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L’Europa torni a essere il sogno dei padri fondatori

Articolo pubblicato sull’Osservatore Romano,  del 3-4 giugno 2019

«L’Europa torni ad essere il sogno dei padri fondatori»: sul volo di rientro verso Roma, al termine del viaggio in Romania, il Papa conclude il consueto incontro con i giornalisti con un auspicio e, al tempo stesso, una preghiera. Francesco invita credenti e non credenti a unirsi in un’unica intenzione. Ai primi raccomanda: «pregate per l’Europa, per l’unità». E ai secondi chiede: «augurate la buona volontà, l’augurio del cuore» per un continente chiamato a riscoprire le sue radici per tornare a coincidere con il «sogno» dei grandi europeisti.

Per il Pontefice «bisogna riprendere lo spirito dei padri fondatori», perché «l’Europa ha bisogno di essere sé stessa, della propria identità» per «superare le divisioni e le frontiere». Un tema risuonato più volte nel colloquio con i giornalisti a bordo dell’aereo che nella serata di domenica 2 giugno ha riportato il Papa a Roma dopo tre intense giornate trascorse in terra romena. Tre giorni culminati nella beatificazione di sette vescovi greco-cattolici, elevati agli onori degli altari durante la divina liturgia celebrata domenica mattina a Blaj alla presenza di una grande folla di fedeli giunti da tutto il Paese. A loro Francesco ha affidato l’eredità dei presuli martiri — sintetizzata in due parole, libertà e misericordia — esortandoli a opporsi alle «colonizzazioni ideologiche che disprezzano il valore della persona, della vita, del matrimonio e della famiglia e nuocciono, con proposte alienanti, ugualmente atee come nel passato, in modo particolare ai nostri giovani e bambini lasciandoli privi di radici da cui crescere».

Nel pomeriggio, prima della partenza dalla Romania, la visita al quartiere Barbu Lăutaru ha offerto infine al Pontefice l’occasione per elevare una richiesta di perdono per le discriminazioni che nel corso della storia hanno colpito la comunità Rom.

Giornata mondiale della bicicletta

Si è celebrata  la Giornata mondiale della bicicletta voluta delle Nazioni Unite per promuovere le due ruote come mezzo di trasporto e per il tempo libero. Sappiamo bene che sostituire l’auto con la bici apporterebbe benefici enormi all’ambiente e all’aria che respiriamo. Un uso diffuso della bicicletta ridurrebbe drasticamente le emissioni di Co2. Secondo uno studio dell’European Cyclists’ Federation, se i cittadini della Ue dovessero utilizzare la bicicletta tanto quanto i danesi nel corso del 2000 (una media di 2,6 chilometri al giorno) tutti i Paesi conseguirebbe più di un quarto delle riduzioni delle emissioni previste per il comparto mobilità.

“La bicicletta è un mezzo di trasporto sostenibile ed economico che oltre a far bene alla salute e all’ambiente è capace di dare slancio e prospettiva di sviluppo a una variegata filiera dell’economia che ruota attorno al mondo delle due ruote” ha detto il titolare dell’Ambiente, Sergio Costa. “Per il Ministero e per questo governo – ha aggiunto – la promozione delle mobilità dolce è fondamentale. Non penso solo ai 361 milioni di euro sbloccati dal Mit per 10 progetti di ciclovie (tra i quali la ciclovia Venezia Torino e il Grab di Roma), ma anche al bando che abbiamo aperto per le città sopra ai 50 mila abitanti per finanziare la mobilità ciclabile con stanziati 10 milioni per interventi sulla ciclabilità, 3,5 per la sharing mobility e 1,5 milioni per i mobility manager. Una persona in più che si sposta in bici in città è un’auto tolta dalla strada”.

“Il mio desiderio è che l’Italia diventi un Paese a misura di bicicletta – ha spiegato il ministro – con il potenziamento delle infrastrutture urbane necessarie a garantire la sicurezza e l’attenzione dovuta alle categorie deboli della strada. Insieme a questo immagino anche un “Italia Paese Parco” dove l’asset principale della conservazione della natura sia proprio l’ecoturismo e quello su due ruote è certamente la nicchia più importante. Un parco ricco di ciclabili è un parco più attraente per chi ci vive e per chi lo visita. Laddove si investe in infrastrutture legate alla mobilità dolce si creano nuovi posti lavoro, circa cinque per ogni chilometro di ciclabile. Se vogliamo davvero costruire un’economia nuova e a zero emissioni, da dove vogliamo partire se non da questi progetti?”.

Conte ci prova ma non è detto che riesca.

Può essere l’ennesima prova di quanto precario risulti il meccano governativo dei gialloverdi. Un tentativo fallace, pertanto, che nasconde l’ansia di ricomporre in qualche modo un equilibrio arrovesciato dopo l’esito elettorale del 26 di Maggio. Insomma, un maldestro espediente per sopravvivere all’incombenza del redde rationem tra leghisti e grillini, in attesa del gran finale. Sta di fatto che la conferenza stampa di Conte un risultato lo porta a casa e va nella direzione di un di più di autonomia nell’azione di Palazzo Chigi.

È un segnale pallido, indubbiamente. Eppure, tra le pieghe di tante sovrabbondanze di lamentazioni e aggressività, il discorso del Presidente del Consiglio si manifesta concreto e preciso: laddove, cioè, a tutela degli interessi della nazione, il premier rivendica e ottiene il diritto a una delega piena nei rapporti con l’Unione europea. Su questo punto fa testo l’immediato via libera di Salvini. Certo, non si tratta di una delega in bianco, né di una fiducia incondizionata. Ma tant’è! Se le parole hanno un senso la trattativa con Bruxelles, tesa a scongiurare l’avvio della procedura d’infrazione per eccesso di deficit, non è subordinata al gioco di distinguo e rilancio dei due vice-premier.

Conte ha voluto dire che insieme a Tria si premura di alzare il tono della partita a scacchi con la Commissione europea. Tuttavia, per vincere le resistenze e uscire a testa alta dal confronto ai tavoli di Bruxelles, c’è bisogno di un’Italia capace di parlare con una voce sola, senza l’umiliazione di telefonate nel cuor della notte per spiegare e convincere, e quindi per avere da “chi conta davvero” il consenso su quanto deciso in accordo con gli interlocutori della Commissione.

L’arringa e il piagnisteo dell’avvocato del popolo per adesso scongiurano il pericolo di una incontrollabile crisi di governo. Conte si fa forte della mancanza di alternative, giacché nemmeno Salvini è pronto a individuarne una, con le conseguenze del caso. Il leghismo rigonfio di voti può esplodere come la rana che nella favola s’immaginava di eguagliare il bue. Al di là degli atteggiamenti smargiassi, Salvini avverte il rischio di ridursi a metafora vivente di una conclamata impotenza rispetto all’Europa, il vero “bue di questa teatrale e impossibile sfida del sovranismo. Qui c’è lo stallo e qui, pertanto, il rilancio di Conte. Avrà fortuna? Per il bene del Paese, e con lo spirito di un’opposizione che non intende lucrare in modo spregiudicato sui passi falsi della maggioranza, ci si vorrebbe anche sperare contro ogni speranza. L’Italia danza sul ciglio del burrone.

Il Centro da ricostruire. Risposta a Bonalberti.

Nei giorni scorsi, visto anche l’esito delle europee, Ettore Bonalberti aveva lanciato un nuovo appello alla riaggregazione delle forze di centro. Qui pubblichiamo la risposta del nostro direttore.

Caro Ettore,

ci troviamo d’accordo, non ci sono obiezioni sostanziali ai tuoi richiami. Se aggiungo qualcosa è per amore di dibattito. Più ci confrontiamo, con fiducia e pazienza, più rendiamo serio il percorso di riattualizzazione dell’esperienza democratica di matrice cristiana.

In Italia serve un nuovo centro. Finalmente, dinanzi alle pericolose incongruenze dell’alleanza gialloverde, trova riscontro il genuino significato della formula a noi cara: il centro che guarda a sinistra (o cammina verso sinistra, come precisava De Gasperi). Il che significa la propensione, come direttiva morale e politica, a collocare il cattolicesimo popolare fuori dal perimetro del conservatorismo, quindi ancor più, in questa fase tormentata della vita nazionale, fuori dalla morsa di populismo e sovranismo.

Non è un guadagno da poco, considerato il fatto che ancora alla vigilia di questa campagna elettorale serpeggiava l’ambizione di allestire alla bell’è meglio una proposta di stampo neo-centrista; una proposta tuttavia che appariva lontana dalla realtà, senza un orientamento percepibile a riguardo degli interlocutori da privilegiare e gli avversari, viceversa, da combattere con maggiore urgenza e determinazione. In pratica, un angusto tentativo di autopromozione.

Chi vi ha creduto, seguendo suggestioni inevitabilmente fragili, è affogato nello stagno di percentuali elettorali sconfortanti. In mancanza di propositi coerenti, forti di un legame autentico con la nostra vocazione riformatrice, si rischia il naufragio preventivo. Non possiamo evocare la cultura democristiana, fondativa per altro del migliore europeismo, con la presunzione di acquisire l’automatica speranza di riaccreditamento presso ampie fasce di elettorato,  in quell’amalgama privo di rappresentanza di ceti popolari e ceti medi.

Il centro può rinascere solo in virtù di una riscossa ideale. Non si discute la volontà di salvaguardare – per esso e con esso – il principio di autonomia, con ciò volendo sfuggire al cappio della subalternità. Sicché la questione di come si debba vivere il rapporto con il Pd – unica forza organizzata, allo stato degli atti, nel campo dell’opposizione – esige un approccio rigoroso. Bisogna evitare lo schematismo, derivante dal presupposto ingenuo o capzioso, che una deriva a sinistra del nostro principale interlocutore apporti un vantaggio nel posizionamento dei Popolari al centro.

A mio avviso, dovremmo avere lo scrupolo di sollecitare l’attenzione anche del Pd verso l’area intermedia dell’elettorato, dove sappiamo che s’addensa, per così dire, lo strato gelatinoso di un popolo ostile tanto alla radicalizzazione quanto al pressappochismo. In altre parole, alla irresoonsabilità. Anche il Pd, nel suo insieme, ha il dovere di misurarsi con tale istanza di equilibrio e discernimento. Ha poco senso la ciclica scommessa su possibili scissioni. È più conveniente che Renzi e Calenda assolvano alla loro missione dall’interno, così da frenare e correggere le spinte che vanno in direzione di un populismo sussiegoso, ordinato secondo un canone di sinistra, tendenzialmente cedevole all’ipotesi di alleanza con il M5S.

Sotto questo aspetto, l’autonomia dei Popolari consiste nel dare vigore e compiutezza al riordino in senso degasperiano del “centro progressista”, punto di irradiazione della politica riformatrice e di stabilizzazione della dialettica democratica. Per questo occorre un duplice sforzo: da un lato, a garanzia di un’ampia e feconda partecipazione, senza strumentali pregiudiziali o discriminazioni; dall’altro, a sostegno della rigenerazione di “formule ideali” destinate a vivificare un programma di risanamento e sviluppo del Paese, a partire dalla battaglia per la riduzione del debito pubblico.

Insomma, nessuno sia impedito e nessuno sia costretto: insieme, con chiarezza di obiettivi, sperimentiamo i termini di un nuovo approccio condiviso. Ce la possiamo fare, a patto che si abbia lo slancio giusto laddove, a partire dalle comunità locali, le circostanze consiglino di investire sulla formazione di una nuova leva di nuovi Popolari.

Lorenzin: Roma è una città implosa

Noi romani siamo un po’ abituati a tutto, è la storia millenaria della città eterna che dona ai suoi abitanti una vena provvidenziale mista a quel disincanto di chi sa che la città ne ha viste talmente tante che può sopravvivere e risorgere dalle sue stesse macerie.

Ma il disincanto non può essere assuefazione al degrado e al brutto, né tantomeno un alibi per le classi dirigenti per rassegnarsi all’inevitabile.

Qual’è la grande capitale occidentale in cui gli abitanti filmano in pieno giorno topi che scorrazzano tra i cassonetti eternamente tracimanti immondizia?
In cui gabbiani grandi quanto tacchini hanno colonizzato la città, sorvegliano il territorio dai tetti delle nostre auto e dopo aver decimato la fauna autoctona, cacciano topoloni  e saccheggiano le pattumiere?

Inutile parlare del corollario: zecche e topi nei parchi giochi dei bimbi e al netto dell’abbandono dell’igiene pubblica abbiamo anche le zanzare killer.

La città eterna che ha resistito a più di un’invasione scricchiola nell’incuria, voragini e buche, implosione del sistema di trasporto pubblico, neanche la metro si salva più e non si capisce dopo mesi quale fermata della metro A o B si possa utilizzare.

I servizi sociali, oggetto dell’ignobile intreccio di Mafia capitale sono più che inadeguati e carenti rispetto ad una metropoli così in sofferenza. Politiche della casa, dell’ambiente, della cultura: non pervenute.
Intanto le fantomatiche politiche della sicurezza dove sono? Intere piazze continuano ad essere zona franca per gli spacciatori e le tende dei disperati continuano a mettere i paletti nei parchi urbani, così come le efferatezze di Ostia ci spalancano lo scenario di una città dove la malavita mostra la sua faccia feroce ed arrogante.

Questa non è Roma, non è una Capitale del primo mondo.

Il dibattito sul SalvaRoma di questi giorni non è all’altezza della sfida in campo. La #lega si rifugia nel solito vecchio slogan a lei caro del “Roma Ladrona” per non autorizzare un piano di risanamento e riqualificazione della Città Eterna, dimenticandosi che i cittadini romani non solo sono vittime, ma pagano con una tassazione che non ha eguali in Italia per risanare i 12 miliardi di debito della città , senza oramai avere garantito neanche l’ordinaria amministrazione.

La Lega finge di non essere al #governo e abbandona la #Capitale d’Italia ad uno spettacolo di degrado che finisce periodicamente su tutta la stampa internazionale, penalizzando gravemente l’immagine della nazione e le capacità di chi la governa.

D’altra parte il M5S ha dimostrato tutta la sua inadeguatezza rispetto alla sfida e arriva a questo punto della sua amministrazione con una città che non ha un solo profilo di miglioramento. Soprattutto ha mostrato di non avere né una visione né una road Map per risanare la città sia dal punto di vista economico , sia sociale e culturale, sia per lo sviluppo e la trasformazione amministrativa.

Il confronto non è solo impietoso con le altre capitali europee che pur hanno dovuto affrontare non poche sfide e problemi in questi decenni, basta pensare a #Parigi o #Berlino, ma anche con Milano che ha saputo cogliere tutte queste sfide ed è diventata una delle città più attrattive d’Europa.

Ecco perché c’è bisogno di una grande alleanza per Roma che abbandoni il provincialismo stucchevole del dibattito politico del governo. Un’alleanza che veda la partecipazione di tutte le forze politiche e sociali per rimettere in piedi la città e scongiurare la crisi di liquidità paventata e il collasso della Capitale.

Serve un grande piano, concreto e misurabile che coinvolga i cittadini e li faccia partecipi del modello di risanamento e rilancio della propria città.

Il salva Roma serve e va costruito con attenzione, approfittando di questo decreto, deve salvare la città sul serio e non solo la sua attuale amministrazione rimandando il problema alle prossime elezioni.

Macche’ “Movimento”, e’ Casaleggio e associati s.r.l.

Non lo abbiamo scoperto noi. E’ cosa riconosciuta e comprovata. Se ne è scritto in giornali ed in libri. Quello dei “Cinque Stelle” non è un partito, o qualcosa che gli somigli, una associazione di cittadini mossi da sentimenti e convincimenti politici comuni che si siano messi assieme per esercitare il diritto sancito dell’art. 49 della Costituzione.
Il cosiddetto Movimento 5 Stelle è un pezzo della proprietà della “Casaleggio e Associati” S.r.l., uno strumento di produzione di quel lucro che è il fine di tale società.
Si è contestato, non senza fondamento, a Berlusconi di essersi considerato sempre il “proprietario” di Forza Italia. Berlusconi era (e per quel che ne resta, è) l’unico che pone e dispone di Forza Italia, partito senza organismi collegiali e con dirigenti che non siano nominati da lui, dal padrone. Che è quello che “ci ha messo e ci mette i soldi” (e “la faccia”).
Nel cosiddetto Movimento 5 Stelle, Casaleggio, prima il padre, poi il figlio, i soldi ce li ricavano e, a quel che si dice, molti.

Il rapporto tra consiglieri, deputati, senatori cinquestelluti e movimentisti è, in realtà rapporto con la società Casaleggio e Associati S.r.l. Sono dipendenti con una sorta di “rapporto di lavoro”, con uno “Statuto” che è una sorta di contratto collettivo con carattere privatistico.
Gli eletti “rendono” alla S.r.l. Casaleggio versando una quota delle loro indennità. Sono munti come vacche da latte.
Non a caso Di Maio viene chiamato “capo politico” dal Movimento. Il che sta a significare che a gestirlo ci sono altri capi che si occupano della baracca redditizia.
Ma, mentre il carattere “patrimoniale” di Forza Italia è stato sbattuto in faccia a Berlusconi ed a tutti gli aderenti e considerato di per sé motivo di diffidenza e di presa di distanza di quel partito, dal suo leader e dalla sua politica, con la “Casaleggio S.r.l.” hanno trattato non solo oggi la Lega e Salvini, ma in passato anche Renzi ed altri.
E, mentre contro il finanziamento dei partiti si è fatta una legge chiaramente diretta a renderlo difficile ed a farne quasi un delitto, nessuna regola è stata imposta, se non la stessa rappresentata dalla Costituzione, per impedire o, almeno, ostacolare, limitare, lo sfruttamento di quelli che vengono presentati al Paese come “partiti” quale fonte di redditi ed oggetto patrimoniale redditizio di società e imprese più o meno chiare.
E’ questa la più grave e disgustosa manifestazione di ipocrisia che abbia dato il nostro mondo politico.

Gli espedienti per “mungere” gli eletti 5 Stelle (e, di conseguenza la buona fede degli elettori) sono vari e spesso illegittimi alla luce delle stesse disposizioni costituzionali. Basti pensare alle “penali” a carico dei Parlamentari che lasciano il Movimento ed i suoi Gruppi: norma che sfacciatamente viola il “divieto del vincolo di mandato” per gli Eletti in Parlamento.
Si dirà che il versamento di una quota dell’indennità non l’hanno inventata né Casaleggio né Di Maio. Ma, a parte l’entità, una cosa è il concorso alle spese del proprio gruppo parlamentare ed il versamento al Gruppo, ad altri Parlamentari con i quali si lavora, altra il versamento al “proprietario” del partito, ad una società a scopo di lucro di cui il partito è solo l’ombra.
Vi sono dei corollari di questa sciagurata invadenza di una società di lucro nello sfruttamento della vita politica istituzionale dello Stato che, solo ad ipotizzarli, fanno rabbrividire.

Anche se gli affari della Casaleggio e C. vanno a gonfie vele, non può escludersi l’ipotesi di un eventuale fallimento.
In tal caso la Curatela fallimentare ed il Tribunale metterebbero piede (e le mani) nel funzionamento di un gruppo parlamentare e disporrebbero dei Parlamentari.
Mezzo Parlamento sarebbe sottoposto a qualcosa che ha a che vedere con la procedura concorsuale.
Nessuno ha sollevato tale questione di estrema delicatezza. Certamente ogni specifico rimedio normativo rischierebbe di apparire ancora più gravemente lesivo dei principi di libertà e di autonomia del Parlamento di quanto già non lo sia questa assurda baracca di sfruttamento della politica e della vita delle istituzioni cosiddette democratiche.
Un personaggio che ben conosce il marchingegno della Casaleggio S.r.l., interrogato da un giornalista sulle prospettive di sopravvivenza dell’attuale Governo, ha risposto che questo durerà finchè Salvini non farà il nome di Casaleggio.
C’è proprio bisogno che lo faccia Salvini?

Economia circolare: 4 imballaggi in carta su 5 tornano a nuova vita

Il Programma specifico di prevenzione pubblicato da Comieco presenta risultati  incoraggianti. Il documento rileva  come nel 2018 gli imballaggi cellulosici immessi al consumo siano stati oltre 4,9 milioni (+0,78% rispetto al 2017). Ma il dato di maggior interesse è quello riferito al  numero dei rifiuti da packaging destinati al riciclo, che si attestano a più di 3,9 milioni, con un incremento, rispetto all’anno precedente, del 2,45% e un tasso di recupero pari all’81,44% (+1,66% rispetto al 2017). A diminuire del 2,34% sono invece i quantitativi di imballaggi cellulosici avviati a termovalorizzazione, che passano da 382.768 tonnellate nel 2017 a 373.882 tonnellate nel 2018. A riprova del fatto che diminuisce la presenza di imballaggi in carta e cartone nel rifiuto indifferenziato.

In Italia la raccolta di macero, considerando sia la provenienza domestica sia quella industriale, raggiunge complessivamente quota 6,6 milioni di tonnellate. Un dato destinato a salire se si considera la crescita costante delle percentuali di raccolta differenziata al Sud, che sta recuperando terreno nei confronti del Centro e del Nord. Aumenta inoltre il numero dei Comuni convenzionati con Comieco (attualmente sono oltre 5.600), una rete che copre l’83,8% del territorio nazionale e coinvolge 51,3 milioni di abitanti. Un ulteriore incremento c’è stato a partire dal gennaio 2019 con numerosi Comuni, che prima gestivano la propria raccolta al di fuori del consorzio, che hanno chiesto di sottoscrivere nuove convenzioni. Questi flussi, insieme alle maggiori quantità da amministrazioni che prima affidavano al consorzio solo parte della propria raccolta e ai volumi aggiuntivi attesi principalmente al Sud, porteranno Comieco a prendere in carico e avviare a riciclo oltre 600.000 tonnellate di materiale in più rispetto al 2018. Questo per effetto di una contrazione dei prezzi del macero, dovuta anche al blocco alle importazioni imposto dalla Cina.

La raccolta differenziata ha un importante valore non solo dal punto di vista ambientale ma anche da quello economico per il territorio e le comunità. I corrispettivi erogati da Comieco ai Comuni,  ammontano ad oltre 110 milioni di euro, in una duplice logica di sussidiarietà e garanzia del riciclo, sostenendo a tutto campo lo sviluppo dei servizi di raccolta differenziata per la crescita dell’economia circolare.

La sfida è tra fautori di un futuro possibile e irresponsabili demagoghi.

