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Un Popolo in cammino. Conversazione con Dante Monda

Per molte delle personalità che lo frequentano, Jorge Mario Bergoglio è l’uomo degli incontri personali, che ti avvince con i suoi modi e ti sorprende con i suoi orientamenti. Per la gente comune, è una persona alla mano, semplice e calorosa. Per quanti conoscono il suo pensiero religioso, è impegnato affinché la Chiesa si apra all’incontro con il popolo, attraverso un messaggio di comprensione e di entusiasmo. Per i mass media è un Pastore, portatore di una concezione moderna e profondamente spirituale dell’essere Chiesa e del vivere compiutamente il Vangelo in mezzo alle sfide poste dalla società moderna. Ne parliamo con Dante Monda, autore di una tesi di Laurea sul tema “L’idea di popolo in Jorge Mario Bergoglio” presso l’Università Luiss “Guido Carli” di Roma.

 

D: Con il tuo lavoro (la tesi di Laurea dal titolo “L’idea di popolo in Jorge Mario Bergoglio”) hai avuto occasione di avvicinarti anzitutto all’uomo e alla sua esperienza di vita. Se dovessi raccontarlo, che tipo è Jorge Mario Bergoglio?

I rischi nell’avvicinarsi a Bergoglio sono due: da un lato appiattirlo sul suo tempo, sulle vicende travagliate e contraddittorie del suo paese e della Chiesa argentina; dall’altro neutralizzarlo e renderlo un Papa “piacevole”, un’anima pia, astrattamente spirituale. Invece considerando complessivamente la sua figura e la sua storia si ha il quadro di un personaggio complesso, in cui storia e spirito, terra e cielo, sono sempre collegati e considerati insieme. Insieme, cioè mai confusi: nessuno dei due poli sostituisce l’altro.

Un altro equivoco si genera nel considerare il “pensiero polare” di Bergoglio: che questa polarità significhi ambiguità, relativismo, imbroglio, sofisma, debolezza e annacquamento della fede. Questo giudizio è tipico di chi, pur cogliendo la tensione interna al pensiero del pontefice, la interpreta come contraddizione e non come “opposizione” paradossale. E questo, a mio avviso, deriva sostanzialmente da un pregiudizio (dai quali del resto nessuno può dirsi immune). Precisamente, dal pregiudizio occidentale chiamato “razionalismo”, cioè dalla convinzione che i concetti colti dalla ragione debbano essere assoluti e definiti, senza sfumature. Ecco, Bergoglio è consapevolmente alieno a questo pregiudizio, che è il vero e proprio orizzonte filosofico dominante (nel senso che esso strutturalmente vuole dominare il reale e la vita) dell’Occidente. Il Papa dalla fine del mondo si presenta in questo modo: è uno straniero, tanto da risultare a tratti eversivamente “fuori luogo”, scandaloso. Che tipo è Bergoglio? Un pastore e un padre, e anche un profeta e uno straniero che annuncia la fine del mondo per come siamo abituati a conoscerlo dominandolo.

 

D: La ricezione del Concilio Vaticano II in America Latina è un punto di passaggio fondamentale. La Chiesa come “popolo di Dio” si declina in forme nuove rispetto all’Occidente europeo. Quanto ha influito nell’elaborazione dell’idea di popolo in Bergoglio?

La “teologia del popolo”, originale variante argentina della sudamericana “teologia della liberazione”, è il contesto nel quale il giovane novizio, sacerdote e poi provinciale Bergoglio elabora la sua concezione del popolo di Dio, incarnato nei popoli della terra. In quella regione, oppressa da una diseguaglianza economica e politica, il seme piantato dal Concilio sembra fare frutto in anticipo rispetto al vecchio continente, magari con qualche frutto acerbo (le derive marxiste). La Chiesa come popolo era la risposta a quell’oppressione: era la Liberazione.

È come se nelle comunità in cui il Vangelo si era dovuto inculturare nella vita di popoli, dando vita a originali espressioni della Parola, in quelle culture meticcie e periferiche, la distanza e la ricerca di un’autonoma identità, il terreno fosse fertile per ripensare al popolo come “soggetto storico autonomo”.

