ma soprattutto alla personalità, del celebre economista inglese ci viene offerta in questi giorni da una nuova traduzione, fatta da Giorgio La Malfa, della maggiore delle sue opere specialistiche Teoria Generale dell’Occupazione, della Moneta e dell’Interesse accompagnata da un ricco corredo di scritti minori e da un imponente apparato critico, uscita nei Meridiani di Mondadori (Milano, 2019, pagine 315, euro 80). Il volume va messo in libreria vicino agli altri due testi fondamentali dell’economista inglese, editi in italiano da Adelphi: Le conseguenze economiche della pace, il saggio che rese famoso Keynes nel quale lo studioso condannava il comportamento punitivo da parte dei vincitori nei confronti della Germania sconfitta alla conferenza di Pace di Parigi del 1919, e Sono un liberale? Ed altri scritti che contiene tra l’altro un profilo del maestro, Alfred Marshall, nel quale l’autore sottolinea la derivazione diretta della cattedra di economia da quella di morale.

Forse quella che oggi più ci interessa, e conserva maggiore attualità, è la figura di John Maynard Keynes come moralista, proprio in quanto scienziato dell’economia, perché fu sempre capace di mantenere un solido e costruttivo rapporto tra due punti di vista la cui separazione, alla quale la contemporaneità sembra volerci abituare, rischia di risultare perniciosa. A proposito di Marshall, Keynes scrisse che per lui «questi studi erano una specie di lavoro religioso, per aiutare il genere umano».

Nonostante una vita caratterizzata da un accentuato anticonformismo, tipico delle élite britanniche della prima metà del Novecento, Keynes aveva un profondo rispetto per la tradizione religiosa. In una conversazione con Thomas Eliot ebbe a dire: «Comincio a rendermi conto che la nostra — la mia e la tua — generazione deve molto alla religione dei nostri padri. I giovani che crescono senza di essa non riusciranno a vivere appieno la loro vita».

La critica radicale al lassez faire — alla teoria economica classica fondata sul pensiero di David Ricardo e basata sulla convinzione che esistano leggi di mercato capaci di imporre un’autoregolamentazione degli scambi, dei valori e dei prezzi, alle quali è inutile e assurdo opporsi — discende dalla convinzione che l’uomo è chiamato a regolare il mondo dove vive e soprattutto ne è responsabile. Libero arbitrio e peccato originale sono due misteri che vanno presi in considerazione per comprendere le motivazioni, magari a volte inconsapevoli, dell’opera di Keynes.

Lo studioso inglese era convinto, come scrive in una lettera del 1938 a Roy Harrod, che «l’economia è essenzialmente una scienza morale e non una scienza naturale», utilizzando una terminologia che individua l’ambito delle proprie ricerche e ne tratteggia allo stesso tempo il carattere. Il vero economista, secondo Keynes specie rarissima per la molteplicità e soprattutto la differenza di talenti che gli sono richiesti, è dunque chiamato prima ancora che a individuare leggi matematiche, a collaborare alla costruzione di un umanesimo adeguato al mondo moderno, che ha subito trasformazioni violente e repentine, e ne porta le ferite.

Che l’uomo vada posto al centro della riflessione che riguarda l’economia, per lo studioso inglese è un fatto evidente. Sempre scrivendo a Roy Harrod precisa che «essa ha a che fare con motivi, aspettative, incertezze psicologiche. È come se la caduta della mela a terra dipendesse dalle motivazioni della mela: se per la mela valga la pena di cadere a terra, o se la terra desideri che la mela cada».

Perciò gli studi economici devono collegarsi strettamente con la cultura del tempo nel quale si sviluppano. Keynes fu attento alla psicanalisi di Freud e alla nuova fisica, il cui campo era stato aperto dalla teoria della relatività di Einstein. Nella lunga e attenta introduzione al volume, Giorgio La Malfa riflette su quanto l’aggettivo “generale” nel titolo dell’opera maggiore dello studioso inglese debba essere collegato alla denominazione della forma definitiva della teoria della relatività, appunto definita come generale.

La generalità della nuova teoria consiste infatti secondo Keynes nel ridurre la teoria economica classica a un semplice caso particolare: la situazione di piena occupazione. E proprio l’occupazione è la questione che interessa più di altre lo studioso, in quanto legata alla parte debole della società, che paga il prezzo delle crisi di fronte alla quale non si può semplicemente sostenere, come fa la teoria del lassez faire, che prima o poi passeranno e che il mercato riaggiusterà tutto. Il sogno di Keynes si proietta in un mondo futuro, quando, come scrive in Possibilità economiche per i nostri nipoti, «potremo finalmente permetterci di assegnare al desiderio di denaro il suo giusto valore. L’amore del denaro, per il possesso di denaro sarà, agli occhi di tutti, un’attitudine morbosa e repellente, una di quelle inclinazioni a metà criminali e a metà patologiche da affidare con un brivido agli specialisti di malattie mentali».

