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martedì, 4 Novembre, 2025
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Trapiantato con successo un fegato rivitalizzato

E’ l’ultima frontiera nei trapianti di fegato. E’ stato trapiantato con successo un fegato rivitalizzato con una macchina di perfusione normotermica su un uomo di 66 anni, presso il Centro trapianti di fegato dell’ospedale Molinette della Città della Salute di Torino (diretto dal professor Renato Romagnoli).

La scoperta a novembre dell’anno scorso di un doppio tumore al fegato insorto su una cirrosi fino ad allora non diagnosticata: una sentenza pesante per un veterinario di Viterbo di 66 anni ancora in attività.

Da lì l’inizio di una corsa contro il tempo per cercare una possibilità di cura nei maggiori centri di riferimento in Italia. E quindi l’approdo all’ospedale Molinette di Torino.

Prima di tutto le terapie per arginare o, preferibilmente, fare regredire almeno in parte la malattia tumorale, che fin dall’inizio si era dimostrata essere voluminosa ed aggressiva. Quindi, a gennaio di quest’anno, sono state eseguite due termoablazioni percutanee (“bruciature del fegato”), eseguite presso la Radiologia interventistica del professor Paolo Fonio. Poi, a maggio, dopo aver riscontrato un’iniziale buona risposta alle terapie, l’ingresso in lista in attesa per un trapianto di fegato da fare il più rapidamente possibile, presso il Centro Trapianti diretto dal professor Renato Romagnoli.

Ed ecco pochi giorni fa la possibilità di un donatore di fegato compatibile deceduto, ma i cui organi potevano essere prelevati per trapianto, grazie al gesto di altruismo e generosità dei familiari. Una buona congiuntura per il paziente.

Tuttavia fin da subito si era capito che il fegato del donatore, deceduto per emorragia cerebrale, presentava caratteristiche tali (per steatosi – fegato grasso ed età di 77 anni) da farlo ritenere non ottimale e ad alto rischio di non essere in grado di funzionare dopo il trapianto seguendo le tecniche tradizionali di preservazione d’organo (cosiddetta preservazione ‘a freddo’, e cioè tenendo il fegato in ghiaccio dopo il prelievo sul donatore).

Nuove tecnologie biomediche però oggi stanno rivoluzionando il campo dei trapianti di fegato, aprendo nuove strade, tra cui la possibilità di rivitalizzare il fegato prelevato e valutarne in sicurezza la funzionalità al di fuori del corpo del donatore, prima dell’impianto nel ricevente.

Per fare questo è stata utilizzata la nuovissima tecnica detta NMP (Normothermic Machine Perfusion), ovvero la perfusione ‘a caldo’ (37 gradi, la temperatura del corpo) del fegato donato. Con lo sforzo comune ed il lavoro notturno di tutto un ospedale, ed in particolare dei centri di Coordinamento Regionale (professor Antonio Amoroso e dottoressa Anna Guermani), della Banca del Sangue delle Molinette (dottoresse Anna Maria Bordiga e Paola Manzini), del Laboratorio Analisi (dottor Giulio Mengozzi), nonché del Coordinamento Infermieristico e di Sala Operatoria del Centro Trapianto Fegato, è stato eseguito con successo il trapianto epatico sul paziente.

Dopo il prelievo dal donatore, il fegato è stato trasportato nella sala operatoria del Centro Trapianti, dove è stato sottoposto alla procedura di NMP (vedere foto allegata). Questa consiste nella perfusione continua dell’organo, attraverso le cannule ed il circuito ossigenato della macchina, utilizzando sangue umano da donatori e sostanze nutrienti in soluzione. Già dopo 2 ore di vita ‘artificiale’ in macchina si è capito che la funzione dell’organo si stava riprendendo in modo ottimale, quasi insperato. Ciò ha consentito di procedere con l’anestesia del paziente e con l’intervento chirurgico di rimozione del fegato malato. Dopo un totale di poco più di 5 ore di perfusione NMP, il fegato è stato quindi impiantato sul ricevente. La funzione immediata post-trapianto è stata da subito molto buona ed ora, dopo alcuni giorni dal trapianto, il paziente è in via di dimissione.

Oggi le tecniche di perfusione d’organo ‘ex vivo’ stanno entrando nella pratica clinica, nelle loro varie forme di utilizzo (in genere ‘a freddo’ e con solo ossigeno), coinvolgendo ormai più di un terzo dei trapianti di fegato e permettendo di migliorane gli esiti precoci. Tuttavia questa nuova tecnica ‘a caldo’ utilizzata permette di fare un passo oltre, ovvero rigenerare ed utilizzare in sicurezza organi che altrimenti sarebbero scartati per un rischio troppo elevato per il ricevente. Si calcola che saranno una decina all’anno i fegati che verranno valutati con questa nuova tecnica normotermica. Ora si aprono nuove prospettive future per i trapianti di fegato.

Quell’idea di sinistra che decreterebbe la fine del Pd

(Tratto dall’Huffington del 13 giugno 2019).
I più maliziosi attribuiscono a Massimiliano Smeriglio, neoeletto al Parlamento di Strasburgo,il ruolo di banditore ufficioso dei programmi e delle volontà di Zingaretti. È probabile che sia un’esagerazione. Tuttavia, non è importante stabilire se ciò corrisponda a verità o se piuttosto, dietro alcune uscite, non vi sia altro che il gusto dialettico di un indipendente – tale si dichiara – da sempre impegnato nel tentativo di ripristino di una sinistra che si compenetra con fantasia nel “gioco di eventi”, facendo opposizione anche quando si governa. Conta ragionare invece su quanto Smeriglio enuncia, ignorando la logica dei retropensieri.
Ieri, ad esempio, ha consegnato una lunga nota alle agenzie. Cosa si evince da questa dichiarazione molto dettagliata? La sua è la prefigurazione di una nuova sinistra alla Bertinotti, giacché attiva un’antica ostilità  verso il registro del modello riformista. In effetti, dopo le elezioni europee, la spinta a radicalizzare la linea del Pd si accentua ogni giorno che passa. Smeriglio cita Sanchez, il leader dei socialisti spagnoli, per evidenziare l’efficacia di una politica più aderente alla tradizione e ai valori della sinistra. Sanchez vince perché parla chiaro e non dimentica il legame dei socialisti con le classi più deboli e più inquiete, specie nel tempo della globalizzazione. Da qui si dovrebbe ripartire, facendo a meno d’inseguire il miraggio di un centro più o meno moderato. In un certo senso, per non esserne contaminati.
C’è in questa torsione innovativa il ritorno a un lessico profetico-profano. “Bisogna aprire porte e finestre – ecco la ricetta di Smeriglio -, far entrare aria nuova, accettare il confronto con culture politiche diverse, da quelle più liberali fino alle forze del civismo di sinistra, dell’attivismo territoriale, dell’ambientalismo, dell’europeismo più convinto, del femminismo“. Certo, un’apertura a tutto campo.
Poi, con taglio più stringente, continua e rafforza il discorso: “Questa è stata in fondo la sfida di Piazza Grande, non solo la mozione congressuale di Nicola Zingaretti, ma qualcosa di più, una idea del mondo e della ricostruzione del campo democratico mettendo in discussione approcci e perimetri dell’idea stessa di forma partito. Su questo dobbiamo lavorare”. Ecco, dobbiamo lavorare sì, ma con quale paradigma di partito? Con Smeriglio avanza, per dirla tutta e in breve, il desiderio di trascendere l’esperienza fin qui consolidata, immaginando l’appello al civismo come un “andare oltre”, che infine si traduce in una sorta di espianto degli organi del Pd delle origini.
Vale la pena osservare, a disdoro della tesi di Smeriglio, come del cattolicesimo democratico rimanga soltanto la graziosa nebulizzazione del solidarismo: non più una dottrina politica, quale si conserva dopo il Novecento la cultura (solitaria) del popolarismo, ma un generico florilegio di buone intenzioni e buone pratiche, a sostegno di sporadiche cooptazioni. È del tutto evidente che per questa via si decreta la fine del Pd. Ne è consapevole Zingaretti? Alla resa dei conti una risposta s’impone, altrimenti la discussione sul futuro del Pd può scivolare nella retorica, per poi passare molto in fretta dalla retorica al sofisma. Con danni facilmente prevedibili.

Merlo: Polito e il centro sinistra che non c’è più.

Antonio Polito, con la consueta intelligenza e puntualità, ha scritto recentemente sul Corriere della Sera un articolo che ha evidenziato la vera crisi del centro sinistra nel nostro paese. Almeno per chi continua a credere in quella prospettiva. Dice Polito, giustamente, che in Italia non esiste più il centro sinistra. Ma semplicemente esiste solo una sinistra. O meglio, aggiungiamo noi, un partito che coltiva l’obiettivo di essere la voce della sinistra anche se registriamo, misteriosamente, che i suoi principali “testimonial” mediatici sono ancora e sempre l’espressione della cultura elitaria, aristocratica e alto borghese che da tempo fa di questa realtà una semplice “sinistra al caviale” o “dei centri storici Ztl”, come viene comunemente definita nel linguaggio contemporaneo.

Ma, al di là di questo dettaglio, quello che vale la pena ricordare è ciò che richiama Polito. E cioè, dov’è oggi la coalizione di centro sinistra? Dove sono le forze politiche, come le definisce con efficacia l’editorialista del Corriere, che esprimono “l’ambientalismo, il liberalismo e il solidarismo cattolico”? In effetti, dopo la stagione della vocazione maggioritaria e della autosufficienza politica ed elettorale del Partito democratico, assistiamo oggi ad una coalizione dove il Pd dovrebbe distribuire le carte di chi copre il fianco destro, chi il fianco sinistro e chi il fianco centrista/cattolico della alleanza di centro sinistra. E’ evidente a tutti, credo, e Polito lo ha richiamato con forza, che un progetto del genere non può che relegare la coalizione di centro sinistra a giocare un ruolo del tutto marginale e periferico nella competizione con il centro destra e la destra. Fuorché si pensi che basti dar vita ad un disordinato ed eterogeneo “civismo” – peraltro utile a livello locale ma scarsamente percorribile a livello nazionale – per reggere il confronto.

Ora, se è vero com’è vero, che senza una organizzazione politica di quelle aree culturali è’ perfettamente inutile continuare a blaterare di coalizione di centro sinistra, credo sia importante – almeno per noi, per la nostra cultura e per ciò che rappresentiamo nella vasta e variegata periferia italiana – iniziare un percorso di riorganizzazione politica ed organizzativa. Lo diciamo da molto tempo e siamo anche perfettamente consapevoli che la tentazione identitaria non è più praticabile.

O meglio, è’ una strada quasi scientificamente perdente come le ultime e ripetute consultazioni elettorali hanno ampiamente confermato. Ma la costruzione di una forza di “centro” plurale, cattolico e laica, di governo e riformista, costituzionale e democratica ed esterna ed estranea alla logica e alla cultura della radicalizzazione e dell’annientamento degli avversari politici perseguita tanto dalla destra quanto della sinistra, diventa quasi un imperativo etico oltrechè un dovere politico.

Perchè Polito ha semplicemente ragione. Se nel resto dell’Europa le forze riconducibili all’ambientalismo, al liberalismo e al solidarismo cattolico ci sono e sono organizzate politicamente, non si capisce il perché in Italia tutto ciò non debba esistere. O non debba più esistere.

La vocazione maggioritaria è consegnata alla storia come è singolare e grottesco pensare di pianificare dall’alto la composizione di un’alleanza. Occorre attrezzarsi. Altrimenti, come fa capire lo stesso Polito pur senza dirlo, si corre il rischio concreto di essere complici di questa ormai insopportabile anomalia tutta italiana.

De Simoni: Alleati, poi complici e ostaggi di Salvini

Le recenti elezioni europee hanno dimostrato come il primo anno di governo abbia logorato i cinque stelle oltre ogni ragionevole previsione a causa di una evidente subalternità politica rispetto alla Lega e a Salvini in modo particolare.

L’accordo-contratto ha infatti creato le condizioni di una vera e propria complicità quando il Movimento è stato costretto ad accettare dei compromessi con alcune impostazioni che erano alla base della sua stessa esistenza politica; e la complicità, come è noto, indica la condivisione di azioni e obiettivi non leciti.

Condoni e sanatorie, anche chiamandoli “pace fiscale”, rimangono pur sempre condoni e sanatorie; salvare Salvini dal processo per il sequestro dei migranti sulla nave Diciotti per il solo fatto che la violazione di legge operata dal Ministro dell’Interno rappresentava la linea politica del governo, introduce un principio pericoloso che può aprire le porte ad altre violazioni di legge che trovassero in futuro un consenso del ministro o del governo pro-tempore.

Tutto ciò non è in contrasto solo con il tanto decantato “rigorismo” grillino, ma soprattutto con i principi della certezza del diritto e della divisione di poteri tra organi dello Stato.
Dopo la fase della complicità e dei prezzi elettorali che per questo ha pagato nelle elezioni europee, per il Movimento cinque stelle si apre una fase ancora più delicata che lo vede di fatto in ostaggio della Lega per l’impossibilità da un lato di sostenere con forza una propria iniziativa politica e dall’altro di invocare elezioni anticipate che vedrebbero i pentastellati fortemente ridimensionati rispetto al voto politico del marzo 2018.

Il Salvini tonificato dal risultato elettorale tenderà a dettare l’agenda politica lasciando sempre meno spazio alle ragioni dei cinque stelle, potendo contare su un atteggiamento molto morbido di Di Maio ed altri esponenti del Movimento per i quali la chiusura di questa esperienza di governo segnerebbe anche la fine della loro avventura politica.
Il nuovo decreto-sicurezza con il quale il Ministro dell’Interno accentra su se stesso poteri e funzioni sottraendole ad altri dicasteri, come anche l’annuncio di provvedimenti economici e riforme della giustizia da parte dello stesso Salvini, senza che i cinque stelle battano ciglio, indica lo sbilanciamento politico che si sta producendo nel governo in seguito al risultato elettorale del 26 maggio.

Come finirà? E’ difficile dirlo con certezza, ma se Di Maio e company saranno presi dalla cosiddetta “Sindrome di Stoccolma” potrebbero addirittura provare un sentimento per chi li tiene politicamente in ostaggio e quindi proseguire nell’attività governativa; e poi ad essere presi in ostaggio sarebbero gli italiani.

Sarà Bratislava la sede dell’Autorità europea del lavoro

La nuova Autorità europea del lavoro (Ela) si sposterà ad ottobre a Bratislava. La decisione è stata presa in occasione della riunione dei ministri Ue per l’occupazione, la politica sociale, la salute e i consumatori presieduta dal ministro rumeno Marius-Constantin Budai.

I ministri hanno approvato il regolamento dell’Ela e deciso la sede, tra una rosa di quattro candidature (Sofia, Nicosia e Riga le altre tre città).

L’Autorità europea del lavoro sosterrà la mobilità del lavoro e fornirà agli Stati membri dell’Ue gli strumenti di cui hanno bisogno per cooperare in modo più efficace e combattere gli abusi.

Il mare più bello del 2019 si trova in Cilento

Le località più belle d’Italia si affacciano sul Tirreno. Lo dice la guida di Legambiente e Touring Club Italiano, Il mare più bello 2019, che quest’anno assegna il riconoscimento delle 5 vele a ben sette comprensori turistici bagnati da quelle acque. In testa alla classifica c’è il Cilento Antico guidato da Pollica (Sa), la perla del Cilento e comune capofila tra quelli del comprensorio campano. A seguire il litorale della Maremma Toscana guidato da Castiglione della Pescaia (Gr), quindi la Baronia di Posada (Nu) e il Parco di Tepilora, il Litorale di Chia con Domus De Maria (Sud Sardegna), Baunei (Nu), l’Alto Salento Jonico guidato da Nardò (Le), la Planargia con Bosa (Or), la Costa d’Argento e l’Isola del Giglio (Gr), le Cinque Terre guidate da Vernazza (Sp), l’isola di Pantelleria (Tp), la Gallura Costiera e l’area marina protetta di Capo Testa Punta Falcone guidata da Santa Teresa di Gallura (Ss), la Costa del Mito e l’area marina protetta Coste degli Infreschi e della Masseta guidata da San Giovanni a Piro (Sa), l’Alto Salento Adriatico guidato da Melendugno (Le), la costa del Parco agrario degli Ulivi secolari guidata da Polignano a Mare (Ba), il Litorale Trapanese Nord guidato da San Vito lo Capo (Tp) e l’isola di Ustica (Pa). E nella guida entra un nuovo simbolo: quello dei comuni “plastic free”.

La guida sul “meglio del mare e dei laghi italiani” – dove trascorrere una vacanza attenta all’ambiente, all’insegna di natura e acqua pulita ma anche di eccellenze enogastronomiche e luoghi d’arte – è stata presentata questa mattina a Roma a villa Celimontana nell’ambito del workshop conclusivo del progetto MedSeaLitter. All’appuntamento – che si è concluso con la premiazione dei sindaci dei comprensori turistici che si aggiudicano quest’anno le “5 vele” ed è stato coordinato dal responsabile mare e turismo di Legambiente, Sebastiano Venneri – sono intervenuti, tra gli altri, il Sottosegretario al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare Salvatore Micillo, Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente e Franco Iseppi, presidente del Touring Club Italiano.

“Anche quest’anno raccontiamo quanto di buono fanno le amministrazioni locali costiere lungo la nostra penisola – ha dichiarato Sebastiano Venneri, responsabile Mare e Turismo Legambiente -. Il mondo del mare, infatti, si trova a dover dare risposte all’altezza delle sfide imposte dalla crisi ambientale planetaria e ha messo su un bel ventaglio di proposte e iniziative: enti locali, imprenditori privati, associazioni e regioni si sono impegnati a proporre soluzioni avanzate per una vacanza amica dell’ambiente. Tante pratiche concrete sulle quali, ne siamo più che mai convinti, cominciare a cambiare le sorti del pianeta”.