Bergoglio pensa il pueblo in questi termini originali, o meglio originari. Ritorna alle fonti evangeliche e propriamente antropologiche del mito del popolo. Ritorna alle basi, ai fondamenti del vivere insieme, rifiutando qualsiasi costruzione ideologica “preconfezionata”, compreso il clericalismo. Da qui deriva la novità, nel risalire agli elementi fondamentali della comunità umana, e all’elemento fondamentale: la carità che spinge alla prossimità e dunque all’unità nelle differenze.

 

D: E’ nota la moderazione di Bergoglio, lontana dai “poteri forti” e con un’attenzione al sociale, in controtendenza con una Chiesa (come quella argentina) tradizionalmente conservatrice. Qual è la tua opinione al riguardo?

Il suo è un pensiero polare, come detto. Dunque né semplicemente progressista, né semplicemente conservatore. È un errore farne un Papa “sociale”, o peggio “socialista”. La dimensione sociale, la vicinanza ai poveri, è la semplice e spontanea messa in pratica del Vangelo con spirito missionario, a cominciare dalle periferie (“andate in tutto il mondo”). Le frizioni con settori della gerarchia ecclesiastica (e non solo con quella argentina) rivelano delle storture precedenti a Francesco, figlie di un malinteso senso del rapporto fra sacro e profano, spirito e cultura. Per Francesco la cultura umana deve esprimere con la sua voce il Vangelo, ma non è il Vangelo, non può sostituirlo. Ciò è alla base del fondamentale realismo di Francesco, che sfida lo status quo de-naturalizzandolo e de-sacralizzandolo, senza d’altro canto mai inseguire il cambiamento per il cambiamento. Francesco ci ricorda che Chiesa non vuol dire “tempio”, “sancta sanctorum” magari chiuso agli impuri, ma “assemblea”, “popolo” in cammino, “città di Dio” diffusa per il mondo.

 

D: Nel tuo lavoro si parla molto delle sfide poste dalla modernità alla società democratica. Quali sono, in particolare, la “pars destruens” e la “pars costruens” proposte da Bergoglio?

La critica di Francesco allo stato attuale della democrazia è schietta e lucida. Le democrazie sono “atrofizzate”, “a bassa intensità”, a causa di un “divorzio” fra le élite, perse in astratti nominalismi, e le masse anonime, sradicate, al contempo omologate e disintegrate da un dilagante individualismo di soggetti atomizzati, soli e impotenti. In questa situazione ha gioco facile l’idea distorta di un popolo omogeneo ed escludente l’altro e il diverso, il cosiddetto populismo. Invece Francesco respinge in toto qualsiasi ideologia, sia quelle sovraniste che quella individualista, che in fondo sono la stessa: l’ideologia dell’autoreferenzialità. Insomma, finché non si esce fuori dal proprio orizzonte auto-riferito per incontrare l’altro, non vi potrà essere vera democrazia.

La vera democrazia, la proposta di Francesco, è nel segno della “cultura dell’incontro”. Si tratta dell’appello a una nuova partecipazione e coinvolgimento delle fasce popolari, che rianimino dal basso delle democrazie meramente elettorali e senz’anima. Il popolo gioca qui un ruolo fondamentale, esso è il protagonista, il solo soggetto che ha l’autorità di decidere del proprio destino. Rivitalizzare dal basso, come quando si riaccende un fuoco, spolverando le ceneri, senza adorarle. Non sono sogni utopici, ma è una forte chiamata a un impegno concreto, a cominciare dal quartiere, e dall’impegno sociale, chiamato “politica con la P maiuscola”.

 

D: L’Appello di don Luigi Sturzo ai Liberi e Forti, a 100 anni di distanza, contiene un messaggio innovativo ancora molto attuale. Cosa può dire a un giovane del 2019, anche rispetto all’impegno politico nel contesto attuale?