I nipoti di Keynes, scomparso sessantaduenne nel 1946, sono diventati nonni, ma la sua profezia sembra ancora lontana dall’avverarsi.

Nomine Ue: cʼè lʼaccordo

Alla presidenza della Commissione va il ministro della Difesa tedesco, Ursula Von der Leyen, della Cdu.

La francese Christine Lagarde va alla presidenza delle Bce, mentre il socialista spagnolo Josep Borrell diventa Alto rappresentante.

Il nuovo presidente del Consiglio europeo sarà il primo ministro belga Charles Michel.

Vicepresidenti della Commissione con il “rango più alto” saranno Frans Timmermans e Margrethe Vestager. Sono in corso contatti tra Bruxelles e Strasburgo per sciogliere anche l’ultimo nodo relativo al presidente del Parlamento europeo.

Per il momento l’Italia, come prevedibile, rimane a bocca asciutta. Anche se per lei potrebbe aprirsi la possibilità di una vicepresidenza.

 

I deputati pro-Brexit voltano le spalle allʼinno

Gli eurodeputati britannici del Brexit Party, la formazione di Nigel Farage, sono rimasti seduti o hanno voltato le spalle durante l’esecuzione dell’inno europeo che ha aperto la sessione inaugurale a Strasburgo. A rimanere seduti anche alcuni parlamentari francesi del gruppo sovranista Identità e democrazia, di cui fa parte la Lega.

Dopo il gesto di protesta dei parlamentari, il presidente uscente, Antonio Tajani (Ppe), ha richiamato la Camera all’ordine, chiedendo a tutti i deputati di alzarsi in piedi.

 

Il Piano strategico del Turismo 2019-2021 della Regione Lazio

Il Piano strategico del Turismo 2019-2021 della Regione Lazio  per la valorizzazione del mare, ha tra le sue novità, un capitolo dedicato esclusivamente al mare, al litorale costiero, alle isole pontine e alle strategie possibili per generare un’economia in chiave sostenibile.

Gli obiettivi: con il nuovo Piano strategico del turismo del Lazio la Regione promuove al meglio questo patrimonio a partire da un turismo sempre più sostenibile, che lascia la ricchezza là dove la crea, si sviluppa senza aggredire i borghi e i litorali, è competitivo con le altre realtà nazionali e internazionali, ed è in grado di accogliere giovani e famiglie.

Eni e Regione Lombardia insieme per la decarbonizzazione

E’ stato siglato ieri, presso la raffineria Eni a Sannazzaro de’ Burgondi, nel pavese, un protocollo d’intesa che guarda all’implementazione, in un’ottica circolare congiunta, di nuovi modelli industriali per una crescita sostenibile di lungo termine, nella prospettiva di un futuro low carbon. L’accordo firmato dal presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, e dal Chief Refining and Marketing officer di Eni, Giuseppe Ricci, tratteggia e definisce i punti chiave del percorso di collaborazione per la salvaguardia delle risorse naturali attraverso un uso efficiente e sostenibile delle stesse, la promozione del recupero, nonchè il riuso attraverso l’estensione della vita dei prodotti e della produzione di biocarburanti, anche attraverso la valorizzazione delle biomasse o dei rifiuti.

Le iniziative riguarderanno diversi ambiti: studi e sperimentazioni per la valorizzazione e ottimizzazione della gestione dei rifiuti urbani, anche attraverso sistemi di mappatura e tracciabilità con strumenti digitali, con particolare riguardo alla frazione organica, che Eni attraverso la tecnologia proprietaria Waste to Fuel sta testando in un impianto pilota a Gela per la produzione di bio-olio; la valorizzazione dei fanghi biologici e dei rifiuti plastici, attraverso le tecnologie di riciclo di materia o di conversione in intermedi chimici e/o energetici; la valorizzazione delle biomasse di scarto delle filiere produttive lombarde, in particolare del riso, del settore lattiero caseario e dell’industria delle carni, per il recupero dei grassi animali.

Regione Lombardia ed Eni studieranno anche modelli virtuosi di raccolta e recupero degli oli esausti domestici per la produzione di biocarburanti, e per il recupero e riuso, a fini produttivi, delle acque di provenienza industriale o civile. Nelle aree industriali in corso di bonifica o già riqualificate si potranno sviluppare iniziative di produzione di energia rinnovabile, mentre per la mobilità verranno studiate soluzioni che puntino alla riduzione delle emissioni e all’efficienza nell’uso delle auto private e del trasporto pubblico e del car sharing.