Si è scritto molto sulla famosa “lettera” che il Governo italiano ha mandato a Bruxelles in risposta alla richiesta di chiarimenti sullo stato del nostro debito pubblico.
Sappiamo che questa lettera dice ciò che il Governo in carica – con le sue divisioni – poteva dire. Cioè ben poco, se non fare riferimento – legittimo, ma scontato – alle condizioni generali di mancata crescita registrate, seppur meno che in Italia, a livello europeo.
Qualcuno sostiene che la Commissione Europea, sulla base di questa lettera – ma forse,  più che altro, sulla base della oggettiva debolezza politica di un organismo in scadenza – non attiverà subito nessuna procedura formale di infrazione contro l’Italia per violazione degli accordi liberamente sottoscritti anche dal nostro Paese in materia di debito pubblico.
Sinceramente lo auspico, da italiano e da europeo.
Sbaglierebbe l’opposizione a scommettere su un esito diverso dell’istruttoria in corso a Bruxelles, nonostante il fatto che il Governo italiano abbia fatto di tutto per mettersi (e mettere tutti noi) nei guai.
Tocca all’opposizione – e a tutte le forze sociali e civili del Paese – dimostrare quel senso dello Stato e quella responsabilità che Lega e M5S non hanno saputo esprimere fino ad ora.
Del resto, il passaggio vero non sta nell’esito di questa famosa “lettera”.
Se la Commissione aprisse formalmente la procedura di infrazione sarebbe drammatico: ma se anche – come si spera – non lo facesse, i problemi per l’Italia non sarebbero certamente superati.
Resta, in ogni caso la necessità di una manovra autunnale di Bilancio che – stante la situazione – neppure Mago Merlino potrebbe confezionare senza decisioni gravi e impegnative.
In poche parole – Bruxelles o non Bruxelles – non ci sono i soldi per realizzare neppure una minima  parte delle promesse in base alle quali Lega e M5S – oltretutto con proposte tra loro divaricanti – hanno vinto le elezioni politiche del marzo 2018 e tanto meno per realizzare il “contratto di Governo”,  che ne rappresenta non una sintesi, ma una semplice sommatoria, di volta in volta “tirata per la giacca”.
Le poche risorse finanziarie a disposizione sono state ipotecate da misure ottime dal punto di vista elettorale, ma di dubbia efficacia sul piano della crescita e anche su quello dell’equità sociale. E nessuno sa dire come sarà possibile reperire le risorse necessarie per finanziare tutto il resto che si sbandiera.
Sarebbe buona cosa se il Governo dicesse la verità: la questione della “lettera” di cui alle discussioni attuali con Bruxelles riguarda la situazione attuale – già precaria – della nostra finanza pubblica, non  il suo prossimo futuro.
Entro il quale si colloca – tra l’altro – anche la promessa di una Flat Tax da 30 miliardi (peraltro in campagna elettorale la Lega aveva proposto una misura da 50/70 miliardi) senza che ciò riduca né la spesa corrente “sociale” né la spesa di investimento (già ridotta all’osso) e senza che ciò comporti l’aumento dell’IVA già iscritto come previsione nel Bilancio 2020 per circa 24 miliardi.
Come si pensa di ottenere questo risultato? Dio solo lo sa.
Si dice che la soluzione non può più essere quella della “austerità”. Giusto.
Le politiche restrittive sono state una dura necessità nel momento dell’emergenza finanziaria ma non possono essere un dogma valido sempre e comunque. Lo sappiamo bene.
Il problema sta nel fatto che il rilancio di una politica espansiva (orientata alla crescita e alla equità sociale) non potrà essere praticata dai singoli Stati Nazionali: nessuno di loro (a maggior ragione quelli più gravati da un gigantesco debito pubblico come l’Italia) ha le risorse e le capacità di farlo, a fronte del nuovo scenario competitivo globale. Condivido l’idea che il ricorso al debito – in una situazione come questa – può essere una necessità.
Ma come possiamo pensare che ciò possa essere fatto dai singoli Paesi ed in particolare dal nostro?  Quali sarebbero le conseguenze sui mercati finanziari? L’Italia già oggi deve mettere ogni anno a Bilancio circa 80 miliardi per pagare gli interessi sul debito: soldi che dobbiamo stanziare per pagare gli interessi a chi ci presta nuovi soldi per pagare i debiti già contratti che vengono a scadenza.
La mia opinione è che solo i Paesi Europei della Zona Euro, tutti assieme, potrebbero mettere in campo una strategia di finanziamento straordinario a debito di investimenti strutturali per la crescita e la lotta alle disuguaglianze.
La vera battaglia a Bruxelles non dovrebbe essere sulla “flessibilità” nel calcolo del rapporto tra Pil e Debito Pubblico nei singoli Bilanci Nazionali (flessibilità che peraltro l’Italia ha usato ampiamente nel recente passato) ma sulla decisione di dare vita ad una Autorità Finanziaria della Zona Euro abilitata ad emettere obbligazioni garantite dalla BCE e finalizzate a sostenere investimenti straordinari per accrescere la competitività economica, l’innovazione tecnologica, l’efficienza infrastrutturale, la ricerca e la coesione sociale.
Certo è che per varare un programma di questo tipo servono una forte volontà di segno “europeista” ed una fiducia reciproca che oggi non si vedono.
Speriamo che il nuovo Parlamento Europeo trovi al proprio interno una maggioranza che punti su questa prospettiva.
Non saranno però certo gli “amici euroscettici” di Lega e M5S a poter dare un consenso a questo progetto.
Il sovranismo è arma a doppio taglio. Mitizza la sovranità dei singoli Paesi ma non concepisce la vera, unica dimensione che oggi può garantire questa “sovranità”: quella della sua condivisione in chiave europea.
Dunque, non siamo oggi di fronte ad una disfida tra “rigoristi” fautori dell’austerità da una parte e propugnatori di una politica finanziaria ed economica espansiva dall’altra.
Siamo semplicemente di fronte ad uno scontro tra fautori di un futuro possibile e demogoghi irresponsabili.

Merlo: Quali paletti per il centro?

Dunque, senza avventurarsi in sermoni interminabili, credo sia giunto il momento per piantare alcuni paletti. Pur senza dimenticare che si trattano sempre e solo di opinioni. Soprattutto quando si parla di nuovi equilibri politici e di luoghi politici da ricostruire.

Ora, e brevemente, cerchiamo di elencare alcuni aspetti essenziali.

Innanzitutto, e parlando del fatidico “centro” – politico e culturale, di governo e plurale – da ridefinire e da ricostruire, non possiamo non prendere atto che un centro autonomo e autosufficiente da tutto e da tutti semplicemente è un non senso. O meglio, si tratta di un progetto politico tecnicamente improponibile. Fuorché si faccia della testimonianza la ragione sociale della propria presenza in politica.

In secondo luogo, come ha confermato per l’ennesima volta il recente voto europeo, non esiste un “partito dei cattolici”. Pur con tutto il rispetto del caso, è ovvio che le esperienze del passato, seppur gloriose e nobili, non possono più essere meccanicamente riproposte. E tutti i tentativi messi in campo in questi ultimi mesi – al netto delle buone intenzioni – si sono dimostrati oltrechè drasticamente perdenti anche un po’ patetici e anche goffi. E ciò per una semplice ragione: i partiti “identitari”, e anche un po’ nostalgici, sono semplicemente fuori tempo e fuori luogo.

In terzo luogo, fortunatamente, e’ tornata di moda la “cultura delle alleanze”. Dopo la sbornia della “vocazione maggioritaria” del Pd e la tentazione dell’attuale segreteria del Pd di costruire la coalizione a tavolino pianificando chi deve coprire il fianco destro, il fianco sinistro e il fianco centrista e cattolico, forse siamo arrivati al risultato di far ritornare protagonista nella cittadella politica italiana la grande intuizione della Democrazia Cristiana della “cultura delle alleanze”. E la cultura delle alleanze non può prescindere dal fatto che il “centro” ci sia e che, di conseguenza, si schieri. Fuorché, lo ripeto a scanso di equivoci, decida di giocare un ruolo puramente e stancamente testimoniale.

E quindi, e in ultimo, se il centro deve anche contribuire a costruire una coalizione, non può non decidere da che parte stare. Ora, per fermarsi su questo versante, è indubbio che un “centro” non solo identitario ma plurale deve essere collocato nel contesto storico concreto in cui è inserito. E se la storia, la cultura, il pensiero e la tradizione del cattolicesimo democratico e popolare non può subire una deriva conservatrice o di destra, è abbastanza ovvio che non può non “guardare” da un’altra parte. A due condizioni, però: che sia radicalmente autonomo e che sappia esprimere una posizione politica netta, con un definito riferimento culturale, con un radicamento sociale e territoriale e con un classe dirigente altrettanto autorevole. Ovvero, un “centro” che non sia un banale e stanco prolungamento di ciò che decide e vuole l’azionista di maggioranza della coalizione. E che, soprattutto, esprima una posizione politica e non un semplice posizionamento geografico.

Ecco, questi mi pare sono alcuni paletti essenziali – seppur affrontati in chiave volutamente sbrigativa ed essenziale – per orientare il dibattito e il confronto sul “nuovo partito di centro” che sta per decollare. Certo, restano sempre e solo opinioni. Ma è indubbio che la fase della contemplazione e della semplice osservazione e’ ormai alle nostre spalle. Il recente voto europeo accelera una fase politica che deve vedere proprio il “centro” protagonista politico, culturale e programmatico e non una semplice comparsa.

Autonomia e spirito della “coalizione”. Necessario il chiarimento

Credo che alcuni contributi pubblicati su Il Domani d’Italia in questi giorni, e il contemporaneo dibattito in corso tra gli amici della Rete Bianca, meritino una riflessione molto approfondita.

Non vorrei che si delineasse, infatti,  uno spartiacque all’interno delle considerazioni condotte negli ultimi mesi. Queste sembravano poter portare ad un potenziale sbocco convergente ed estremamente positivo tra quanti hanno comuni, forti riferimenti di pensiero.

E’ come se per qualcuno l’arrivo sulla scena di Nicola Zingaretti, molto più interessato al recupero della sinistra, significhi davvero qualcosa di dirimente in un percorso che, invece, è inevitabilmente più articolato.

Mi ha molto colpito che,  mentre il dibattito nazionale, durante e dopo le elezioni europee,  sia stato in buona parte richiamato da quella che le strumentalizzazioni di Salvini hanno fatto emergere come una rinnovata questione dei “ cattolici”, che meglio sarebbe definire voto dei cattolici, il neo segretario del Pd non abbia avviato, invece,  una neppure piccolissima riflessione al riguardo.

Credo di avere chiari i motivi di questa “ latitanza”. Essa richiama,  infatti, la necessità di un profondo ripensamento della deriva pieddina che ha preferito impegnarsi in una lunga battaglia, la cosa risale ai Dico di Bertinotti, a favore di  diritti parziali, così sacrificando quelli più generali e quegli elementi di criticità etico morali che richiederebbero una ben più forte assunzione di responsabilità.

Confrontarsi con il pensiero popolare e democratico cristiano non significa, comunque, solo parlare di legge Cirinnà, di bioetica, di applicazione completa della 194 o di fine vita. C’è questo e c’è altro: il lavoro, la famiglia, la scuola e l’educazione, il Mezzogiorno, il  riequilibrio da assicurare tra Stato centralizzato e le autonomie, il rispetto dei corpi e delle rappresentanze sociali intermedie, recuperando un autentico spirito di funzionalità , di solidarietà e sussidiarietà. Cose su cui manca la tensione adeguata anche da parte dei 5 Stelle, per non parlare della Lega.

Da tempo vogliamo  ridare corso ad una iniziativa politica ispirata al pensiero popolare e democratico cristiano. Secondo me, e secondo tanti altri, una tale presenza dovrebbe caratterizzarsi sulla base di elementi  di libertà e di autonomia.

Ciò è fortemente richiesto, tra l’altro, da una realtà territoriale in espansione, intenzionata a mettersi in gioco dopo la grande stagione dell’indifferenza e dell’irrilevanza degli ultimi 25 anni e l’accettazione di un gioco bipolare che ha segnato la fine,  non solo della capacità di presenza del nostro pensiero e della nostra sostanziale rappresentanza in Parlamento, ma anche quella di altri grazie ai quali è stata creata l’Italia repubblicana e democratica, come i liberali, i repubblicani e i socialisti.

E’ scontato che esiste la necessità di non concepire un’iniziativa politica destinata, se non bene preparata e ben gestita, a sfociare in una mera testimonianza oppure, peggio, ad  assumere una fisionomia clericale ed integralista (ce ne possono essere anche con accenti sociali di “ sinistra).

Deve anche essere evitato l’abbandonarsi a quelle suggestioni a “ farsi lievito”, indubbiamente doverose per ogni singolo cristiano, ma che sotto il profilo politico si sono rivelate del tutto inconsistenti. Così come,  tali si sono rivelate le intenzioni vagheggiate da qualcuno convinto dalla politica dei “ cento fiori”, alla Mao Zedong. Da noi, in Italia, potremmo definirla delle “ cento presenze”. Resta confermato dalle recenti esperienze  che in politica e, soprattutto, sul piano legislativo, non funzionano sempre le regole della matematica.

Questo ragionamento è sollecitato dalle riflessioni più volte avanzate da Lucio D’Ubaldo sulla necessità di non dimenticare quella caratteristica peculiarità dei cattolici democratici che richiama lo spirito degasperiano della  coalizione .

Salvo brevi pause, utili a superare momenti di crisi importanti, quelle che chiamavamo dei governi  “balneari”, tutta la storia della presenza Dc, dalla nascita della Repubblica in poi, è stata vicenda di coalizioni. Sotto questo profilo, non bisognerebbe dimenticare Aldo Moro.

Il concetto della “coalizione”, cui D’Ubaldo giustamente si riferisce, è importante. Salutare metodo mentale e adesione realistica e pratica alla concretezza nell’agire politico, fu più marcatamente distintivo in De Gasperi, a causa del contesto storico in cui egli operò dopo il 1944.

Le prime coalizioni degasperiane furono  inevitabile conseguenza della lotta di liberazione e della partecipazione alla Resistenza. Almeno  in parte-soprattutto per la posizione dei vertici settentrionali della Dc- anche per il successivo, violento  scontro Repubblica – Monarchia.

Le coalizioni che vennero dopo ebbero preminentemente sullo sfondo delle vicende internazionali  dalla fortissima influenza su quelle interne. Non si trattava, dunque, solo dello sviluppo delle caratteristiche intellettualmente innate in De Gasperi  e nel gruppo dirigente formato e sostenuto da uno dei più grandi santi della Politica, come fu Montini, bensì di cogliere e mettere in pratica quel “ fondamento realistico dei processi politici” che Lucio richiama.

L’approfondimento che dobbiamo fare, ma qui adesso devo solo limitarmi a porre la questione, è quello di come possa essere ripreso e rigenerato il concetto della coalizione. Aggiungendo i quesiti : da chi? con chi? sulla base di quale progetto?

Gli attuali processi politici in corso, in una fase del tutto improntata alla variabilità e all’indeterminatezza, caratteristiche  probabilmente destinate ad accentuarsi a seconda di come si risolveranno le questioni preminenti dei conti pubblici e del rapporto con l’Europa, possono fare intravedere già oggi una qualche coalizione praticabile e spendibile?

La montagna con cui si presenta oggi la destra, senza alcuna possibilità per noi di inerpicarcisi, ha di fronte un’altrettanto impervia ripa scoscesa rappresentata da un indifferente Pd a certe istanze.

Tornando al riferimento storico, vale la pena di ricordare come Don Luigi Sturzo non perse mai i collegamenti intellettuali con le frange più illuminate del liberalismo, soprattutto Gobetti e Sforza, e con la sua versione radicale storica, principalmente quella nittiana. Interloquì con gli esponenti del  socialismo umanitario alla Salvemini o con i non massimalisti come Turati. Ma partì e continuò a disegnare un Ppi decisamente “autonomo”.

Se viene mosso un rilievo al prete di Caltagirone è quello di aver sacrificato sull’altare dell’autonomia la possibilità di rispondere al fascismo con l’alleanza con Giolitti da lui invece, avversato fino alla fine,  nonostante vedesse chiaramente il pericolo rappresentato dalla destra estremista. Provò , con un ultimo guizzo, a pensare ad una coalizione con Turati, ma ciò restò appena appena abbozzato: evidente era l’impossibilità di avviare una collaborazione con tutto il Psi.

Come scrisse Mario Scelba nel 1960, la scelta dell’autonomia sturziana e popolare fu un atto di lealtà verso lo Stato, oltre che un elemento di chiarezza verso i laici, la Chiesa ed il mondo cattolico. Un mondo cattolico in gran parte ingabbiato nel clerico moderatismo i cui toni ed accenti sembrano trovare nuova forza ai nostri giorni.

Sin dagli inizi del ‘900, Sturzo capì che il movimento democratico dei cattolici, perché ad essi solo si rivolgeva, non a tutti i cattolici!, doveva definire e presentare  un’identità ben specifica. Essa non ruotava attorno alla necessità di dare vita ad una organizzazione fine a se stessa, bensì trovava alimento in quell’originale messaggio universale definito dalla Rerum Novarum di papa Pecci.

Il contributo di Aldo Moro nel coniugare autonomia, identità e capacità di ascolto e dialogo è talmente evidente, e più recente, da non richiedere molte parole.

Anche nel suo pensare, e nel suo agire, si coglie come il concetto di coalizione richieda il delinearsi di soggetti ben definiti e la forza e la capacità di rappresentare, ciascuno, un fenomeno dalla fisionomia chiara e distinta. Altrimenti, il rischio è quello di trasformare il “fondamento realistico dei processi politici” nell’adattarsi in panni non propri. E noi ne abbiamo visto i risultati grazie a coloro che si sono immersi nel “berlusconismo” o in un Pd ritrovatosi senz’anima.

So già che qualcuno mi verrà a parlare di quella “emergenza democratica” di cui dovremmo tenere conto. Non vorrei ora anticipare la risposta a rilievi che ancora non sono stati espressi, ma che io vedo possibili. Si tratta di osservazioni che ho, comunque, ben presenti, perché già ribadite, ma che credo debbano ricevere altra risposta rispetto a quella proposta da quanti credono possibile creare una “ corrente cristiana” nel Pd o in un “fronte” che ruoti attorno al Pd.

Sono convinto che l’attuale destra non si sconfigga solo in un modo e, in più,  rischiando di regalarle altri pezzi del voto dei cattolici, comunque oggi rifluiti in gran parte nell’astensione.

Allora, in attesa che i processi politici maturino, non è meglio cominciare ad individuare un altro percorso, ricostruendo dal basso, nei territori? Più che a coalizioni sul piano politico, che mi rendo conto possono costituire una più facile via d’uscita per chi ha anche legittime ambizioni elettorali, penso che sia meglio applicare questo spirito di coalizione, possibilmente caratterizzato da forti contenuti programmatici e da facce nuove, all’interloquire con le realtà sociali, con le categorie di rappresentanza e con tutto quel “nuovo” che sta emergendo nella stessa realtà dei laici cattolici italiani, più che mai alla ricerca di una voce e di una presenza originale.

 

Festa della Repubblica: 2 giugno una data storica per l’Italia

Spesso si attribuisce facilmente, in questa  nostra società che sembra governata dalla comunicazione non sempre veritiera, ad un evento, ad una data, ad un incontro, oppure a una scoperta o a una invenzione, l’aggettivo di storico, poi ci si rende  conto, che di storico non c’era quasi nulla. A questa constatazione fa certamente eccezione la data del 2 giugno 1946. Infatti è stato il primo giorno delle votazioni del popolo italiano sul referendum per la scelta di forma costituzionale dello Stato, tra Repubblica o Monarchia, nel secolo scorso.

La prima consultazione a suffragio universale, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale alla quale parteciparono, per la prima volta, anche le donne. La tragedia della guerra era alle spalle di chi aveva conosciuto lutti, occupazione straniera e miseria, venti anni di dittatura erano stati sconfitti, sulla rinascita e la ricostruzione i cittadini attendevano con speranza quale strada intraprendere, e il nostro Paese si confrontava su che tipo di futuro scommettere. 28 milioni di italiani, uomini e donne, avevano il diritto di esercitare questa scelta con il loro voto, conquistato con tanti sacrifici, con tanti martiri, con tante privazioni, con tanti drammi  conosciuti e sconosciuti, per dare al nostro Paese democrazia, libertà e giustizia.

Nella votazione referendaria la Repubblica ottenne 12.718.641 voti, la Monarchia 10.718.507 voti, e un milione e mezzo di voti furono annullati. Nella circoscrizione di Roma il dato elettorale vide attribuiti circa 740 mila voti alla Monarchia e 711 mila alla Repubblica. La proclamazione ufficiale che  confermò il risultato delle urne da parte della Corte di Cassazione, avvenne il 18 giugno 1946. Quindi con lo storico referendum del 2 giugno 1946, venne sancita la fine della Monarchia dopo 85 anni di Regno, e la nascita della Repubblica Italiana. Il 1° luglio Enrico De Nicola viene nominato primo Presidente della Repubblica Provvisorio, Alcide De Gasperi è il primo Presidente del Consiglio. Il 1° gennaio 1948 viene promulgata  la Costituzione della Repubblica Italiana, approvata dall’Assemblea Costituente, con 453 voti su 515 costituenti.

Con la Festa del 2 giugno si  celebra nel nostro Paese anche la nascita della Nazione moderna, in maniera simile al 14 luglio francese (anniversario della presa della Fortezza della Bastiglia a Parigi nel 1789), e al 4 luglio statunitense (anniversario della dichiarazione d’indipendenza dalla Gran Bretagna del 1776), giorno in cui nacquero ufficialmente gli Stati Uniti d’America. Prima della nascita della Repubblica, la giornata celebrativa nazionale del Regno d’Italia era la festa dello Statuto Albertino, che si teneva nella prima domenica di giugno.

Questa giornata di Festa Nazionale si caratterizza per una serie di celebrazioni ed eventi simbolici: dalla Parata militare con tutte le Forze Armate italiane, le Forze di Polizia della Repubblica, i Vigili del Fuoco, la Protezione Civile, la Croce Rossa e le Freccie Tricolori, alla presenza delle più Alte Cariche dello Stato con il Presidente della Repubblica, e la partecipazione di tanti cittadini che vengono a Roma da molte città del nostro Paese, dalla visita ai Giardini del Quirinale aperti al pubblico alle cerimonie ufficiali che si tengono su tutto il territorio nazionale e nelle sedi delle Ambasciate italiane nel mondo.

La Parata viene dedicata ogni anno a una tematica differente, a secondo delle situazioni e delle circostanze. Se ne ricordano alcune: “ Le forze armate per la Patria”, “ La Repubblica e le sue forze armate impegnate in missioni di pace”, “150° anniversario dell’Unità d’Italia”, “I terremotati dell’Emilia”, “Al centenario della Grande Guerra”. In questo 2 giugno 2019, il tema scelto è “L’inclusione” che secondo fonti del Ministero della Difesa, “che vuole evidenziare la volontà di non lasciare indietro nessuno, di combattere contro le emarginazioni sociali. Un segno di attenzione agli ultimi per un evento che ha di per sé un carattere inclusivo proprio perché si svolge in occasione della Festa della Repubblica, ricorrenza che unisce tutti gli italiani.” La sfilata militare si svolgerà nella consueta cornice di via dei Fori Imperiali nella Città Eterna.    

Oggi a 73 anni da quel voto storico, c’è bisogno di riscoprire con entusiasmo i valori di una scelta fondamentale per la nostra democrazia attraverso la lettura, le testimonianze, gli approfondimenti.  

Oggi tradurre i comportamenti e l’agire dei principi che la scelta del 2 giugno 1946 ha indicato alle donne e agli uomini  anche del nostro tempo, attraverso la Carta Costituzionale, deve significare recuperare l’etica, lo spirito di solidarietà, la partecipazione, per fare del nostro paese un grande protagonista nella famiglia europea.

Oggi il richiamo infaticabile e  costante del Presidente Sergio Mattarella, come quello del 29 maggio scorso, in occasione della cerimonia di premiazione degli studenti vincitori del concorso dal titolo “Conoscere, capire, amare: i doveri nella Costituzione”, dove ha sottolineato come “I valori della Costituzione, sono in realtà quel che tiene insieme il nostro Paese, ciò che lo tiene unito. Il nostro Paese contiene – come è naturale e come è bene che sia – tante opinioni diverse, e anche interessi diversi. E questo è normale in qualunque Paese, ed è anche bene che vi sia un confronto, una dialettica di idee, di posizioni, di convinzioni. Ma quel che tiene unito, al di sopra di questo, il nostro Paese è il complesso dei valori che la Costituzione indica, perché la Costituzione è un grande risultato per il nostro Paese, che va tenuto sempre in grande attenzione e valore, e va preservato, conservato, tutelato. La democrazia è una condizione che va continuamente alimentata da impegno nuovo, da convinzione, da dedizione sempre rinnovata. Sono i valori che vivono nella quotidianità, nei comportamenti di ogni giorno”.