“La guida, frutto della storica collaborazione tra Touring Club Italiano e Legambiente, è un periplo lungo i 7500 chilometri di coste italiane che stimola la nostra voglia di viaggio e vacanze, ma è anche, anzi soprattutto, un vaglio rigoroso dello stato di salute dei nostri mari – ha affermato Franco Iseppi, Presidente del Touring Club Italiano -. La rigorosa selezione proposta dalla guida rappresenta bene la nostra missione: valorizzare il paesaggio, il patrimonio artistico culturale e le economie produttive dei territori. Ne risulta non una classifica, ma una mappatura geografica che fotografa le straordinarie ricchezze dei nostri mari e dei nostri laghi e segnala le buone pratiche ambientali, amministrative, turistiche che contribuiscono a conservarle e a farle conoscere. Un contributo, speriamo, all’anima attiva e green che sempre più spazio sta conquistando nella nostra società. Il tema delle coste ripropone una grande opportunità di sviluppo turistico, laddove si può trovare un rapporto virtuoso tra coste ed entroterra, perché è la condizione ideale per uno sviluppo sostenibile dell’intero territorio e per una pratica turistica che sia esperienziale, personale e sostenibile”.

No kids policy: La vacanza in famiglia è importante

Già molto diffusa all’estero, la «no kids policy» sta contagiando anche l’Italia dove sono almeno 52 gli hotel, agriturismi, resort e stabilimenti balneari che hanno “personalizzato” i loro servizi per offrire massimo comfort a un pubblico di soli adulti.

Così per l’estate 2019 la moda del turismo «child free» arriva anche in Italia. Dai ristoranti agli alberghi, dalle compagnie aeree alle spiagge, i luoghi di svago proibiti ai bambini stanno riscontrando sempre più successo anche nella nostra Penisola. A lanciare l’allarme è l’Università Popolare “Stefano Benemeglio” delle Discipline Analogiche (www.upda.it).

Perché proprio un allarme? «Perché la vacanza in famiglia è un momento formativo fondamentale per il bambino ed è anche un’esperienza unica per i genitori. Nelle vacanze insieme ai bambini si creano memorie indelebili e si esce dal guscio in cui ogni giorno ci rifugiamo. È la famiglia stessa ad esporsi al cambiamento e a mettersi alla prova» risponde lo psicologo Stefano Benemeglio.

Secondo gli analogisti dell’UPDA, viaggiare con i bambini serve inoltre a stimolare il «lateral thinking», quella capacità di pensare fuori dall’ordinario, affinando la capacità di improvvisare e di affrontare gli imprevisti senza paure. «È un’occasione unica per esporsi all’insolito ed è così un momento pedagogico anche per gli adulti, nel senso che prepara a prendere decisioni e ad affrontare le sfide che la vita ci pone davanti» conclude lo psicologo Stefano Benemeglio.

«I bambini vedono le cose in modo così sorprendente e candido, ma anche intelligente, che ascoltarli e viverli quando si è in vacanza è una continua scoperta, in grado di farci vedere le cose da un’ottica completamente diversa, facendoci assaporare il tempo insieme in modo ancora più bello e più profondo» puntualizza Samuela Stano.

Tutti i numeri dell’industria del vetro

L’identikit del settore: oltre 1.000 Aziende, 23 mila addetti con il 96,2% di contratti a tempo indeterminato – illustrato in occasione dell’Osservatorio Nazionale del CCNL vetro

Un comparto dal forte impatto economico, oltre che sociale, che da sempre ha fatto dell’economia circolare il suo brand. È l’industria del vetro “Made in Italy” che in totale conta oltre 1.000 Aziende, 23 mila addetti e che, situazione quasi unica in Italia, vede ben il 96,2% degli addetti con un contratto a tempo indeterminato (la media dell’industria manufatturiera italiana è, secondo ISTAT, dell’86,5%).

L’identikit dell’industria italiana del vetro è stato tracciato nel corso del consueto incontro che attiene all’Osservatorio Nazionale e che costituisce un’importante occasione di condivisione della situazione economica e sociale propria del settore Vetro, cui hanno partecipato Assovetro, l’Associazione di riferimento italiana, i rappresentanti sindacali nazionali, regionali, provinciali (Filctem-CGIL, Femca-CISL e Uiltec-UIL), le Aziende associate di tutti i comparti del vetro e, quest’ anno, come ospite d’onore, Edo Ronchi, ex ministro dell’Ambiente ed attuale Presidente della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile.

“Questa elevata percentuale di occupazione a tempo indeterminato – ha sottolineato il Presidente di Assovetro, Graziano Marcovecchio – se, da un lato, è un segnale della stabilità del nostro settore industriale, dall’altro è espressione del bisogno di consolidate professionalità per gestire i nostri processi produttivi; testimonia altresì l’impegno che i nostri imprenditori esprimono nell’improntare le relazioni industriali alla miglior sintonia con le parti sociali: un rapporto di lavoro stabile, che esalta la qualità del lavoro e la rafforza attraverso i processi di formazione, è, infatti, un fondamentale presupposto per realizzare il necessario clima di reciproca collaborazione all’interno delle aziende.

Guardando nel dettaglio l’intero comparto emerge che, tra le Aziende, 32 appartengono al settore della produzione con oltre 13.500 addetti, 1.000 Aziende si occupano della trasformazione del vetro e contano più di 8.500 dipendenti.
Edo Ronchi nella sua relazione si è soffermato anche sulla circolarità della filiera dei contenitori in vetro: un materiale durevole, riciclabile più volte e per infinite volte, economicamente vantaggioso grazie al risparmio non solo di materie prime vergini, ma anche di energia, ed in grado di tornare a produrre contenitori di pari qualità di quelli riciclati correttamente con la raccolta differenziata. Ma c’è un punto dolente: la qualità della raccolta differenziata non decolla, soprattutto in alcune Regioni a causa dell’aumento delle quantità raccolte gli scarti sono passati dal 7% del 2013 al 12% del 2017.

“Le filiere del riciclo e del riutilizzo – ha spiegato Edo Ronchi – che si allineeranno con i nuovi obiettivi previsti dalla Direttive europee potranno generare importanti benefici economici e occupazionali nei prossimi 5 anni: 20,1 mld di aumento di produzione, un valore aggiunto di 6,6 mld e 171 mila nuovi occupati nel quinquennio”.

L’Osservatorio Nazionale, previsto dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, giunto alla sua quindicesima edizione, ha come obiettivo quello di alimentare e rafforzare un dialogo sociale responsabile ed evoluto, punto di forza della tradizione dell’Industria del Vetro in materia di Relazioni Industriali.

Samantha Cristoforetti scende in fondo al mare

L’astronauta italiana si tufferà nei fondali dell’Oceano Atlantico per una nuova missione della Nasa.

La Cristoforetti sarà infatti a capo della missione Neemo (Nasa Extreme Environment Mission Operations), un programma che prevede l’addestramento degli astronauti in fondo al mare.

Saranno in cinque a tuffarsi negli abissi insieme alla Cristoforetti, mentre altri tecnici della Nasa guideranno la missione da terra.

Lo scopo del programma è preparare gli astronauti alle future missioni nello spazio, tra cui anche quelle sulla Luna e Marte.

L’Ebola in Congo spaventa il mondo

Il ministro della Salute ugandese e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms)confermano la notizia secondo la quale il virus ebola si sarebbe spostato dal Congo all’Uganda.

La prima vittima è un bambino di 5 anni arrivato con la sua famiglia dal Congo lo scorso 9 giugno.

Le autorità stanno cercando di determinare in che modo la famiglia, esposta al virus in Congo, sia riuscita ad attraversare un confine dove per mesi i funzionari della Sanità hanno controllato possibili sintomi in milioni di viaggiatori.

Un nuovo modello di Paese

Un Paese si regge se tutte le sue parti funzionano al meglio. Da quelle più piccole a quelle più elevate. se scricchiola qualcosa, prima o dopo, quel malessere si espande e mette in ginocchio il tutto.Per prima cosa è indispensabile che la società civile, vale a dire i ceti produttori di ricchezza siano all’altezza del compito loro assegnato che, nella parzialità, dovranno perciò perseguire gl’interessi che li animano.

Val la pena, però, ricordare che costoro dovranno eticamente seguire le norme giuridiche. In sostanza, voglio dire che non devono evadere le tasse e nella concorrenza essere leali con chi si trova nella sponda avversa.Le agenzie di formazione dovrebbero essere sempre il fiore all’occhiello del Paese; la scuola, nei suoi diversi gradi, fino all’università, dovrebbe respirare con orgoglio la funzione per la quale è chiamata al dovere. I corpi intermedi, in primis, i partiti, perché il Paese viva al meglio, dovrebbero produrre idee e mantenere sempre alta la dialettica tra le parti. Per fare questo è indispensabile la presenza di una struttura, il cosiddetto partito, capace di attuare l’ideale che la politica ha sempre di mira.

Va persino precisato che tra i corpi intermedi, sindacati, associazione di categoria, in sostanza chi fa gli interessi dei diversi soggetti della società civile, non devono mai demordere. Un Paese, per essere in salute, deve poter contare sempre su questi “avvocati” delle parti. Bene, se questo è il modello, va ricordato che, allo stato attuale, l’Italia si scosti paurosamente dello stesso. Non c’è uno di quei segmenti elencati in precedenza, che possa dire di essere in piena salute. Adesso, ad onor del vero, non ho citato lo Stato, ma va da se che lo Stato è l’insieme di tutte quelle parti e può essere l’equivalente del Paese. Uno Stato e un Paese all’altezza dei compiti presenta una fisiologia del suo corpo in ottima salute.

Sarà perché mi porto una malattia da cinquant’anni, quella che mette in primo piano la politica, ma non stento a credere che sia questo l’indicatore più interessante da decifrare per capire com’è oggi l’Italia. Non voglio, quindi, soffermarmi sulle diverse articolazioni della società ma mettere in luce il malanno che colpisce il terreno per me elettivo: i partiti in Italia.Dall’avvento di Berlusconi si era capito che qualcosa cambiava: il partito diventava una proprietà; nulla di peggiore poteva capitare. Il partito non può essere mai una azienda. L’involuzione del Pd è sotto gli occhi di tutti. L’unico vero partito, quello che raccoglieva i due assi centrali della storia italiana, aveva il compito di mantenere vivo l’impianto di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer. Con Veltroni si è voluto, fin dall’inizio, renderlo leggero, friabile e volatile. Oggi le conclusioni le potete trarre voi.

Ad essere sinceri, l’unico partito che si possa dire tale è il partito di Salvini. Qui, però, ci sarebbero parecchie critiche da muovere. Le riserveremo per una prossima puntata. Dei 5Stelle i sociologi potrebbero dire che sono una zattera con qualche foro di troppo e soprattutto, trainata dalla famiglia Casaleggio e, pur mutando le proporzioni, il modello non è poi diverso da quello berlusconiano.

Dentro questo orizzonte, sarà difficile proseguire. Prenderne atto è un dovere. Illuminarne i limiti è una necessità. Trovare una via di uscita è l’ideale a cui tutti noi siamo chiamati a rispondere.

La violenza sui minori mette a rischio il loro e il nostro futuro

Articolo a firma di Liliana Ocmin (edizione odierna di Conquiste del lavoro) 

Ancora una volta sono i fatti di cronaca a parlare di minori. Se si parlasse di loro, con la stessa frequenza, in termini di diritti conquistati, probabilmente saremmo già a metà strada rispetto all’obiettivo ONU per il 2030 di porre fine, oltre alla violenza di genere, ad ogni forma di discriminazione e sopruso nei confronti di bambini, bambine e ragazze, compresa la violenza assistita o passiva. La violenza, purtroppo, rappresenta a volte quel filo rosso che tiene insieme adulti e minori, mamme e figlie/i, accomunate/i dallo stesso drammatico destino. Il nuovo sconcertante caso di femminicidio consumato in presenza di una minore – parliamo della donna uccisa per mano del marito, reo confesso, a Cisterna di Latina – avrà sicuramente ripercussioni emotive e psichiche non indifferenti sulla piccola vittima.

È stata proprio la figlia di 10 anni a dare l’allarme. Una bimba che, come avviene in questi casi, in un colpo solo si ritrova senza mamma e senza papà. Se la violenza sulle donne è violazione dei diritti umani, quella sulle bambine e sui bambini, è un qualcosa che va oltre e che attiene a quel senso di “sacralità” che attribuiamo ad ogni fanciullo e fanciulla in quanto rappresentano nel loro il futuro di tutta l’umanità. Bisogna dire basta a questo scempio, prevenendo e punendo tutte le forme di sopraffazione che oggi “deturpano” e segnano per sempre la loro vita, in Italia e nel mondo, facilitando e sostenendo nel contempo la loro resilienza. Il fenomeno delle spose e degli sposi bambini ad esempio – esistono anche gli sposi bambini – rappresenta un’altra di queste forme, su cui si sta concentrando recentemente l’attenzione delle istituzioni e delle forze politiche e sociali nel tentativo di modificare questa triste narrazione.

I dati dell’Unicef a riguardo sono eloquenti, raccontano di 765 milioni di minori, di cui 115 milioni di bambini, che si sono sposati in tenera età. Le bambine e le ragazze restano la categoria più colpita: una giovane donna su 5 tra i 20 e i 24 anni si è sposata prima del suo diciottesimo compleanno, rispetto a un giovane uomo su 30. E mentre la percentuale, le cause e l’impatto dei matrimoni precoci sulle ragazze sono stati ampiamente studiati, quelli sui ragazzi e bambini ancora scarseggiano. In ogni caso, i bambini maggiormente a rischio di matrimoni precoci provengono da famiglie poverissime, vivono in zone rurali e spesso non posseggono alcuna istruzione. Il matrimonio minorile, che come Coordinamento nazionale donne riteniamo debba essere collocato, soprattutto per le vittime sotto i 13 anni, nel reato della pedofilia, interessa per via delle migrazioni anche il nostro Paese. Attraverso le analisi di alcune associazioni impegnate sul tema, i casi in Italia pare che si aggirino intorno ai duemila ogni anno.

Per cui occorre intervenire affinché queste pratiche, oltre al divieto già esistente in Italia, siano inquadrate come reati penali propri e quindi punibili con la reclusione, senza dimenticare però il fondamentale impegno sulla prevenzione. Su questi argomenti sono stati depositati lo scorso anno in Parlamento alcuni disegni di legge che contemplano, insieme alla violenza legata al genere, anche il problema dei matrimoni forzati. L’altro ieri siamo stati chiamati a partecipare come Cisl ad un’audizione presso il Senato sull’esame di questi provvedimenti per portare anche le nostre riflessioni a riguardo. Diverse le novità contenute nelle proposte in esame, tra cui evidenziamo positivamente: il riconoscimento del reato dei matrimoni forzati, l’inasprimento delle pene per i reati commessi nei confronti di minori, l’extraterritorialità del reato, la previsione di un Osservatorio sul fenomeno, la formazione degli operatori di polizia e carabinieri referenti in materia, i corsi per i condannati per prevenire le recidive, la maggiore severità per il reato di diffusione di immagini o video sessualmente espliciti (revenge porn) e il passaggio dalla punibilità a querela a quella d’ufficio per i reati sessuali su minorenni.

Abbiamo formulato più di qualche suggerimento, in particolare per quanto riguarda la formazione degli operatori di polizia e carabinieri, chiedendo finanziamenti adeguati e in linea con l’attuale Piano Nazionale Antiviolenza, il coinvolgimento del sindacato, l’affidamento alla contrattazione collettiva e l’estensione anche a magistrati, assistenti sociali e operatori coinvolti. Inoltre, per la partecipazione del condannato ai corsi speciali di formazione, abbiamo precisato che la stessa non potrà avere effetti sulle decisioni processuali e fungere da attenuante.

Auspichiamo a breve, comunque, la stesura di un unico testo bipartisan che raccolga tutte le proposte legislative esistenti – coincidono in più parti – da rimettere all’esame delle Aule parlamentari. La violenza e la prevaricazione su bambini e bambine è un male da estirpare subito, tardare può continuare a comprometterne irrimediabilmente la crescita personale e il normale sviluppo delle capacità socio-relazionali, con gravi conseguenze di disadattamento e rischio di ripetizione futura della violenza subita.

Germania: i Verdi diventano il primo partito

In un sondaggio condotto dall’istituto demoscopico Forsa e pubblicato dal quotidiano tedesco “Bild” mostra come in Germania prosegua l’avanzata dei Verdi: spinti dal successo alle elezioni europee del 26 maggio scorso, gli ecologisti sono oggi il primo partito del paese con il 26,5 per cento dei consensi.

Rispetto alla scorsa settimana, i Verdi guadagnano l’1,5 per cento e superano l’Unione, la coalizione conservatrice formata al Bundestag da Unione cristiano-democratica (Cdu) e Unione cristiano-sociale (Csu).

I conservatori sono infatti al 24 per cento, in calo di due punti rispetto alla settimana precedente. In terza posizione con il 13,5 per cento si colloca Alternativa per la Germania (AfD), partito di destra che raccoglie consensi anche negli ambienti estremisti.

Negli ultimi sette giorni, AfD ha visto le proprie preferenze crescere dello 0,5 per cento. Il Partito liberaldemocratico (Fdp) guadagna un punto percentuale rispetto alla scorsa settimana e sale al 9 per cento. Chiude la classifica La Sinistra, che nello stesso periodo ha ceduto lo 0,5 per cento e si attesta ora al 7,5 per cento.

A cosa servono i fondi europei?

Un video per raccontare “a cosa servono i fondi europei” è quello diffuso dall’Agenzia per la coesione territoriale, l’ente che si occupa di attuare la “politica di coesione” dell’Ue che mira a ridurre le disparità di sviluppo fra le regioni degli Stati membri e a rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale. Nel video di alcuni minuti si mostra una rassegna di immagini su territori e ambiti in cui l’intervento economico-finanziario dell’Ue ha fatto la differenza per l’Italia.