Il percorso di de carbonizzazione avviato da Eni ha come obiettivo il raggiungimento delle zero emissioni nette dell’upstream entro il 2030. Eni conta di raggiungere questo ambizioso target attraverso interventi mirati all’aumento di efficienza per minimizzare le emissioni dirette di anidride carbonica a monte: entro il 2025, infatti, la compagnia s’impegna a ridurre di circa il 45% l’intensità emissiva delle proprie attività upstream, ad azzerare il flaring di processo e ridurre dell’80% le emissioni fuggitive di metano. La strategia di decarbonizzazione di Eni conta anche sulla crescita delle fonti low carbon, con l’aumento della quota di gas e biofuel nel portafoglio della società; una crescita delle fonti a zero emissioni, come il solare, l’eolico e i sistemi ibridi; nonché in un approccio circolare che massimizzi l’uso dei rifiuti come feedstock trasformando ed estendendo la vita utile degli asset.

50° anniversario Museo Archeologico Nazionale di Vibo Valentia

In occasione del 50° anniversario dell’istituzione del Museo Archeologico Nazionale “Vito Capialbi” di Vibo Valentia diretto da Adele Bonofiglio, afferente al Polo museale della Calabria guidato da Antonella Cucciniello, si avviano le celebrazioni della ricorrenza con un ricco programma di eventi che si svolgeranno nel corso dell’anno.

Con due giornate, dedicate ad un importante convegno scientifico che si terrà nei giorni 6 e 7 luglio 2019, si offrirà una importante disamina degli studi fin qui condotti da esimi studiosi nazionali e internazionali che relazioneranno sull’area di Hipponion-Valentia.

Nell’ambito dei festeggiamenti si svolgerà la Iª fiera dei Musei del territorio, al fine di promuovere e valorizzare le prestigiose realtà locali. Le celebrazioni continueranno con l’allestimento di  una mostra su Scrimbia a metà settembre, e nei giorni 19 e 20  ottobre 2019 si svolgerà la Iª Fiera dei Musei  Archeologici della Magna Grecia.

Il Museo Archeologico Nazionale “Vito Capialbi” di Vibo Valentia è stato istituito nel 1969 ed è dedicato alla memoria del Conte Vito Capialbi, erudito del luogo. Animato da spirito antiquario, per primo raccolse e custodì le testimonianze della vita della città ricostruendone la storia dalla fondazione della colonia locrese di Hipponion alla costituzione della colonia romana di Valentia.
A questo nucleo si aggiunse la collezione di monsignor Albanese ricca soprattutto di ex voto.
I reperti che dal VII sec.a.C. al III sec.d.C, illustrano la civiltà greca, bruzia e romana sono stati in gran parte rinvenuti nell’area della città antica.
Particolare rilievo rivestono  le terrecotte (VI –V sec. a. C.) alcuni bronzi  e la preziosa laminetta aurea, con testo orfico, rinvenuta in una vasta necropoli che interessa l’area urbana della città moderna.
Di notevole interesse, inoltre, il ricco monetiere Capialbi che rappresenta un riferimento numismatico  tra i più importanti in Calabria.

L’evento è stato realizzato grazie al sostegno della Banca di Credito
Cooperativo di San Calogero e della Camera di Commercio di Vibo Valentia e con la condivisione per gli aspetti organizzativi di: Ristorante Filippo’s di Franca Daffinà, Marco Renzi, Double C Ballet – Compagnia ValentiaDanza, CSV.

Gli integratori alimentari nell’attuale quadro normativo

Assorted pills

In base all’attuale normativa gli integratori, nel contesto della legislazione alimentare, si configurano come “fonti concentrate” di nutrienti o altre sostanze ad effetto nutritivo o fisiologico. Il loro ruolo è quello di favorire la normalità delle funzioni dell’organismo o ridurre fattori di rischio di malattia, senza alcuna finalità di tipo terapeutico che è una prerogativa esclusiva dei medicinali.

Il convegno, organizzato dalla Direzione generale per l’igiene e la sicurezza degli alimenti e la nutrizione, è articolato in due sessioni principali.

Con gli interventi in programma ci si prefigge di delineare in modo chiaro la gamma dei costituenti ammessi all’uso negli integratori alimentari, il significato del ruolo “fisiologico” di tali prodotti e le garanzie che devono offrire in termini di qualità, sicurezza ed efficacia nel rispetto di tutte le disposizioni applicabili della legislazione alimentare.

Interverranno esperti scientifici, rappresentanti del ministero della Salute, dell’Istituto superiore di sanità e dei medici di medicina generale.