È significativo che l’attuale pontefice negli anni ’10 del ventunesimo secolo sproni il popolo di Dio a un impegno concreto anche propriamente politico a un secolo di distanza da un appello diverso ma simile: la fondazione del Partito Popolare Italiano di don Sturzo. A proposito, ho assistito l’altro giorno alla presentazione del libro “Elogio dei liberi e forti. La responsabilità politica dei cattolici” (Lucio D’Ubaldo e Giuseppe Fioroni, casa editrice Giapeto), in cui si è parlato dell’attualità del pensiero popolare: sembra che qualcosa oggi si muova nel senso di una ripresa di quel pensiero e nella sua attuazione.

La coincidenza di questa ricorrenza fa riflettere considerando una certa somiglianza fra i due appelli, al di là delle differenze fra i due religiosi, provenienti da ambienti culturali distanti. Se Sturzo vede nel popolo il limite al potere e in un certo pensiero liberale (quello non “settario”, cioè direbbe Bergoglio non autoreferenziale) un alleato nella critica alle ideologie statolatre, Bergoglio conosce ben altro liberalismo, e lo associa più al colonialismo che non agli ideali di libertà e uguaglianza.

Ma al di là delle differenze, dicevamo, ciò che accomuna i due uomini di Dio è la loro carica profetica nell’individuare il bisogno di un rinnovato impegno del popolo, cioè delle persone, per il bene comune, senza però mai ingabbiare questo impegno in una struttura ideologica o confessionale. Il concetto sturziano di “ispirazione cristiana” come alternativa sia al confessionalismo che al laicismo, oggi è incarnato di nuovo dal messaggio di Franesco, avverso ad ogni teologia politica ma anche ad ogni “ghettizzazione” della religione: la carità cristiana agisce in un movimento diffusivo ed inclusivo, i cui la fede è il motore dell’azione e non una bandiera identitaria. Entrambi i sacerdoti, a ben guardare, sono maestri di vera e libera laicità e promotori di un genuino impegno per la cosa pubblica, che oggi insegnano tanto a un mondo smarrito e confuso, in preda alla paura. La paura, l’ansia, sentimento dominante, soprattutto fra i giovani, porta oggi a due reazioni ugualmente sterili: da un lato il ripiegarsi narcisistico sull’individuo, dall’altro, il rifugiarsi in schieramenti politici che sbandierano un’identità forte in forza dell’esclusione dell’altro. L’appello ai Liberi e Forti oggi risuona in tutta la sua forza in quanto consente di smarcarsi da questa alternativa fatale tra individualismo e omologazione, per puntare alla vera sfida di oggi: “rifondare i legami sociali”, rivitalizzare le relazioni (personali e strutturali) della società, dare nuova vita alle nostre democrazie.

Danimarca: Un’isola per bandire gli immigrati

Correva l’anno 2015 quando il paese scandinavo approvava e modificava le leggi con un messaggio chiaro: gli stranieri non sono i benvenuti. Con una popolazione di quasi sei milioni di abitanti, in quell’anno più di 57.000 immigrati e rifugiati sono arrivati ​​in cerca di protezione e opportunità, la cifra più alta registrata negli ultimi due decenni. La maggior aveva attraversato la rotta balcanica con l’obiettivo finale di raggiungere la Svezia , il paese che ospita il maggior numero di rifugiati pro capite in Europa, o la Germania, che ne ospita il maggior numero totale.

Da allora si sono susseguite leggi sempre più restrittive sull’immigrazione.

L’ultima novità annunciata lo scorso mese del governo di coalizione di centro-destra – con il sostegno incondizionato degli xenofobi del Partito popolare danese (PPD) è quella di bandire i rifugiati nella piccola isola di Lindholm (nel Mar Baltico) .

Nell’isolotto, di sette ettari e senza residenti permanenti, al momento esiste un solo laboratorio di ricerca per i virus. Il laboratorio inizierà quest’anno per essere ricondizionato per accogliere gli immigrati che dovrebbero iniziare ad arrivare nel 2021.