I fondi europei delle politiche di coesione sono serviti “a realizzare un Paese più creativo”, come a Cesena, con il Laboratorio aperto “Casa Bufalini” o a Cava de’ Tirreni, con il Cad, primo centro di artigianato digitale in Italia; a sostenere la ricerca italiana, con l’acceleratore lineare di particelle per uso clinico (a Ruvo di Puglia, Bari); a favorire sostenibilità e protezione ambientale, come nel caso del progetto pilota Re.v.e, la Rete veicoli elettrici per il Gran Paradiso, in Valle d’Aosta, o la piattaforma digitale Ecomaps per lo smaltimento ecologico dei rifiuti speciali. L’Ue ha aiutato l’Italia anche a rendere le città più vivibili e smart, a tutelare le tradizioni e la storia del nostro Paese (come la riqualificazione dell’Antiquarium Numana o il recupero del complesso museale di Santa Maria della Scala a Siena).

Altri fondi Ue sono andati a ricostruire pezzi di Paese distrutti da eventi naturali drammatici, a garantire più sicurezza, a connettere territorio e persone sia in forma digitale sia con vie di trasporto (la banda ultra-larga o la ferrovia Circumetnea per la Sicilia). Il tutto all’insegna dell’innovazione, della ricerca e della sostenibilità.

Unicef: 115 milioni di sposi bambini, l’aspetto meno noto dei matrimoni precoci

Secondo l’UNICEF – che ha presentato i risultati della prima analisi statistica  interamente dedicato alla problematica dei matrimoni maschili in età minorile,115 milioni di ragazzi e uomini nel mondo si sono sposati in età minorile. 

In un quinto dei casi – in numeri assoluti, 23 milioni – addirittura prima di compiere 15 anni.

Attraverso i dati raccolti in 82 Stati, l’analisi rileva che il matrimonio precoce dei ragazzi continua a essere diffuso in quasi tutte le regioni nel mondo, dall’Africa Subsahariana all’America Latina, dall’Asia meridionale all’Estremo Oriente e all’Oceania.
L’incidenza maggiore del fenomeno si registra nella Repubblica Centrafricana (dove il 28% dei matrimoni vedono coinvolto un maschio minorenne). A seguire Nicaragua (19%) e Madagascar (13%).
I nuovi dati portano il numero totale di spose e sposi bambini a 765 milioni.
Le ragazze restano i soggetti maggiormente coinvolti dal fenomeno: tra le giovani donne nella fascia di età 20-24 anni, 1 su 5 si è sposata prima del suo 18° compleanno. Tra i maschi di questa stessa fascia di età, la percentuale è di 1 su 30..
Mentre incidenza, cause e impatto dei matrimoni precoci tra le ragazze sono stati ampiamente studiati, sono scarse le ricerche condotte sull’analogo fenomeno per quanto riguarda bambini e ragazzi.
I bambini maggiormente a rischio di contrarre matrimoni in età infantile sono quelli appartenenti alle famiglie più povere, quelli che vivono in aree rurali e che hanno un grado di istruzione basso o nullo.

Conto termico, attivo il Prestito investimenti per gli enti locali

Cassa depositi e prestiti comunica che a partire dal 7 giugno è disponibile il Prestito investimenti conto termico (Pict), un nuovo strumento rivolto a Comuni, Province e Città metropolitane teso a favorire la realizzazione degli interventi di efficientamento energetico sul territorio, facendo leva sulle risorse messe a disposizione dal Gestore dei servizi energetici, società del Ministero dell’Economia che in Italia promuove lo sviluppo sostenibile attraverso l’incentivazione delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica. L’iniziativa riflette l’approccio strategico orientato allo sviluppo sostenibile, delineato dal piano industriale Cdp 2019-2021.

Lo strumento vuole offrire una soluzione innovativa che da un lato supporti gli Enti Locali nella realizzazione dei propri progetti e dall’altro stimoli la realizzazione di obiettivi di transizione energetica anche nella Pubblica amministrazione. L’intervento rientra nel quadro dell’Agenda 2030 ed è orientato ai Sustainable Development Goals 7 “Energia pulita e accessibile” e “Città e comunità sostenibili” che tra i target hanno anche il miglioramento dell’efficienza energetica, nonchè la realizzazione di un’urbanizzazione intelligente quanto sostenibile.

Il Pict è una nuova linea di finanziamento a lungo termine concepita per rendere più rapida la realizzazione degli interventi che hanno ottenuto la concessione degli incentivi da parte del Gse a valere sul Conto termico, il meccanismo incentivante che mette a disposizione della Pubblica amministrazione 200 milioni di euro l’anno per interventi di riqualificazione energetica su edifici pubblici. Il Pict fornisce quindi completa copertura finanziaria di questi progetti, velocizzando la realizzazione degli interventi di efficienza energetica. Una volta ottenuto l’incentivo del Gse, l’Ente locale provvederà al rimborso anticipato della corrispondente quota del Pict, senza alcun onere aggiuntivo.

 

Nazionale Femminile: Ora tocca alla Giamaica

Dopo il successo all’esordio con l’Australia, la Nazionale Femminile ha raggiunto Reims, la città dello Champagne, dove venerdì spera di brindare alla qualificazione agli ottavi di finale. Contro la Giamaica, che ha iniziato il suo Mondiale incassando tre gol dal Brasile, le Azzurre avranno a disposizione il primo match point per il passaggio del turno: con un’altra vittoria l’Italia ipotecherebbe gli Ottavi e, se l’Australia non riuscisse a battere il Brasile, sarebbe sicura di chiudere il girone nelle prime due posizioni.

Inoltre, aver sconfitto l’Australia suona come una doppia soddisfazione. La Federcalcio australiana infatti, vieta (sebbene non sia scritto ufficialmente) alle calciatrici di giocare nel campionato italiano.

 

Ricercatori italiani scoprono dati falsati in un articolo sull’omeopatia

E’ stato ritirato oggi dalla rivista Scientific Reports, perché i dati che presentava erano “falsati”, un articolo che sosteneva l’efficacia terapeutica dell’omeopatia per il controllo del dolore, pubblicato nel settembre 2018, e che aveva avuto una certa eco sulla stampa italiana ed estera.

E’ accaduto per iniziativa di un gruppo di ricercatori italiani, con il biochimico Andrea Bellelli, dell’università Sapienza di Roma, il farmacologo Silvio Garattini e il biologo Enrico Bucci, della Temple University. Lo rendono noto gli stessi ricercatori.

L’articolo sosteneva che una sostanza omeopatica ultra-diluita avesse gli stessi effetti di un noto ed efficace principio attivo, chiamato gabapentina, nell’alleviare nei ratti il dolore legato a problemi nel sistema nervoso periferico.

“Ad una analisi approfondita -scrivono i ricercatori – è  emerso che il gruppo di autori ha manipolato i dati e le immagini dell’articolo, una cattiva condotta già presente in altri tre precedenti articoli degli stessi autori”. Tutto questo, rilevano costituisce “l’ennesima conferma” di come “l’omeopatia non ha efficacia terapeutica e le pubblicazioni che fino ad ora sostengono il contrario sono frutto di frodi scientifiche”.

Un Centro dotato di cultura e sintesi politica, non satellite del Pd. Risposta a Teodori.

Interessante e acuta, come sempre, l’analisi di Massimo Teodori sul Foglio di ieri, martedì 11 giugno.

Condivido la valutazione sul bipartitismo poco compatibile col DNA italiano e pure la necessità che il campo alternativo alla destra leghista e al populismo nostrano si articoli in maniera plurale non attraverso formazioni “satelliti” del PD, ma con aree riconoscibili per cultura politica ed autonome, che col PD costruiscano una ampia coalizione democratica.

Meno convincente mi sembra invece Teodori laddove immagina che la questione sia risolvibile con la nascita di un partito liberal democratico capace di interpretare gli elettori che “guardano alla società aperta” contro ogni sovranismo. Il punto è che questi elettori (ceti urbani, convinti delle opportunità della globalizzazione, sinceramente europeisti, favorevoli alle innovazioni sempre più spinte sul piano tecnologico, sociale e fin anche antropologico) votano già per il PD e il centro sinistra. Anzi, ne costituiscono ormai lo zoccolo duro.

La competizione con la destra si può vincere con proposte capaci di riconquistare gli altri elettori, quelli che guardano alla “società aperta e globale” con diffidenza e scetticismo, anche perché fino ad ora ne hanno toccato con mano solamente le ricadute negative sulla propria condizione di vita: fasce sociali con redditi bassi, ceto medio, cittadini delle aree interne, montane e rurali.

È su questo fronte che l’analisi di Teodori mi pare quantomeno parziale. Così come parziale trovo la sua rappresentazione della cultura del “popolarismo”, non riassumibile con la pur preziosa e straordinaria esperienza del pensiero dossettiano.

La DC – con l’impronta degasperiana – fu sintesi efficace di popolarismo e pensiero liberal-democratico.

La politica non si può fare con la nostalgia e riproporre formule ed esperienze appartenenti a fasi storiche terminate non porta da nessuna parte, se non all’uso strumentale e patetico delle vecchie simbologie, come si nota reiteratamente dagli anni novanta in poi.

E tuttavia, se un’area manca oggi all’appello delle forze democratiche capaci di riconquistare il consenso della maggioranza dei cittadini, contro la destra sovranista e il populismo, si tratta di questa. Con tutte le innovazioni che i tempi attuali impongono, ma con questa ispirazione culturale e politica.

Mi permetto infine, avendola vissuta direttamente, una precisazione sulla vicenda di Scelta Civica, che Teodori liquida in maniera troppo sbrigativa.

Essa fu un tentativo – non riuscito, ma ricercato con onestà intellettuale – di colmare un vuoto di rappresentanza già evidente in quegli anni. E fu promosso proprio da esponenti politici e civili delle due culture: quella del popolarismo di ispirazione cristiana e quella di matrice liberal-democratica.

Detto per inciso, non furono certo i primi a decidere ad un certo punto di entrare nel PD. Occorrerebbe in ogni caso indagare un poco più a fondo quella esperienza, che personalmente resto orgoglioso di aver concorso a far nascere, con le sue luci e le sue ombre.

Se educhi una bimba in Africa…

Tratto dall’Osservatore Romano in edicola oggi a firma di Giulio Albanese

Nella società civile africana sono in molti, oggi, a domandarsi quale possa essere il soggetto discriminante, antropologicamente parlando, capace d’imprimere l’agognato cambiamento, rispetto ai condizionamenti impressi dalla globalizzazione. E la risposta, andando al di là della retorica, è certamente complessa, ma non può prescindere dal ruolo delle donne afro. Come rilevava il sociologo francese Emmanuel Todd in L’enfance du monde (1984), in quasi tutte le società africane esiste una forte componente matrilineare, che può essere temporaneamente repressa sotto l’influenza dell’islam o di altre ideologie, ma che poi finisce sempre per riaffiorare. Ed è proprio lei, la «donna africana — secondo Jacques Giri, africanista di fama internazionale — prima degli uomini, prima della scuola, prima della radio, del cinema o della televisione, che formerà l’Africa di domani».

Occorre, comunque, stigmatizzare i condizionamenti culturali impressi dal colonialismo che hanno generato non pochi fraintendimenti. Infatti, prima che le potenze europee sbarcassero in Africa e sottomettessero le popolazioni autoctone, è stato ampiamente dimostrato che furono numerose le donne afro  capaci di distinguersi per il loro carisma. Basti pensare alla regina Ana de Sousa Nzinga Mbande (1583–1663), meglio nota con il nome  Ana Nzinga, sovrana dei regni Ndongo e Matamba, che difese tenacemente gli interessi del fiero popolo Mbundu, di ceppo bantu, prima negoziando e poi opponendosi al dominio portoghese. Da rilevare che per questo popolo il  rapporto di parentela era computato secondo la discendenza per linea femminile. Nzinga è ancora oggi ricordata in Angola non solo per la sua perspicacia politica, ma anche per le straordinarie doti nella tattica militare.

E cosa dire, in tempi relativamente più recenti,  dell’eroina keniana Mekatilili wa Mwenza dei Mijikenda, vissuta a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento? Questa donna, nata nell’entroterra di Kilifi, fu la prima guerriera a combattere contro i britannici e per questo venne imprigionata in un campo di lavoro nel nord del Paese, dal quale riuscì a fuggire raggiungendo la città costiera di Malindi a piedi e riprendendo l’azione rivoluzionaria.  Per non parlare della regina Lozikeyi Dlodlo, succeduta de facto al marito re Lobegula nel governo del popolo Ndebele verso la fine del 1800. Si oppose tenacemente, sia con la diplomazia, ma anche con la forza militare, all’occupazione delle terre ad opera dei coloni bianchi, i quali, successivamente, crearono l’ex Rhodesia (oggi Zimbabwe). Sulla stessa scia, fu emblematico il ruolo delle donne di Calabar e Owerri che furono le protagoniste della celebre sommossa, ricordata ancora oggi, come “Rivolta delle donne  Aba” che si oppose ai militari della corona britannica nel 1929. Pertinente è l’osservazione di Nanjala Nyabola, autorevole analista politica keniana, secondo cui, nonostante vi siano state nella storia africana figure di questo calibro, nel corso prima del colonialismo e poi successivamente dopo le indipendenze dai regimi coloniali, si è radicata, a livello continentale, «un’idea patriarcale dei ruoli — introdotta dal patriarcato europeo e scambiata per una presunta tradizione africana — che di fatto ha cancellato il ricordo delle donne che hanno ricoperto cariche a livello di leadership».

Ma oggi le cose stanno gradualmente cambiando. Ad esempio, l’elezione della signora Sahle-Work Zewde alla massima carica dello Stato in Etiopia, avvenuta il 25 ottobre dello scorso anno, ha rappresentato un significativo coronamento dell’impegno dell’attuale primo ministro Abiy Ahmed, nel valorizzare le donne del suo Paese. Il fatto stesso che Abiy abbia formato il suo esecutivo per metà proprio con donne, la dice lunga. Diplomatica di lungo corso, la Zewde ricopriva fino al giorno in cui è divenuta presidente la carica di rappresentante del segretario generale delle Nazioni Unite  António Guterres  presso l’Unione africana (Ua).

Attualmente la percentuale delle donne africane negli organismi legislativi dell’Africa subsahariana è attorno al 24 per cento e a livello continentale, il Rwanda ha il più alto numero di donne in parlamento (63,8 per cento dei seggi) e, grazie al ricorso sempre più diffuso al sistema delle quote, nella maggior parte dei Paesi dell’Africa orientale e meridionale le donne rappresentano più del 30 per cento dei parlamentari.  Abituate da sempre a fare i conti con la quotidianità della vita e con la sfida della sopravvivenza, le donne africane hanno compiuto in questi anni notevoli progressi nella vita non solo politica, ma anche economica e culturale a tutti i livelli. Sviluppi significativi hanno innescato una loro maggiore visibilità nella difesa dei diritti, fornendo competenze per sostenere il cambiamento.

Sono proprio loro che, di fronte alle prevaricazioni del potere, hanno difeso le prerogative calpestate dai satrapi di turno, dalla Liberia alla Sierra Leone, dalla Repubblica Democratica del Congo alla Somalia, dall’Uganda al Sudan. Illuminante, a questo proposito, è il pensiero della scrittrice camerunese Werewere Liking, nel suo libro «La memoria amputata». Con tono gioioso, parla di miriadi di donne «laboriose che fanno girare instancabilmente la ruota del divenire di questo continente, nell’oblio delle loro storie dolorose e infelici». Proprio come fecero, durante la seconda guerra civile sudanese (1983-2005) le donne della Sudan’s Women’s Alliance, della Sudan Women’s Association di Nairobi, della New Sudan Women’s Federation e della Sudan Women’s Voice for Peace, tutte organizzazioni femminili che diedero il loro contributo fattivo al processo di pace, mostrando sicuramente più interesse dei loro mariti per le condizioni di miseria della popolazione civile sudanese stremata dalle violenze. Un impegno che molte di loro hanno proseguito recentemente nei due Sudan, divisi a seguito del referendum del 2011, anche nelle sedi istituzionali sia a Khartoum come anche a Juba. Una cosa è certa: la forza d’impatto delle donne africane si evince anche dai numeri: esse rappresentano il 70 per cento della forza agricola del continente e gestiscono la vendita delle derrate alimentari per l’80 per cento. Le donne, inoltre, da decenni sono protagoniste nella microfinanza, consentendo la nascita di migliaia di piccole imprese. Esse svolgono con sagacia la formazione in tanti ambiti della società civile, come attività di lobbying, ricerca, educazione civica e nei servizi sociali, lottando spesso per includere nelle costituzioni clausole di equità contro ogni genere di discriminazione. E cosa dire del loro contributo nella difesa della salute, soprattutto contro il morbo dell’hiv/Aids e della malaria? Sono loro (molte delle quali religiose cattoliche) che svolgono spesso formazione sanitaria nei villaggi, impegnandosi in prima linea contro le pratiche tradizionali dell’infibulazione e della mutilazione genitale. Allora, anche se è inevitabile che l’Africa continui a sperimentare, chissà per quanto, le difficoltà determinate dalla globalizzazione, l’avvenire del continente è aperto alla speranza. Lo ha cantato a squarciagola nei suoi lunghi anni d’esilio la compianta Miriam Makeba, testimone della sete di libertà del popolo nero sudafricano. E ha continuato a cantarlo fino alla morte, sopraggiunta a Castel Volturno, in Italia il 9 novembre 2008. D’altronde, come recita un proverbio africano: «In Africa se educhi un bimbo educhi un uomo, se educhi una bimba educhi una nazione».