Questo deve essere lo spirito e la consapevolezza nel ricordare questa data storica del 2 giugno per la scelta referendaria di oltre 70 anni fa,  che ha aperto la strada alla Costituzione Repubblicana Italiana, ed è la legge fondamentale dello Stato Italiano rappresentando il vertice della gerarchia delle fonti nell’ordinamento giuridico della Repubblica. Ecco perché, riflettere sulla nostra Carta Costituzionale, può aiutare tanti cittadini a capire quale deve essere il nostro futuro. Anche questo può essere  un modo per ricordare la Festa della Repubblica.

 

Perchè Francia e Italia dovrebbero andare d’accordo

Partiamo da un dato certo. Francia e Italia hanno un interesse comune a porre fine alla guerra civile in Libia, a promuovere la stabilità in Nord Africa, a gestire la migrazione, a cooperare per costruire una difesa europea più forte in termini sia militari che industriali e a sviluppare le loro economie attraverso investimenti e infrastrutture transfrontaliere .

Dopo la Brexit, inoltre, saranno la seconda e la terza economia dell’Unione europea e avranno bisogno del sostegno reciproco per controbilanciare il potere della Germania e di un gruppo di paesi settentrionali fiscalmente conservatori sul bilancio dell’UE.

Invece, Parigi e Roma non sembrano capire questo semplice assioma.

L’arroganza francese e le spacconate italiane infatti sono di intralcio ad un potenziale riavvicinamento fra i due paesi. I sospetti che i rispettivi leader si sono lanciati in campagna elettorale, hanno minato le relazioni di amicizia. E, anche se entrambi i paesi hanno bisogno l’uno dell’altro per raggiungere i propri interessi nazionali e per una più ampia sicurezza europea e mediterranea, sembra che poco facciano per capirlo.

L’unico sprazzo di buona volontà è arrivato dall’incontro del 2 maggio, tra i Presidenti Macron e Mattarella.

Solo in quell’occasione, nell’ultimo anno, si è ricordato quanto strettamente intrecciati sono culturalmente e storicamente i due paesi. 

 

Non si può morire di debito pubblico

Fonte http://www.associazionepopolari.it a firma di Daniele Ciravegna

Da almeno 35 anni il debito pubblico costituisce lo snodo che condiziona le scelte di politica economica italiane. Da un generico: “questo non si può fare perché l’eccessivo peso del debito pubblico non ce lo permette” a uno specifico: “quell’azione di politica economica – ad esempio, una politica fiscale espansiva, necessaria per far crescere domanda, PIL e occupazione – non è realizzabile perché creerebbe deficit del bilancio pubblico, che farebbe aumentare il debito pubblico, il che è impensabile”…

Gran parte di ciò che s’individua come necessario per il nostro Paese è bloccato per non creare preoccupazione agli investitori finanziari stranieri, che “potrebbero affossare la nostra economia” (quando poi la quota del debito pubblico posseduta dai non residenti non supera il terzo del totale, e di questo bisognerebbe tener conto anche quando si esecra il fatto che gli interessi sul debito pubblico siano pari al 3,5 per cento del PIL: un’insopportabile distruzione d’ingenti risorse nazionali…).

Per non parlare del fatto che “il debito pubblico supera il PIL, per cui non è sostenibile”; quando il rapporto fra debito pubblico e PIL è semplicemente un indicatore di dimensione del debito pubblico in termini relativi (come facevano un tempo i geografi che rendevano in termini relativi le grandezze economiche di territori differenti esprimendole per numero di abitanti o per kmq.) e non certo un indicatore di capacità di rimborso di un debito pubblico poiché – quando il debito pubblico è di una certa dimensione – la predetta capacità non è data dal potenziale gettito di imposte dirette e indirette ordinarie: un ingente debito pubblico può essere ripagato, per via fiscale, solo con il ricorso a imposte patrimoniali.

In effetti, il male effettivo del debito pubblico italiano sta nel blocco che esso ha imposto nel dibattito e nell’azione politica: un obiettivo intermedio che blocca il raggiungimento di obiettivi più importanti, in quanto concorrono a formare il bene comune. Ma tant’è, e quindi occorre escogitare un qualche meccanismo che attenui il vincolo del debito pubblico, pur in presenza di un rilevante debito pubblico.

Prima di proseguire, facciamo un passo indietro, riandando agli Anni Ottanta (nel corso dei quali rapporto Debito pubblico/PIL passò dal 54 al 92%) e prima metà degli Anni Novanta del secolo scorso (dal 92 al 118%). V’è chi imputa questo alla perdita della sovranità monetaria da parte dello Stato, iniziata con il “divorzio” tra Tesoro dello Stato e Banca d’Italia nel 1981, che abolì l’obbligo (introdotto nel 1975), per la seconda, di comprare titoli del debito dello Stato che fossero rimasti invenduti nelle aste pubbliche di assegnazione dei titoli stessi.

Questo “divorzio” aveva avuto tre cause: 1) seguire l’impostazione della politica monetaria statunitense, in quel momento, di tipo significativamente restrittivo; 2) in virtù del credo monetarista, togliere allo Stato il controllo dell’offerta di base monetaria, poiché “la moneta è cosa troppo seria perché sia lasciata in balia dello Stato”; 3) dare un segnale forte ai mercati internazionali che la politica economica italiana avrebbe operato seriamente per combattere l’inflazione dei prezzi. Si ricordi comunque che – a norma dell’art. 123 del Trattato dell’UE (TUE) – non è permessa la monetizzazione dei deficit pubblici, poiché la Banca Centrale Europea (BCE) e le banche centrali dei singoli Paesi membri hanno il divieto categorico di “acquisto diretto di titoli di debito degli Stati membri e di tutti gli organismi di diritto pubblico o delle imprese pubbliche degli Stati membri”, oltre che di concessioni agli stessi di “qualsiasi forma di facilitazione creditizia”.

La spiegazione sopra riportata è alquanto debole, poiché il “divorzio” non significò cessazione immediata dell’acquisto di titoli pubblici di nuova emissione da parte della Banca d’Italia, la quale continuò a comprarli, in totale autonomia, per quasi tutti gli Anni Ottanta, e in questi anni il rapporto Debito pubblico /PIL – come si è visto – prese ad aumentare in modo continuativo e rilevante, e poi per il fatto che la Banca d’Italia cessasse di comprare titoli del debito pubblico, di per sé, non portava a ridurre il debito pubblico, bensì la quota di esso nei confronti della Banca d’Italia.

La spiegazione della crescita impetuosa del rapporto in parola deve quindi essere trovata altrove: nella forte crescita della spesa dello Stato per interessi sul suo debito e, negli Anni Ottanta, nella forte presenza di disavanzi primari (al netto dell’ammontare degli interessi passivi pubblici, la cui entità portò il rapporto fra disavanzi complessivi e PIL a superare l’11%) e anche, negli Anni Novanta, la flessione della dinamica del PIL, a causa della componente prezzi. D’altra parte, la diminuzione del rapporto Debito pubblico/PIL dal 118% del 1996 al 101% del 2004 fu dovuta sia all’abbassamento dell’entità degli interessi passivi sia a un significativo avanzo primario conseguente alla manovra dei governi dell’Ulivo di rincorsa per l’aggancio alla moneta unica europea.

In definitiva, la perdita della sovranità monetaria dello Stato italiano non ha avuto significative ripercussioni d’incentivazione sul rapporto Debito pubblico/PIL. Ad ogni modo, il rapporto in parola ha ripreso a crescere negli Anni Dieci del corrente secolo, arrivando al valore 132% nel 2016 (e stabilizzandosi su quota 131-132% nel biennio 2017-2018): ancora una volta sono stati gli interessi passivi a guidare l’aumento, affiancati dalla riduzione degli avanzi primari e dalla mancanza di crescita del PIL nominale.

A questo punto, riprendiamo la domanda anticipata sopra: come fare a permettere una politica fiscale espansiva senza far aumentare il debito pubblico?

Una via è data dal far diretto riferimento al rapporto Debito pubblico/PIL: che si continui ad aumentare il Debito pubblico in conseguenza di un deficit di bilancio pubblico che aumenta e che, attivando un moltiplicatore della domanda aggregata che fa aumentare il PIL di due volte l’aumento del deficit pubblico, fa ridurre il rapporto Debito pubblico/PIL (130/100 che diventa 131/102 = 1,28 e non invece che diventi 129/98 = 1,32, che si avrebbe se si operasse per ridurre debito pubblico e PIL). Ma questo processo di riduzione del debito pubblico sarebbe di dimensioni contenute e comunque lento a realizzarsi.

Un’altra via sarebbe un’azione politica concertata a livello comunitario che, per lo meno per il presente, veda il deficit pubblico calcolato al netto delle spese pubbliche d’investimento e quelle, anche correnti, per sanità, istruzione, giustizia, recupero dei patrimoni ambientali e architettonici; tutte spese che concorrerebbero ad allungare il lato dell’offerta aggregata e non solo il lato della domanda aggregata, come fanno le altre spese correnti. Il che è riconoscere che gli obiettivi e i vincoli di natura meramente quantitativa sono inadeguati; essi devono essere espressi anche in termini qualitativi. Ovviamente questo toglierebbe una parte rilevante del freno a una politica fiscale espansiva, ma farebbe aumentare il debito pubblico; la presenza di quest’ultimo non andrebbe però a bloccare la prima. Analogamente, la presenza del debito pubblico non andrebbe a indebolire la capacità di attivare una politica fiscale espansiva qualora fosse eliminato il predetto art. 123 del TUE e quindi fosse possibile finanziare deficit pubblici con la creazione di nuova base monetaria, eliminando quindi eventuali spiazzamenti della domanda privata conseguenti ad aumenti dei tassi d’interesse, che altrimenti si potrebbero avere.

Un’altra via ancora sarebbe evinta dallo statuto del SEBC (Sistema Europeo di Banche Centrali) e della BCE (art. 14, comma 4): «Le banche centrali nazionali possono svolgere funzioni diverse da quelle specificate nel presente statuto, a meno che il Consiglio Direttivo decida, a maggioranza dei due terzi dei votanti, che tali funzioni interferiscono con gli obiettivi e i compiti del SEBC. Tali funzioni sono svolte sotto la piena responsabilità delle banche centrali nazionali e non sono considerate come facenti parte delle funzioni del SEBC».

Mi domando come la maggioranza dei due terzi del Consiglio Direttivo del SEBC potrebbe – sul piano politico – cassare l’iniziativa della banca centrale di un Paese volta ad evitare lo strangolamento della sua economia – con evidenti forti ricadute negative occupazionali e sociali – causato da una politica di austerità, imposta dalle istituzioni dell’Unione Europea, per rispettare supposti obiettivi di stabilità finanziaria che – alla luce di una corretta interpretazione teleologica e sempre che si sia in presenza di stabilità dei prezzi – sono secondari rispetto agli obiettivi primari della piena occupazione e del progresso sociale, alla realizzazione dei quali lo stesso SEBC – ai sensi dell’art. 2 del proprio statuto – ha il dovere di concorrere!

Ma perché lo Stato di un paese dell’Eurozona non può emettere, lui stesso, mezzi monetari a sola circolazione interna nel Paese stesso, con cui pagare merci, servizi e uso di fattori produttivi acquisiti per produrre consumi pubblici o per realizzare investimenti pubblici o attuare interventi di riduzione del gettito fiscale? Gli Stati e le banche centrali diversi dalla BCE non possono emettere banconote e moneta a corso legale in tutta l’Eurozona (art. 128 del Trattato per il Funzionamento dell’Unione Europea), ma nulla vieta l’emissione di biglietti di Stato a sola circolazione interna al singolo Paese.

In altre parole, lo Stato crea una “criptomoneta” (la moneta ufficiale rimane l’euro) emessa per finanziare una politica monetaria espansiva, a parità di moneta ufficiale e senza che il deficit di bilancio vada a toccare il valore del debito pubblico. La criptomoneta potrebbe avere un impiego limitato ad acquisti di beni (merci e servizi) all’interno del paese, onde evitare che prenda la via dei mercati finanziari (la maggior parte delle criptomonete non sono monete liberamente spendibili, ma hanno un campo d’impiego fissato dal soggetto che le crea e accettato da chi le utilizza).

Sarebbe il modo per realizzare una politica espansiva senza creare euro – la cui creazione aspetta alla sola BCE – e sottraendosi alla morsa dei mercati finanziari internazionali. D’altra parte, perché ridurre la fattispecie della moneta ai soli debiti bancari (della banca centrale e delle banche ordinarie)?

Possibile? Sì, lo dimostrano casi della storia. Il più rilevante fu il Programma MEFO, creato da Hjalmar Schacht, Ministro dell’economia tedesco dal 1934 al 1937. Chi vendeva beni allo Stato tedesco non riceveva marchi, ma cambiali-MEFO, garantite dallo Stato, che potevano circolare nell’economia ed essere scontate presso la Reichsbank, rappresentando uno strumento monetario parallelo. In questo modo la spesa pubblica poteva svolgere un’azione espansionistica senza far aumentare la circolazione monetaria ufficiale, bloccata dai rigidi vincoli del Trattato di Versailles, che avevano affossato la Repubblica di Weimar. Costituì lo strumento per la rinascita dell’economia tedesca nel primo periodo del regime nazista; strumento di sviluppo dell’economia e dell’occupazione ma, ahimè, anche del riarmo dello Stato nazista.

Ovviamente occorre essere molto attenti a non fare della moneta di Stato uno strumento che crei inflazione, come avvenne con gli assignat della Rivoluzione francese e con le monete inconvertibili dei paesi belligeranti nella Prima e Seconda guerra mondiale. Occorre che sia gestito per stimolare la domanda aggregata, evitando però, ovviamente, che essa sia spinta oltre il potenziale produttivo del sistema economico. Lord Keynes riconobbe a Schacht di aver creato un meccanismo che consisteva «nel risolvere il problema eliminando l’uso di una moneta con valore internazionale e sostituendola con qualcosa che risultava un baratto fra diverse unità economiche. In tal modo riuscì a tornare al carattere essenziale e allo scopo originario del commercio, sopprimendo l’apparato che avrebbe dovuto facilitarlo, ma che di fatto lo stava strangolando. Tale innovazione funzionò bene, straordinariamente bene».

Meccanismo pericoloso? Non di più dello strangolamento dell’economia da parte di un sistema che non permette a questa di uscire da uno stato di folle austerità, in un momento in cui l’economia soffre di una forte scarsità di domanda di beni prodotti rispetto alle risorse di lavoro e di capitale che ha a disposizione. A condizione – come sempre – che i beni che vengono prodotti siano di elevata qualità personale e sociale. 

Ovviamente è un meccanismo delicato, che occorre gestire molto accuratamente affinché non scappi di mano. Che sia efficace dipende anche, in modo rilevante, dall’autorevolezza del Governo che lo mette in pratica; autorevolezza sia interna al Paese sia, ancor di più oggigiorno, a livello europeo e mondiale.

La fuga di notizie sulla lettera di Tria agita il governo

Fonte Agi

È giallo sulla lettera del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, alla Commissione Ue. Il testo della missiva circolato nelle redazioni a metà pomeriggio è stato smentito “nel modo più categorico” dal Tesoro, che in una breve nota ha parlato di contenuti che “non corrispondono alla realtà”. “La lettera vera ce l’ho io, non i media”, aggiunge il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.

Nelle anticipazioni il governo parlava di tagli alla spesa per il reddito di cittadinanza e la quota 100 e diceva no alla flat tax in deficit. “Dal lato della spesa, il Governo sta avviando una nuova Revisione della spesa e riteniamo che sarà possibile ridurre le proiezioni di spesa per le nuove politiche in materia di welfare nel periodo 2020-2022. Inoltre – riportava il testo poi smentito – siamo convinti che una volta che il programma di bilancio sarà finalizzato in accordo con la Commissione Europea, i rendimenti dei titoli di Stato italiani diminuiranno e le proiezioni relative alla spesa per interessi saranno riviste al ribasso”.

Dopo la diffusione delle anticipazioni, il vicepremier e leader del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio, ha subito preso le distanze: “Non ho avuto ancora il piacere di leggere la lettera preparata dal ministro Tria all’Unione Europea, ma apprendo che prevede tagli alla spesa sociale, alla Sanità, a Quota 100, al Reddito di Cittadinanza. Ma stiamo scherzando? Lo dico chiaramente: al governo Monti non si torna”.

E ha insistito: “Basta austerità, basta tagli, di altre politiche lacrime e sangue non se ne parla. Non esiste! Magari è utile fare un vertice di maggioranza con la Lega insieme al presidente Conte e allo stesso Tria, così sistemiamo insieme questa lettera, prima che qualcuno la mandi a Bruxelles!”. Ma dal fronte leghista fanno sapere che non è stato concordato nessun vertice di questo tipo. E il Tesoro ha confermato che la lettera “sarà inviata stasera entro i tempi previsti”. E le 48 ore fissate dalla Ue per rispondere scadono a mezzanotte.

Caccia alla talpa
“Il presidente del Consiglio ha appena sentito telefonicamente il ministro Tria e ha concordato con lui di sollecitare tutte le verifiche, anche giudiziali, affinché chi si è reso responsabile di tali fughe di notizie false sia chiamato alle conseguenti responsabilità”, si apprende da fonti di Palazzo Chigi.

“È bene rimarcare la gravità della diffusione di testi, peraltro in versioni non corrispondenti a quelle su cui il ministro Tria e il Presidente Conte stanno lavorando, trattandosi di questioni particolarmente delicate che incidono su interessi fondamentali dello Stato, e che coinvolgono la delicata interlocuzione con le Istituzioni europee e che possono avere ricadute negative sui mercati”, aggiungono le fonti.

Cosa c’era scritto davvero
Alla fine il testo viene divulgato, in forma ufficiale. La missiva, di 4 pagine indirizzata al vicepresidente Valdis Dombrovskis e al commissario agli affari monetari, Pierre Moscovici, è accompagnata da un documento di 50 pagine in cui si esaminano i fattori rilevanti che influenzano l’andamento del debito pubblico in Italia.

“L’utilizzo delle nuove politiche di welfare è finora inferiore alle stime sottostanti alla legge di bilancio per il 2019”, scrive Tria.

Il ministro richiama “lo spirito di collaborazione che ha consentito di raggiungere l’accordo dello scorso dicembre” e sottolinea che per il 2018, “sebbene le condizioni macroeconomiche non abbiano consentito all’Italia di soddisfare gli sfidanti requisiti della Regola di riduzione del debito”, il Governo “abbia seguito un approccio prudente e responsabile”.

Poco prima il viceministro dell’economia, Laura Castelli, aveva commentato: “Mi sorprende la smentita del Ministro Tria sulla versione della lettera pubblicata dagli organi di informazione. Nel pomeriggio anche io ho visto una bozza della lettera che girava con quei contenuti e purtroppo quel passaggio sul taglio al welfare c’era ancora. Come sempre sono disponibile a supportare il ministro per rivederne il contenuto. Mi rincuora, nel rispetto dell’azione e della volontà del Governo, che il Presidente Conte, prendendone visione, abbia deciso di correggere alcuni aspetti per noi irricevibili, come il taglio alla spesa sociale”.

 

La dottrina Trump

Già pubblicato sulle pagine della rivista Treccani a firma di Mario Del Pero

Ogni amministrazione ha una sua dottrina di politica estera. Perché è costretta in vari documenti pubblici, oltre che nei discorsi presidenziali, a definire una propria visione delle relazioni internazionali e dell’interesse nazionale. E perché le dottrine servono non solo a fissare le coordinate di massima della politica estera, ma anche a convincere l’opinione pubblica interna e, nel caso del soggetto egemone, quella mondiale della bontà del proprio approccio e della propria filosofia. Sono, in altre parole, artefatti discorsivi: strumenti con cui costruire l’indispensabile consenso attorno alle proprie strategie e azioni.

Anche Trump ha dunque una sua dottrina. E pure una dottrina chiara e ben definita; meno opaca o cangiante di quelle di molti suoi predecessori. Quali sono i pilastri, categoriali e operativi, di questa dottrina Trump? In estrema sintesi, ne possiamo individuare cinque, tra loro strettamente intrecciati.

Ostentato e dottrinale realismo

Il primo è il suo ostentato e dottrinale realismo, secondo cui quello internazionale è un contesto anarchico, nel quale ogni soggetto cerca di sfruttare la propria potenza per massimizzare i propri interessi in un contesto intrinsecamente competitivo: in un “gioco a somma zero”, dove l’equilibrio ultimo è garantito dal fatto che al successo di una parte corrisponde ipso facto la sconfitta di un’altra. Nella retorica trumpiana, col suo vocabolario ipersemplificato e le sue schematizzazioni binarie, queste categorie realiste appaiono in continuazione. Ma questo è vero anche per i principali documenti strategici dell’amministrazione. La National Security Strategy (NSS) del dicembre 2017 è puntellata di riferimenti alla competizione di potenza con Cina e Russia e alla necessità di ripristinare la piena sovranità degli Stati Uniti: «La competizione per il potere», vi si afferma, «è una costante centrale della storia … siamo impegnati a difendere la sovranità dell’America». Analoghe considerazioni si trovano nella National Defense Strategy (NDS) del 2018, che individua tre competitori (e minacce) fondamentali per gli USA: le potenze revisioniste come Cina e Russia, gli Stati fuori controllo (rogue states) come Corea del Nord e Iran e le minacce terroristiche transnazionali. Il quadro descritto nella NDS rimanda anch’esso ai pilastri categoriali e all’argot basilare del realismo: il contesto globale, afferma il documento, si contraddistingue per «il riemergere della competizione strategica e di lungo periodo tra le nazioni».

Nazionalismo non-eccezionalista

Il secondo elemento della dottrina Trump è il suo nazionalismo non-eccezionalista. Questo è probabilmente uno dei maggiori elementi di rottura del trumpismo. Un discorso scopertamente, e spesso rozzamente, nazionalista non si accompagna alla consueta rivendicazione di eccezionalità degli USA. In discontinuità con tutti i presidenti del dopoguerra, con la sola parziale eccezione di Nixon (1969-74), Trump rigetta l’idea che vi sia una naturale convergenza tra gli interessi statunitensi e quelli del resto del mondo o una superiorità etica degli Stati Uniti e delle democrazie occidentali. Il suo non è un nazionalismo universalista e, appunto, eccezionalista. In un sistema anarchico e competitivo non vi sono differenze tra i suoi attori, come Trump ribadì candidamente durante un’intervista con l’ex giornalista di Fox New Bill O’Reilly; quando O’Reilly accusò Putin di essere un “assassino”, il presidente offrì una risposta scioccante: «cosa credi», disse «che il nostro paese sia così innocente?».