Su Twitter, il profilo ufficiale del Df ha pubblicato un cartoon che raffigura un uomo dalla pelle scura scaricato da un traghetto su un’isola deserta. Il testo: “Espulsi, i criminali stranieri non hanno motivo di rimanere in Danimarca. Fino a quando non riusciremo a liberarcene, li trasferiremo sull’isola di Lindholm. Saranno obbligati a rimanere nel nuovo centro di espulsione durante la notte e ci sarà la polizia tutto il giorno. Grande!”.

Ma il ministro delle Finanze Kristian Jensen ha precisato che non sarà una prigione e che un traghetto consentirà ai nuovi ospiti di Lindholm di recarsi sulla terra ferma, pur dovendo tornare sull’isola la sera.

Migrantes Roma: nasce l’Osservatorio per la tutela dei minori fragili

Nasce l’Osservatorio per la tutela e il sostegno dei minori fragili soprattutto migranti grazie all’iniziativa dell’ Ufficio Migrantes di Roma, lassociazione “Medicina Solidale e l’associazione “Dorean Dote”. Un progetto che prende il via grazie alla esperienza vissuta sul campo dalla tre realtà proponenti soprattutto nelle periferie della Capitale e nei luoghi di maggiore degrado come le occupazioni, i campi rom. Proprio in questi contesti i minori, italiani e stranieri, sono le prime vittime con condizioni di vita pessime, esposti ad abusi di ogni genere spesso nascosti e sconosciuti. Verrà effettuato un monitoraggio costante degli under 15 con rilevamento dei dati riferiti alle condizioni di vita, la frequenza scolastica, il settore epidemiologico e di salute e l’ambiente familiare.

L’Osservatorio prende vita, in realtà, per monitorare tutti i minori fragili della Capitale, italiani e immigrati, ed anche per contribuire – in accordo con le istituzioni locali – a pensare e  costruire delle politiche e interventi mirati a favore dei minori fragili nella città di Roma.

“Questo laboratorio – dichiara mons. Pierpaolo Felicolo, direttore dell’Ufficio Migrantes di Roma – è nato dal lavoro che ha creato una rete di diverse realtà sociali, e mira proprio a mettere in risalto che è lavorando in questo modo che si può essere più efficaci, toccando un aspetto importante che riguarda i migranti più fragili, i minori non accompagnati. Si cerca di venire incontro alle loro esigenze e aiutarli veramente”.

“L’esperienza quotidiana a Medicina Solidale con i bambini vulnerabili, tanto italiani quanto stranieri – afferma Lucia Ercoli, presidente di Medicina Solidale – mi ha messo difronte all’urgente necessità di mettere a sistema una rete virtuosa che i tuteli i più piccoli, che ponga al centro dell’attenzione i bambini vulnerabili con le loro concrete e reali esigenze”.

“Da anni ci occupiamo di minori in condizioni di fragilità – dice Massimo Cicillini di Dorean Dote – in particolare di minori rom che vivono nei campi presenti a Roma. E la possibilità  di mettere insieme forze diverse a beneficio dei minori fragili ci è sembrata un’occasione per costruire un futuro migliore: perché aiutando i bambini si costruisce un futuro migliore anche per la società”.

Dal Ministero dell’Ambiente 10 milioni per e-car in aree protette

Stanziati 7,7 milioni di euro per la realizzazione di servizi di osservazione e prevenzione degli impatti dei cambiamenti climatici nelle aree naturali protette nazionali terrestri e nei siti di importanza comunitaria (SIC) mediante l’acquisto e l’utilizzo di circa 170 autoveicoli alimentati ad energia elettrica e/o ibridi a basse emissioni e 2,4 milioni di euro per la realizzazione delle medesime attività di osservazione e prevenzione nelle aree marine protette che riceveranno in dotazione 50 autoveicoli a basse emissioni (elettrici e/o ibridi) insieme a delle apparecchiature tecnologiche necessarie allo svolgimento dell’attività di sorveglianza e di monitoraggio delle aree marine protette.