Roma, storie per ritrovare la nostra città

“Ho ricevuto Walter Veltroni. Mi ha regalato il suo ultimo libro e ho avuto con lui una piacevole chiacchierata”. Chi leggesse queste righe, non penserebbe mai alle parole di un esponente del M5S. Invece lo sono. Si tratta infatti del sindaco di Roma, Virginia Raggi, che in un post su Twitter ha voluto segnalare l’incontro con una figura importante del mondo della Sinistra, il primo Segretario del Partito democratico, nonché ex primo cittadino in Campidoglio. Naturalmente è solo un piccolo segnale, ma significativo, di un’operazione di dialogo che diversi esponenti politici delle rispettive forze parlamentari, a vari livelli, stanno provando a portare avanti. Una tela paziente e difficile da tessere, nella consapevolezza che le elezioni anticipate, in autunno, non convengono a nessuno.

Dicevamo del libro in oggetto (“Roma, Storie per ritrovare la mia città”, edito da Rizzoli). Spesso i libri dei politici sono utili per evidenziare un periodo storico, annunciare il ritorno sulle scene, o regolare qualche conto interno, rimasto in sospeso. Non tutti, però. Quello scritto da Walter Veltroni con Claudio Novelli è un libro non effimero. Ha il pregio della concretezza, restituisce il senso della memoria, conferma quello che i più attenti osservatori già sapevano da tempo e cioè quanto sia infondata l’idea dei nuovi governanti di essere sempre “all’anno zero” di ogni cosa. L’autore intende sfatare il mito della ingovernabilità di Roma, desidera ricostruire la sua esperienza amministrativa “per un dovere nei confronti della nostra memoria collettiva”. E infine, o soprattutto, il motivo politicamente più rilevante destinato al “nuovo ceto politico al quale guardo con rispetto” è “l’idea dei nuovi potenti di essere sempre l’anno zero di ogni cosa, di dover dimostrare che prima del loro arrivo tutto era un disastro”. L’anno zero, il mantra ripetuto all’infinito dalla giunta M5S fin dal suo insediamento, ormai tre anni fa.

Veltroni ricostruisce nel dettaglio (quasi mese per mese) i sette anni trascorsi alla guida del Campidoglio, dal giugno 2001 al febbraio 2008. Il libro è, necessariamente, anche il racconto di grandi iniziative urbanistiche. Il nuovo Auditorium, primo complesso del suo genere in Europa e secondo in assoluto nel mondo dietro il Lincoln Center. La rinascita di due parchi storici, come villa Torlonia e villa Borghese. La casa del Cinema, la casa del Jazz, la nuova stazione Tiburtina. L’ampliamento della linea B1 della Metropolitana. Il volume è anche il diario di una intensa stagione di iniziative culturali (“La cultura è un potente agente di ricucitura della città e per Roma è il più forte traino di crescita del lavoro, dell’economia urbana”, scrive l’autore), una serie di “grandi e piccoli eventi raccontati quasi con frenesia, come se le 400 pagine non bastassero”, come osserva Gigi Proietti che con Renzo Piano e il vescovo di Bologna, Matteo Zuppi, hanno firmato le tre prefazioni del volume.

Ma ci sono anche le tante manifestazioni dell’estate romana, soprattutto nei quartieri periferici, ampliando quella che fu una grande idea del Sindaco Luigi Petroselli, sul finire degli anni Settanta. Il libro farà discutere, e il dibattito farà comunque bene a una città e a un tessuto sociale urbano oggi in profonda crisi.

Fca-Renault si ritenta

Le diplomazie di Fiat Chrysler Automobiles e di Renault starebbero lavorando per capire se ci sono margini per riaprire le negoziazioni.

Anche se in realtà, questa nuova trattative è più che altro spinta dagli investitori, i primi ad aver puntato sulla bontà del progetto, una volta annunciato.

Poco importa dei diktat annunciati da Nissan.

Le diplomazie al lavoro sembrano già aver trovato una soluzione.

Un’ipotesi potrebbe passare proprio per una presa meno stretta di Renault su Nissan, vendendo parte 43,4% delle azioni che ha in mano o in qualche modo congelandone il peso.

Così nell’eventuale holding che si creerebbe in Olanda Anche Nissan avrebbe diritto di voto.

Milano: parte il piano socialità

Il Comune potenzierà l’assistenza domiciliare fornita già durante l’anno agli anziani e alle persone con disabilità seguiti dai Servizi territoriali, estendendoli anche a una fascia di cittadini che durante l’estate, complice il caldo e l’assenza di familiari, badanti o vicini di casa, possono trovarsi in difficoltà.

Le richieste possono essere effettuate chiamando il numero verde gratuito 800.777.888 che è attivo dalle 8 alle 19, dal lunedì al sabato e, in caso di ondate di calore segnalate dai bollettini Ats, sarà in funzione anche la domenica con gli stessi orari. La linea telefonica rimane attiva anche oltre la stagione estiva per rafforzare i servizi che già si occupano della lotta alla solitudine soprattutto per le categorie più fragili, come gli anziani.

Durante i mesi estivi, agli operatori sarà possibile richiedere interventi assistenziali tra cui: consegna di pasti a domicilio, assistenza domiciliare per l’igiene della persona e la pulizia della casa, telefonate e visite, aiuto domestico con accompagnamento per spesa e per visite mediche.

Il piano di interventi del Comune si svolgerà in due fasi: durante la prima, che durerà fino al 28 luglio, gli interventi richiesti sono organizzati dagli operatori del Comune, attraverso i servizi territoriali dedicati, dal lunedì al venerdì dalle ore 8 alle 17 e, in presenza di ondate di calore, dalle 8 alle 19, sabato, domenica e festivi compresi. Durante la seconda, dal 29 luglio all’1 settembre, la Centrale Operativa cui far pervenire le richieste attraverso il numero verde sarà attiva dalle 8 alle 19, compresi sabato, domenica e festivi.

Ai servizi, offerti a tutte le persone con fragilità o non autosufficienti, si accede su base volontaria, per cui fondamentali sono le segnalazioni di familiari, parenti, vicini di casa e conoscenti per evidenziare le situazioni di maggiori difficoltà. Le iniziative dedicate agli anziani non riguarderanno solo l’ambito dell’assistenza, ma anche quello della socialità e coinvolgeranno le strutture ricreative dedicate agli anziani e gli spazi aggregativi dove sono presenti i custodi sociali.

3° Conferenza nazionale sulla Sharing Mobility

Il nuovo modello di mobilità condivisa continua la sua crescita e la sua evoluzione in Italia e nel Mondo. Per fare il punto su tutte le tendenze in atto, il 27 giugno prossimo si svolgerà a Roma la 3° Conferenza nazionale sulla Sharing Mobility, organizzata dall’Osservatorio nazionale Sharing Mobility presso la Sala Esquilino nella cornice dell’ala Mazzoniana della Stazione Termini. 

La Conferenza si  svolgerà nell’ arco della  giornata. Durante la mattina saranno presentati i contenuti del 3° Rapporto nazionale sulla sharing mobility e saranno discussi, con la partecipazione di esperti nazionali e internazionali, dati e trend aggiornati della mobilità condivisa in Italia. Nel corso della mattinata, inoltre, Deloitte presenterà in esclusiva un’analisi industriale e sociale relativa agli scenari presenti e futuri della Nuova Mobilità.

La 3° Conferenza nazionale sulla Sharing Mobility è realizzata in partnership con Deloitte e nugo, in collaborazione con il Green City Network. (programma allegato)

Supercomputer, risorsa strategica per il futuro dell’industria europea

L’impresa comune europea per il calcolo ad alte prestazioni ha selezionato in 8 Stati membri gli altrettanti siti per centri di supercalcolo che ospiteranno le nuove macchine volte all’elaborazione automatica dell’informazione ad alte prestazioni. Strumenti indispensabili per lo sviluppo di nuove applicazioni in un’ampia gamma di settori che andrà dalla progettazione di medicinali e nuovi materiali alla lotta ai cambiamenti climatici. I siti ospitanti saranno a Bologna, Ostrava (Cechia), Sofia, Kajaani (Finlandia), Bissen (Lussemburgo), Minho (Portogallo), Maribor (Slovenia) e a Barcellona. Le infrastrutture sosterranno lo sviluppo di applicazioni importanti in ambiti quali la medicina personalizzata, la progettazione di farmaci e materiali, la bioingegneria, le previsioni meteorologiche e i cambiamenti climatici. In totale, 19 dei 28 Paesi partecipanti all’impresa comune faranno parte dei consorzi che gestiranno i centri e il bilancio complessivo, con i fondi dell’Ue, sarà pari a 840 milioni di euro. Le modalità precise di finanziamento dei nuovi supercomputer verranno integrate nelle convenzioni di accoglienza che saranno firmate a breve.

Oggi le capacità di calcolo ad alte prestazioni sono fondamentali per generare crescita e occupazione, ma anche per l’autonomia strategica e l’innovazione in qualsiasi settore. Il supercalcolo può essere utilizzato in tanti diversi di settori. Può, ad esempio, prevedere l’evoluzione dei modelli meteorologici locali e regionali e le dimensioni e i percorsi di tempeste e inondazioni, consentendo di attivare sistemi di allerta precoce per fenomeni meteorologici estremi. Il supercalcolo è utilizzato anche nella progettazione di nuovi medicinali, per risolvere complesse equazioni fisiche che modellano i processi molecolari e le interazioni di un nuovo farmaco con i tessuti umani. Anche le industrie del trasporto aereo e automobilistico lo utilizzano per effettuare simulazioni complesse e testare singoli componenti, interi aeromobili e autoveicoli. Essendo inoltre fondamentali per realizzare simulazioni su vasta scala e per l’analisi dei dati, i supercomputer sono un elemento fondamentale nello sviluppo dell’intelligenza artificiale e per rafforzare la posizione europea in ambito di cybersicurezza e blockchain.

L’impresa comune, insieme ai siti ospitanti selezionati, prevede di acquisire 8 supercomputer: 3 precursori di macchine a esascala (in grado di eseguire oltre 150 petaflop, ovvero 150 milioni di miliardi di calcoli al secondo), che saranno tra i 5 migliori al mondo, e 5 macchine a pentascala (in grado di eseguire almeno 4 petaflop, ovvero 4 milioni di miliardi di operazioni al secondo). I precursori dei sistemi a esascala avranno una potenza di calcolo 4-5 volte maggiore rispetto agli attuali sistemi di supercalcolo di punta del partenariato per l’informatica avanzata in Europa. In questo modo sarà possibile raddoppiare le risorse disponibili per il supercalcolo a livello europeo, il che significa che potranno accedervi molti utenti in più.

Nei prossimi mesi l’impresa comune firmerà convenzioni con i soggetti ospitanti selezionati e con i rispettivi consorzi ospitanti. Tali convenzioni rispecchieranno il funzionamento della procedura di appalto per l’acquisizione delle macchine e gli impegni di bilancio della Commissione e dei paesi membri. I supercomputer dovrebbero diventare operativi nella seconda metà del 2020 per gli utenti europei provenienti dal mondo accademico, dall’industria e dal settore pubblico. Tutti i nuovi supercomputer saranno collegati alla rete paneuropea ad alta velocità Geant, come i supercomputer esistenti che fanno parte del partenariato per l’informatica avanzata in Europa.

I turbanti fatti dalle detenute di San Vittore

Usciranno dalla sartoria del carcere di San Vittore e saranno a disposizione delle donne in cura all’Istituto nazionale per i tumori, nella stessa Milano: sono turbanti colorati, trasformati in accessori alla moda e nel simbolo di un’alleanza fra detenute e malate.

Il progetto si chiama “La vita Sotto il turbante” ed è nato dalla collaborazione tra l’associazione Go5-Per mano con le donne, una Onlus dedicata alle pazienti del reparto di Ginecologia Oncologica dell’Istituto dei Tumori di Milano, e la Cooperativa Alice per Sartoria SanVittore.

L’idea è venuta alle volontarie di Go5 e si è poi concretizzata fino ad ottenere, grazie all’attenzione dell’assessorato alle Politiche Sociali, il patrocinio del Comune di Milano e della Camera Penale di Milano.

L’innovazione nasce dalla tradizione e dall’uomo. Intervista ad Andrea Granelli

Tratto dall’Osservatore Romano in edicola oggi

Andrea Granelli, esperto di digitale e sensibile ai temi dell’impatto delle nuove tecnologie sull’uomo e sulle organizzazioni entra nella conversazione avviata su queste pagine dalla riflessione di Giuseppe De Rita sulla crisi della società occidentale e il ruolo dei cattolici e lo fa partendo dall’analisi della tecnologia — in primis quella digitale — nell’era contemporanea e delle sue capacità trasformative che richiedono una nuova etica e una conoscenza non solo tecnica ma anche sapienziale che rimetta al centro i valori, l’uomo integrale, l’ambiente visto come casa comune.

Partiamo dalle elezioni europee cercando di andare oltre le derive del sovranismo.

Un dato che mi sembra degno di nota è l’emergenza dei verdi in Europa che indica una visione della politica che va oltre l’attuazione di un programma e che richiede valori, progetti lunghi, sogni. Mettere al centro del pensiero politico solo un programma con gli elettori è molto pericoloso, soprattutto in un contesto in continua evoluzione. Molte delle questioni che la politica deve affrontare non erano così evidenti o urgenti durante la stesura di questo documento. Inoltre il programma rischia di trasformarsi da mero strumento in vero e proprio fine. Quando la discussione politica si anima (e va in profondità) il discorso viene sempre interrotto da due affermazioni: o “non è nel programma” (e quindi il tema diventa automaticamente non rilevante né urgente) o “è nel programma” (e quindi deve essere fatto necessariamente e acriticamente, anche se il contesto è nel frattempo mutato). È un po’ come a scuola quando il professore pone come priorità il dovere di finire il programma rivelando che forse si è perso il senso dell’esperienza scolastica. Rimettere l’ambiente al centro è quindi un ottimo punto di partenza per riallenare l’uomo a ricostruire una visione lunga e densa di valori. E soprattutto a rileggere l’ambiente come casa comune, come creato che richiede una custodia e non una tutela che rischia di imbalsamarlo. In questo l’enciclica Laudato si’ ha avuto, a mio parere, un ruolo centrale che deve produrre ancora molti frutti. Anche il nuovo vocabolario introdotto — conversione ecologica, antropocentrismo dispotico, tecnocrazia, grido della Terra — arricchisce la discussione e le prospettive, cambiando la natura del dibattito e togliendo l’esclusività della tutela ambientale dalle mani degli ambientalisti, senza nulla togliere al loro straordinario contributo: il compito è infatti di tutti; nessuno si può tirare indietro e ignorare il grido della terra.

Come si può riaccendere, allora, la passione politica anche nel nostro Paese?

È forse una delle sfide più importanti e complesse del prossimo decennio: “reingaggiare” i cittadini alla vita politica. Non ci sono infatti solo i Neet («not (engaged) in education, employment or training») di tipo economico. Ben più preoccupanti sono i Neet politici, ricondotti oggi alla banale e poco minacciosa statistica dei “non votanti” e dove le cause della loro non partecipazione vengono ricondotte a banali schematizzazioni calcistiche (“non c’è una squadra che valga la pena votare”). Come ci ricorda padre Giovanni Cucci nel suo ultimo libro, la felicità richiede non solo di avere qualcosa di cui vivere e qualcosa per cui vivere, ma anche qualcosa per cui morire, una ragione, dunque, che dia senso alla vita stessa, una ragione per cui valga la pena lottare fino in fondo, una ragione che trascenda la nostra esistenza di individui. Non stiamo vivendo un’epoca di cambiamento ma un vero e proprio cambiamento d’epoca, ha osservato Papa Francesco, e noi oggi siamo nella terra di mezzo, nell’epicentro del cambiamento sospesi fra un “non più” e un “non ancora”, per riprendere le riflessioni sul tempo di sant’Agostino rilette da Bauman con la lente della modernità. Si deve allora aprire una riflessione educativa su come reintrodurre il senso civico e il gusto per la politica; riflessione educativa che individui soluzioni concrete per controbilanciare lo strapotere del pensiero economico e l’invadenza della tecnica; è la soluzione non può che essere aumentare la presenza delle humanities, le scienze dell’uomo, sull’uomo e per l’uomo. Bisogna ridare dunque centralità alla sapienza antica, che arricchisce la conoscenza di gusto, sapidità oltre che di valori morali, che insegna a ricercare le informazioni e le idee non solo sane e nutrienti ma anche gustose, fornendo una prospettiva diversa, più ampia al problema delle fake news e a possibili soluzioni. E inoltre bisogna saper leggere gli indizi per anticipare il futuro che già si manifesta. Ciò che è sempre più evidente è che la visione lineare del tempo del progresso alimentato dall’innovazione tecnologica si è interrotta; o meglio che quella crescita lineare non era che la fase ascendente di un ciclo. Il grande filosofo Vico lo aveva capito molto tempo fa e noi stiamo scoprendo solo oggi la concreta possibilità di essere entrati in un “ricorso” storico, con il rischio reale di tornare ai “tempi barbari”. Questa riscoperta dei corsi e ricorsi della storia può dare però una nuova centralità alla terza età. Anche qui è preziosa ma per ora inascoltata l’intuizione di Papa Francesco. La loro rilevanza — economica e sociale — nell’Occidente e soprattutto in Italia è evidente anche se poco discussa se non nelle sue dimensioni problematiche: l’anno scorso, in Italia, la popolazione “over 60” ha superato in numero quella “under 30”. Ma se il tempo non è lineare ma ciclico, se molti fenomeni ritornano — anche se con forme diverse —, l’esperienza di chi ha già visto e vissuto, la saggezza cioè degli anziani, può ritornare a essere utile. Per questi motivi una delle sfide economiche e sociali sarà costruire un nuovo patto intergenerazionale dove il coraggio e l’esuberanza giovanile potranno essere mitigati e complementati dalla saggezza dei senior, riconoscendo finalmente — come ha mirabilmente notato Hilman nel suo Senex et puer— che junior e senior non sono altro che due facce dell’umano: «L’anima non è né giovane né vecchia, o meglio, è entrambe le cose».