Unilateralismo

Il terzo elemento, per molti aspetti scontato, è l’unilateralismo (e qui le somiglianze col Bush post-11 settembre sono assai marcate). Nell’arena internazionale non vi è utilità alcuna nel lasciarsi imbrigliare dentro i meccanismi multilaterali delle organizzazioni internazionali, che limitano la potenza del soggetto dominante, si fondano sulla fittizia pretesa di uguaglianza degli Stati e sono spregiudicatamente sfruttati da quei soggetti, Cina su tutti, che a vincoli e regole riescono a sottrarsi. Di qui la preferenza per informali negoziati bilaterali o per azioni unilaterali; di qui il disinteresse ad usare forum e istituzioni internazionali (tanto che nella disputa con la Cina, l’amministrazione Trump non ha fatto uso dell’arbitrato dell’Organizzazione mondiale del commercio, utilizzato invece a più riprese sia da Bush Jr. sia da Obama).

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La trasparenza (im)possibile

Presentato la scorsa settimana a Roma presso la sede dell’Anac, l’eBook di Avviso Pubblico dal titolo “La Trasparenza (Im)possibile. Tutto quello che c’è da sapere sul diritto di accesso in Italia”. Il testo è stato pensato come una guida utile sia per gli Enti locali che per i cittadini, nella convinzione che la trasparenza, intensa prima di tutto come cultura, sia uno degli strumenti imprescindibili per contrastare e prevenire mafie e corruzione, e per favorire l’esercizio della buona politica e della buona amministrazione, rafforzando così il rapporto fiduciario tra cittadini, istituzioni e democrazia.

La trasparenza dell’operato della Pubblica amministrazione è infatti un’arma fondamentale per prevenire, contrastare e sconfiggere le mafie e la corruzione. L’eBook è stato pensato in seno all’Osservatorio Parlamentare di Avviso Pubblico ed è frutto della collaborazione a titolo gratuito di qualificati esperti. La buona politica e la buona amministrazione, elementi indispensabili per la tutela dei beni comuni, della nostra democrazia e della nostra sicurezza, esistono e si mantengono se nelle comunità vi sono cittadini responsabili che svolgono con impegno, serietà e coerenza le funzioni pubbliche loro affidate, se agiscono con imparzialità e trasparenza, sono fedeli alla Costituzione e alla sue leggi. E l’evoluzione normativa della chiarezza amministrativa, fino al suo temporaneo approdo, raccontato nella pagine di questo libro, ha rappresentato nel nostro Paese una conquista di civiltà la cui importanza viene talvolta sottostimata e che, proprio per questo, va fatta conoscere nel modo più esteso possibile.

Dialogare tra ignoranza e pregiudizi

Articolo pubblicato da http://www.messaggerosantantonio.it di Giulio Albanese

Viviamo in un’epoca in cui un po’ tutti facciamo fatica a dialogare. Basta leggere i giornali o seguire i dibattiti televisivi per rendersi conto che le posizioni, tra i vari interlocutori in campo, spesso, si radicalizzano. Ecco che si fa fatica a tenere vive conversazioni pregne di contenuto, ma anche ad ascoltare le altre persone, a prestare attenzione a quello che viene comunicato.

La miglior difesa, nei salotti dell’etere, è l’attacco di chi la pensa diversamente, peraltro facendo scadere di significato ogni genere di confronto. Le banalizzazioni sono all’ordine del giorno ed esprimono un po’ dappertutto – sia verbalmente come sui social – una crassa ignorantia, infarcita di luoghi comuni e pressapochismi.

D’altronde, il tempo nel quale viviamo è segnato da profonde trasformazioni. Ed è il tempo la risorsa più importante che ci viene data in sorte quando nasciamo, dal nostro personale istante zero. Eppure oggi, nella cosiddetta società postmoderna, si ha la sensazione d’essere sopraffatti da un magma di parole, messaggi e informazioni all’insegna della negatività e del pessimismo.

Sta di fatto che molti avvertono una sorta di decadimento, non solo economico, ma anche politico, religioso e sociale. Un’alterazione che ci travolge e interferisce sfavorevolmente sulla sfera valoriale, generando ansia e insieme un bisogno di leggerezza che sembrano distrarci per un po’ da temi come divorzi, fallimenti, terrorismo, guerre, elezioni e pandemie. La voglia di capire davvero come stanno le cose convive con il desiderio di lasciar andare.

Per comprendere meglio l’origine di questa tendenza a non approfondire, possiamo aggiungere la paura di condividere quello che si sente o la vergogna quando quello che sentiamo viene percepito come qualcosa da nascondere.

Forse, mai come oggi, dovremmo davvero comprendere che il dialogo, come scrive il teologo nordamericano Leo­nard Swidler, «è una conversazione su un argomento comune tra due o più persone con opinioni differenti, il cui scopo principale è quello, per ogni partecipante, di imparare dall’altro/a così che lui/lei possa cambiare e crescere». Per dialogare, in questa prospettiva, è essenziale la condivisione.

Quest’ultima ha bisogno di una posizione emotiva, intellettuale, onesta, che consideri l’interlocutore come un soggetto e non un contenitore nel quale riversare i nostri saperi, ma qualcuno con cui creare la conversazione. E qui è fondamentale l’ascolto dell’ascolto, ossia è importante che chi parla – sia in una comunicazione reale che digitale – si renda conto se l’altro lo stia seguendo o meno. La circolarità della comunicazione produce significato e senso, passando per la soggettività di entrambi. Solo così sarà possibile innescare livelli di empatia per entrare in profondità.

 

L’articolo completo si può leggere qui  http://www.messaggerosantantonio.it/content/dialogare-tra-ignoranza-e-pregiudizi

Zingaretti, non abbandono vocazione maggioritaria: coltiviamo la pianticella

Fonte Rai news

La direzione Pd,  è terminata dopo la relazione del segretario Nicola Zingaretti. All’ordine del giorno della Direzione Nazionale del Pd c’era l’analisi dell’ultima tornata elettorale del partito per le elezioni Europee e per le  Amministrative. Dalle minoranze è arrivata la richiesta di rinviare il dibattito a dopo i ballottaggi. La richiesta è stata accolta.

Il segretario del PD Nicola Zingaretti ha lanciato un’appello alla coesione dicendo: “Nuovo partito e nuova alleanza ma non dobbiamo fare confusione. Concentriamoci soprattutto sul PD, coltiviamo la pianticella, per questo non abbandono l’idea della vocazione maggioritaria che si propone in modo nuovo, quella che non esaurisce tutti gli spazi ma ha l’ambizione di diventare noi un luogo plurale, ricco di spazi, con culture e sensibilità diverse e riesca a parlare alla società italiana e che allora può diventare il pilastro forte per attirare altre forze”.

Inoltre Zingaretti ha fatto presente che: “Il tema del partito va affrontato all’indomani dei ballottaggi, serve una vera e propria rivoluzione o non ce la facciamo. Non possiamo fare come Salvini, affidarci al protagonismo di un leader. Io a quel modello non credo, non ho scelto questa strada e non la praticherò mai. Il comando assoluto di una sola persona è la premessa di solitudine e anche di sconfitta”, ha sottolineato il segretario del Pd, continuando “Da subito una nuova segreteria, forum e incarichi di lavoro. Dovremo discutere di come organizzarci nel Mezzogiorno, nei piccoli centri.

Il voto delle Europee è una tappa, un primo passo che ci consente di affrontare le sfide che abbiamo davanti”. Nicola Zingaretti alla Direzione Pd ha poi evidenziato come la “Gestione rassicurante di noi stessi non sarà risposta sufficiente a navigare nella tempesta politica di oggi”. Zingaretti ha poi annunciato per l’autunno un evento pubblico per presentare proposte all’Italia, ai fini del rilancio dell’azione del partito parlando di una ‘Costituente delle idee’: “Dobbiamo impegnare tutti i territori in una ‘Costituente delle idee’, aprire un grande dibattito sull’Italia per preparare ad ottobre –  novembre un grandissimo evento pubblico, anche in più giorni, di proposte all’Italia” Calenda: lavoro per allargare il Centrosinistra ma io sono sempre rimasto nel PD Carlo Calenda, l’euro parlamentare dem-liberal campione di preferenze, all’entrata del Nazareno ha tenuto a precisare: “Lavoro per allargare il Centrosinistra, ma io sono sempre rimasto nel PD” anche se non si tira indietro all’ipotesi di lavorare, nel caso di una richiesta specifica in tal senso da parte del segretario Zingaretti, alla costruzione di un’alleanza elettorale volta a realizzare la gamba ‘lib-dem’ del partito come ha specificato anche su Twitter.

Merlo: Centro, ora è tutto più chiaro

Dunque, il voto europeo ci ha fornito alcune certezze da cui non si può più prescindere. Se la Lega di Salvini ha un consenso, un radicamento, un blocco sociale di riferimento e un ruolo politico che ricordano la vecchia Democrazia Cristiana – al netto delle profondi differenze politiche, culturali e di classe dirigente – è indubbio che nell’altro campo politico si deve ripartire dalle fondamenta. Checche’ se ne dica, il centro destra c’è. E’ forte, competitivo, radicato e con un chiaro progetto politico. Certo, a trazione leghista ma, come ovvio, oggi quel partito raccoglie la maggioranza del consenso, delle speranze e dei desideri degli italiani.

La caduta verticale del movimento 5 stelle può avere effetti imprevedibili. Certo, una cosa è sufficientemente nota. Quel movimento ha politicamente fallito la sua “mission” perché nel momento in cui si è misurato con la prova del governo non è stato in grado di tradurre concretamente e credibilmente ciò che aveva annunciato, strombazzato e denunciato per molti anni.

Quello su cui è necessario riflettere è come si ricostruisce il campo del centro sinistra. Che oggi, come ben sappiamo, non esiste. Ora, proprio il voto europeo ci ha confermato che il “nuovo corso” del Pd di Zingaretti ha dato buoni risultati ma, al netto dei risultati, ha confermato che il Pd/Pds raccoglie consensi a sinistra – pur perdendo 100 mila voti rispetto al voto politico del 4 marzo del 2018 – ma è decisamente in difficoltà sul fronte cosiddetto moderato e centrista. Una situazione talmente evidente che non richiede neanche commenti ulteriori.

Ora, il punto centrale e’ come si ricostruisce, oggi e non ieri, una potenziale alleanza di centro sinistra. Soprattutto nel momento in cui il Partito democratico, azionista maggiore di questa potenziale alleanza, ha virato comprensibilmente e visibilmente a sinistra. Ma lasciando del tutto aperta la questione di chi può rappresentare e intercettare un consenso che tradizionalmente si può alleare ma non convergere nel grande, si fa per dire, partito della sinistra italiana. Sotto questo versante, l’unico elemento che non si può accettare e’ che la futura alleanza riformista e di centro sinistra possa decollare a tavolino. Ovvero, dopo la tanto declamata “vocazione maggioritaria” del Partito democratico ormai definitivamente tramontata, non vorrei che venisse sostituita dalla tentazione tardo gramsciana di decidere a tavolino come si ricostruisce la potenziale coalizione da contrapporre al centro destra e a ciò che resta del movimento antisistema e antipolitico dei 5 stelle. Ovvero, pianificare a tavolino chi copre il fianco sinistro, chi il fianco destro e chi il fianco centrista/cattolico. Un po’ quello che sta avvenendo, almeno così si capisce sfogliando i giornali e ascoltando le varie dichiarazioni, con le piroette di Calenda e le prese di posizione del movimento Demos.

Ecco, questo è l’unico metodo da sconfiggere. Se si pensa che una alleanza politica, programmatica e di potenziale governo nasce a tavolino con la distribuzione dei ruoli politici a prescindere, si rischia di avere come unica certezza quella della sconfitta. Come è avvenuto, anche per questi motivi, nella Regione Piemonte dove si è consumata una batosta elettorale di dimensioni storiche.

Pertanto, se la strada della pianificazione dall’alto è da respingere al mittente senza appello, quello che resta da fare – con altrettanta rapidità ed intelligenza – è ricostruire una presenza politica, sociale e culturale indispensabile per far ripartire seriamente una coalizione e, al contempo, per rappresentare un pezzo di società che oggi continua stancamente a votare partiti e movimenti estranei a quel mondo oppure a rifugiarsi nel pianeta dell’astensionismo. Ci sono le forze, i gruppi sociali, la classe dirigente e i mondi vitali che invocano, quasi ad alta voce, di ridare vita e speranza ad un progetto politico che ormai da troppo tempo e’ irresponsabilmente assente dalla cittadella politica italiana. E, in questo contesto, la presenza, il ruolo, la cultura e la tradizione del cattolicesimo democratico e popolare del nostro paese può e deve giocare un ruolo protagonistico.

Ovviamente con altre culture e sensibilità ideali riconducibili a quel filone politico.
Solo così sarà possibile tentare di ricostruire una vera, seria e competitiva alleanza di centro sinistra. Se ci si ferma alla vocazione maggioritaria del passato o alla tentazione di pianificare a tavolino la futura alleanza si corre il rischio di far fallire anticipatamente un progetto che merita di essere perseguito sino in fondo. Come emerge in modo palpabile anche dal recente voto europeo.

Il voto per i Verdi al Parlamento europeo

Articolo già apparso sulla rivista il mulino a firma di Gianfranco Pellegrino

Forse accade sempre, o è sempre accaduto da quando il mondo tranquillo in cui si era vissuti prima del crollo del Muro di Berlino e la supposta fine della Storia è andato in frantumi. Accade sempre che i risultati delle elezioni si possano leggere in maniere difformi e spesso opposte e le tendenze espresse dal voto siano varie e talvolta contraddittorie. È accaduto anche nelle recenti elezioni europee, ma c’è un dato su cui forse varrebbe la pena di riflettere, forse anche con una prospettiva più a lungo termine. Non solo la vittoria di forze anti-europeiste e sovraniste non è stata netta – con le eccezioni ingombranti, naturalmente, di Francia e Italia. Ma in alcuni Paesi dell’Europa del Nord abbiamo assistito a un ritorno di partiti Verdi che mettono al centro delle loro proposte la difesa dell’ambiente. Come interpretare questo fenomeno?

Innanzitutto, vale la pena di ricostruire con un qualche dettaglio maggiore. I Verdi sono stati il terzo partito (13,5%) in Francia, il secondo (20,5%) in Germania, il quarto in Irlanda (con il 15%) e in Austria (con il 14%), mentre in Belgio per la prima volta hanno eletto due rappresentanti al Parlamento europeo. Si tratta quindi di una presenza rilevante, ma certamente non è un’ondata, quanto  piuttosto un avanzamento a macchia di leopardo, un fenomeno ancora soltanto tendenziale. Complessivamente i verdi dovrebbero passare dai 50 seggi del 2014 a più o meno 70.

Ma al di là dei dati, quali le questioni più ampie sollevate dal voto ai Verdi? Ce ne sono almeno cinque: le cause, il contesto, il significato del voto, le eccezioni (soprattutto l’eccezione italiana) a questa tendenza e il modello di politica che gli elettori dei Verdi mettono in campo. Si tratta di questioni che richiederebbero trattazioni ampie e specializzate, e che verranno chiarite anche col passare del tempo, soprattutto con i dati di elezioni successive e osservando il comportamento futuro dei partiti Verdi. Al momento si possono però fissare almeno alcuni punti.

Il voto ai Verdi è senza dubbio un effetto – o forse uno degli effetti – anche della mobilitazione e dell’attenzione al tema del cambiamento climatico suscitati dai Fridays for Future e dall’attivismo di Greta Thunberg. In un certo senso, non è azzardato dire che, forse in maniera temporalmente più immediata e spiccata che nel caso di movimenti come i no global degli inizi degli anni Novanta, il movimento ambientalista ha cercato subito una realizzazione partitica, elettorale, delle sue istanze. Ciò rileva, come vedremo, per capire il modello di politica che questi partiti e i loro elettori potrebbero stare realizzando. C’è poi un evidente aspetto generazionale che potrebbe essere un fattore causale rilevante: il voto ai Verdi è soprattutto un voto giovanile, secondo molti (circola una stima per cui il 34% degli elettori tedeschi tra 18 e 24 anni ha votato per i Verdi; nello spiegare il risultato dei Verdi in Austria, va considerato che là hanno diritto di voto i sedicenni), e – soprattutto se lo si confronta con la provenienza generazionale del voto a partiti tradizionali, spesso derivante da elettori più anziani – mostra una sorta di spaccatura della società, con differenti segmenti di età che hanno preoccupazioni diverse e orizzonti politici difformi.

Le cose diventano ancora più sfumate se consideriamo il contesto del voto ai Verdi. Innanzitutto, è evidente che una cosa è considerare quanto accade in un Paese come la Germania in cui il partito dei Verdi ha una presenza tradizionale nella scena politica e un’altra è considerare l’avanzata dei Verdi in Francia, dove si registra la contemporanea ascesa del movimento sovranista di Marine Le Pen, o in Irlanda, dove prevale un partito appartenente al gruppo dei popolari al Parlamento europeo.

Queste riflessioni conducono direttamente a considerare l’eccezione italiana. In Italia l’effetto Greta è stato quasi nullo – i temi ambientali continuano a essere marginali nella discussione politica nel nostro Paese e, pare, anche nelle preoccupazioni degli elettori. Il movimento dei Fridays for Future non è stato preso sul serio neanche dai suoi avversari, che si sono rifugiati nel dileggio, senza neanche troppi sforzi. E si può dire che questo registri la mancanza in Italia di un partito dei Verdi che sia radicato e con una tradizione. Ma si deve dire pure che una parte abbastanza cospicua del complesso immaginario politico del Movimento 5 Stelle riguarda temi ambientali – si consideri ad esempio la sofferta discussione sulla Tav. Anche considerando l’astensione – un punto come sempre negli ultimi tempi cruciale per interpretare correttamente il voto, che per molti riguarda soprattutto elettori che avrebbero votato per il Movimento – l’elettorato verde in Italia sia rimasto, per così dire, silente o congelato da un’offerta politica eccentrica.

Tutti questi problemi, come già detto, necessitano di analisi anche demografiche più approfondite, e dovranno essere visti alla luce degli sviluppi futuri. In una prospettiva più ampia rimangono interessanti però altre due questioni: il significato del voto ai Verdi e il modello di politica che esso presuppone. Da un lato, è ovvio che questi comportamenti elettorali esprimano una richiesta – quella che la politica nel senso più tradizionale si faccia carico di certi problemi ambientali globali. Eppure, questi richiami derivano da una realtà non tradizionale, o non troppo tradizionale. I partiti Verdi, anche quando hanno una tradizione, non sono partiti-massa e non raccolgono l’eredità degli schieramenti partitici novecenteschi – anzi, spesso tendono a differenziarsi  rispetto all’asse tradizionale destra-sinistra. E i Fridays for Future sono un fenomeno di attivismo movimentista dal basso, non organizzato da partiti, non irregimentato dalle fabbriche tradizionali della mobilitazione.

Quindi, da un lato abbiamo partiti non tradizionali e movimenti dal basso, dall’altro la richiesta politica affiora in un momento centrale della politica tradizionale – le elezioni. La sfiducia nella politica tradizionale o l’emergere di politica dal basso si coniugano con il ricorso a forme tradizionali della politica – comportamenti elettorali, sostegno a gruppi partitici. Può sembrare paradossale, ma in realtà è una conseguenza diretta della natura delle questioni in gioco. La giovane Greta Thunberg e il suo movimento si concentrano sulla prevenzione e l’adattamento ai cambiamenti climatici. Mitigare gli effetti del cambiamento climatico richiede azioni globali e collettive ma anche condotte individuali e private: un regime internazionale autenticamente globale e cambiamenti di stili di vita che nessuna legge potrà mai provocare, perché derivanti solo dalla coscienza di ognuno di noi. Per far fronte al cambiamento climatico non ci sono altre ricette: bisogna andare in piazza e andare a votare, impegnarsi nella vita di tutti i giorni e sostenere personale politico altamente specializzato. In un’Europa molto frammentata, solo alcuni l’hanno capito.

Costituzione e cittadinanza :il fondamento personalistico della Costituzione Italiana

Articolo già apparso sulle pagine di http://www.istitutomounier.it a firma di Giulio Alfano

La Costituzione della Repubblica Italiana è entrata in vigore il 1 gennaio 1948,dopo un anno e mezzo di lavori parlamentari da parte dell’Assemblea Costituente,eletta il 2 giugno 1946,dopo la fine della seconda guerra mondiale. Le elezioni per l’Assemblea erano avvenute contestualmente al referendum in cui gli italiani,comprese per la prima volta le donne,avevano anche scelto tra monarchia e repubblica. Fino a due anni prima,infatti,l’Italia era una monarchia e la sua carta costituzionale era lo Statuto Albertino,una costituzione “ottriata””ovvero emanata da Carlo Alberto di Savoia quando era re di Piemonte e Sardegna il 4 marzo 1848 o estesa al Regno d’Italia il 17 marzo 1861.

La Costituzione Repubblicana è divisa in tre gruppi di norme o articoli)principi Fondamentali;Diritti e Doveri;Ordinamento dello Stato). E’ nella prima parte,Diritti e Doveri dei cittadini al titolo IV sui Rapporti Politici,che troviamo l’articolo 54 che stabilisce che tutti i cittadini:”..devono essere fedeli alla repubblica democratica,rispettando i principi democratici sovversivi contro le Istituzioni,non agendo contro lo stato al servizio di altri Paesi o gruppi di potere stranieri2. Si tratta di un articolo scritto per guardare al futuro che nasce da un doppio motivo evidenziato dai due commi. Storicamente si rivolge a quei milioni di italiani che avevano votato per la monarchia e ricorda loro che il cambio di regime costituzionale è ormai avvenuto e che non si torna indietro. Tale interpretazione è rafforzata dal fatto che l’ultimo articolo della Costituzione,il 139,afferma nettamente che “la forma istituzionale repubblicana non può essere cambiata”. Certo esiste una procedura per riformare la Costituzione,ma non può essere applicata in questo caso. Dal punto di vista politico-istituzionale,si rivolge in modo particolare ai dipendenti e funzionari dello Stato,molti dei quali erano stati legati alla dittatura fascista dato che durante il regime,che aveva governato l’Italia per oltre vent’anni,avere la tessera del Partito Fascista e giurare fedelta al fascismo,truccata da fedelta allo Stato, era obbligatorio per tutti i dipendenti pubblici. Ora la Costituzione Repubblicana chiede a coloro che ricoprono cariche pubbliche o che sono dipendenti dello Stato,un impegno e una promessa di fedelta supplementare detta “giuramento Promissorio” alla Repubblica e alla sua Costituzione. Per questo spirito Alcide De Gasperi volle inserire,con il concorso determinante del Partito Comunista,i Patti Lateranensi e il Concordato del 1929 nella Costituzione all’articolo 7 affinche anche il mondo cattolico riconoscesse il regime repubblicano superando timori e nostalgie per la monarchia che aveva condotto l’Italia alle Leggi Razziali,alla Guerra e alla Shoah!

E sempre per questo motivo non ritenne opportuno chiedere il voto palese,bensi segreto,per inserire l’indissolubilita del matrimonio nella Costituzione,al fine di non mescolare dettami religiosi in leggi statali e affidarsi alla matura coscienza dei cattolici per onorare il vincolo matrimoniale.