Lei ha scritto un paio di libri sul “lato oscuro del digitale” non sempre compresi. Come si può contrastare lo strapotere della tecnologia?

Il fenomeno — soprattutto nel digitale — sta assumendo proporzioni preoccupanti. I lati oscuri del digitale sembrano dovunque: sono molto diversi (non riconducibili a semplici casistiche), nascono e si propagano ognidove e soprattutto sembrano incontenibili.

Le cause di questa esplosione sono molte: un po’ perché la tecnologia è sempre più potente e diffusa (e quindi potenzialmente pericolosa) ma soprattutto perché se ne è parlato pochissimo. Vuoi per l’omertà dei fornitori di soluzioni digitali, vuoi per l’incompetenza velata di “buonismo utopico” di molti sedicenti “evangelisti” del digitale, vuoi per la paura di molte grandi aziende di ammettere di essere cadute in qualche trappola digitale.

Dobbiamo però ricordare che il lato oscuro è strutturale alla tecnologia, ne è una componente inseparabile. Notava Paul Virilio che «la tecnologia crea innovazione ma — contemporaneamente — anche rischi e catastrofi: inventando la barca, l’uomo ha inventato il naufragio, e scoprendo il fuoco ha assunto il rischio di provocare incendi mortali». Per questa sua specificità non è facile eliminare il lato oscuro perché, come nel caso della zizzania, si rischia di sradicare anche il grano.

La soluzione va cercata non al di fuori ma nella tecnica stessa e nei suoi processi di selezione, incentivazione e adozione: «Dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva» scriveva Friedrich Hölderlin. Serve dunque il pensiero critico, la capacità di discernimento, una forma più adulta e completa di etica della tecnologia, che richiede non solo una comprensione fine della tecnologia e delle sue dinamiche ma anche dei processi sottesi. Ad esempio i criteri di finanziamenti della ricerca, le regole di validazione di una “buona” tecnologia, le modalità di formazione dei decisori e degli utilizzatori. Prendiamo quest’ultimo tema. Oggi serve educazione al digitale e non semplice addestramento all’uso di specifiche procedure. I decisori devono comprendere non solo le funzionalità messe a disposizione ma anche le implicazioni, gli effetti collaterali, le pre-condizioni di utilizzo, i lati oscuri… Nel frattempo, però, la politica e i media hanno sdoganato l’espressione “alfabetizzazione digitale” che non punta certo a questo cambiamento di mentalità; anzi genera fra manager e imprenditori (anche dello stesso settore digitale …) tre tipi di comportamenti problematici:

— essere un credulone: non sapere di non sapere, fidandosi del proprio intuito, di quanto si leggiucchia sulla Rete e rifiutando il sapere scientifico e il parere dei “veri esperti”;

— fare lo struzzo: non voler vedere le crescenti dimensioni problematiche del digitale e considerare marginali i possibili rischi e impatti negativi;

— fidarsi solo della tecnica: pensare che il digitale e Internet siano una grande piattaforma (e cioè strumento) tecnico che possa essere gestito semplicemente padroneggiandone i comandi principali; e se qualcosa non funziona, una nuova tecnologia risolverà il problema.

Un’efficace Digital Transformation dipende infatti quasi interamente dal rafforzamento (e centratura) dei fattori umani a valle della Digital Automation, cioè dell’introduzione in azienda di strumenti e ambienti digitali. Dipende, cioè, dalla possibilità di mobilitare competenze digitali di qualità, competenze che vanno molto oltre la banale alfabetizzazione digitale e richiedono una vera e propria educazione al digitale. Dobbiamo dunque puntare a una tecnica che potenzi l’uomo e non lo sostituisca. Nei meccanismi di incentivazione e orientamento nello sviluppo della tecnologia (digitale ma non solo) si scontrano infatti due ideologie: quella di tipo industriale, che vorrebbe sostituire l’uomo con macchine, robot e intelligenza artificiale, e quella di tipo artigianale, che invece vede la tecnologia come potente utensile che rafforza la mano, non la sostituisce.

Ma i valori artigiani resistono nell’era della tecnica e del digitale diffuso?

Resistono e molto. I valori artigiani sono sempre contemporanei, poco nostalgici, stanno stare al passo con i tempi. È il loro racconto, o i pregiudizi e stereotipi a essi collegati, che spesso li deformano e tendono a rappresentarli come il retaggio di un passato polveroso. Nulla di più sbagliato. La metafora del fare artigiano, dell’uomo industrioso ha radici antiche e potenti. Dio vasaio, Dio che “formò l’uomo dalla polvere della terra e alitò nelle sue narici un soffio vitale, e l’uomo divenne persona vivente”, Giuseppe falegname. L’arte che dà forma e vita agli oggetti inanimati è tipicamente artigiana e si arricchisce con le nuove tecnologie, purché siano quelle giuste e usate in modo corretto: purché siano, potremmo dire, antropologicamente armoniche.

Papa Francesco ha usato spesso metafore collegate al mondo artigiano: «La formazione è un’opera artigianale, non poliziesca. Dobbiamo formare il cuore». «Dio prepara la strada per ciascun uomo. Lo fa con amore: un “amore artigianale”, perché la prepara personalmente per ognuno». Particolarmente potente è la beatitudine relativa agli artigiani di pace: «Fare la pace è un lavoro artigianale: richiede passione, pazienza, esperienza, tenacia». Infatti il valore artigiano non si esprime solo con il lavoro delle mani. Camillo Olivetti, straordinario padre di un altrettanto straordinario Adriano, notò che «non vi è divisione netta tra lavoro manuale e lavoro intellettuale: tutti i lavori, se fatti bene, richiedono uno sforzo d’intelligenza».

D’altra parte se entriamo nel profondo di una parola molto legata al valore artigiano — tradizione — essa viene, come noto, dal latino tradere e indica la consegna di qualche cosa di importante (un ordine precostituito, un sistema preesistente), la cessione del suo possesso a un altro; indica dunque una continuità — nella cosa ceduta — ma sempre un cambiamento; perciò richiede uno “slegarsi dal passato per prepararsi al futuro” e non l’“attaccamento nostalgico al passato che vuole essere riproposto così com’era per il presente e futuro”. Pertanto la consegna di una tradizione richiede sempre una traduzione, espressione simile che deriva a sua volta dal latino trans e ducere e indica il portare oltre. Tradurre vuol dire dunque comprendere tutto quello che un testo dice e riportarlo con completezza ed efficacia in un’altra lingua, lontana magari nel tempo e/o nello spazio (trans loca et tempora ducere) ma senza perdere il significato autentico. In questo processo vi è sempre, come noto, un rischio: il tradimento — che peraltro nell’italiano antico era detto tradigione — che sorge quando il vecchio sistema di regole viene abbandonato a favore della novità. Questa semplice analisi etimologica ci suggerisce che la tradizione ha sempre nel suo processo un fare innovativo, una traduzione e adattamento al nuovo contesto. Ma quando la traduzione, la consegna, non tiene più conto delle origini — è quindi radicale, disruptive — allora diventa tradimento. Per questo motivo tradizione artigiana è innovativa ma cresce con l’uomo, i suoi valori, le sue capacità, mentre l’innovazione radicale, quella esclusivamente tecnologica, rischia di essere alienante, riducente: un vero e proprio tradimento.

Ma quindi si può innovare anche senza capitali, laboratori e super-laureati?

Certamente sì. Ci sono molte forme di innovazione e tutte necessarie. La sfida dell’Italia non è l’innovazione radicale, nella ricerca di una nuova molecola per un farmaco, nella progettazione di un nuovo dispositivo iper-tecnologico e globalizzato. La nostra sfida è modernizzare un sistema produttivo fatto di piccole, piccolissime imprese e professionisti e diffuso sul territorio; è di proteggere, valorizzandolo, il nostro patrimonio culturale, ricchissimo, meraviglioso ma fragile; è di tutelare la diversità biologica e la ricchezza enogastronomica e il loro essere incastonate in un paesaggio fortemente antropizzato. Per questi motivi serve un’innovazione che fiorisca dalla tradizione e non ne sia la contrapposizione. Non si tratta di non credere nella conoscenza scientifica — sempre più importante, necessaria — ma di attingere ai suoi saperi in modo critico, di metterla in discussione, di rileggerla da una diversa prospettiva facendo domande spiazzanti e soprattutto di rendersi conto che la tecnologia, la scienza è solo uno degli ingredienti dell’innovazione e della sostenibilità. Anche i contesti d’uso e le sfide sociali contribuiscono ad alimentare il pensiero innovativo. È sempre più necessario “fare i conti con la dismisura”, per usare il suggerimento che Elena Granata propone nel suo ultimo libro e imparare dalle straordinarie — quasi incredibili — innovazioni urbane avvenute a Bogotá, a Medellin, a Constitución. Vijay Govindarajan, professore di Harvard anche lui “venuto dalla fine del mondo” ha coniato una espressione efficace per indicare questa innovazione dal basso, fuori dagli schemi, che parte dai bisogni estremi e non dalle possibilità offerte dalla tecnica: reverse innovation. Un’innovazione che inverte la direzione e non si origina più dai laboratori delle multinazionali ma dai contesti urbani più sfidanti.

La crisi della società italiana, evidenziata dall’emergere del tema delle identità, pone ai cattolici una responsabilità: cosa possono fare, quale il ruolo dei cattolici nell’attuale situazione italiana ed europea?

Credo che il ruolo principale sia aiutare a ricostruire un’identità — sia come individui che come collettività e come parte del creato — che includa e sia generativa. Mi viene in mente il progetto olivettiano che ha sempre visto Ivrea come luogo identitario, terra dove le radici potevano trovare nutrimento e protezione e dove una parte dei frutti generati dall’albero ricadevano in modo naturale restituendo il nutrimento ricevuto. Ma la forza di quelle radici consentiva la crescita dei rami oltre lo spazio del tronco e le foglie e i germogli — grazie al vento — si propagavano ben oltre, portando fertilità e vita in altri luoghi.

Credo che l’identità vada riletta non come corazza protettiva ed escludente ma come appiglio che consenta il dialogo e l’apertura verso le diversità senza timore di cadere spersonalizzandosi. L’identità si manifesta grazie a un progetto che unifica e allora l’esortazione di Papa Francesco nella messa di inizio Pontificato ci fornisce, ancora oggi, un’indicazione preziosa: essere “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura. Un progetto di vita, dunque, che ci consente di superare — gettandoci oltre — gli ostacoli e i pericoli del sovranismo e dei “prima gli …”.

 

Merlo: La “sinistra al caviale”

Già pubblicato su Huffingtonpost

Che il centro sinistra, in Italia, vada ricostruito dalle fondamenta è un dato che ormai non fa neanche più notizia. Che sia politicamente tramontata la cosiddetta “vocazione maggioritaria” del Partito democratico è un dato altrettanto indiscutibile. Che sia necessario, in un sistema fortemente proporzionale, rideclinare la “cultura delle alleanze” per competere ed eventualmente vincere le elezioni è un aspetto da cui non si può più prescindere.

Ora, per affrontare seriamente questa situazione, va rimessa in campo una coalizione credibile, seria, plurale e di governo. Una coalizione che, però, non può più essere decisa e pianificata a tavolino. Come pensano in modo un po’ surreale Calenda e il neo segretario del Pd Zingaretti. La concezione gramsciana dell’egemonia non è pertinente con la fase storica che stiamo vivendo e i partiti o i movimenti che fanno parte della potenziale alleanza non possono essere decisi dall’alto. Innanzitutto perché sarebbe un’operazione politicamente ed elettoralmente fallimentare e, in secondo luogo, perché una coalizione è tale se rappresenta realmente pezzi di società veri, interessi sociali riconoscibili e valori culturali vissuti e radicati. L’esatto contrario di operazioni aristocratiche ed elitarie decise e pianificate dall’alto.

Ora, se da un lato è necessario aprire realmente il cantiere politico, culturale e programmatico della futura coalizione facendo sì che la sinistra ritorni a fare la sinistra e il centro a fare il centro, c’è un nodo antico che continua a non essere sciolto. O meglio, molti ne sono a conoscenza, ma fingono di non saperlo. Mi riferisco, per citarlo con parole ormai collaudate, alla presenza della cosiddetta “sinistra al caviale”. Al netto della polemica politica e del disprezzo verso tutto ciò che è riconducibile alla sinistra o al mondo progressista, è indubbio che da troppo tempo nel nostro paese alcuni “maitre a penser” della sinistra italiana trasmettono, forse anche inconsapevolmente, un messaggio elitario, aristocratico, alto borghese che si identifica con un “ceto sociale” radicalmente estraneo ed esterno a tutto ciò che può essere riconducibile, anche solo vagamente, ai ceti popolari, ai loro bisogni, alle loro esigenze e alle loro aspettative. Anche qui, lo sanno tutti ormai, i bisogni e le aspettative dei ceti marginali, periferici, più poveri e meno tutelati sono intercettati e rappresentati da altri. Ieri l’altro addirittura da Berlusconi, ieri dai 5 stelle e oggi in massa dalla Lega di Matteo Salvini. Del resto, ci sarà pure un perché se questi bisogni popolari ed interessi sociali non guardano più a sinistra neanche con il binocolo. Ed è proprio su questo versante che si inserisce il dibattito sulla “sinistra al caviale” o, per dirla con un linguaggio ancor più attuale, sulla “sinistra da Ztl”, quella dei centri storici e del centro delle grandi città. Come, puntualmente si è verificato nelle ultime elezioni europee ed amministrative. Ed allora sorge, in modo quasi spontaneo, una domanda molto secca: ma perché la sinistra italiana continua a fidarsi ciecamente degli esponenti – noti a tutti, senza neanche il bisogno di fare nomi e cognomi – riconducibili alla cosiddetta “sinistra al caviale”? È così difficile arrivare alla conclusione che quando i punti di riferimento più popolari e noti della sinistra sono ricchi milionari ed espressione degli interessi alto borghesi con stili di vita che solo una porzione ridottissima di italiani può permettersi, dicono poco o nulla ai ceti popolari e ai loro bisogni che si vorrebbe rappresentare? E, di conseguenza e come ovvio, proprio quei ceti e quegli interessi sociali guardano altrove e votano, in massa, partiti e movimenti che con la sinistra non hanno più nulla con cui spartire.

Forse ha ragione Massimo D’Alema quando, con la consueta chiarezza ed efficacia argomentativa, individua nella “rottura sentimentale” la ragione decisiva della crisi della sinistra nei luoghi più popolari della società italiana e la difficoltà, di conseguenza, nel rappresentarli politicamente e culturalmente. Sotto questo versante, sarebbe auspicabile che anche il neo segretario del Pd non fingesse di non sapere che questo problema è tuttora sul tappeto e che prima o poi dovrà essere affrontato. Perché con questi “testimonial” alto borghesi, elitari ed aristocratici difficilmente si incrementano i consensi tra i ceti popolari.

Perché questo, alla fine, è un problema che riguarda l’identità e il ruolo della sinistra nella società italiana ma è anche, e soprattutto, un problema che riguarda l’intera coalizione di centro sinistra. Non capirlo significa regalare un vasto consenso elettorale e politico agli avversari da un lato e pensare veramente che, dall’altro, questi “testimonial” sono i migliori rappresentanti dell’attuale sinistra italiana. Con tanti saluti, però, ai ceti popolari, ai più disagiati, agli “ultimi” e a tutti coloro che nelle pubbliche occasioni si blatera di rappresentare e di farsi carico delle loro esigenze e dei loro problemi.

 

Poco ecologisti, non ancora sovranisti

Tratto dalla rivista il Mulino a firma di Dario Tuorto

Nei giorni scorsi l’istituto Swg ha rilanciato i risultati di un sondaggio secondo cui i giovani italiani avrebbero attribuito, in occasione della recente tornata elettorale, un ampio consenso alla Lega: ben il 38% di voti nella fascia di età 18-21 anni, poco meno nella fascia più adulta. Questo studio riprende le conclusioni di una ricerca precedente, condotta dal Pew Research Center in alcuni Paesi europei, che evidenziava l’anomalia dei giovani italiani: meno a sinistra dei loro coetanei esteri, meno progressisti sui diritti civili e sull’immigrazione, più euroscettici. Ma è davvero così trionfante l’onda sovranista tra le nuove generazioni?

Prima di lanciarsi in ardite interpretazioni è utile ricordare che dal voto europeo è possibile ricostruire unicamente le scelte della minoranza di giovani che si sono recati alle urne (attorno al 40%, secondo lo stesso sondaggio Swg), mentre assai poco si riesce a sapere di quegli elettori che non hanno partecipato perché presumibilmente meno motivati e interessati alla politica (saranno anche meno estremisti?). Fatta questa premessa necessaria, proviamo allora a rileggere il dato del 2019, ancora incerto nella sua articolazione, con uno sguardo assieme comparativo e retrospettivo.

La domanda da farsi non è tanto quanti consensi abbia conquistato la Lega tra i giovani, ma se (e quanto) i giovani abbiano votato in discontinuità con il resto della popolazione al punto da alimentare il cambiamento attraverso il loro voto differente. Da questo punto di vista è lecito avanzare qualche dubbio. La storia del voto giovanile in Italia ci ricorda che, mentre in passato le nuove coorti di elettori avevano più volte anticipato le tendenze generali (si pensi al successo delle sinistre negli anni Settanta o, nella stagione successiva, al riflusso dai partiti di massa), una spinta analoga non si è riproposta successivamente, se non in sporadiche occasioni.

Nella Seconda Repubblica le scelte dei giovani sono rimaste quasi sempre indistinte rispetto a quelle degli adulti, non riuscendo a spiegare il successo elettorale delle diverse formazioni, neppure di quelle nuove. L’unico vero momento di discontinuità c’è stato nel 2013, con il voto compatto per il M5S, ma già nel 2018 questa eccezionalità è rientrata e il partito, pur crescendo, non è riuscito a trattenere a sé una generazione politica. Alle elezioni dello scorso anno la proposta di Salvini ha guadagnato consensi, ma senza particolare convinzione tra i giovani. Sul totale degli elettori leghisti gli under 30 erano solo il 13%, meno della presenza media nella popolazione e molto meno del 47% di elettori nella fascia 31-60 anni (cfr. G. Passarelli e D. Tuorto, La Lega di Salvini, Il Mulino, 2018).

L’articolo completo è leggibile qui

 

Mattarella: “Giacomo Matteotti va considerato uno dei Padri della democrazia italiana”

Giacomo Matteotti va considerato uno dei Padri della democrazia italiana. Anche se il suo brutale assassinio venne compiuto agli inizi del regime fascista, impedendo al leader socialista di continuare la battaglia di opposizione e di partecipare poi alla costruzione della Repubblica, l’eredità politica e morale di Matteotti è contenuta nei valori della nostra Costituzione e della stessa comunità nazionale.
Il sequestro e l’uccisione del deputato che ebbe il coraggio di denunciare, nell’aula di Montecitorio, le violenze e i brogli che avevano caratterizzato le elezioni del 1924, rappresentarono una svolta tragica nella storia del Paese. L’indignazione che seguì a tanta barbarie, e che si espresse anche nella protesta aventiniana, purtroppo non impedì l’affermazione di un regime dittatoriale che segnò la fine del Parlamento e condusse l’Italia all’isolamento e al conflitto.
Gli ideali democratici che Matteotti interpretò e difese, insieme agli obiettivi di giustizia sociale e di pace tra le nazioni, si sono affermati con la liberazione e la Repubblica.
Questo anniversario è un giorno di memoria che chiama le diverse generazioni di italiani a riflettere sulle responsabilità comuni, affinché i presupposti civili della democrazia siano continuamente rinsaldati, e non sia più consentito a nessuno di comprimere le libertà e i diritti

La doppia vita dell’economia spagnola

Molto è stato scritto sull’economia spagnola . I dati macroeconomici,vedono la Spagna crescere ancora attorno allo 0,6% durante il secondo trimestre di quest’anno, ovvero il 2,3% annuo – oltre il doppio della media europea, ma inferiore al risultato del 2018.

E se da un lato, i servizi mantengono un impulso espansivo grazie al boom dei consumi pubblici e privati ​​e alla creazione di posti di lavoro e i principali indici di attività sono ancora orientati verso l’alto, in linea con una crescita dei servizi di mercato, che si aggira intorno al 3%.

Un’altra cosa è l’industria e buona parte del settore delle esportazioni , che sembra essere entrato in una fase di stagnazione. La produzione manifatturiera avanza di uno scarso 0,9% all’anno (con dati destagionalizzati fino ad aprile) come conseguenza dell’arresto del commercio internazionale, che influisce notevolmente su questo settore.

Tenendo, quindi, conto del forte calo del portafoglio ordini industriale al minimo dal 2013, le prospettive non sono rosee.

L’outlook è ancora più desolante nei principali paesi limitrofi, dove gli indici avanzati indicano una contrazione dell’attività industriale. Cosa che porterà anche la Spagna verso una diminuzione della sua spinta propulsiva.

 

La produzione industriale cala ancora

Ad aprile 2019 si stima che l’indice destagionalizzato della produzione industriale diminuisca dello 0,7% rispetto a marzo. Nella media del trimestre febbraio-aprile, permane una variazione positiva (+0,7%) rispetto al trimestre precedente.

L’indice destagionalizzato mensile mostra un aumento congiunturale, di rilievo, solo per l’energia (+3,6%); diminuzioni si registrano, invece, per i beni strumentali (-2,5%) e, in misura più lieve, per i beni intermedi (-0,7%) e i beni di consumo (-0,5%).

Corretto per gli effetti di calendario, ad aprile 2019 l’indice complessivo è diminuito in termini tendenziali dell’1,5% (i giorni lavorativi sono stati 20, contro i 19 di aprile 2018).

Gli indici corretti per gli effetti di calendario registrano ad aprile 2019 un aumento tendenziale esclusivamente per l’energia (+3,6%); al contrario, ampie diminuzioni contraddistinguono i beni strumentali (-3,8%) e i beni intermedi (-2,6%), mentre diminuiscono in misura più contenuta i beni di consumo (-0,6%).

I settori di attività economica che registrano variazioni tendenziali positive sono la fornitura di energia elettrica, gas, vapore ed aria (+5,8%) e le industrie alimentari, bevande e tabacco (+4,9%). Le flessioni più ampie si registrano nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-8,2%), nella fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-7,4%) e nella fabbricazione di macchinari e attrezzature n.c.a. (-6,2%).

Notre-Dame, prima messa dopo lʼincendio

Dopo l’incendio del 15 aprile 2019, che ha distrutto il tetto medievale e la guglia ottocentesca progettata dall’architetto Eugène Viollet-le-Duc sabato o domenica prossima  sarà celebrata la prima messa nella cattedrale di Notre-Dame.

Lo ha annunciato il rettore della cattedrale, monsignor Patrick Chauvet. Per i partecipanti, soltanto alcuni religiosi, sarà obbligatorio indossare un casco da cantiere.

 

 

In Europa il settore dei trasporti all’appuntamento con la digitalizzazione

I ministri dei Trasporti dell’Unione europea si sono riuniti a Lussemburgo concordando un orientamento generale sulla proposta riguardante le informazioni elettroniche sul trasporto merci, presentata dalla Commissione nel maggio 2018 nell’ambito della proposta l’Europa in movimento III per una mobilità sicura, pulita ed efficiente. Con questo accordo, il settore dei trasporti potrà avere una riduzione degli oneri amministrativi e flussi di informazioni digitali più fluidi. Il regolamento stabilirà un contesto armonizzato, congruo e affidabile per le comunicazioni elettroniche tra gli operatori del trasporto merci e le autorità competenti.

Sempre durante il Consiglio “Trasporti” della scorsa settimana, sono state adottate le relazioni sullo stato di avanzamento dei lavori sui fascicoli riguardanti la razionalizzazione delle reti transeuropee di trasporto (Ten-T), l’utilizzo dei veicoli noleggiati per il trasporto merci, nonchè i diritti dei passeggeri ferroviari. I Ministri hanno anche discusso di capacità e ritardi nel settore dell’aviazione adottando la proposta di semplificazione e aggiornamento delle norme sulla formazione e la certificazione dei marittimi. A margine del Consiglio, a seguito di un pranzo di lavoro e di una sessione ministeriale congiunta tra l’Ue e i Paesi del partenariato orientale, è stata firmata una dichiarazione comune.

Nella comunicazione “L’Europa in movimento – un’agenda per una transizione socialmente equa verso una mobilità pulita, competitiva e interconnessa per tutti”, la Commissione delinea una serie di iniziative legislative riguardanti il trasporto su strada. Il documento di lavoro che accompagna la comunicazione sottolinea come la mobilità sia il principale settore economico in tutto il mondo e come in Europa si registri una progressiva crescita delle attività di trasporto, tanto che entro il 2050 la mobilità passeggeri dovrebbe aumentare del 42%, mentre il trasporto merci del 60%.

Ictus

Lo stress, l’ansia, le preoccupazioni e i ritmi accelerati della vita, sembra predispongano  l’organismo ad una maggiore possibilità di ammalarsi e, oltre ad altri fattori quali l’invecchiamento e  la familiarità,  tendono a far aumentare  la pressione arteriosa e la probabilità di insorgenza di aritmie, favorendo la comparsa di alcune malattie quali ad esempio infarto miocardico ed ictus cerebrale.

L’Ictus si verifica quando si ha la chiusura o la rottura di un vaso cerebrale, che  interrompe  l’apporto di sangue ossigenato in un’area del cervello facendo perdere le funzioni ad essa deputate (linguaggio, udito, vista, movimento dell’arto superiore o inferiore). L’OMS (Organizzazione Mondiale Sanità)  definisce l’ictus come “una improvvisa comparsa di segni e/o sintomi riferibili a deficit delle funzioni cerebrali, localizzati o globali di durata superiore alle 24 ore o ad esito infausto non attribuibile ad altra causa apparente se non vasculopatia cerebrale”.

Recenti statistiche evidenziano la forte incidenza, specie negli uomini, dell’ictus cerebrale che attualmente in Italia rappresenta la prima causa di invalidità e la terza causa di morte dopo le malattie ischemiche del cuore e le neoplasie.

Tutto questo si verifica, nonostante le migliori terapie di prevenzione oggi a disposizione, per l’aumento della vita media, principale fattore di rischio per le malattie cerebrovascolari.
Ogni anno nel nostro paese si riscontrano 196.000 casi di nuovi ictus di cui il 20% sono recidive; due terzi dei casi si verificano sopra i 65 anni di età ma, questa malattia che colpisce in maniera improvvisa, riguarda anche persone giovani e in pieno benessere.

Esistono diversi tipi di ictus:
•    Ictus ischemico: circa l’80% degli ictus è ischemico e si potrebbe verificare in persone con predisposizione ad aritmie cardiache o affette da fattori di rischio quali diabete mellito, ipertensione, dislipidemie o con segni di aterosclerosi vasale. Nel caso di ictus ischemico, le arterie cerebrali vengono ostruite dalla formazione di una placca aterosclerotica e/o da un embolo, che può provenire dal cuore o da altro distretto vascolare.
•    Ictus emorragico: causato dalla rottura di una arteria del cervello. In genere la causa di questo tipo di ictus è l’ipertensione.
•    Attacco ischemico transitorio o TIA: si differenzia dagli altri due tipi di ictus perché i sintomi regrediscono entro le 24 ore.

La tappa finale primaverile

Che cosa ci consegna questo secondo turno elettorale delle amministrative locali? Una pietanza direi quasi riscaldata.
La novità, ma non è poi tale, è che i 5Stelle sembrano ormai smarriti. S’insediamo a Campobasso e il resto è deserto.
L’abbuffata va, indubbiamente, all’apparato digerente leghista. Qualche tozzo di pane spetta invece al Pd.

Non avevamo attese diverse e la nottata ridisegna il profilo che già conoscevamo. La stagione è totalmente a vantaggio di Matteo Salvini e agli altri compete oggi rovistare nei propri cassetti per individuare qualche progetto alternativo.
Periodo ormai segnato; il 2019 non potrà essere archiviato come un anno bellissimo, espressione in bocca al premier Giuseppe Conte, né di crescita pari agli anni 60, locuzione sentita dalla bocca del vice Ministro Luigi Di Maio; il 2019 sarà archiviato come l’anno di Matteo Salvini.

Il Pd utilizza la zattera a disposizione, constatata la défaillance dei 5Stelle, potrà affermare che l’alternativa al grande vincitore spetta al suo asse politico. Poca cosa, ma rispetto all’inferno di Matteo Renzi del 2018, qualcosina in quegli angoli sta pur capitando. Aver ammainato la bandiera a Ferrara e a Riccione, dopo 70 anni di storia, può voler dire archiviare anche il padrone del vapore di quella città, Dario Franceschini può essere ormai considerato una pagina girata nella sua Ferrara.

La nota positiva per il Pd, però, giunge dalla Livorno del 1921, qui le truppe di Pierluigi Bersani hanno ripreso il timone e il porto di Livorno si tingerà ancora di un pallido rosso.
Finito questo turno primaverile, adesso, saremo costretti a rincorrere le notizie che ci giungeranno da palazzo Chigi, Giuseppe Conte riuscirà, affiancato da Giovanni Tria, a mettere a tacere le pretese di chi vuole la flat tax e i mini bond?

Ai ballottaggi pareggiano Lega e Pd. A vincere, di fatto, è il partito dell’astensione

I ballottaggi riconfermano il dato di una partecipazione troppo ridotta del corpo elettorale. Si supera di poco la maggioranza degli aventi diritto (52,63%). Ciò rende più deboli i Sindaci appena eletti, dal momento che solo la metà degli elettori, in media, ha contribuito a definire l’assetto dei governi locali. Non è un bene per la democrazia.

La Lega esulta, ma trova anche il Pd ad esultare. Salvini dice di aver vinto in alcuni Comuni amministrati da sempre dalla sinistra; Zingaretti rovescia il commento e sottolinea come da questa competizione esca visibile il nuovo profilo dell’opposizione. Ad entrambi si chiederà di esaminare più attentamente i risultati, con uno spirito critico maggiore, per leggere ciò che conta dentro le rispettive sconfitte (ad esempio a Rovigo per la Lega e a Ferrara per il Pd)  piuttosto che dentro le vittorie felicemente registrate.

Una lezione prevalente è quella che porta a riflettere sulla rigidità degli schieramenti in campo. L’evaporazione del centro produce effetti negativi. Quanto più il confronto si radicalizza, tanto più, infatti, si consuma il distacco dell’elettorato. Anche la contrazione dei Cinque Stelle rientra in questo quadro di incertezza e disillusione. Per giunta, il fenomeno delle liste civiche, a riprova della inadeguatezza di un bipolarismo arido e pretenzioso, assume proporzioni oltremodo consistenti.

Come concludere? Ecco, dopo il trionfo alle europee, si temeva il colpo di maglio alle amministrative. Invece non c’è stato: la Lega, in sostanza, non ha stravinto. Vuol dire che Salvini ha tanti punti di forza, ma non pochi punti di debolezza. Si tratta di capire, alla fine, che solo riarticolando il gioco politico al centro è possibile ricondurre entro limiti più modesti il fenomeno leghista. Vale a tutti i livelli, al centro e in periferia, essendo il centro (da ricostruire) il tema caldo della vita politica italiana.

Gerardo Bianco, “è sbagliato l’approccio di Rotondi: sui Popolari fa confusione”.

Il commento non può che essere amaro. Alla lettura delle dichiarazioni di Gianfranco Rotondi (sul futuro della “sua” Dc) si sente in dovere di stigmatizzare la superficilità di questa uscita. Tuttavia Gerardo Bianco, irpino come Rotondi, non vuole confondere il piano politico con quello personale.

“Non ho motivo – esordisce – di considerare le divergenze di questi anni, dopo la fine della Dc, come un ostacolo ai rapporti di buona educazione e amicizia”. Si sente, insomma, che la reazione è controllata, al riparo di qualsiasi astio personale, ma ciò nondimeno vuole essere precisa, così da non dare adito a possibili equivoci. A fatica trattiene il disappunto.

Dice Rotondi che la Dc, con tanto di Scudo Crociato, non sarà più presente alle elezioni. Tutto passa alla Fondazione Fiorentino Sullo.

Gianfranco mi aveva parlato di un rilancio della Fondazione. Voleva che assumessi la presidenza onoraria. Perché no? Mi sembrava un’occasione per coltivare la memoria di una storia importante, specie in Irpinia, dove Fiorentino Sullo ha lasciato un segno indelebile.

E allora?

Beh…allora non è ciò che il comunicato stampa indica e prevede. Di per sé la scelta di “riconsegnare” il simbolo del partito è condivisibile. Il resto è invece discutibile.

Che cosa stride, perché il resto non va bene?

È l’operazione nel suo complesso a suscitare forti perplessità. La Dc è stata superata dall’assemblea straordinaria del gennaio 1994, quando Martinazzoli propose di andare oltre con un gesto clamoroso e solenne: si decise infatti di riprendere in mano la bandiera del Partito Popolare di Sturzo.

Ma le elezioni, celebrate proprio a ridosso di quell’Assemblea, portarono alle brusche dimissioni di Martinazzoli…

Ci furono passaggi molto dolorosi, a partire dalle dimissioni di Mino. In estate un nuovo congresso elesse Rocco Buttiglione e questi, nel giro di pochi mesi, immaginò di schierare a destra il partito, accordandosi con Berlusconi e Fini.

E dunque fu rottura.

Sì, non accettammo di piegare l’esperienza del popolarismo al quadro berlusconiano. Faticosamente arrivammo ad accordarci su una sorta di “divorzio consensuale”, ciascuno rivendicando le proprie ragioni di fondo.

Parliamo del famoso accordo di Cannes del 1995. Cosa stabiliva?

Semplicemente questo: a noi restava il nome di Partito Popolare e il quotidiano “Il Popolo”; a Buttiglione fu riconosciuto il diritto di utilizzare il simbolo dello Scudo Crociato (senza il nome di Democrazia Cristiana). Di lì a poco, a luglio, un nuovo congresso mi avrebbe eletto segretario dei Popolari. Ci dotammo di un simbolo, quello del Gonfalone, per onorare il patto di Cannes. Buttiglione costituì a sua volta i Cristiani Democratici Uniti (CDU), destinati poi a unirisi al Centro Cristiano Democratico (CCD). Da questa fusione nacque l’Unione di Centro (UDC). Il riepilogo chiarisce molte questioni.

Insomma, perché Rotondi sbaglia?

Penso di essere stato chiaro. Innanzi tutto perché non è nella sua facoltà parlare a nome di un partito che nel 1994 fu “superato” dal Partito Popolare. La Dc non può far parte di queste sistemazioni odierne. Aggiungo poi che Buttiglione, per quello che qui ho ricordato, non è l’ultimo segretario dei Popolari, così come sostiene Rotondi. Si fa confusione tanto sulla vecchia Dc, quanto sul nuovo PPI.

Quindi, non sono dettagli…

Assolutamente no. Sono aspetti, formali e sostanziali, nei quali è iscritta la storia travagliata del cattolicesimo democratico e popolare dell’ultimo quarto di secolo. Giocare con il passato serve non a fondare il futuro, bensì a complicare il presente. Considero questo modo di procedere a dir poco biasimevole. Non aiuta certamente a rispettare la memoria che avvolge la straordinaria vicenda della Dc. Ne dovremmo tener conto tutti, con scrupolo.

 

Fausto Coppi, l’icona che non tramonta.