La Costituzione Italiana del 1948 si inserisce nella lunga storia politica occidentale,che affonda le sue radici nel medioevo e prosegue durante le epoche successive.la concezione chiave di tale storia è il COSTITUZIONALISMO;il modo più semplice per capirlo è pensare al suo opposto:tutte le forme di potere illimitato ed assoluto antiche e moderne. Il Costituzionalismo si basa su due principi fondamentali che ci permettono di identificare tutti i documenti che rientrano nella storia delle costituzioni occidentali:

il principio che il potere politico deve avere dei limiti ben precisi
il principio che siano salvaguardate delle sfere di autonomia,dei diritti,delle liberta per la comunita,gruppi,ceti,individui,ovvero che il potere pubblico si impegni,attraverso delle norme a rispettare alcuni diritti e liberta dei suoi cittadini. Tutti i documenti pubblici che rispettano questi due principi sono considerati fondamenti del diritto costituzionale occidentale. Tuttavia il documento che inaugura questa tradizione giuridica è la Magna Charta libertatum,firmata da Giovanni senza terra e i baroni inglesi nel 1215;le tensioni tra il sovrano e i feudatari esprimevano un passaggio chiave dell’evoluzione politica europea di quel periodo:l’instaurarsi delle monarchie nazionali in realta sociali in cui esisteva una pluralita di corpi sociali(signorili,ecclesiastici,economici,corporativi)che non volevano cedere i loro spazi di autonomia e le loro liberta al nuovo potere politico. La soluzione della Magna Charta permise di trovare un accordo soddisfacente per entrambi i contendenti:il potere regio manteneva il potere assoluto sulla sfera del governo(politica estera,ordinanze per la pace interna,controllo della pubblica amministrazione,che era chiamato “potere di prerogativa”. allo stesso tempo il sovrano dichiarava di sottomettersi ai principi del “common law”,ovvero alle leggi e alle consuetudini inglesi e riconosceva quindi una sfera giuridica in cui non erano consentiti arbitri. Con questa Carta in Inghilterra si gettarono le basi per un sistema dualistico del potere pubblico che si sarebbe evoluto nei secoli successivi:da una parte il Re dall’altra il Parlamento,che comunque era un assemblea consultiva che si riuniva quando veniva convocata e un organo di giustizia che applicava le leggi quando sorgevano delle controversie tra re e altri poteri del regno. Nel mondo inglese il sistema “dualistico” si sarebbe sviluppato con la progressiva trasformazione del parlamento in un organo bicamerale rappresentativo del regno in cui si confrontavano il re,i lords secolari e spirituali,i rappresentanti dei borghi e delle comunita. Tale concezione della rappresentanza come espressione di interessi era compiuta nel XVI secolo e nel successivo lo scontro tra il re che voleva estendere le proprie prerogative ed il parlamento,provoco’ben due rivoluzioni e terminò con il “bill of right”del 1689 che poneva limiti giuridici invalicabili al potere regio e faceva così nascere la prima monarchia costituzionale della storia. Il modello inglese ha subito successive evoluzioni,ma ancora oggi è testimonianza del costituzionalismo delle origini,che coniuga tutela dei diritti,forma moderata di governo,separazione dei poteri legislativo,esecutivo e giudiziario. Nella seconda meta del ‘700 altre tappe fondamentali furono la Rivoluzione Americana del 1776 e quella francese del 1789 e le costituzioni approvate in seguito a quegli eventi. Così nacque l’idea moderna di Costituzione come norma che fonda una comunita politica nuova;una legge che stabilisce principi e regole,limiti e divisione dei poteri,ordinamento dello stato e istituzioni rappresentative,diritti e doveri dei cittadini . Ma con la Costituzione della Repubblica Italiana si afferma e sancisce il primato della persona,di quel luogo dove l’essere si fa parola come ammoniva Emmanuel Mounier! Fu possibile grazie al lungo periodo di formazione che i cattolici avevano vissuto tra gli anni trenta e quaranta culminato nel programma del Codice di Camaldoli del 1943,ma anche dalla riflessione delle forze politiche democratiche laiche,comunisti,socialisti,liberali,repubblicani,su cio che avevano dovuto subire sotto la dittatura fascista,sugli errori commessi alla vigilia dell’avvento del regime liberticida,che convinse nella necessita di dialogare,confrontarsi costruire uno stato democratico veramente avanzato. Cio lo si può vedere nei diversi articoli della Costituzione,ma credo soprattutto nell’articolo 3,che fa della Repubblica Italiana uno stato NON censitario,che viceversa si impegna a superare le differenze etniche,sociali culturali perchè salute,istruzione e soprattutto lavoro sono diritti naturali inalienabili della persona,in uno stato che si ferma di fronte al primato ontologico della persona:lnon l’uomo per lo stato come nella concezione neoidealistica che aveva creato lo stato etico,ma lo stato per l’uomo. E questo è il fondamento personalistico che la Costituzione reca come marchio indelebile e irrinunciabile!

Al via un fondo d’investimento per l’energia pulita

In occasione della IV riunione ministeriale di Mission Innovation tenutasi il 27 maggio a Vancouver, la Commissione europea, la Banca europea e Breakthrough Energy Ventures hanno dato il via ad un fondo d’investimento di 100 milioni di euro per aiutare le imprese europee a sviluppare e commercializzare tecnologie energetiche pulite radicalmente nuove. A tale riguardo è stato recentemente pubblicato della Commissione europea, in proiezione al 2050, il Libro Bianco che guarda allo sviluppo e alla diffusione di tecnologie innovative per applicazioni nel campo dell’energia, finalizzate al raggiungimento di maggiori efficienze ed alla riduzione dell’impatto ambientale dei processi di produzione, trasformazione, accumulo e trasporto dell’energia. L’attività include i processi di conversione energetica ecosostenibile da combustibili fossili, da biomasse/biocombustibili e da rifiuti con l’obiettivo di aumentare l’efficienza energetica, promuovere la cogenerazione, ridurre e monitorare le emissioni inquinanti e climalteranti, aumentare la quota di rinnovabili nella produzione e nei consumi di energia. In particolare, è oggetto di indagine lo sfruttamento delle energie rinnovabili dal sole, dal mare (principalmente onde, correnti) e dal vento.

“Siamo pionieri nell’allineare gli investimenti pubblici e privati nell’innovazione di punta a beneficio dell’Unione dell’energia e dell‘azione per il clima – ha detto il vicepresidente responsabile per l’Unione dell’energia, Maros Sefcovic”.

“Manteniamo l’impegno a stimolare gli investimenti pubblici e privati nell’innovazione nel campo dell’energia pulita – ha aggiunto il commissario responsabile per la Ricerca, la scienza e l’innovazione, Carlos Moedas -. Solo unendo le forze tra i settori e i continenti potremo lottare contro i cambiamenti climatici e costruire un futuro sostenibile”.

La Mission Innovation e il Patto mondiale dei Sindaci per il clima e l’energia hanno inoltre annunciato il loro impegno a rafforzare la collaborazione e l’impegno tra i cittadini e i governi locali e nazionali al fine di offrire la ricerca e l’innovazione necessarie a contribuire ad accelerare la rivoluzione delle energie pulite. Mission Innovation è un’iniziativa mondiale, cui aderiscono 24 Paesi e la Commissione europea per conto dell’Unione che opera a favore di un’energia pulita con l’obiettivo di renderla accessibile su larga scala.

Agostino Di Bartolomei, un Capitano tragicamente grande

Avevo incontrato, per la seconda volta nella mia vita, Agostino Di Bartolomei in una calda serata di Maggio,di quelle che si possono godere soltanto a Roma e, ancora di più su una bella terrazza romana con vista sul Biondo Tevere.
In Prati, nel suo appartamento al decimo piano di un palazzone priminovecento,un amico-collega di lavoro aveva organizzato una festa per un motivo particolare e mi aveva invitato a partecipare.

Da Presidente del Milan Club VIP di Roma, e la cosa non faccia sorridere perché in quei tempi era possibile anche una cosa del genere, voleva festeggiare alla grande la recentissima conquista da parte dei Rossoneri della Coppa dei Campioni di Calcio.
Infatti, soltanto pochi giorni prima il Milan di Berlusconi aveva battuto sonoramente,ad Atene, il Barcellona allenato da Johan Cruyff, un mito del calcio mondiale, prima come giocatore e poi come allenatore.

Appunto, lo avevo incontrato di nuovo quella sera, dopo averlo velocemente conosciuto in una Estate di più di dieci anni prima a Nettuno, quando era venuto a trovare il mio amico Bruno Conti, insieme a qualcun altro compagno di quella fantastica Squadra Primavera della Roma che aveva dato al calcio romano e nazionale campioni del mondo come lo stesso Bruno, grandi calciatori sfortunati come Francesco Rocca, grandi giocatori sottovalutati come Agostino, e un gruppetto di giovani che avrebbero avuto, chi più chi meno, una dignitosa carriera nel calcio professionistico.

Erano il prodotto del Settore Giovanile della Roma di Gaetano Anzalone, costruttore romano, poi anche Consigliere Comunale di Roma per la DC, al quale è d’obbligo riconoscere il merito di aver realizzato il Centro Sportivo di Trigoria prima di lasciare la Presidenza della Società giallorossa.
Quella sera, al fresco del Ponentino avevamo parlato molto della Roma, del Milan, nel quale si era trasferito al seguito del Barone Liedholm, del Cesena e della Salernitana, squadre minori nelle quali aveva deciso di tirare gli ultimi calci di una carriera prestigiosa quanto contraddittoria.
Una carriera che lo aveva visto protagonista nella Roma, fino allo Scudetto del 1983, ed in tutte le Nazionali Giovanili, dall’Under 15 all’Under 23, senza mai però potersi avvicinare alla Nazionale maggiore.

Quelli,dicevano,erano gli anni di Giancarlo Antognoni, il Putto Biondo Umbro che giocava nella Fiorentina, e quindi per il mite e silenzioso ragazzo della Montagnola non c’era spazio in maglia azzurra.
In molti non eravamo d’accordo e la Storia del Calcio si è poi incaricata di darci ragione.
“Ago” non era inferiore ad Antognoni, ed il suo peso in campo si avvertiva sempre molto di più.

Ma tant’è,non erano bastati nemmeno i passaggi illuminanti agli attaccanti e gli innumerevoli calci di punizione che lui spesso e volentieri metteva in rete alle spalle dei portieri,al contrario di quasi tutti gli altri che venivano considerati degli specialisti.
Avevamo parlato di questo ma anche di altro, e in particolare,di argomento che a me sembrava potesse essere di comuni interesse.
Gliavevo proposto, infatti, di venire a dirigere i Corsi di Calcio Estivi per giovani calciatori che io stavo organizzando a Sportilia,uno splendido centro sportivo sulle colline dell’Appennino-Tosco Romagnolo che lui conosceva bene, avendone fatta, nella Estate precedente, una succursale nel suo Albergo di San Marco di Castellabate, nel Cilento.

Lo stesso Albergo sulla Terrazza del quale,qualche giorno dopo,sarebbe accaduto quello di cui oggi ricordiamo il venticinquennale.
Si era mostrato interessato,mi aveva chiesto informazioni sull’organizzazione e sullo staff che stavo mettendo in piedi e mi aveva assicurato che ci avrebbe pensato.
La risposta, tragica ed inattesa, era arrivata qualche giorno dopo con l’assordante rumore di quel colpo di Smith&Wesson calibro 38.

Dopo di “Ago” abbiamo avuto altri Capitani romani della Roma, Francesco Totti e Daniele De Rossi su tutti, altri ne avremo, sicuramente Alessandro Florenzi e forse Lorenzo Pellegrini, ma per me, e credo, per tutti i Romanisti il vero ed ed unico Capitano, per la sua tragica grandezza, resterà sempre Agostino Di Bartolomei.

Dialogo tra sordi

Il Segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, ha dichiarato ieri che “si deve dialogare anche con Matteo Salvini, dialoghiamo con tutti.” Poi ha spiegato meglio: “Il papa continua a dirlo: dialogo, dialogo, dialogo. E perché non con Salvini? Anzi, il dialogo si fa soprattutto con quelli che non la pensano come noi e con i quali abbiamo qualche difficoltà e qualche problema.” Fosse pure un dialogo tra sordi.

L’apertura di Parolin però è arrivata dopo una difficile, per il Papa, assemblea della Cei e due giorni dopo l’intervista al Corriere della Sera dell’ex prefetto della congregazione per la dottrina della fede, Gerhard Müller, nella quale il cardinale tedesco ha scudisciato il “cerchio Magico” del Papa, ddi cui Parolin fa parte. Il giorno dopo il voto europeo, Müller ha riflettuto, severo, che “dire come hanno fatto il direttore della Civiltà Cattolica Antonio Spadaro e il presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, che Salvini non è cristiano perché è contro l’immigrazione, è stato un errore”.

Proviamo a ragionare come fa Müller, con lui in tanti. Questi dicono: Salvini sarà pure contro l’immigrazione, all’accoglienza preferirà i porti chiusi anche per le navi militari italiane che trasportano profughi. Salvini attaccherà il Papa davanti al Duomo di Milano di Paolo VI e del cardinal Martini e godrà ascoltando i fischi che il suo popolo riserva a Bergoglio. Salvini sarà tutto questo, ma è anche uno che bacia il crocifisso, attorciglia le sue manone attorno a un rosario, si rivolge alla Beata Vergine chiedendole aiuto. Che volete di più? Salvini è la Madonnina che piange più Twitter. A suo elogio Müller aggiunge che quell’ uomo : “si è rifatto ai patroni dell’Unione europea, alle sue radici cristiane.” Un busto da inserire tra quelli di De Gasperi e di Adenauer.

È chiaro a questo punto che quando Parolin apre al dialogo con “quelli che non la pensano come noi” non ci dà una grande notizia. Dialogare, la Chiesa, i papi l’hanno sempre fatto, da Attila in poi. Qui è diverso, e il malcelato imbarazzo del Segretario di Stato tradisce la sua difficoltà più grande, affiancare e difendere un Papa sotto attacco.

L’importanza del dialogo e del racconto per Papa Francesco

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Monda

Se ripercorriamo la lunga intervista che Papa Francesco ha rilasciato alla giornalista messicana Valentina Alazraky si rimane colpiti da tanti passaggi ma forse ancora di più dal tono e dallo stile, davvero “a cuore aperto”, che il Papa ha avuto durante la conversazione.

Un tono e uno stile essenzialmente dialogici, non è un caso che “dialogo”, “dialogare” siano le espressioni più ripetute nelle risposte del Papa. Il dialogo è il “condimento” che il Papa inserisce in ogni argomento affrontato, sin dall’inizio parlando dei muri che si alzano a difesa «quando la difesa è il dialogo, la crescita, l’accoglienza..», quel muro che rende prigionieri chi li costruisce, quando invece «chi costruisce ponti fraternizza, dà la mano, anche se resta dall’altro lato, c’è dialogo».

Per sviluppare un dialogo costruttivo ci vuole creatività dice il Papa citando Paolo VI: «Ma la politica è creativa. Non ci dimentichiamo che è una delle forme più alte della carità».

Il dialogo è l’essenza della politica e la linfa vitale della società, un dialogo che si muove in verticale, tra le generazioni, e in orizzontale, tra uomini e donne: «Io consiglio sempre ai giovani di parlare con gli anziani. E agli anziani di parlare con i giovani, perché un albero non può crescere se gli tagliamo le radici. […] Dialogare con le radici. Ricevere dalle radici la cultura. Allora cresco, fiorisco e do frutto. E genero e si va avanti. Questo dialogo tra gli anziani e i giovani per me è fondamentale nella presente congiuntura».

E poi il dialogo tra uomini e donne a cui il Papa dedica un lungo passaggio della sua conversazione con la Alazraky, quasi una riflessione a voce alta dai toni a tratti commossi come quando parla ad esempio delle donne del Paraguay «fantastiche lottatrici» che «hanno difeso la patria, la cultura, la fede e la lingua». Un’ammirazione per le donne che lo porta ad affermare che «il mondo senza le donne non funziona», perché «c’è una parola che sta per uscire dal vocabolario, perché fa paura a tutti: la tenerezza. È patrimonio della donna». Tenerezza e forza, per niente in contraddizione ma in perfetta simbiosi. Quella forza che permette di affrontare il male chiamandolo per nome, ad esempio quando l’intervistatrice conduce il Papa sui temi più scottanti come quello degli abusi sessuali. Il Papa non arretra, non sfugge di fronte alla sfida di un male che «non si può spiegare perché non ha senso, usando una definizione di un filosofo francese. Non ha senso. Qui vediamo solo lo spirito del male che induce tutto questo. E dico la verità, non riesco a spiegarmi il problema della pedofilia, senza vedervi lo spirito del male». Paul Ricoeur, il filosofo francese, diceva infatti che il male è l’assenza della spiegazione, non si può spiegare ma si può raccontare. Ecco lo stile, il metodo che Papa Francesco sta praticando da sei anni: raccontare storie, cioè dotate di un nome e un volto, che vuol dire anche raccontarsi, guardandosi negli occhi. Ci vuole forza, coraggio, sincerità nel dire la verità chiamando le cose con il loro nome, il passaggio sul tema dell’aborto in questo senso è emblematico. Se manca questo coraggio non può nascere quel dialogo che è apertura al confronto e ricerca del bene, anche quando si è di fronte a qualcosa che è visto come male.

Come al solito il Papa non si diletta in elucubrazioni teoriche ma offre spunti concreti, molto pratici. Illuminante da questo punto di vista la sua riflessione, utilissima per chi voglia oggi stare nell’agitato mondo della comunicazione, su come dialogare con i “nemici”: «Voglio essere onesto in questo. Di fronte a un governante io cerco di dialogare con il meglio che ha. Perché è a partire dal meglio che ha che può fare del bene al suo popolo […] bisogna riconoscere il bene che c’è in una persona, anche se poi ha pure cose cattive. “Lei ha questo, è bene, continui in questa direzione”. Così mi muovo. E trovo qualcosa di buono in tutti, buona volontà, anche nei non credenti, fanno sempre qualcosa di buono. E questo serve anche per le persone. Cioè, “questa persona mi sta antipatica”. Bene, ma questa persona antipatica, che parlerà persino male di me, ha qualcosa di buono? E se ha questo e quello… Allora penso in ciò che ha di buono e la tormenta si calma. È una cosa che sarebbe bene che tutti facessero».

C’è qualcosa di gesuitico in questo atteggiamento, che ricorda l’invito di S. Ignazio a “cercare e trovare Dio in tutte le cose”, ma ancora di più, c’è qualcosa di biblico nel modo con cui il Papa attraversa il mondo affrontando le sfide più insidiose, che spesso si annidano proprio nel mondo dei media: «Io con i media mi sento a mio agio […] Nella fossa dei leoni, ma a mio agio e rilassato. E in generale le domande sono rispettose. Chiaro che quando i problemi sono più scottanti, può essere più difficile per me rispondere, ma ciò non vuol dire che io mi senta distaccato dai media, no, anzi, sono a mio agio con voi». Ecco il punto, rimanere forti ma senza distaccarsi dall’interlocutore, provando affetto per lui e sforzarsi di mantenere vivo il dialogo, raccontando la propria storia, scommettendo sul bene che splende in fondo a ogni situazione, anche nella bocca di una fornace o in una fossa di leoni.

Inps, Inail e diversi Ministeri pagano in ritardo le imprese

“Quando sono le imprese a ritardare il versamento dei contributi previdenziali o assicurativi – ha dichiarato il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – questi istituti sono solerti e intransigenti nel far scattare immediatamente le sanzioni e gli interessi di mora previsti dalla legge. Diversamente, quando sono chiamati a liquidare i propri fornitori, questa inflessibilità nel rispettare i tempi di pagamento viene inspiegabilmente meno. Al punto che sia l’Inps che l’Inail, l’anno scorso hanno liquidato le imprese in grave ritardo, violando i limiti stabiliti dalla normativa”.

A rilevarlo è un’indagine dell’Ufficio studi della Cgia estrapolando i dati relativi agli indicatori di Tempestività dei Pagamenti (Itp) e l’ammontare dei debiti commerciali delle principali Amministrazioni pubbliche presenti nel Paese. Amministrazioni pubbliche che, per legge, oltre all’Itp devono pubblicare sul proprio sito anche il numero dei creditori e l’ammontare complessivo dei debiti maturati ogni trimestre e alla fine di ciascun anno per le seguenti voci di spesa: somministrazioni, forniture, appalti e prestazioni professionali.

Nel 2018 l’Inps ha registrato un Itp pari a +10,13. Questo dato certifica che l’anno scorso l’istituto ha liquidato i propri fornitori con oltre 10 giorni medi di ritardo rispetto alle disposizioni previste dalla legge in materia di tempi di pagamento. Tutto ciò, al 31 dicembre 2018, ha contribuito a produrre un debito commerciale complessivo nei confronti dei fornitori pari a 157,2 milioni di euro.

Per quanto riguarda l’Inail, invece, nel 2018 l’Itp (riferito al quarto trimestre 2018) è stato pari a +54,45. Nel suddetto periodo di riferimento l’istituto ha saldato i propri fornitori con quasi 2 mesi di ritardo. In relazione al tema tutte le Amministrazioni pubbliche sono obbligate per legge a riportare i dati riferiti ai pagamenti nei propri siti internet, ma a distanza di quasi 5 mesi l’Inail non ha ancora pubblicato l’ammontare complessivo del debito maturato al 31 dicembre 2018. Un’anomalia reiterata poichè verificatasi anche per gli anni 2016 e 2017.

L’Inps e l’Inail non sono però le uniche Amministrazioni ad aver violato l’anno scorso la legge in materia di pagamenti nei rapporti commerciali con le aziende private. Quasi la metà dei Ministeri, infatti, presenta un valore assai lento negli indicatori di Tempestività dei Pagamenti. Un esempio tra tutti è quello del Dicastero della Difesa, che l’anno scorso ha liquidato i fornitori con 67 giorni di ritardo maturando, a fine anno, ben 313,2 milioni di euro di debiti.

Due esempi di generosità

Diceva uno scrittore francese, Jules Renard, che “è più facile essere generosi che non rimpiangerlo”. Naturalmente è un aforisma, a sua volta generoso, nei confronti del genere umano, ma pur sempre utile. Soprattutto nei tempi in cui viviamo, dove la magnanimità tende spesso a essere liquidata come puro buonismo, dunque sospetto.
Per fortuna ogni tanto ci sono alcuni episodi che smentiscono il “mainstream” corrente e ci riconciliano con il genere umano. Si tratta di esempi a loro modo straordinari (cioè non ordinari) che fanno di martedì 28 maggio scorso una giornata, dal punto di vista del mondo sportivo, per certi versi memorabile.

Andiamo con ordine. “Rinuncio a due anni di contratto, perché la mia storia con la società non potrà mai essere una questione di soldi”. Rinunciando a ciò cui probabilmente nessuno rinuncerebbe, ovvero alla modica cifra di una decina di milioni di euro (lordi) di liquidazione, per cederli ai collaboratori del suo staff, l’allenatore del Milan Gennaro Gattuso ha dato una nobile lezione di grandezza d’animo in un mondo (quello sportivo) e in un clima generale del Paese, tutt’altro che ben disposto alla gratuità del dono. Cacciato dal Milan dopo una stagione non irrilevante, sorte che purtroppo lo accomuna ad altri (più titolati) allenatori. E nel Paese in cui non si dimette mai nessuno, il suo gesto rappresenta una rarità.

Certamente di altri tempi, è anche il gesto del ciclista Francisco Ventoso che passa la borraccia al collega Vincenzo Nibali, nel momento più difficile della tappa più difficile del Giro d’Italia, la temibile salita del Mortirolo.

Ventoso e Nibali, quasi come Bartali e Coppi, protagonisti di uno storico scambio di borracce rimasto avvolto nel mistero (su quale dei due campioni la porgeva e quale la riceveva), ma pur sempre capace di accendere l’immaginario degli appassionati di ciclismo e di rinforzare il mito degli italiani “brava gente”, generosi e altruisti.

Diceva il Manzoni che la generosità “è una colpa che non viene perdonata dal genere umano, specie se viene fatta con sincerità”. Speriamo che i gesti di Gattuso e Ventoso siano correttamente intesi dai “leoni da tastiera” del popolo dei social.

Identificata dai ricercatori del Gaslini una nuova causa di epilessia ed autismo infantile

Identificata dai ricercatori del Gaslini una nuova causa di epilessia ed autismo infantile in collaborazione con il premio Nobel per la Medicina James Rothman: l’importante risultato è frutto di una collaborazione tra i ricercatori del Gaslini ed i ricercatori dell’Università di Londra.

La ricerca è stata svolta dal dottor Vincenzo Salpietro, ricercatore pediatra presso l’UOC di Neurologia Pediatrica e Malattie Muscolari del Gaslini e dell’Università di Genova, diretta dal professor Carlo Minetti, con la collaborazione del professor Pasquale Striano e del dottor Federico Zara. La collaborazione internazionale ha coinvolto il Laboratorio di Neurogenetica dell’ University College di Londra (UCL) diretto dal professor Henry Houlden ed il Laboratorio di Biochimica della stessa Università diretto dal professor James Rothman, già Premio Nobel per la Medicina 2013, per le sue scoperte in merito alla trasmissione delle sinapsi, che rappresentano la sede della comunicazione e del passaggio dei segnali tra le cellule del sistema nervoso rappresentate dai neuroni, e quindi permettono il funzionamento corretto del cervello e dell’intero sistema nervoso dell’uomo.

I ricercatori hanno studiato un gruppo di bambini affetti da autismo, epilessia resistente ai farmaci, disturbi del linguaggio e disordini del movimento, ed hanno identificato, grazie a tecnologie di analisi genetiche di nuova generazione, mutazioni in un gene chiamato VAMP2. Gli effetti di tali mutazioni sono stati studiati grazie ad un lavoro di collaborazione internazionale, evidenziando una possibile alterazione del corretto rilascio delle “vescicole” che trasportano i neurotrasmettitori che quindi determina un’anomala comunicazione tra neuroni a livello delle sinapsi.

Il lavoro è stato recentemente pubblicato dall’ importante rivista internazionale “American Journal of Human Genetics”.

Tale risultato evidenzia il ruolo cruciale della trasmissione sinaptica nell’epilessia e nell’autismo, in linea con altri recenti studi. La ricerca ha coinvolto famiglie da Italia, Spagna, Francia e Stati Uniti. Con l’utilizzo delle nuove tecniche di sequenziamento del DNA sono sempre più i casi di patologie neurologiche rare che possono essere diagnosticate da un punto di vista molecolare, con importanti ricadute per la prognosi e in certi casi anche per la terapia dei bambini affetti.

“Voglio ringraziare i ricercatori e tutto il personale dell’Istituto Gaslini: risultati come questo restituiscono speranza a tante famiglie. Siamo fieri di avere in Liguria il Gaslini, Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico che si conferma all’avanguardia a livello internazionale anche sotto il profilo della ricerca scientifica in pediatria” ha sottolineato la vicepresidente e assessore alla Sanità di Regione Liguria Sonia Viale.

“Questa ricerca, dichiara il professor Carlo Minettidirettore scientifico dell’Istituto G. Gaslini, è frutto di un’importante collaborazione internazionale del nostro Istituto, e conferma l’importanza del ruolo delle sinapsi nei disordini del neurosviluppo. Oggi trovare il gene difettoso, che causa queste rare malattie, ci offre la grande opportunità di poter fornire alle famiglie possibili informazioni sull’evoluzione della malattia, e in alcuni casi terapie “di precisione” che tengono conto delle differenze individuali e possono talvolta fornire strategie di prevenzione per le famiglie e cure personalizzate per ogni bambino”.

La lettera Ue all’Italia

L’Italia “non ha effettuato progressi sufficienti nel corso del 2018 per rispettare il criterio del debito”.

Nella lettera, il cui contenuto si attiene strettamente ai termini previsti dalla procedura, si chiede all’Italia, come prevede il patto di stabilità, di illustrare quali siano i fattori rilevanti “per valutare in modo complessivo in termini qualitativi l’eccedenza rispetto al valore di riferimento”, che lo Stato membro può fare presenti alla Commissione. “Per consentire alla Commissione di riflettere pienamente l’input aggiornato sui fattori rilevanti nel suo rapporto, saremmo lieti di ricevere la vostra risposta entro il 31 maggio 2019”.

La presa di posizione della Commissione europea era attesa da tempo, inevitabile dopo che recenti dati Eurostat hanno mostrato un aumento del debito pubblico italiano dal 131,4% nel 2017 al 132,2% del Pil nel 2018.

Qui si può leggere la lettera lettera_ue_italia

Occorre mettersi in marcia.

La pubblicazione dei risultati elettorali definitivi delle Europee 2019 e le prime ipotesi sui flussi dei voti in relazione alle politiche dello scorso anno, consente alcune iniziali ipotesi interpretative.
Una prima considerazione è di contesto. Con qualche prudenza si potrebbe ipotizzare che, al di là dei risultati, la società italiana resta in una sostanziale situazione di stallo.
In altri termini: ci sono migrazioni elettorali di prossimità politica (anche cospique) in un bacino elettorale generale che si riduce progressivamente, ma non si vedono significativi salti di qualità nella rappresentanza (se non in simboliche carnevalate) capaci di acquietare le ragioni profonde delle angosce esistenziali presenti nel paese.
Del palcoscenico della società italiana continua ad essere illuminata solo una parte e la politica pare occuparsi solo di ciò che è nel cono di luce.

Veniamo ai numeri.

Cresce la Lega, anzi raddoppia rispetto allo scorso anno.
Si dice che vinca prendendo voti al M5S e a Forza Italia. Un successo figlio della strategia di confine di Salvini, al quale con molta leggerezza è stato consentito, da Di Maio e soprattutto da Berlusconi, di giocare nel campo populista e contemporaneamente in quello del centrodestra con convincente ambiguità.
Il successo della Lega è indubbio, quanto privo di elementi di novità sotto il profilo della rappresentanza: da un lato, raccoglie voti di elettori delusi dai 5 stelle, ma ancora irretiti da paure e rancori; dall’altro lato, prende i voti di un elettorato di centrodestra che inizia a sentirsi orfano di un leader forte.

Eviterei abbagli come nel 2014: questo risultato non pare la rappresentazione di qualcosa di nuovo, quanto una sorta di pettinatura dell’esistente. L’idea di una Lega che penetra nell’elettorato moderato offrendogli, novello PD renziano, una pacificazione con il disagio, ha basi effimere. Ripeto, a me pare che la Lega metta insieme un elettorato (evidentemente anche cattolico) già presente sul mercato dell’esasperazione sociale e gli offra un prolungamento di permanenza, forse più solido e maschio di quanto poteva offrire la posizione ondivaga e inconcludente dei grillini. Mentre sul fronte opposto recupera intorno a sé una parte di quegli elettori perduti per la strada del tramonto berlusconiano.
Perde il M5S, anzi dimezza i voti. È una conferma per chi pronosticava la condizione fragile dei grillini, ma è una smentita per chi concludeva che quella condizione avrebbe portato gli elettori a ritornare su scelte del passato. Il disincanto per Di Maio ha come effetto o l’incanto per Salvini o la ritirata nell’astensione. Al di là della evidente ostinazione a restare al potere, ben oltre la più tenace resistenza dorotea, il punto politico è che le contraddizioni del movimento sono ormai esplose e fingere di ignorarle non sarà certo un modo per risolverle.

Vince il PD, anzi no: resiste, con fatica. L’aumento percentuale viene subito ridimensionato dalla verifica dei voti reali. Rispetto al 2018 non ci sono novità nella quantità dei numeri; mentre ve ne sono nella loro qualità.
Molti voti arrivano al PD (come del resto è accaduto alle ultime primarie) in forza della sua posizione di unica forza alternativa a quelle di governo, e arrivano anche da un elettorato di rito non PD. Grossolanamente si potrebbe utilizzare l’esempio delle teste di lista non PD in quattro circoscrizioni su cinque, non di provenienza PD e capaci di attirare appunto una significativa quota di elettori non PD.

Dunque, il PD regge all’urto, ma non ha ancora una direzione di marcia. Anche qui si può dire che non ci sono elementi di novità nella rappresentanza, non si sradica dall’astensione quella parte della società che è forse più esigente sotto il profilo della qualità politica.
Sarà banale ripeterlo, ma continua ad essere l’astensione il termometro più attendibile di una condizione sociale fatta di speranze perse, apatia rassegnata, resistenza privata alle illusioni populiste, e dell’assenza di proposte politiche in grado di affrontare le ragioni della crisi guardando oltre, senza ripiangere il passato.

Può apparire paradossale ma la ragione del successo di Lega e PD pare essere più l’inerzia delle cose, che nell’introduzione di elementi di novità.
Ma potrebbe essere proprio questa inerzia a mettere in crisi gli apparenti vincitori delle elezioni, più che i reali sconfitti.

La Lega non è espressione di un nuovo centro con baricentro a destra. È un catino nel quale si sta raccogliendo un indistinto schiumoso di disagio sociale e conservazione del potere (visto dal Sud questo fenomeno è molto nitido). Su questo crinale di ambiguità non ha nessun interesse a mutare lo stato delle cose. Anche se è immaginabile che sarà la crisi dei 5 stelle e le loro divisioni interne a costringere la Lega ad uscire dal mercato elettorale chiuso di cui si è giovata.

Il PD resta un riferimento totemico dei valori costituzionali, ma rischia di non andare molto oltre questo valore simbolico se in un qualche modo non prova a sciogliere i nodi culturali e politici che si porta dietro ormai dalla sua nascita.
O decide di riscoprire, magari con un po’ più di elaborazione di pensiero, la matrice di partito “democratico”, sintesi innovativa e innovatrice delle culture politiche storiche, e dunque riprende una vocazione che, se non è maggioritaria, è quantomeno di centralità sociale. Oppure decide di farsi partito di una sinistra che si misura con la storia e prova a riprenderne le fila e le ragioni di una presenza, ed allora riscopre la cultura della coalizione e del dialogo con un centro politico. Questo forse non dipenderà solo dal PD, ma anche da quale domicilio vorranno darsi i cattolici popolari in questo passaggio politico.

Allo stato ciò che genera maggiore preoccupazione non è la oggettiva complessità degli scenari in campo. Ciò che preoccupa di più è la prosecuzione dello stallo. In fondo la situazione che viene fuori dalle urne può offrire una sorta di vantaggio di posizione ai due vincitori sulla carta: con una Lega orientata a non mettere in discussione la posizione intermedia e a non scegliere tra governo attuale e centrodestra; e un PD volto a conservare la posizione di rendita elettorale quale unico argine ai populisti/sovranisti, senza una precisa identità culturale.

Questa tentazione, da temere soprattutto in casa PD sia per l’assenza di elementi esterni di pressione sia per l’indolenza dimostrata dai suoi gruppi dirigenti a misurarsi con il “vizio genetico”, rischierebbe di ingessare pericolosamente lo stato delle cose, creando una asfittica dialettica più sul piano della propaganda che sul terreno delle proposte.
Occorrerebbe immaginare non tanto una via per successi elettorali, quanto una strada per ricomporre l’equilibrio politico nella rappresentanza complessiva del paese. Come ci dimostra l’esperienza delle scorse elezioni europee, un successo senza equilibrio politico non ha lunga vita.

Oggi più che mai, sarebbe necessario costruire forze politiche in grado di pensare anche per gli altri e non solo per se stesse. Forze politiche capaci di ripensare le ragioni della democrazia, specie sul piano europeo.
Ma quale che sia la strada, questo risultato elettorato suggerisce una volta di più che occorre mettersi in marcia.

Merlo: Alleanze, adesso si deve partire

Lo dicevamo prima e, a maggior ragione, lo diciamo oggi dopo il voto europeo. E sempre partendo dall’assunto che in Italia “la politica è sinonimo di politica delle alleanze”. E se questo resta la costante della politica italiana, e’ persin ovvio arrivare alla conclusione che se si vuole ricostruire una coalizione e una alleanza credibile e competitiva non è sufficiente riproporre la vocazione maggioritaria o l’autosufficienza di un partito.

Fuor di metafora, se l’obiettivo resta quello di ricostruire una alternativa al centro destra – che oggi, checche’ ne dica il segretario del Pd Zingaretti, purtroppo non esiste ancora – che non sia solo un banale e semplice prolungamento di un partito, e’ sempre più indispensabile la presenza di un partito di centro, riformista, plurale e di governo. Una richiesta che emerge in modo persin troppo chiaro dal voto europeo e anche dalla consultazione per il rinnovo della guida della Regione Piemonte che ha registrato, per l’ennesima volta, la sconfitta della sinistra a vantaggio di un centro destra a trazione leghista. Malgrado la presenza di un candidato come Sergio Chiamparino che, come tutti sapevano tranne la “propaganda giornalistica amica”, non è riuscito a far la differenza attraverso il fantomatico “voto disgiunto”.

Ora, e’ del tutto evidente che la sinistra non è più politicamente ed elettoralmente autosufficiente. Ed è altrettanto chiaro che un centro sinistra e’ credibile, ed esiste, nella misura in cui riesce a comporre una alleanza variegata e articolata. Nonché rappresentativa e realmente espressiva di pezzi di società. Insomma, non è più credibile una alleanza che viene gestita e pianificata a tavolino e dall’alto. Al netto della buona volontà e della consapevolezza di uscire dall’isolamento e dall’angolo, non è più praticabile la strada di dar vita ad una coalizione decidendo a tavolino chi copre il fianco destro, chi il fianco sinistro e chi il fianco centrista/cattolico della coalizione. Questa concezione di una parte del Pd non è, ovviamente, più percorribile. Quello che adesso serve, e forse è anche utile per la democrazia italiana, e’ quello di ricostruire una alleanza di centro sinistra dove la forza di un centro dinamico e riformista, moderno e plurale, deve essere il più possibile visibile e protagonista. Un luogo politico che certamente esprima anche un leader – considerando che la politica in Italia continua ad essere fortemente leaderistica e personalizzata – ma che, soprattutto, sia in grado di declinare una posizione politica capace di essere contendibile con l’agglomerato leghista e conservatore. Un “blocco sociale” che, comunque sia, va rispettato e non ridicolmente disprezzato e ridicolizzato come continua a fare, con una arroganza moralistica e culturale senza limiti, la sinistra salottiera e al caviale dell’arcipelago progressista italiano.

Un centro dinamico, appunto, che sia in grado però di non ricoprire una semplice casella mancante della alleanza ma che ritorni ad essere decisivo nella sua capacità di rappresentare interessi sociali, mondi vitali e culture politiche reali. Ed è proprio sotto queso profilo che l’area cattolico democratica e popolare può e deve giocare un ruolo politico, culturale, programmatico ed organizzativo decisivo. Non per ritrarsi in una dimensione identitaria ma, appunto, per contribuire con altri a ridefinire un progetto politico che può essere alleato con una sinistra democratica e di governo ma che, al contempo, non può essere subalterno o gregario rispetto ad un’azionista di maggioranza.

Un progetto politico che deve essere messo subito in campo e che sia in grado di saper unire la politica con l’organizzazione, la rappresentanza di interessi sociali con una dimensione valoriale e culturale. Chi continua a commentare e dispensare giudizi dall’esterno può tranquillamente prendersi un periodo di riposo. Adesso è il momento dell’azione e della progettualità politica.

Monda: Cosa imparare da Salvini

“Gli Italiani sono più avanti di qualche fine analista politico che riempie le pagine dei quotidiani”. Così Matteo Salvini ha commentato a caldo i risultati elettorali, cioè la sua clamorosa vittoria alle europee, il 34% dei voti, con cui la Lega si posiziona primo partito in Italia, seguito a lunga distanza dal PD (22%) e M5S (17%), nonché il diffuso successo alle amministrative. Tentando un’analisi lucida e intellettualmente onesta, si deve innanzitutto riconoscere per buone queste sue parole iniziali: l’elettore ha sempre ragione, “è avanti”.
Dunque, un buon modo per comprendere il senso di queste elezioni, e per lo meno i risultati in Italia, è innanzitutto ascoltare le parole del vincitore scelto dagli Italiani. Andando a fondo, occorre comprendere la coerenza interna del suo messaggio: solo entrando nel suo orizzonte si potrà contrapporre un’alternativa e muovere una critica. Dunque, esaminiamo i suoi primi discorsi da vincitore indiscusso delle elezioni europee.

“L’emozione è grande, la soddisfazione è grande… la responsabilità è grande”, sottolinea. Dalle prime parole entra in gioco il tema della responsabilità, dell’affidabilità e della solidità. Gli Italiani, dice, sono “concreti, sani, onesti”. Un’onestà leggermente diversa però sia dall’#onestà assunta a slogan anti-casta e principio cardine dal M5S, sia dalla riproposizione anni ’90 e primi 2000 in chiave anti-berlusconiana e moralista della “questione morale” che la sinistra ha per fortuna ormai pressoché abbandonato. È un’onestà fondata sulla concretezza dei “fatti” e dei “dati” (“i dati ci danno ragione”), che impone “il momento della responsabilità”, perché “la festa dura pochi minuti”.

Infatti non c’è più tempo, lo slogan è “fare, fare, fare!”, come e cosa fare vengono in secondo piano. “Il forte mandato” (“ancora sopra il 50%” i voti a favore delle forze al governo) dei cittadini spinge a “rivedere i parametri europei”, a “riportare al centro del dibattito europeo il diritto al lavoro, alla salute, alla vita”. Non viene chiarito però in che modo “rivedere” e in che senso “riportare al centro”: ri-tornare dove? Questo non viene detto, o meglio, viene supposto come chiaro ed evidentemente deducibile dalla valanga di “dati” e “fatti” di cui Salvini invade i media. Come ogni buon studente, sa che il modo più veloce per convincere di essere preparato e suscitare fiducia in un professore (spesso pigro o disattento) è assordarlo con singole nozioni e informazioni, immagini forti ed esempi. La tesi di fondo resta sfumata, perde importanza, il piano generale non importa più, ma l’esame si passa.

Di buono c’è che le due simili onestà sopra citate (istituzionale di sinistra o forcaiola grillina), che coinvolgevano e indagavano il privato, vengono ora parzialmente superate in nome di un certo garantismo. Eppure sembra non siano scomparse, ma solo riassorbite in una sorta di etica del lavoro (negli ultimi mesi Salvini avrà detto decine di volte “mi pagano per fare il ministro”) di simile durezza divisiva, fondamentalmente stacanovista, fondata sul sacrificio (l’accenno alle ore di sonno arretrato) e infine sulla lotta (il ministro che “combatte gli spacciatori”, lo slogan ripetuto “contro tutto e tutti”). L’andare “contro corrente”, l’essere politicalmente scorretto, è la vera forza di Salvini. Più gli si oppone frontalmente, più aumenta la sua forza d’urto. Come dice chiaramente, “ho vissuto questa campagna elettorale con passione e con orgoglio, con attacchi quotidiani e vergognosi, però la vita reale è più forte degli attacchi virtuali”: bisognerebbe aggiungere un nesso causale fra “orgoglio” e “attacchi”, innanzitutto perché molti attacchi se li è cercati (la vicenda del Salone del Libro è un esempio lampante), inoltre perché tali attacchi sono stati, come detto, controproducenti, in quanto fondamentalmente faziosi e/o inconsistenti.

Ma, al di là degli slogan e della ricerca della rissa, c’è forse una concretezza che Salvini ha davvero in mente, un nocciolo politico rilevante, da inquadrare sul serio: quella che lui chiama “la vita reale”. Cosa intenda con queste parole si ricava innanzitutto dal primo punto che indirettamente pone sul tavolo delle trattative con i compagni di governo: abbassare le tasse. La vita reale è fatta innanzitutto di soldi in più che restano in tasca al cittadino. La teoria economica neoliberista secondo cui la riduzione delle tasse aumenta la domanda e dunque rimette in moto l’economia è semplicemente ciò che fa tornare i conti e dà (forse, speriamo) le coperture, ma Salvini sa che quello che conta per lui è che l’italiano si senta direttamente coinvolto in quanto risparmiatore-lavoratore, difeso e tutelato, nei suoi interessi immediati e quantificabili, da uno Stato al contempo benevolente ma forte, uno Stato che sintetizzi vicinanza e lontananza, sicurezza dalla criminalità e libertà dalla burocrazia. Uno Stato fondamentalmente miracoloso.

Chiama in causa Dio (o meglio “chi c’è lassù”) per ringraziarlo, certo non per i risultati elettorali (sorge la domanda: e allora perché ringraziarlo la notte delle elezioni?), ma perché aiuta a “ritrovare speranza, orgoglio, radici, lavoro, sicurezza”. Ecco la genialità di Salvini: collocare sullo stesso piano e mescolare la speranza, virtù teologale che coinvolge il “destino e il futuro” del Paese, con concetti terreni e autoreferenziali: “orgoglio, radici, lavoro, sicurezza”. Dei cinque doni di Dio secondo Salvini la prima, la speranza, è l’intrusa, ma serve a dare una veste nuova alle altre, a proiettarle emotivamente verso un futuro aperto e progressivo. Salvini è paradossalmente coerente nel suo progetto di confusione di terra e cielo, che lui ci creda o meno. Il risultato è efficace, ce lo dicono i risultati, i suoi cari fatti, e lui stesso dichiara di voler “riappassionare alla politica gli Italiani con i fatti”. Qui sta il punto. Serve a poco che quando sguaina la croce argentata e la bacia qualcuno urli in lontananza “giù! Giù!”. Non basta gridare alla strumentalizzazione (e ghettizzare ancora una volta la religione nella sfera privata), bisogna invece mostrare come egli effettivamente si distorcano i contenuti del messaggio cristiano e, ancor prima, i fatti stessi; bisogna dimostrare innanzitutto come la sua visione di “orgoglio, radici, lavoro, sicurezza” comprometta nei fatti la “speranza” di un orizzonte di lungo periodo di una società aperta orientata a una crescita integrata al suo interno e nel contesto mondiale.

Come rispondere a Salvini

Quando si comprenderà che l’alternativa a Salvini è proprio il contrario dello scontro frontale di cui è campione, e che la vera partita si gioca sui contenuti concreti e sulla loro narrazione proiettata sul “futuro e sul destino” del Paese? Insomma, quando si comincerà a prendere Salvini davvero sul serio? Perché finché non lo si fa continuerà a vincere. Al contrario, proviamo ora a dare una breve lettura critica del suo sopra citato “pentalogo”: “speranza, orgoglio, radici, lavoro, sicurezza”, e a presentare un’alternativa. È una serie molto eterogenea di parole chiave emotivamente forti, in cui vi è un paradossale gioco di equilibri quasi geometrico fra la prima parola, “speranza”, che apre al futuro, e l’ultima, “sicurezza”, che chiude all’altro, protegge e difende da un pericolo. Equilibrio precario, sbilanciato totalmente da quelle parole centrali, “orgoglio” e “radici”, urticanti per una certa classe borghese, che oltre a far pendere a destra la bilancia, gettano una strana luce sulla “speranza” di Salvin: forse intendeva “sopravvivenza”, “autoconservazione”, “mors tua vita mea”. Infine c’è il “lavoro”, i fatti, i dati, la serietà, la concretezza. Non c’entra niente con le altre, ma serve a farle passare come innocue al ceto un po’ più istruito (quello che ha appena rabbrividito a sentire “orgoglio” e “radici”): i fondo Salvini è solo un buon amministratore. Nel menù ce ne è per tutti: si rassicurano i moderati-progressisti che devono investire (“speranza”), si compattano i vecchi conservatori identitari (“orgoglio” e “radici”), si rassicurano i moderati conservatori del ceto medio-basso (“lavoro” e “sicurezza”).