Il 10 giugno 1949 si racchiude in alcune parole che sono state consegnate alla storia italiana e mondiale. Del ciclismo, ma non solo. Le parole, semplicemente, sono queste: “Un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco celeste, il suo nome è Fausto Coppi.”. A pronunciarle è Mario Ferretti, storico giornalista della Rai che commentando quella tappa, la Cuneo-Pinerolo del 10 giugno 1949, non sapeva ancora di passare alla storia. Per sempre. Una tappa che seguiva di poche settimane una tragedia che colpì lo sport italiano, europeo e mondiale: la tragedia di Superga del 4 maggio 1949 dove perì il Grande Torino, lo “squadrone più forte del mondo”.

E le gesta di Fausto Coppi di 4 settimane dopo rientusiamarono il popolo italiano, e non solo i tifosi del ciclismo. Ormai sappiamo tutto di quella tappa. 254 chilometri e 5 colli alpini – Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro e Sestriere – e la “corsa solitaria” di Fausto Coppi durata 192 chilometri dopo una fuga altrettanto solitaria. Ne parlavo con mio padre in questi giorni, lui ventunenne all’epoca, abbarbicato sulla rete dello stadio Luigi Barbieri di Pinerolo con altre migliaia di persone per potere vedere Fausto tagliare il traguardo da solo. Urla, pianti, entusiasmo, tifo, riscatto e immmdesimazione totale con il “Campionissimo”. Perché Fausto era anche tifoso del Torino e in quel giorno, almeno secondo la versione di mio padre, tutto si univa: il pianto e l’entusiasmo, il dolore e il riscatto, la forza e il destino. Tutti allo stadio Barbieri, quindi, e poi tutti sotto lo storico ristorante Regina dove Fausto a tarda sera saluta una folla sterminata di tifosi che invocano il suo nome e la sua impresa senza interruzione.

Perché la Cuneo-Pinerolo del 1949 è la storia del ciclismo. Se è vero, com’è vero, che la tappa di quest’anno del Giro d’Italia – sempre e rigorosamente la Cuneo/Pinerolo – è stata tutto un ricordo, una mostra, uno scatto d’immagine e una storia legata al “Campionissimo” di Castellania. E questo perché Fausto Coppi e’ un pezzo della storia italiana che nulla e nessuno potrà mai cancellare.

Ed ecco perché oggi, lunedì 10 giugno ci sarà un’altra Cuneo-Pinerolo. Una trentina di coraggiosi ciclisti percorreranno quella tappa sul percorso originale pedalando sulle medesime biciclette ed indossando lo stesso abbigliamento di 70 anni fa. Saranno impersonati i corridori realmente esistiti e presenti alla tappa del 1949, in rappresentanza di ogni marca di bicicletta e della relativa squadra che prese parte alla tappa più significativa della storia del ciclismo mondiale, riproponendone fedelmente anche abbigliamento ed il numero dorsale. Si partirà’ da Cuneo alle prime luci dell’alba, verso le 4, con l’arrivo previsto a Pinerolo presso i viali di piazza Matteotti, quanto di più vicino e simile al Campo Luigi Barbieri in cui si svolse l’arrivo della tappa del ’49 in una fascia oraria compresa tra le 19 e le 20 del medesimo giorno dopo oltre 15 ore di sella. Prima della partenza ci sarà la storica “punzonatura” delle biciclette e la presentazione al foglio firma dei partecipanti che dimostreranno di essere in grado di sopportare la fatica che unisce, sulle strade della leggenda, Cuneo con Pinerolo. Certo, alla fine non ci sarà il “pasta party” ma un piatto di pasta al sugo e lo storico “pane, salame e lanternino” come prescrisse lo stesso Fausto Coppi in persona.

Dunque, 10 giugno 1949; la Cuneo-Pinerolo; 192 chilometri di fuga solitaria; 11 minuti e 52 secondi il distacco inflitto a Gino Bartali; la tappa che entra nella storia. Il “volo dell’airone” non sarà mai più dimenticato. Per questo lo ricordiamo.

Caldo e tintarella

Con l’arrivo del bel tempo, dopo un maggio gelido con 1,58 gradi in meno e straordinariamente piovoso, gli italiani si espongono ai raggi solari per ottenere la sospirata abbronzatura da nord a sud della Penisola, dal mare alla montagna, lungo i fiumi o in campagna, ma anche in città fra piscine, parchi e balconi. E’ quanto afferma la Coldiretti, sulla base dei dati Isac Cnr, che per sostenere l’obiettivo ha organizzato in tutta Italia i #tintarelladay con la possibilità di scoprire la dieta che abbronza nei principali mercati di Campagna Amica a partire dalla Capitale Roma in via San Teodoro 74 dove è stata esposta la top ten della frutta e verdura che abbronza.

Il consiglio per tutti è di esporsi gradualmente al sole evitando le ore più calde soprattutto in caso di carnagione chiara ma anche l’alimentazione – sottolinea la Coldiretti – aiuta a “catturare” i raggi del sole ed è anche in grado di difendere l’organismo dalle elevate temperature e dalle scottature.

La dieta adeguata per una abbronzatura sana e naturale si fonda – precisa la Coldiretti – sul consumo di cibi ricchi in Vitamina A che favoriscono la produzione nell’epidermide del pigmento melanina che protegge dalle scottature e dona il classico colore scuro alla pelle. Sul podio del “cibo che abbronza” secondo la speciale classifica stilata dalla Coldiretti salgono carote, radicchi e albicocche, ma sono d’aiuto anche insalate, cicoria, lattughe, meloni, peperoni, pomodori, fragole o ciliegie. Il primo posto è conquistato indiscutibilmente dalle carote che contengono ben 1200 microgrammi di Vitamina A o quantità equivalenti di caroteni per 100 grammi di parte edibile. Al posto d’onore – continua la Coldiretti – salgono gli spinaci che ne hanno circa la metà, a pari merito con il radicchio mentre al terzo si posizionano le albicocche seguite da cicoria, lattuga, melone giallo e sedano, peperoni, pomodori, pesche gialle, cocomeri, fragole e ciliegie che presentano comunque contenuti elevati di vitamina A o caroteni.

Con il caldo infatti è importante consumare frutta e verdura fresca, fonte di vitamine, sali minerali e liquidi preziosi per mantenere l’organismo in efficienza e per combattere i radicali liberi prodotti come conseguenza dell’esposizione solare. Antiossidanti “naturali” sono infatti le vitamine A, C ed E che – sottolinea la Coldiretti – sono contenute in abbondanza in frutta e verdura fresca. Alla buona alimentazione – spiega la Coldiretti – vanno accompagnate regole di buon senso nell’esposizione al sole soprattutto all’inizio della stagione.

E’ quindi importante conoscere il proprio fototipo ed utilizzare creme adeguate alla propria pelle, soprattutto su bambini, ridurre al minimo le esposizioni ai raggi solari, specie nelle ore centrali della giornata, non esporsi al sole con profumi ed essenze e – spiega la Coldiretti – utilizzare indumenti adeguati (cappelli, magliette, occhiali). In caso di scottature o di disidratazione della pelle possono essere utili – conclude la Coldiretti – anche alcuni rimedi naturali come impacchi di yogurt bianco intero oppure maschere con fette di anguria oppure la polpa di mela grattugiata stesa sulle zone più arrossate.

LA TOP TEN DELLA TINTARELLA DELLA SALUTE – Vitamina A (*)

  1. Carote 1200
  2. Radicchi 500-600
  3. Albicocche 350-500
  4. Cicorie e lattughe 220-260
  5. Meloni 200
  6. Sedano 200
  7. Peperoni 100-150
  8. Pomodori 50-100
  9. Pesche 100
  10. Cocomeri, fragole e ciliegie 10-40 (*) in microgrammi di Vitamina A o in quantità equivalenti di caroteni per 100 grammi di parte edibile

Verona, vietato lasciare il cane sul balcone

Multe fino a 500 euro per chi lascia il cane sul balcone per molte ore al giorno.

Succede a Verona, dove il fenomeno, che si accentua soprattutto d’estate, può essere perseguito penalmente se inquadrato come maltrattamento degli animali.

L’amministrazione si è anche dotata di un consigliere per la Tutela degli animali, Laura Bocchi. E’ stata proprio lei a introdurre la norma nel regolamento comunale.

Un balcone di un metro per un metro non è certo adatto allo scopo. Ogni giorno le segnalazioni di situazioni fuori controllo sono tantE.

 

Sbarca a New York l’arte surrealista europea

L’arte surrealista europea sbarca a New York. Il 31 luglio prossimo infatti la galleria Artifact di New York inaugurerà una mostra d’arte sul surrealismo del XXI secolo, con l’artista portoghese Santiago Ribeiro e l’artista americana Shala Rosa

L’idea della mostra è nata da un invito della galleria Artifact all’artista di Coimbra Santiago Ribeiro, che a sua volta ha deciso di invitare una delle più grandi artisti femminili surrealiste del ventunesimo secolo di oggi, ovvero l’americana Shala Rosa.

Entrambi gli artisti fanno parte della più grande mostra di arte surrealista del nostro secolo, l’International Surrealism Now, di cui Santiago è il suo creatore e promotore. Creata in Portogallo a partire dal 2010, e organizzata dalla Fondazione Bissaya Barreto, la mostra itinerante si è estesa a livello internazionale, fino a toccare diversi paesi nel mondo

La mostra del Surrealismo portoghese e nordamericano si svolgerà dal 31 luglio al 4 agosto 2019, dal mercoledi al sabato, dalle ore 12 alle ore 18, presso la galleria Artifact di New York (84 Orchard Street), che offre spazi espositivi e servizi ad artisti e collezionisti.

Colesterolo: c’è differenza tra carne rossa e bianca?

A differenza di quanto sinora creduto, la carne bianca (ad esempio il pollame) potrebbe non essere più salutare per il cuore della carne rossa. È quanto emerge, perlomeno, da uno studio svolto presso la University of California, San Francisco e pubblicato sull’American Journal of Clinical Nutrition.

l team americano, guidato da Ronald Krauss, ha verificato come i diversi tipi di carne interessano i livelli di lipidi e di lipidiproteine che possono causare i depositi di grassi.

I ricercatori hanno condotto lo studio su due gruppi di volontari, suddividendoli in base al loro consumo di alti o bassi livelli di acidi grassi.

Dopo questa iniziale scrematura, i partecipanti sono stati suddivisi in altri tre gruppi a caso. Un gruppo doveva mangiare carne rossa, un altro gruppo carne bianca ed il terzo gruppo proteine di origine non animale. Questa tipologia di dieta è stata seguita per quattro settimane.

Al termine dello studio gli esperti hanno misurato i livelli di colesterolo cattivo, i livelli di colesterolo buono e quelli di apolipoproteina B, la principale proteina costituente le lipoproteine e coinvolta nel metabolismo dei lipidi.

All’inizio dello studio il gruppo di lavoro si aspettava che la carne rossa avesse effetti negativi sul colesterolo maggiori rispetto alla carne bianca. In realtà è stato rilevato che non ci sono differenze fra i due tipi di carne. Gli esperti hanno invece notato un importante abbassamento dei livelli di colesterolo nei partecipanti che non avevano mangiato proteine di origine animale.

I giri di valzer di Rotondi, il post-DC un po’ sfacciato.

Gianfranco Rotondi prova ad agitare le acque del vecchio centrodestra. Lo fa archiviando la sua dc-bonsai e consegnando lo scudo crociato a una fondazione (quella intestata all’irpino Fiorentino Sullo, leader della sinistra di Base negli anni ‘50-60, confluito nei socialdemocratici nel periodo ultimo della sua carriera politica).

È un gesto che vuole contribuire a frenare l’ondata populista, benché muova esplicitamente dalla preoccupazione di rinnovare il sodalizio con Silvio Berlusconi, come se, in effetti, il populismo non abbia avuto inizio con il fondatore di Forza Italia.

Da notare, in ogni caso, la divaricazione di linea rispetto a Berlusconi medesimo: infatti, mentre questi agisce nella prospettiva di un recupero della Lega, una volta che abbia abbandonato la collaborazione di governo con il M5S, diversamente il centro proposto da Rotondi dovrebbe operare in chiave alternativa, giudicando inammissibile l’alleanza con Salvini.

Sulla solidità di questa proposta politica non mancano dubbi. L’ambiguità emerge chiaramente laddove si osservi la collocazione della dc di Rotondi a livello amministrativo locale: sempre a destra, ovunque, avendo concretamente la Lega come guida e motore.

Sorprende anche l’arruolamento d’ufficio, nel campo dell’anti-populismo, dell’attuale Presidente del Consiglio. Si fatica a capire la ragione per la quale Giuseppe Conte, scelto all’indomani delle elezioni politiche dello scorso anno dal tandem sovran-populista, dovrebbe entrare a far parte di questo ipotetico centro alternativo ai giallo-verdi. Sfugge, in altri termini, il nesso di coerenza.

Anche l’apertura a Urbano Cairo è sostanzialmente immotivata. Nessuno conosce, allo stato degli atti, se e come avverrebbe il passaggio alla vita politica di tale editore di successo, geloso della sua indipendenza. Lo si convoca o lo si invita “a prescindere”, al di fuori di un quadro di serietà e rigore politico, giocando in definitiva con il vecchio approccio di tipo berlusconiano, dalla “discesa in campo” al “predellino”, che tanto ha contribuito alla esplosione dell’antipolitica.

Con quale credibilità, allora, s’immagina di trasformare la presenza di una piccola formazione, figlia della diaspora democristiana, quando l’indirizzo politico e  la condotta pratica recano in grembo un coacervo di pericolose incongruenze?

Vale la pena aggiungere infine che se, a riprova della legittimità del possesso dello scudo crociato, si cita l’accordo di Cannes, siglato  nel 1995 da Gerardo Bianco e Rocco Buttiglione, proprio quell’accordo esclude la possibilità di definire Buttiglione come “ultimo segretario del Ppi”. Rotondi commette una grave scorrettezza perché, come sa molto bene, a Cannes si decise di riconoscere ai Popolari di Bianco il nome del partito, insieme alla testata de “Il Popolo”, quale indubbio segno di continuità con l’esperienza avviata da Martinazzoli. A Buttiglione fu attribuita invece la titolarità dello scudo crociato, usato in questo quarto di secolo per abbellire la coalizione di centrodestra. Non è corretto citare Cannes a sproposito. Così, con buona pace dell’eloquio composto, Rotondi si rende protagonista di una sgradevole forma d’improntitudine. Insomma, fa lo sfacciato.

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ALLEGHIAMO IL COMUNICATO STAMPA E LA DICHIARAZIONE DI GIANFRANCO ROTONDI

“La Dc diventa una fondazione politica. La svolta è stata deliberata nella notte di venerdì a Giulianova, in un Ufficio di Segreteria che formalmente doveva eleggere il successore di Gianfranco Rotondi, fondatore e presidente del partito dimessosi la scorsa settimana”. Lo annuncia in una nota l’Ufficio Stampa della Dc. “In realtà – si legge nella nota – l’Ufficio di Segreteria ha ratificato una decisione già assunta e formalizzata nei giorni precedenti, con tanto di atti sottoscritti dal notaio.

La Dc – prosegue la nota – sospende le attività come partito e cede il nome e il simbolo a una fondazione [si tratta della fondazione Fiorentino Sullo, ndr]. Non a caso all’atto notarile ha partecipato anche il professor Rocco Buttiglione, ultimo segretario del Ppi e depositario, in base al patto di Cannes, dello scudo crociato”.

La fondazione – di cui sarà presidente lo stesso Rotondi, insieme a Rocco Buttiglione  – sarà presentata a Roma venerdì 12 luglio, alle ore 15, alla Camera dei deputati.

“Il Centro – ha spiegato Rotondi – non può rinascere alleato con Salvini, che del populismo è la massima espressione. Né ha spazio un Centro alleato o peggio ancora partorito dal Pd. Esso ripeterebbe la parabola perdente dei tanti partiti di centro satelliti della sinistra. Serve un vero partito di Centro, può essere Forza Italia o una forza completamente nuova. Ma serve il coraggio di candidarsi alla guida del Paese con un programma nuovo, figure nuove e senza alleanze con Salvini e il Pd.

A questa scommessa chiamiamo il nostro amico di sempre, l’unico che ci ha sempre ascoltato, capito, difeso: Silvio Berlusconi. Lavoreremo naturalmente con gli amici Dc: Lorenzo Cesa e Mario Tassone. Useremo una ‘strategia dell’attenzione’ verso chiunque mostri interesse per il cattolicesimo politico. Due esempi per tutti: il presidente Conte e il dottor Urbano Cairo, del cui impegno pubblico si parla sempre di più. Perciò- ha concluso Rotondi – rialziamo il vessillo dello scudo crociato, per ritrovarci e camminare insieme a chi mostrerà più coraggio”.

Bloccare le città: nuovi modi di condurre una guerra informatica

Articolo già apparso sulle pagine della rivista Atlante Treccani a firma di Mirko Annunziata

A quasi un mese di distanza, gli Stati Uniti ancora s’interrogano sul caso dell’attacco hacker che ha colpito la città di Baltimora. Per settimane gli hacker hanno tenuto sotto scacco l’intera città, centro industriale e porto sull’Atlantico tra i più importanti del Paese. Con i sistemi della pubblica amministrazione bloccati, i cittadini non potevano accedere a servizi essenziali quali pagamento di bollette e imposte.

L’attacco sembra aver avuto per scopo l’estorsione di denaro, con una richiesta all’amministrazione della città di 3 bitcoin per sbloccare parzialmente i sistemi governativi e di altri 10 (un totale quindi di 13 bitcoin, corrispondenti a circa 100.000 euro), per liberare definitivamente i computer della pubblica amministrazione infettati dal ransomware “RobbinHood”. Già negli scorsi mesi Baltimora aveva subito un attacco hacker, in quel caso rivolto al sistema di chiamate d’emergenza 911.