Chi rimane fuori? Gli “altri”, e i giovani. Per quanto Salvini denunci spesso la fuga dei cervelli, ne fa una questione di orgoglio nazionale e quasi di protezionismo applicato agli studenti. Quella che manca, fondamentalmente, è una vera speranza, cioè visione di lungo periodo di una società aperta. Quella che manca è la fuoriuscita dal paradigma secolare della disciplina e dell’ordine statale che irregimenta, protegge e garantisce. Quello che manca semplicemente è il futuro e la comprensione di un mondo che manca. Salvini riesce abilmente a presentarsi come il futuro, ma è essenzialmente una riproposizione rimescolata e rivisitata del vecchio modello dello Stato forte e neoliberista. “Lavoro e sicurezza”, cioè in sostanza “spremere di più il limone”, come stigmatizza Magatti in un suo recente saggio. Una visione miope del nuovo paradigma nel quale siamo, che impone sfide di ben più alta portata.

L’alternativa alle cinque parole di Salvini deve dunque smontare pezzo per pezzo la sua proposta, e proporre un modello di società aperta, non semplicemente per buonismo e vago cosmopolitismo da salotto, ma per una corretta e concreta visione della realtà nel suo evolversi sul lungo periodo e nel suo contesto globale. La “vita reale”, per usare le sue parole, di questa società aperta presenta un “lavoro” inteso non come assegnazione individuale di un posto fisso e dunque come tornaconto privato (la miopia del “meno tasse”), ma come forma di relazione libera e generativa con l’altro (il prossimo), con cui collaborare sempre in forme nuove e diverse; questa società aperta non ha bisogno di dirsi orgogliosa delle proprie radici, perché è abbastanza forte da essere da riscoprirle sempre nuove proprio nell’incontro con l’altro e il diverso; è abbastanza forte, infatti, da non dover per forza dirsi “sicura”, “protetta” da qualcosa (perché lo si dica, l’emergenza sicurezza semplicemente non esiste). Insomma occorre uno sforzo intellettuale per comprendere e far comprendere che la costante prova di forza di Salvini è semplicemente prova della debolezza e dell’ansia che egli avverte e contribuisce a generare, in un circolo vizioso. Occorre essere più forti di lui nel presentare un’alternativa decisamente incentrata sul dialogo e sulla cooperazione nel lavoro, nell’istruzione, nel rapporto fra generazioni e fra popoli.

Moretton: Un Travaglio incerto

Il risultato delle elezioni europee del 26 maggio, consente alcune riflessioni che vanno oltre alla indiscussa vittoria della Lega. Mi riferisco al Partito Democratico che, arrivato secondo e prima del Movimento 5 Stelle, ritiene di aver aver superato il rischio sparizione. Ed è così soddisfatto che festeggia il risultato nonostante abbia perso 6 milioni di voti rispetto alle europee del 2014 e 100 mila elettori rispetto alle disastrose politiche del 2018 (alle politiche hanno votato molti più italiani rispetto alle europee). Ma il nuovo segretario Zingaretti ritiene che il risultato sia positivo e ancor più la lista unitaria del Pd, presentata in queste europee. Ritiene anche che si debba allargare l’attuale compagine alle altre forze della sinistra per così partir da una base elettorale del 28%. Basterà per essere l’alternativa di governo come continua ad affermare Zingaretti? Difficile crederlo e, infatti, già si sentono commenti non favorevoli all’ipotesi di Zingaretti.

È Calenda che per primo sgombra il campo dai facili entusiasmi. Per evitare di pendere solo a sinistra perdendo i moderati c’ è una sola cosa da fare, avverte l’ ex ministro: creare un’ ampia alleanza che coinvolga il Pd, i Verdi e un vero partito Siamo Europei. Un partito che nasca sul serio. E un’ alleanza, non una lista unica. Sembra quindi che Calenda, forte di un ottimo risultato elettorale, abbia tutte le carte in regola per guidare un nuovo soggetto politico liberal-democratico. E comunque, l’ ex ministro, come molti anche nel Pd, ritiene che il Partito democratico non sia in grado da solo di attirare i voti dei moderati e che servano forze nuove. Il dibattito sulla conquista del centro era stato aperto da Renzi alla vigilia delle Europee. Ma dopo il voto, con il Pd che non guadagna consensi rispetto al 4 marzo quella discussione si è fatta più accesa. Soprattutto tra i renziani il cui leader ufficialmente non interviene nel dibattito. Non un commento sul risultato del Pd, non una parola sul segretario…

Dal dibattito interno del Pd emerge da più parti che il presunto campo largo non è più largo delle ultime elezioni politiche, anzi i risultati sono anche peggiori.

È grave che il Pd non sia praticamente riuscito a catturare i voti in uscita dai 5 Stelle e da Forza Italia che hanno preferito la Lega e Fratelli d’Italia. E che il Pd si ostini a rivolgersi al bacino della sinistra che oltre il Partito Democratico non esiste, meglio sarebbe che si concentrasse su quello enorme dell’astensione dove si collocano i delusi e i moderati.

Comunque, allo stato attuale, non si capisce quale direzione intenda prendere il Pd anche se si comprende che una parte di pidini forse potrebbe far nascere un nuovo soggetto politico di centro moderato capace di interessare i molti elettori che oggi non hanno ancora deciso che cosa votare, preferendo l’astensionismo per l’assenza di nuova proposta politica che li convinca a recarsi alle urne.

L’American dream e la nuova sinistra americana

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Articolo già pubblicato sulle pagine della rivista Il Mulino a firma di Antonio Funiciello

Che cos’è il sogno americano? Lo storico premio Pulitzer James Truslow Adams ha scritto, in The Epic of America (1931):

«è il sogno di una terra in cui la vita dovrebbe essere migliore, più prospera e più ricca per tutti, con opportunità per ciascuno secondo le proprie capacità o i risultati raggiunti. È un sogno difficile da interpretare adeguatamente per le classi dominanti europee… Non è un soltanto un sogno di auto nuove e salari elevati, ma un sogno di ordine sociale, nel quale ogni uomo e ogni donna devono essere capaci di raggiungere la massima realizzazione di cui sono, per natura, capaci di raggiungere; e devono essere riconosciuti dagli altri per quello che loro sono, a prescindere dalle circostanze fortuite legate alla nascita o alla posizione».

Thomas Jefferson, sempre in polemica con l’Europa classista, aveva già fissato l’obiettivo della nuova Repubblica che gli americani stavano costruendo: opporre all’aristocrazia europea dei privilegi e della ricchezza un’aristocrazia americana delle virtù e dei talenti. Una Repubblica guidata da una siffatta aristocrazia non avrebbe potuto che accrescere le proprie potenzialità e disporsi a essere lo spazio di vita migliore per quel pursuit of happiness che, in ultima istanza, è il vero fondamento e lo scopo del sogno americano.

Ma come calibrare il primato dell’American dream in una società aliena o allergica alla lotta di classe che, a partire dalla metà dell’Ottocento, infiammava invece il vecchio continente come un enorme bosco di alberi secchi? Semplice: concependo il sogno americano in un’ottica espansiva e includente. Lo suggeriva anzitutto la filosofia: quell’illuminismo schietto a cui i padri fondatori erano legati. Lo consigliava anche la geografia: in una terra così immensa per una popolazione così esigua, non c’era motivo di pensare che non ci sarebbe stato spazio e fortuna per tutti. Ma lo ispirava anche la lontananza da quell’Europa bigia e litigiosa, organizzata in società dove il destino dei singoli era strettamente legato alla discendenza familiare.

Così l’American dream divenne l’essenza dell’ethos nazionale americano: perché era un sogno che univa senza dividere; un sogno da fare insieme, eppure ognuno a casa propria; un sogno cominciato con tredici colonie, ma che non poteva avere fine perché i suoi principi erano truths to be self-evident in ogni luogo e in ogni tempo. E da subito, infatti, i partiti maggiori e i leader americani più importanti cominciarono a modellare la propria identità sulla base di chi meglio sapeva interpretare la capacità di espansione e il potere di inclusione dell’American dream.

Se è vero che la Guerra civile scoppiò prevalentemente per ragioni economiche, essa fu in realtà così dirompente perché si nutriva di una stringente contraddizione: negare la partecipazione attiva all’American dream a esseri umani di diversa pigmentazione di quella della maggioranza degli americani. Una contraddizione che andava sradicata almeno nominalmente, con esplicito richiamo nella legge fondamentale dell’Unione. Consapevolezza che lentamente maturò in quel secondo padre della patria che, dopo George Washington, fu Abramo Lincoln.

Da Lincoln in poi, i soggetti del bipartitismo statunitense si sono definiti in relazione al sogno americano. Nel Partito democratico, si è assistito a una divisione interna tra gli ammiratori del sogno e i loro imitatori (la suggestione kierkegaardiana è qui voluta, con il conseguente parallelo tra sogno americano e cristianesimo). Da Woodrow Wilson a John Kennedy, una lunga schiera di democratici ammiratori del sogno hanno centrato su di esso il loro racconto. Da Lyndon Johnson a Bill Clinton, un altrettanto importante insieme di imitatori, interpreti e testimoni viventi del sogno (uomini venuti dal nulla e arrivati al 1600 di Pennsylvania Avenue) hanno rafforzato, con la loro esemplare biografia, il legame della sinistra americana con il sogno.

Sia gli imitatori sia gli ammiratori dell’American dream non sono mai venuti meno – e ciò li unisce indissolubilmente – alla versione di un sogno che fosse espansiva e includente. In fondo, anche il lungo dibattito post Seconda guerra mondiale, che portò alle leggi del presidente Johnson contro l’apartheid verso i neri d’America, era un dibattito centrato sull’American dream. In particolare, i leader dei diritti civili si dividevano tra chi (Martin Luther King su tutti) concepiva la battaglia per i diritti civili come l’ennesima tappa dell’espansione includente dell’American dream a ogni cittadino e chi proponeva una versione redistributiva ed escludente del sogno.

Alla fine, com’è noto, l’ebbe vinta ancora una volta la versione originaria, quella che allarga il campo, contro quella che s’incarica di creare divisione e conflitto. Il più bel discorso politico di tutti i tempi, l’orazione di King al Lincoln Memorial di Washington, era proprio il racconto di una visione espansiva e accogliente del sogno americano («I have a dream that one day in Alabama… little black boys and black girls will he able to join hands with little white boys and white girls as sisters and brothers»).

Oggi che nuove minoranze pesano felicemente e finalmente nella politica statunitense, e i loro rappresentanti al Congresso cominciano a farsi sentire, il punto di complessità della questione democratica che pongono è ancora una volta sull’interpretazione dell’American dream. Martin Luther King, a differenza di altri leader neri, non ha mai detto che per dare ai neri (includendoli nel sogno) bisognava togliere ai bianchi (riducendo il loro spazio nel sogno). Oggi, viceversa, molti dei leader delle minoranze che vivacizzano la nuova sinistra americana propongono un’interpretazione redistributiva ed escludente del sogno.

C’è di buono che questi leader, a parte qualche sciocchezza detta su Israele, ripudiano la violenza e si sentono appassionatamente ingaggiati nelle forme istituzionali e nei modi costituzionali dell’Unione. Tuttavia le loro battaglie sono per lo più all’insegna di una contestazione feroce dell’occupazione degli spazi politici negati dai wasp e dalle piccole minoranze ai wasp alleate. Se le loro modalità di lotta non somigliano a quelle violente degli anni Sessanta, la loro retorica non somiglia purtroppo a quella di King.

È vero: l’incremento del gap tra chi ha di più e chi ha di meno negli States è costantemente cresciuto negli ultimi anni. In particolare sotto Barack Obama, l’uscita dalla grande crisi economica è stata accompagnata da un forte indebitamento generale, con il paradossale (per un presidente di sinistra…) ulteriore aumento del gap di cui sopra. Questo problema esiste, non solo in America, ed è enorme. Ma le minoranze che animano a sinistra la politica americana sono poste di fronte a un tema che, prima di essere sociale ed economico, è filosofico e culturale.

Limitarsi, infatti, a una critica economica e sociale delle degenerazioni del sogno rende inefficace la critica in quegli Stati, in particolare del Midwest, dove la globalizzazione e la grande crisi economica hanno fatto danni non tra le minoranze emergenti, ma nella maggioranza bianca del Paese. Le policies economico-sociali della nuova sinistra americana non possono fare breccia in quegli Stati. Se si vuole davvero che la critica produca una proposta di governo nazionale capace di essere competitiva alle prossime presidenziali, l’esercizio intellettuale e politico va impegnato anche sul fronte dell’interpretazione filosofica e culturale dell’American dream a cui ci si vuole associare.

L’American dream funziona quando non nega ad alcuno di potercela fare: un americano non può usare l’America dream contro un altro americano. Quando è successo, c’è stata la guerra tra gli americani o tensioni sociali che hanno mietuto morti e feriti. Il sogno americano o è espansivo e includente o non è il sogno americano. È un punto concettuale dirimente, con il quale la nuova sinistra americana è chiamata, che le piaccia o meno, a fare i conti.

Il Presidente Mattarella ricorda il 45° anniversario della strage di Piazza della Loggia

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del 45° anniversario della strage di Piazza della Loggia, ha rilasciato la seguente dichiarazione:

«Le innocenti vite spezzate quella mattina del 28 maggio 1974, lo strazio dei familiari, il dolore dei feriti, l’oltraggio inferto a Brescia e all’intera comunità nazionale dai terroristi assassini sono parte della memoria indelebile della Repubblica. In questa giornata di anniversario si rinnovano i sentimenti di solidarietà di tutti gli italiani, e con essi desidero esprimere la mia vicinanza a coloro che più hanno sofferto e a quanti hanno contribuito negli anni a quella straordinaria reazione civile e democratica, che ha fatto fallire la strategia eversiva.

Con l’attentato alla manifestazione antifascista organizzata dai sindacati, i terroristi volevano seminare paura per comprimere le libertà politiche. Una catena eversiva legava la strage di Piazza della Loggia ad altri tragici eventi di quegli anni: la democrazia è stata più forte e ha sconfitto chi voleva violarla. L’impegno di uomini dello Stato e il sostegno popolare hanno consentito di portare a compimento il percorso giudiziario.

Particolare gratitudine va espressa all’Associazione dei Familiari delle vittime, la quale è riuscita sempre ad animare, anche in momenti difficili, memoria attiva, partecipazione responsabile, impegno per la verità».

Istat: ad aprile tornano a crescere le esportazioni

Ad aprile 2019 si stima per l’intescambio commerciale con i paesi extra Ue un aumento congiunturale delle esportazioni (+0,5%) di intensità minore rispetto alle importazioni (+0,9%).

L’incremento congiunturale delle esportazioni è limitato ai beni di consumo non durevoli (+3,0%) e all’energia (+1,9%), mentre tutti gli altri raggruppamenti principali di industrie sono in diminuzione. Dal lato dell’import, l’incremento congiunturale è più intenso per l’energia (+5,5%), i beni di consumo durevoli (+4,4%) e i beni intermedi (+3,0%). Al netto dell’energia, si stima una flessione dell’import (-0,8%).

Nell’ultimo trimestre mobile (febbraio-aprile 2019), la dinamica congiunturale dell’export verso i paesi extra Ue risulta negativa (-0,6%) ma al netto della marcata flessione dell’energia (-17,4%) è pressoché stazionaria (+0,1%). I beni di consumo non durevoli (+1,9%) e i beni strumentali (+0,5%) sono in crescita. Nello stesso periodo, le importazioni registrano una diminuzione congiunturale (-2,2%), determinata dalla marcata flessione registrata dall’energia (-6,0%), dai beni strumentali (-2,2%) e dai beni intermedi (-1,4%).

Ad aprile 2019, le esportazioni sono in marcato aumento su base annua (+6,7%), anche per l’effetto del diverso numero di giorni lavorativi rispetto ad aprile 2018. L’incremento è rilevante per i beni di consumo non durevoli (+22,5%) e i beni intermedi (+8,1%). Le importazioni registrano un aumento tendenziale (+7,4%) determinato dai beni di consumo durevoli (+39,2%), beni intermedi (+9,9%) e beni strumentali (+8,1%).

Il saldo commerciale ad aprile 2019 è stimato pari a +1.889 milioni, in lieve aumento rispetto a +1.861 milioni di aprile 2018. Da inizio anno aumenta l’avanzo nell’interscambio di prodotti non energetici (da +19.575 milioni di gennario-aprile 2018 a +19.724 milioni di gennaio-aprile 2019).

Ad aprile 2019 l’export è in forte aumento su base annua verso Giappone (+25,6%), Svizzera (+24,8%) e paesi ASEAN (+19,4%). In diminuzione, le vendite di beni verso Turchia (-15,5%), paesi OPEC (-5,0%) e paesi MERCOSUR (-2,7%).

Gli acquisti da paesi ASEAN (+25,6%), Russia (+18,7%) e Cina (+17,6%) registrano aumenti tendenziali molto più ampi della media delle importazioni dai paesi extra Ue.

Calabria: a San Luca eletto un sindaco dopo sei anni

San Luca dopo sei anni torna ad avere un sindaco. Dal 2013, quando il Comune fu sciolto per infiltrazioni mafiose, il paese della Locride era stato governato da commissari.

Nel 2015 le elezioni non furono valide perché non fu raggiunto il quorum, mentre negli anni successivi non si era presentato nessun candidato.

San Luca è un paese tristemente noto per una guerra tra clan durata 20 anni. Un episodio di questa faida è stata la famosa strage di Ferragosto a Duisburg in Germania nel 2007 con sei morti.

In questa tornata vince Bruno Bartolo, già assessore al Comune che ha ottenuto un vero e proprio plebiscito, con il 90,51% dei voti.

No deal Brexit

il quotidiano britannico “The Times” alla luce della strabiliante vittoria del Brexit Party Nigel Farage, della contemporanea avanzata di forze filo-Ue come il Partito liberal-democratico, i Verdi ed il Partito nazionale scozzese (Snp), e della parallela netta sconfitta subita da entrambi i due maggiori partiti tradizionali, il Partito laburista e soprattutto i Conservatori scrive che il Regno Unito, che il Regno unito deve prepararsi ad un’uscita senza accordo dall’Europa.

Farage ha, infatti, avvertito di esser pronto a presentare suoi candidati in ogni singola circoscrizione alle prossime elezioni politiche, se il governo non porterà il Regno Unito fuori dall’Ue entro il 31 ottobre prossimo. Inoltre, Farage si dice convinto di poter vincere anche le elezioni nazionali, tanto da aver reso noto di aver ha già iniziato a selezionare i 650 possibili candidati da mettere in campo.

Tutto ciò sta spingendo i candidati alla guida del Partito conservatore e del governo ad abbracciare l’ipotesi di una “no-deal Brexit”. Dopo le europee, dove i Conservatori hanno subito la peggior disfatta di tutta la loro storia, i maggiori contendenti alla successione di Theresa May alla guida del partito e dell’esecutivo si dicono ora convinti che la priorità è la Brexit. costi quel che costi.

Lo hanno affermato alcuni tra i maggiori esponenti dei Conservatori come Boris Johnson, Andrea Leadsome e Domenic Raab, per i quali la Brexit è “decisamente” più importante che cercare di evitare l’ipotesi di una “no-deal Brexit”.

Da parte sua, il leader del Partito laburista, Jeremy Corbyn, sembra ora orientato ad appoggiare l’ipotesi di un secondo referendum sulla Brexit. Una svolta a cui Corbyn è spinto dai pessimi risultati raccolti dal Labour alle europee, abbondantemente sopravanzato dai Liberal-democratici e tallonato dai Verdi.

A redere ancora più complicata la situazione e la ricerca di una soluzione di compromesso sulla Brexit, è intervenuta Nicola Sturgeon, leader del Partito nazionale scozzese (Snp) che ora vuole un nuovo referendum per l’indipendenza della Scozia dal Regno Unito al fine mantenere il suo paese all’interno dell’Ue.

Alle europee, lo Snp ha ottenuto il 38 per cento dei voti, sottraendo consensi al Labour. Secondo Sturgeon, il nuovo referendum sull’indipendenza della Scozia potrebbe tenersi nella seconda metà del 2020.

Zone Economiche Speciali, un incontro per il rilancio dei territori

L’articolo 34 del decreto legge Crescita ha stanziato 300 milioni di euro per un “Piano di sviluppo di grandi investimenti” delle imprese nelle Zone Economiche Speciali, di cui agli articoli 4 e 5 del decreto legge numero 91 del 2017.

Il Piano in questione prevede la costituzione di uno o più fondi che investano in imprese tramite debito, capitale di rischio, oppure in quote di fondi.

Come previsto dalla norma, entro 30 giorni dall’entrata in vigore del decreto in oggetto, devono essere disciplinati gli aspetti strategici del Piano e le possibili linee di azione.
A tale proposito, domani 29 maggio, sono stati invitati presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, nella Sala monumentale, i presidenti di autorità del sistema portuale delle regioni del Sud coinvolte nelle ZES e gli amministratori delegati di grandi aziende italiane per confrontarsi sulle problematiche delle diverse realtà.

Le Zone Economiche Speciali sono aree circoscritte nell’ambito delle quali l’Autorità governativa da un lato, applica una legislazione economica diversa rispetto a quella utilizzata nel resto del Paese e dall’altro, offre incentivi a beneficio delle aziende attraverso strumenti di agevolazioni fiscali o finanziarie, nonché varie semplificazioni amministrative.

L’istituzione delle Zone Economiche Speciali, ha individuato una serie di disposizioni volte per dare impulso alla crescita del Sud Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna), sia destinandovi risorse, sia incentivando l’utilizzo di strumenti imprenditoriali già esistenti. L’obiettivo principale è quello di rilanciare competitività e innovazione.

Tatuaggi: il ministero della Salute vieta altri due colori

Dopo i provvedimenti dei mesi scorsi, il ministero della Salute ha disposto il ritiro di altri due pigmenti per tatuaggi provenienti dagli Stati Uniti, perché contenenti sostanze vietate dalla legislazione europea in quanto cancerogene.

Il primo è il Rose Satin della Marca Eternal Ink, boccettino da 30 ml con lotto scadenza 27/07/2020. Il secondo, rosso, è il Perma Blend – Queens Red, marca Permablend Pigments, lotto PBQH181812.

Sul proprio sito, il ministero della Salute sottolinea quindi che “l’Italia è all’avanguardia rispetto agli altri Paesi Europei nel settore del monitoraggio e controllo dei pigmenti per tatuaggi. Soltanto nel 2018 sono stati eseguiti, da parte dei Nas, più di 100 campionamenti presso i tatuatori” alla ricerca di “ammine aromatiche e idrocarburi policiclici aromatici” nei pigmenti. E i colori più a rischio si sono dimostrati essere “le tonalità rosse, gialle e arancioni” ma “anche gli inchiostri con pigmenti azoici in generale”.

L’Italia dei moderati è anche l’Italia dei coraggiosi

Già apparso sulle pagine di www.huffingtonpost.it

Siamo d’accordo nel riconoscere che il voto europeo ha ridato ossigeno al Partito democratico. E siamo anche d’accordo, però, nel ritenere che in prospettiva la partita politica sia tutta da giocare, perché le percentuali elettorali variano anche per effetto dell’astensionismo.