L’amministrazione cittadina, come prevedibile, non si è piegata al ricatto, affidandosi ad un’investigazione dell’FBI e cercando di ripristinare alcuni servizi in via “analogica”. Nonostante la sequenza di attacchi, allo stato attuale sembra che non ci sia una particolare intenzione di colpire specificatamente Baltimora; l’attacco di RobinHood appare più come un risultato casuale, dovuto con ogni probabilità a una gestione non ottimale dei sistemi informatici.

Una strategia di difesa in ambito IT deficitaria e carente è stata alla base anche di un altro clamoroso attacco hacker condotto contro Atlanta. Il SamSam Ransomware, un tipo particolare di ransomware che non utilizza tecniche di phishing bensì ricorre a un attacco diretto volto a indovinare password particolarmente deboli, ha paralizzato i sistemi dell’amministrazione della città. Dinamiche non troppo diverse da quelle del caso di Baltimora, che mostrano l’apparente paradosso di spendere decine di milioni di euro per rispettare la volontà di non cedere a ricatti da centinaia di migliaia di euro. Apparente perché in primo luogo, ovviamente, il consiglio, anche per i privati, è sempre quello di rifiutare il ricatto posto da un ransomware e, in seconda battuta, un ente pubblico non può certo permettersi di pagare il riscatto, creando un precedente molto pericoloso.

Se dunque è molto improbabile, almeno allo stato attuale, che un ente governativo possa accettare di pagare un riscatto, perché questa escalation di attacchi rivolti alle amministrazioni di diverse città negli Stati Uniti? Si fa largo, innanzitutto, una prospettiva di natura più politica. Il ransomware costituirebbe quindi non tanto un modo per estorcere denaro quanto, piuttosto, per saggiare le capacità di difesa dei sistemi informatici rivali. Nel caso di Atlanta, per esempio, le indagini hanno infine puntato il dito contro hacker iraniani.

Per quanto concerne Baltimora, in questi giorni l’opinione pubblica e la stampa americana stanno facendo pressioni sulla NSA (National Security Agency) per fornire risposte in merito ai collegamenti tra le caratteristiche di RobbinHood e quelle di EternalBlue. Eternal lue è un tool pensato per sfruttare vulnerabilità insite all’interno dei sistemi operativi Windows XP e Windows Vita. Questo strumento venne sviluppato dalla NSA, ma nel 2017 alcuni hacker se ne sono impossessati. EternalBlue è stato quindi utilizzato per la realizzazione di due tra i più noti e devastanti ransomware degli ultimi anni, WannaCry e NotPetya.

La regia dietro RobbinHood potrebbe quindi provenire da uno dei numerosi Paesi che hanno beneficiato dei tool rubati. Mosca, per esempio, nel 2017 aveva già testato con successo il blocco dei sistemi informativi di un’amministrazione pubblica, quella dell’Ucraina, colpendo anche industrie e aziende private. L’Ucraina, tuttavia, è stata anche sfortunata protagonista di un episodio ancora più inquietante. Nel 2015 un attacco hacker riuscì a mettere fuori uso una centrale elettrica per un paio d’ore, lasciando al buio centinaia di migliaia di persone.

Casi del genere inesorabilmente costituiscono i primi esempi di un paradigma del tutto nuovo per la guerra informatica e il suo impatto in ambito militare e civile. Tradizionalmente, il cyberwarfare è sempre stato associato ad attività di spionaggio e, con la diffusione capillare di Internet, attività di propaganda on-line. Sebbene queste attività permangano, sempre più le azioni di guerra virtuale avranno ripercussioni nel mondo cosiddetto “reale”. La digitalizzazione dei servizi e delle attività produttive, infatti, consente possibilità pressoché infinite di infliggere danni potenzialmente devastanti all’avversario. Bloccare l’amministrazione pubblica e i servizi ad essa associati può portare danni economici enormi, sia in termini di mancata erogazione dei servizi, sia in termini d’investimenti da effettuare in corsa per riparare al danno.

Non solo computer e sistemi di raccolta delle informazioni saranno soggetti a possibili attacchi. L’avvento dell’Internet delle cose farà sì che nei prossimi anni il numero di oggetti collegati alla rete aumenti in maniera esponenziale. Oggetti comuni potrebbero venir messi fuori uso su larga scala, dando vita al classico scenario di fantascienza hollywoodiana. D’altra parte, è già possibile infliggere colpi importanti, come ad esempio la paralisi del traffico cittadino, hackerandone i semafori. Nel 2017, una raffineria in Arabia Saudita ha rischiato di saltare in aria a seguito di un attacco hacker rivolto ai sistemi di controllo della centrale.

Il potenziale distruttivo che oggi è in grado di fornire un attacco informatico organizzato da parte di un Paese dotato delle giuste competenze dipende sostanzialmente dalla volontà politica e militare e dal livello d’intensità del conflitto che s’intende portare avanti. L’assenza, ad oggi, di un quadro normativo chiaro in ambito internazionale che regoli e definisca l’impatto di questo tipo di azioni porta a prediligere gli attacchi a bassa intensità, che a costi ridotti riescono comunque a produrre danni considerevoli.

Allo stato attuale un attacco con armi “cyber” in coordinamento con il resto delle forze armate prevede innanzitutto il controllo o la messa fuori uso di asset fondamentali del Paese avversario: terminali di servizi pubblici e bancari, fornitura di energia elettrica, blocco dei sistemi informatici del comparto militare. Si tratta di una strategia che, ad esempio, i russi hanno fatto propria da più di un decennio, testandola in via preliminare durante la guerra contro la Georgia nel 2008. Tuttavia, un elemento critico nel disciplinare l’utilizzo del cyberwarfare tra i Paesi non risiede tanto nella volontà da parte degli Stati di porre delle regole, quanto dalla difficoltà di coniugare le rigide esigenze della legge internazionale rispetto alla fluidità del mezzo informatico.

Si pensi, per esempio, al possibile campo di applicazione dell’art. 5 della NATO rispetto all’attuale braccio di ferro con la Russia. Se venissero pedissequamente applicati i criteri utilizzati nel mondo “fisico” anche nell’ambito virtuale, oggi sarebbe in corso una guerra aperta tra i due schieramenti. Storicamente nei rapporti tra Stati è sufficiente una minima trasgressione, reale o dichiarata, per causare un conflitto. Questo si è spesso declinato con la creazione di casus belli di comodo, in cui era sufficiente un vero (o presunto) colpo subito da oltre frontiera per far scoppiare un conflitto. Applicando questo tipo di criterio nell’ambito del cyberwarfare, oggi qualunque Paese potrebbe dichiarare di essere stato aggredito da chiunque. La proliferazione di attacchi informatici, che segue a ruota l’espandersi della digitalizzazione, rende praticamente impossibile sperare, o pretendere, di non ricevere alcun tipo di attacco hacker.

Occorre inoltre considerare la natura intangibile della “firma” dietro questi attacchi che, a differenza del proverbiale colpo di cannone oltre confine quale causa scatenante di un conflitto aperto, consente all’esecutore di negarne la paternità. Allo stato attuale, in assenza di conflitti dichiarati tra le principali potenze, nessun governo tra Washington, Pechino o Mosca ha mai rivendicato uno dei numerosi attacchi hacker in cui è stato pressoché certo il loro coinvolgimento. Sotto questo aspetto il cyberwarfare, in virtù della sua natura sperimentale, è equiparabile alla guerra di corsa tra le potenze navali europee in epoca moderna; conflitti a bassa intensità non riconosciuti, utili non solo a infastidire l’avversario, ma anche a saggiarne le capacità in vista di una guerra aperta.

Diversi analisti si stanno già interrogando sull’eventualità di estendere una parte della dottrina strategica legata agli armamenti nucleari alla guerra informatica. L’idea di una “Mutua distruzione assicurata” (MAD, Mutual Assured Destruction) o in un contesto di guerra più o meno informale declinata al cyberwarfare sta quindi prendendo sempre più piede nelle analisi di settore.

Esistono diversi punti di contatto tra il cyberwarfare e il conflitto nucleare. Innanzitutto, il potenziale distruttivo: sebbene sia meno spettacolare rispetto a una deflagrazione atomica, oggi un attacco informatico su vasta scala potrebbe paralizzare un intero tessuto sociale o addirittura potrebbe portarlo indietro di almeno un secolo. Senza servizi fondamentali, forniture di cibo, acqua ed energia, il numero potenziale di vittime causate sia dal crollo del tessuto economico, sia dal clima di caos e violenza che si verrebbe a creare sarebbe potenzialmente non troppo diverso da quello scatenato da una testata atomica.

Un secondo elemento è l’assenza di qualsivoglia limite di natura geografica (ancora più evidente nel conflitto informatico), così come di protezione efficace. Nel cyberwarfare è infatti pressoché impossibile sperare di garantire una difesa assoluta. Questo deriva dal differenziale di efficacia tra le azioni di difesa e quelle di attacco. Nel caso del difensore, infatti, l’obiettivo è quello di evitare che vada a segno un qualunque tipo di attacco. Per chi attacca è invece sufficiente che anche un solo tentativo riesca nell’intento. Se durante la guerra fredda, in ottica nucleare, questo concetto veniva declinato nella produzione di migliaia di testate in modo che la potenza rivale non potesse essere in grado d’intercettarle tutte in caso di attacco massivo, in ambito cyberwarfare è sufficiente disporre di competenze aggiornate, con un conseguente dispendio di risorse decisamente inferiore rispetto all’ambito nucleare.

 

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Italiani all’estero, i diari raccontano

“Italiani all’estero, i diari raccontano”: questo il nome della piattaforma informatica che sarà presentata domani alle ore 17.00, alla Farnesina. Il progetto – realizzato con il contributo della Direzione Generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie del Ministero degli Esteri –  è una selezione delle parti più significative delle testimonianze raccolte nel fondo catalogato con il soggetto “emigrazione” presso la Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano (Arezzo).

Sono i diari, le lettere e le memorie che racchiudono storie di italiani “qualunque”, vissuti all’estero tra l’inizio dell’Ottocento e i giorni nostri, raccolte a partire dal 1984 dall’Archivio diaristico nazionale e offerte ai lettori di tutto il mondo.

Alla presentazione interverranno Elisabetta Belloni, Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Luigi Maria Vignali, Direttore Generale per gli Italiani all’Estero, Nicola Maranesi, curatore del progetto e Pier Vittorio Buffa, consulente editoriale.

Nel corso della presentazione Francesca Ritrovato e Jacopo Bicocchi leggeranno alcuni brani di letture tratte dalle testimonianze raccolte nella Piattaforma informatica.

Carta dei diritti fondamentali Ue, questa sconosciuta…

E’ stata pubblicata la relazione annuale per valutare come le istituzioni europee e gli Stati membri abbiano applicato la Carta dei diritti fondamentali. Ricorre quest’anno il decimo anniversario della Carta, un’occasione particolare che oltre al report vede anche la presentazione di un’indagine di Eurobarometro sulla consapevolezza dei cittadini in riferimento al tema in questione. Sebbene negli ultimi due lustri sia andata progressivamente sviluppandosi una cultura dei diritti fondamentali, la Carta rimane ancora oggi un documento poco conosciuto e non pienamente sfruttato nella sua applicazione.

L’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali sottolinea, in particolare, la mancanza di politiche nazionali che ne promuovano la conoscenza e la stessa attuazione. Dall’indagine di Eurobarometro, appena presentata, vediamo che nonostante un leggero miglioramento rispetto al 2012, solo quattro cittadini su dieci hanno sentito parlare della Carta e solo un cittadino su dieci sa di cosa si tratti. Sei cittadini su dieci hanno dichiarato di voler essere maggiormente informati sui diritti sanciti nel documento e su come comportarsi nel caso in cui siano violati.

Per quanto riguarda l’applicazione della Carta nel 2018, la relazione mette in evidenza le principali iniziative quali, ad esempio, garantire la protezione degli informatori; promuovere i diritti elettorali agendo per contrastare le notizie false; combattere l’illecito incitamento all’odio online. Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il 1º dicembre 2009, la Carta dei diritti fondamentali è diventata giuridicamente vincolante e da allora la Commissione europea ha pubblicato annualmente un report sulla sua applicazione. Gli studi annuali monitorano i progressi compiuti nei settori di competenza dell’Ue, mostrando come si sia tenuto conto della Carta in situazioni reali, in particolare nel proporre nuovi atti legislativi dell’Unione e di come venga considerato il ruolo delle istituzioni europee dalle autorità degli Stati membri nell’assicurare che i diritti fondamentali diventino una realtà nella vita dei cittadini.

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea riafferma, nel pieno rispetto dei poteri e delle funzioni dell’Ue e del principio della sussidiarietà, i diritti così come risultano dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni dei Paesi dell’Unione. Su questo sfondo, il denominatore comune, insieme alle disposizioni generali, rimane il pieno rispetto di dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia.

I 100 Racconti della Linea Gotica

L’Associazione Linea Gotica-Officina della Memoria ha lanciato in questi giorni un crowdfunding, ovvero una raccolta pubblica di fondi per portare a compimento con la pubblicazione di un volume l’ambizioso progetto editoriale “I 100 Racconti della Linea Gotica”.

Il progetto prevede una ricca pubblicazione contenente 100 storie vere accadute sulla Linea Gotica, cioè l’ultima linea difensiva fortificata tedesca che si estendeva dalla attuale provincia di Massa-Carrara fino alla provincia di Pesaro, fra l’estate 1944 e la primavera 1945, elaborate sotto forma di racconti.

Storie individuali vissute da persone semplici, sia in ambito militare che civile, a rappresentare un ampio spaccato umano e sociale di quella che fu l’estrema linea difensiva tedesca e l’ultimo fronte di guerra in Italia.

Un volume con contenuti senza precedenti, per fornire al pubblico un compendio di tutta la vicenda umana e bellica che si svolse sulla Linea Gotica in otto mesi di guerra.

Una chiave di lettura “nuova” degli eventi accaduti sulla Linea Gotica, con testi meno “tecnici” dei consueti lavori pubblicati sull’argomento, ma non per questo meno rigorosi dal punto di vista storico.

L’Associazione interregionale Linea Gotica-Officina della Memoria, infatti, lavora dal 2010 col suo gruppo di esperti e volontari sui temi della ricerca storica e della valorizzazione dei luoghi della memoria.

I racconti sono basati su testimonianze dirette e su ricerche storiche realizzate su documenti, video e libri. Essi narrano le vicende vissute da uomini e donne civili, soldati di tutte le parti in conflitto, partigiani, fascisti, religiosi e agenti segreti.

L’impostazione del volume è concepita secondo un criterio cronologico degli eventi accaduti su tutta la Linea Gotica, a partire dall’attacco nel settore adriatico nell’agosto 1944 fino all’offensiva finale dell’aprile 1945, con un’equa distribuzione geografica e tematica dei racconti.

Torino: I mondi di Riccardo Gualino collezionista e imprenditore

Torino riscopre la sua storia con la mostra “I mondi di Riccardo Gualino collezionista e imprenditore”, che fino al 3 novembre riunisce a Palazzo Reale ben 300 pezzi della collezione originaria: le due porzioni principali, ancora di proprietà di Banca d’Italia e della Galleria Sabauda (che nel tempo ha ricercato e acquisito alcuni dei pezzi dispersi), nonché opere ulteriori provenienti da raccolte italiane pubbliche e private.

Nelle 18 Sale Chiablese sfilano dipinti, sculture, arredi e foto d’epoca che insieme restituiscono l’universo di Gualino: il suo gusto di collezionista, gli ambienti cosmopoliti frequentati insieme alla moglie Cesarina Gurgo Salice, compagna di avventura nel mondo dell’arte, le atmosfere degli anni Venti, la parabola del fascismo, la guerra e il miracolo italiano. Fin dall’inizio i destini della raccolta si intrecciano con le vicende imprenditoriali. Ai successi della Snia Viscosa, per esempio, corrispondono acquisizioni prestigiose tra cui Venere di Botticelli, Venere e Marte di Paolo Veronese, la Négresse di Manet, il Paesaggio campestre di Claude Monet.

Sono di questo periodo i ritratti di Felice Casorati per la famiglia Gualino, che ha aperto la propria casa ai pittori dei Sei di Torino intraprendendo ufficialmente il primo progetto di mecenatismo.

Grazie ad approfondite ricerche, l’allestimento della mostra riprende da vicino quello originario nei vari domicili dell’industriale – il castello di Cereseto Monferrato, la palazzina torinese di via Galiari, l’ufficio di Corso Vittorio Emanuele – proponendo in molti casi gli stessi accostamenti tra le opere.

Sant’Andrea: la prima struttura in Italia per la cura del cancro ai polmoni

L’A.O Universitaria Sant’Andrea con 467 interventi curativi di chirurgia toracica è la prima struttura in Italia per la cura del cancro ai polmoni. È il dato che emerge dal nuovo Programma nazionale Esiti (PNE) dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS). Il Programma fotografa ogni anno la qualità delle cure ospedaliere grazie a 175 indicatori.

Per la cura del cancro ai polmoni l’ospedale capitolino si piazza primo in graduatoria per numero di interventi superando strutture come l’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano e l’IRCCS – Istituto Nazionale Tumori di Milano. Un risultato straordinario per la chirurgia toracica del Sant’Andrea che rappresenta un’eccellenza nel Sistema sanitario regionale.

“Voglio ringraziare tutti i professionisti e il personale sanitario.  grazie alle loro professionalità e al loro impegno quotidiano che è stato possibile raggiungere un risultato così importante e prestigioso -parole di Alessio D’Amato, assessore alla Sanità e l’Integrazione Sociosanitaria, che ha aggiunto: dal Piano nazionale Esiti il Lazio emerge con dati migliori rispetto a quelli nazionali in particolare per il trattamento dell’infarto, il trattamento del tumore alla mammella e con i migliori tassi di appropriatezza delle ospedalizzazioni potenzialmente evitabili come il diabete, l’asma e le broncopneumopatie”.