L’incoraggiamento degli elettori significa anzitutto che un blocco tradizionale, fedele alla missione del partito, ha inteso rinnovare domenica la propria fiducia. Naturalmente non basta guardare all’attuale base di consenso. L’ondata sovranista è troppo potente per essere insidiata e battuta da un partito incapace di aprirsi a nuove alleanze.

Il problema, tuttavia, è che nessuno può contare sulla facile raffigurazione del futuro quadro del centrosinistra. Dunque, il pericolo maggiore consiste nell’immaginare che piccole formazioni politiche, costruite come protesi del partito maggiore, abbiano la forza e la credibilità d’intercettare la corrente sospesa del mondo moderato.

È vero, quando si parla di moderati si storce sempre il naso. Dovremmo inventare una parola diversa, più accattivante, forse anche più adeguata a esprimere la realtà oggettiva di un segmento così importante dell’elettorato.

I moderati, in ogni caso, esistono e sanno farsi valere, spesso rovesciando le previsioni più accreditate e sicure. A essi e a quanti ne dovrebbero incarnare le ragioni, i Democratici ancora si rivolgono con un misto di sussiego e altezzosità, quasi come un vecchio nobile del ’700 pre-Rivoluzione poteva rivolgersi al suo maggiordomo. Non può essere questo l’approccio.

Bisogna entrare nell’ordine di idee che una rinnovata capacità di rappresentanza del centrosinistra passa dal ricollocamento in area più centrale del Partito democratico. Solo questo “mettersi al centro” offre la possibilità di pensare a una forza di coalizione in grado di attrarre il voto dei moderati.

Si tratta, in definitiva, di cambiare paradigma. Sulla spesa pubblica, il riordino del welfare, la spinta all’innovazione, l’Italia moderata coltiva più ambizioni e attese di ciò che il vecchio moderatismo imbelle potrebbe farci intendere. Oggi con l’aggressivo bi-populismo di governo, sempre più a trazione leghista, emerge nel profondo un’istanza di razionalità ed equilibrio.

Un’istanza cioè di buon governo, dove non manchi il coraggio delle scelte impegnative e finanche coraggiose, purché maturino attraverso il consenso attorno ad una strategia di modernizzazione del Paese.

Se non si guarda a questa Italia, garantendo un nuovo spirito pubblico nel servizio alle istituzioni, si rischia di rimanere al palo.

Il Partito democratico deve farsi interprete di questa Italia che vuole risorgere, anche recuperando con orgoglio le cose buone realizzate dagli ultimi governi.

L’incertezza non fa da stimolo al vero rilancio della coalizione in grado di rivitalizzare la migliore tradizione del riformismo italiano. Un po’ di radici culturali e “identitarie” in questo sforzo ricostruttivo è quanto serve a un progetto politico di apertura e condivisione. Non a parole, ma nei fatti.

Un malinteso senso della libertà

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Monda 

La vittoria di misura di RN in Francia e quella oltre misura della Lega in Italia rappresentano forse i fatti più eclatanti di queste difficili elezioni europee che aprono nuovi scenari per il cammino del Vecchio Continente. Gli osservatori politici, una volta spogliato l’ultimo voto, potranno concentrarsi e sviluppare tutte le analisi necessarie per leggere e interpretare questo passaggio elettorale che intanto ha registrato il dato positivo del ritorno di un alto livello di affluenza alle urne. Libertà è partecipazione, come recita una nota vecchia canzone. La partecipazione quindi è andata bene, ma la libertà resta il problema di questa Europa; è questo il nodo, molto aggrovigliato, che emerge dal voto popolare.

Il primo aspetto di questo problema è la questione grammaticale. In particolare emerge la questione delle preposizioni. Secondo uno dei più grandi geni teologici del Novecento, Romano Guardini, «La libertà non vuol dire essere sciolto da qualcosa, ma essere sciolto per qualcosa». Papa Francesco, che dalla lettura di Guardini molto ha appreso, è un Papa che “scioglie”, che invita gli uomini a vivere in piena libertà, a condurre con naturalezza le relazioni con se stessi, gli altri, il mondo. Ma appunto sono le relazioni al centro della vita, per cui si deve vivere non sciolto-da ma sciolto-per. Essere sciolti-da in latino si dice ab-soluti, è questo atteggiamento la matrice dell’assolutismo, il recidere ogni legame, il porsi al di sopra di tutto il resto. Oggi l’atteggiamento assolutista ha assunto un’altra forma e un altro linguaggio: il sovranismo. Il sovrano, come indica la parola stessa, è colui che sopra di sé non vuole nessuno, che vuole essere libero-da ogni altra presenza che è vista come un limite soffocante alla propria libertà. È da questo malinteso senso della libertà che nascono i problemi che oggi l’Europa evidenzia nei risultati elettorali. Sovranismo e Europa in effetti sono due idee radicalmente contrapposte. L’Europa è l’unione degli stati, è uno stare-con. Ma questo non deve portare a demonizzare, quanto invece a cercare di comprendere le ragioni per cui si è arrivati a questa apparente contraddizione di un’Europa con forte tendenze sovraniste. Su questo punto può essere utile andarsi a rileggere il grande discorso del Papa al Parlamento europeo del 25 novembre 2014 in cui Francesco invitava a «guardare all’uomo non come a un assoluto, ma come a un essere relazionale. Una delle malattie che vedo più diffuse oggi in Europa è la solitudine, propria di chi è privo di legami. […] Tale solitudine è stata poi acuita dalla crisi economica, i cui effetti perdurano ancora con conseguenze drammatiche dal punto di vista sociale. Si può poi constatare che, nel corso degli ultimi anni, accanto al processo di allargamento dell’Unione europea, è andata crescendo la sfiducia da parte dei cittadini nei confronti di istituzioni ritenute distanti, impegnate a stabilire regole percepite come lontane dalla sensibilità dei singoli popoli, se non addirittura dannose. Da più parti si ricava un’impressione generale di stanchezza e di invecchiamento, di un’Europa nonna e non più fertile e vivace. Per cui i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano aver perso forza attrattiva, in favore dei tecnicismi burocratici delle sue istituzioni. […] L’essere umano rischia di essere ridotto a semplice ingranaggio di un meccanismo che lo tratta alla stregua di un bene di consumo da utilizzare». È la solitudine il problema a fronte del quale si può reagire oppure rispondere. La politica è incanalare le reazioni e trasformarle in risposta. Il sovranismo è la reazione ma l’Europa ha bisogno invece di una risposta che deve passare nel riscoprire le ragioni dello stare-con, del vivere insieme. Risposte, non reazioni. Le parole sono importati e anche quelle paroline, le preposizioni, sono importanti. Ci può essere ad esempio, una vita, e un voto, contro. Spesso questo accade. La dimensione “contro” è una facile scorciatoia che esercita un grande fascino. Contro è una parola che non fa parte dell’elenco classico delle preposizioni ma è l’esatto opposto di due fondamentali preposizioni: con e per. Se uno è contro non è con, e non è per. E invece la politica, soprattutto se vissuta alla luce del Vangelo, è sempre “per”, sempre propositiva mai reattiva o distruttiva. Se è reattiva vuol dire che la paura ha preso il sopravvento. E la paura rende pazzi e spezza i legami.

Su queste pagine alcuni studiosi e intellettuali cattolici hanno avviato una riflessione ricca di spunti, che ricorda, ad esempio, come il cristiano non sia mai “contro” qualcuno (vedi l’intervista di oggi a Marco Impagliazzo in terza pagina), e che non si può ridurre la politica soltanto alla garanzia della sicurezza. Lo ha spiegato efficacemente Giuseppe De Rita qualche giorno fa: ci deve essere a fianco all’autorità civile che garantisce la sicurezza, un’altra autorità, spirituale, che offre ai cittadini il senso dell’esistenza. È questo il ruolo e la responsabilità a cui è chiamata oggi la Chiesa cattolica, il popolo di Dio: indicare un senso, cioè una direzione, un cammino di liberazione non “da” ma “per”, altrimenti l’Europa finisce per diventare come quella nave, di cui parlava Kierkegaard, che dall’altoparlante, al posto della voce del capitano a indicare la rotta, emette la voce del cuoco che elenca il menù.

 

Carra: Le prossime elezioni

Il fatto che Matteo Salvini, come scrive Lucio D’Ubaldo, non abbia “esasperato i toni che appartengono di solito al vincitore” dimostra che il ministro dell’interno punta al centro. Le parole scelte da Salvini, e i suoi gesti, compresi le preghiere e i rosari sventagliati sulle piazze e in tv, confermano una certa impressione. Il successore di Umberto Bossi ha lavorato, con successo, ai fianchi di quell’elettorato cosiddetto moderato la cui esistenza è stata messa in discussione, e con buoni motivi, ma che pure c’è, e vota. Oggi per lui, Salvini. Un elettorato che si è trasformato negli anni reagendo in modo sempre più deciso contro le politiche sull’immigrazione dei governi precedenti l’attuale. Un elettorato che ha reagito negativamente verso le posizioni di papa Francesco senza tuttavia spogliarsi della sua identità cattolica. Insomma, gente che sta con chi fischia papa Francesco in piazza Duomo, disprezza come “buonismo” le soluzioni per realizzare l’accoglienza, ma gode della comprensione e del sostegno di certi vescovi e parroci che la pensano così.  Un’Italia cattolica che non è quella della Dc, un’Italia sostanzialmente reazionaria della quale Salvini è il capo.

Il ministro dell’interno dirige queste anime e ne riceve il consenso. Sa, del resto, che a lui non andranno i voti dei Fratelli di Giorgia Meloni. È comprensibile dunque che esplori e accarezzi, con levità, senza “esasperare i toni”, le grandi potenzialità di un elettorato trascurato e tradito dopo la fine della Dc e stressato dalle pretese troppo forti perché troppo evangeliche di papa Francesco. Un popolo tradito dalle infinite peripezie e dalle prevedibili sconfitte dei vari leader centristi e dei loro partitini, ma anche deluso e sbandato da chi, nel nuovo centrosinistra dell’Ulivo, ha ceduto il trattino tra Margherita e Ds, riunendo il tutto in un partito, il Pd che ancora oggi fatica a darsi un’identità.

Il voto europeo ha radici lontane. In vista delle prossime elezioni, che forse saranno molto prossime, sarà bene prendere nota di questi dati e cercare di scomporli, a partire da quelli dell’ex centro che vota Salvini. Poi si può pensare alle novità che vengono dalle 5Stelle e da Berlusconi. Il Movimento di Casaleggio dovrà scegliere presto da che parte stare dopo che la sua esperienza di quest’ultimo anno di governo ha consumato la sua illusione di resistere a lungo nei panni dello Zelig politico. È già successo così in Spagna, culla del populismo in anni ormai lontani, risolvendosi nella scelta di due movimenti, uno a destra e uno a sinistra.  Per Berlusconi infine, al di là delle parole, dei comunicati, delle dispute interne, quel voto, cinquecentomila preferenze, sono un premio alla carriera che potrà essere replicato: sappiamo bene quanto le care memorie possano motivare vecchi e nuovi aficionados politici. Il voto a Berlusconi, è però, se non soprattutto, un no al Salvini “uomo solo al comando”. E su questo vale la pena riflettere e lavorare. Chi deve farlo, pensando alle politiche.

 

Gagliardi: la doppia vittoria di Salvini

Un dato emerge abbastanza chiaramente dall’esito delle elezioni europee. Il voto di domenica 26 maggio consegna le carte della politica interna interamente a Matteo Salvini. Sia per quanto riguarda la maggioranza di governo e di conseguenza lo stesso Governo sia per quanto riguarda la legislatura.

Salvini, infatti, esce dalle urne con una doppia vittoria in tasca: l’ottimo risultato ottenuto dalla Lega ribalta da una parte i rapporti di forza all’interno della maggioranza di governo (politicamente anche se non numericamente in questo parlamento) consegnandogli una golden share sull’Esecutivo guidato da Giuseppe Conte; e capovolge dall’altra gli equilibri del centrodestra (semmai si possa ancora chiamarlo così visto il peso assunto dallo stesso Salvini) ponendo il suo partito come perno centrale del sistema oltre che di una eventuale ipotetica coalizione con Forza Italia e Fratelli d’Italia.

Insomma, il vero unico vincitore di questa tornata elettorale è il ministro dell’Interno e vicepremier leghista che ora si trova a dover gestire un risultato per certi versi atteso ma che comporta oltre ad una grave responsabilità (la tenuta di un governo che deve approvare la prossima legge di bilancio) anche una serie di insidie potenzialmente letali sul piano politico per sè e per il suo partito, a cominciare dall’eccesso di protagonismo che spesso colpisce i ”vittoriosi” innalzandoli in un empireo ovattato (dove si è perso ad esempio Renzi) che li allontana dalla realtà (nel nostro caso tutt’altro che rosea) in cui è immerso il Paese, facendogli perdere il “senso” dell’azione politica e forse anche “il lume” della ragione politica.

Il vero sconfitto è il M5S guidato da Luigi Di Maio, che ora si trova in una strettoia (costretto a scegliere tra fare il cavalier servente o far saltare governo e legislatura) dalla quale sarà difficile se non impossibile uscire indenni.
Ma un altro che esce poco confortato dal voto, o se si preferisce un ”non vittorioso”, è il Pd guidato da Nicola Zingaretti che si è dimostrato con tutta evidenza ”non autosufficiente”, in quanto manchevole di una rappresentanza di ”centro” come potenziale alleato capace di recuperare i consensi in un’area dove il suo partito seppur ”allargato” riesce ad arrivare con grande difficoltà e dove difficilmente arriverebbe anche la componente renziana.

Troppi ”liberal” in uno stesso partito con pochi ”social” sono evidentemente poco attrattivi per l’ex ceto medio impoverito che continua a vagare da una parte all’altra alla ricerca di una rappresentanza politica. Che difficilmente potrà essere interpretata dagli attuali soggetti in campo (comprese le micro sigle che cercano di inseguire l’elettorato cattolico) ma che pone una domanda che non può restare a lungo senza un’offerta seria e credibile, in termini di proposta ma sopratutto di gruppi dirigenti “connessi”  con il territorio. O se si preferisce in termini di “leadership diffusa”. Perchè la credibilità si basa sulle relazioni interpersonali.

Elezioni Europee 2019: i flussi di voto

Fonte Istituto Carlo Cattaneo

Come cinque anni fa, le elezioni europee si sono tenute a un anno di distanza dalle precedenti consultazioni politiche. Un’occasione importante per misurare il consenso dei partiti. Le elezioni di “second’ordine” sono sempre un momento di verifica del gradimento che le forze di governo hanno presso l’elettorato. In particolare, nel caso italiano la situazione era caratterizzata dalla peculiare “litigiosità” che i due partiti di governo – Lega e Movimento 5 stelle (M5s) – avevano manifestano nel corso delle settimane di campagna elettorale.

Come hanno reagito gli elettori a questa inedita campagna elettorale?
I risultati elettorali hanno premiato indiscutibilmente la Lega e punito il M5s. Ma quali sono stati gli spostamenti di voto che hanno prodotto questi risultati? Nelle elezioni europee l’astensione è sempre molto più alta che alle politiche e, per questo motivo, gli osservatori possono cadere in errori interpretativi quando cercano di decifrare gli spostamenti di voto che hanno determinato un certo risultato elettorale.

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Il desiderio di sicurezza ha battuto il desiderio di onestà

Fonte Servire l’Italia

Le elezioni europee in Italia hanno dimostrato che per gran parte dei nostri votanti è molto più importante la promessa di sicurezza offerta da Salvini (rafforzata da un provvedimento BIS non ancora approvato dal Parlamento) piuttosto che la promessa di onestà in politica ed economia offerta da Di Maio, una promessa che lascia molti scettici sull’effettiva capacità dei grillini di garantirla. Comunque Di Maio è ormai maturo, per il suo fallimento, di essere messo in panchina.

Non ha infatti funzionato il suo ultimo appello prima del voto: “Questa nuova Tangentopoli deve essere punita non solo dalla Magistratura, ma anche dal voto degli italiani”. Né ha funzionato l’accusa di fascista e di razzista rivolta a Salvini. Né l’accusa di usare in maniera strumentale il Vangelo e il Rosario, simboli autentici di amore e di “apertura” verso tutti gli esseri umani. Ma soprattutto simboli di unione per chi prega a favore della concordia tra i popoli ed evitare così nuove cause di conflitti.

Anche il probabile successo di Salvini in Piemonte non sarà accolto bene da Di Maio, che non dovrebbe continuare a opporsi al TAV. Eppure sarà costretto a farlo per evitare una “rivolta” all’interno del M5S e la caduta del governo. D’altronde Salvini non può minacciare tale caduta per andare poi alle elezioni anticipate, ben sapendo che Mattarella non è affatto favorevole alla fine anticipata della legislatura. Pur di evitarla, questi punterebbe certamente a un governo M5S/PD.

Vittoria di Pirro per Salvini? È probabile, ma l’Italia continuerebbe a soffrire, con le imprese e i giovani sempre più “esportati” all’estero, dove la voglia di fare è in continuo aumento. È purtroppo facile prevedere che anche un prossimo governo M5S/PD vedrebbe la stessa conflittualità paralizzante sofferta dall’attuale governo.

Giuseppe Guzzetti, nel lasciare dopo 22 anni la presidenza della Fondazione Cariplo, ha affermato: “Servono cuore, competenza e determinazione. Abbiamo cercato di fare molte cose. Tenendo sempre presente la lezione di don Sturzo: le diversità sono sempre una forza, non una debolezza. Il controllo democratico non è solo quello della Corte dei Conti, ma quello delle persone che vedono come vengono spesi i soldi della comunità in piena autonomia. Se il Paese vuole ripartire, può farlo solo ripartendo dalle comunità locali abbassando il clima di odio”.

C’è un gran bisogno di dare la “luce verde” alla voglia d’impresa che da decenni gli imprenditori italiani sono capaci di esprimere senza essere frenati e ostacolati da una politica economica e da una burocrazia che non sono mai state all’altezza del loro genio creativo e delle straordinarie ricchezze naturali di cui il Bel Paese è dotato.

La prima mostra in Cina dei Musei Vaticani

Per la prima volta i Musei Vaticani organizzano una mostra in Cina insieme alla più importante istituzione culturale del Paese. L’iniziativa, definita dagli organizzatori “un gesto concreto dall’alto valore simbolico”, verrà presentata oggi dai Musei Vaticani e dal Palace Museum di Pechino.

L’esposizione, curata da padre Nicola Mapelli, responsabile del Dipartimento Anima Mundi dei Musei Vaticani e da Wang Yuegong, responsabile del Department of Palace Life and Imperial Ritual, è stata allestita all’interno degli spazi del Palace Museum nella Città Proibita, a Pechino, e rimarrà aperta al pubblico da oggi al 14 luglio.

La mostra – si legge nella presentazione dell’iniziativa – intende presentare il messaggio culturale della collezione di arte cinese del Dipartimento Anima Mundi dei Musei Vaticani, riportandone una considerevole porzione – ben settantasei opere tra arte popolare, arte buddista e arte cattolica – all’interno della Città Proibita, magnifico complesso architettonico nel cuore del grande Paese asiatico.

Di particolare rilievo un considerevole gruppo di opere realizzate da artisti cinesi che testimoniano l’incontro tra il cristianesimo e le tradizioni artistiche della Cina. Accanto a queste, due straordinari capolavori originali, dipinti ad olio, della Pinacoteca Vaticana: Il Riposo durante la Fuga in Egitto (1570-1573) di Barocci e Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre (fine XVIII sec.) di Peter Wenzel.

Ad impreziosire ulteriormente la mostra, infine, alcune opere selezionate dal Palace Museum che, con un gesto di grande amicizia e generosità, ha voluto aggiungere alcune celebri opere dell’artista cattolico Wu Li (1632-1718) e di Giuseppe Castiglione, un gesuita di Milano conosciuto in Cina come Lang Shining (1688-1766).

Un giudice federale della California blocca il muro di Trump

Un giudice federale della California ha emesso una sentenza che blocca una parte del piano dell’amministrazione Trump per convogliare i fondi federali verso la costruzione di un muro sul confine tra Stati Uniti e Messico.

Il presidente Trump ha dichiarato un’emergenza nazionale a febbraio per iniziare il processo di trasferimento dei fondi dal dipartimento della Difesa e da altre agenzie. La decisione del giudice Haywood Gilliam blocca in modo specifico il “reprogamming” di 1 miliardo di dollari dai fondi per il personale dell’Esercito destinato per progetti sulla realizzazione del muro a Yuma, in Arizona e a El Paso, in Texas.

La causa è stata presentata dalla Southern Border Communities Coalition, un gruppo di attivisti nella regione di confine che lavorano con l’American Civil Liberties Union, sostenendo che i progetti erano illegali a causa della modalità di approvvigionamento del finanziamento.

Vuoi cambiare il nome della tua città? Puoi solo con il referendum

Per la differenziazione del nome al Comune serve sempre il referendum, anche qualora la modifica dovesse essere minimale con l’aggiunta o la deprivazione di una parte del sostantivo d’origine. La consultazione preventiva dei cittadini è imprescindibile. Ad affermarlo è la Corte costituzionale con sentenza n. 123/2019, depositata il 23 maggio 2019, che boccia una legge regionale della Sicilia (n.1/2018) poichè in contrasto con l’ art.133 della Costituzione e con lo stesso statuto regionale.

Nel caso di specie, la norma impugnata dalla presidenza del consiglio consentiva ai Comuni sui cui territori insistono insediamenti o bacini termali, la possibilità di aggiungere la parola “terme” alla denominazione d’origine, con la deliberazione preliminare del Consiglio comunale adottata a maggioranza di due terzi degli stessi consiglieri. A tale riguardo, entro due mesi dalla pubblicazione della delibera nell’albo pretorio, i cittadini avrebbero potuto esprimere il proprio dissenso presentando una petizione sottoscritta da almeno un quinto degli elettori. La mancata presentazione della petizione avrebbe reso definitivo il cambio di nome risparmiando così tempo e denaro in luogo dell’obbligatorietà del ricorso alla formula referendaria.

Secondo la Corte costituzionale, tuttavia, attribuire alla mancata presentazione della petizione l’effetto implicito di adesione alla modifica del nome è inammissibile in quanto “ad una semplice inerzia non può essere riconosciuto alcun valore giuridico, meno che mai quello di adesione alla modifica, all’esito di una assai singolare tacita consultazione”. La Corte mette poi in rilievo la singolarità dell’attribuzione di un effetto di “veto” alla presentazione di una petizione, sottoscritta da almeno un quinto di elettori dissenzienti rispetto alla deliberazione adottata dal Consiglio comunale. Una scelta questa che assegnerebbe “un incongruo potere di blocco a una minoranza, pur a fronte dell’asserito significato adesivo alla proposta di modifica, assegnato al comportamento di coloro (la maggioranza) che tale petizione non abbiano sottoscritto”.

Antibiotici: Nei fiumi del mondo i livelli superano 300 volte il limite

Cresce l’emergenza inquinamento da antibiotici nei fiumi di tutto il mondo che in qualche caso superano i livelli di sicurezza di oltre 300 volte.

Lo afferma uno studio dell’università di New York che sarà presentato al meeting della Society of Environmental Toxicology and Chemistry ad Helsinki.

Sono stati testati i fiumi di 72 paesi in sei continenti e gli antibiotici sono stati trovati nel 65% dei siti monitorati, compresi fiumi ‘storici’ come il Mekong o il Tamigi.