Sono questi gli investimenti previsti dal protocollo d’intesa sottoscritto lo scorso 6 dicembre dal Ministero dell’Ambiente, di concerto con la Direzione Generale per la protezione della natura e del mare, con il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, il Comando Generale delle Capitanerie di Porto e la Federazione Italiana dei Parchi e delle Riserve Naturali, al fine di promuovere specifiche iniziative e progetti, anche a fini dimostrativi, nelle aree protette nazionali e comunitarie per ridurre le emissioni dei gas a effetto serra.

Il documento prevede, oltre alla diffusione dei mezzi elettrici e a basse emissioni e al miglioramento tecnologico dei sistemi di sorveglianza anche la diffusione di azioni rivolte all’efficientamento energetico delle strutture presenti nelle aree naturali protette, lo sviluppo delle energie rinnovabili, l’organizzazione di eventi volti alla sensibilizzazione delle comunità locali e dei numerosi visitatori sui temi della mobilità sostenibile, della riduzione delle emissioni e dell’adattamento ai cambiamenti climatici.

Il Protocollo ha una durata di 36 mesi e per la sua messa in opera sono già stati sottoscritti due specifici Protocolli attuativi con il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri e con il Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto.

Castore e Polluce, uguali ma diversi

“Castore e Polluce, uguali ma diversi” è il titolo del terzo appuntamento di “Che Mito! Storie e leggende dalla collezione museale e dal territorio”, in programma per domenica 20 Gennaio, dalle ore 10:30, al Museo della Città e del Territorio di Cori (LT). Il progetto, rivolto alle famiglie, è ideato e realizzato dall’associazione culturale “Arcadia” nell’ambito dei servizi educativi del Museo, in collaborazione con la Libreria “Anacleto” di Cisterna di Latina ed “Utopia 2000” Società Cooperativa Sociale Onlus, ed il patrocinio del Comune di Cori.

Protagonisti dell’incontro saranno Castore e Polluce e i resti marmorei del gruppo statuario dell’inizio del I secolo a.C., rinvenuti nell’area del tempio ad essi dedicato, nella terrazza mediana del foro dell’antica Cora, che ritrae i Dioscuri con i loro cavalli. Dopo la presentazione dei gemelli divini ci sarà il racconto del mito ad essi legato: Mitici figli di Zeus, generati insieme con Elena dall’uovo di Leda, congiuntasi con Zeus trasformato in cigno, compivano le loro gesta sempre uniti: Castore domatore di cavalli, Polluce valente nel pugilato.

Ambedue considerati divinità benefiche e salvatrici e protettori dei naviganti nelle burrasche, fra le gesta loro attribuite, la liberazione della sorella Elena, la partecipazione alla spedizione degli Argonauti; la caccia al cinghiale Calidonio. Il mito più popolare è il ratto delle Leucippidi: Castore fu ucciso dagli Afaridi e Polluce pregò il padre Zeus che mandasse la morte anche a lui, ma Zeus gli concesse di rinunciare a metà della propria immortalità in favore del fratello. Così i due vivono insieme, alternativamente, un giorno nell’Olimpo e l’altro nel regno dei morti.

Su Rai Storia “l’appello ai liberi e forti”

Don Luigi Sturzo diffonde l’appello “A tutti gli uomini liberi e forti’’. E’ l’atto istitutivo del Partito Popolare Italiano. Così negli anni del non expedit pontificio, don Sturzo fonda , un’organizzazione politica indipendente dei cattolici italiani.

Nel primo Congresso, svoltosi a Bologna, il sacerdote siciliano ribadisce il carattere laico e aconfessionale del partito e precisa la sua concezione dello Stato.

Queste le basi da cui parte il ragionamento che Giuseppe Sangiorgi, questa sera, alle ore 21 su Rai Storia, porterà alla nostra attenzione.

Nasce la dieta ‘universale’

Le cattive abitudini a tavola provocano rischi più alti per la salute di tabacco, sesso non protetto e alcol tutti insieme. Per salvare noi e il pianeta occorre raddoppiare a livello globale i consumi di frutta, verdura, e ridurre di oltre il 50% quelli di zuccheri e carni rosse entro il 2050.

Sono alcuni dei passaggi dello studio della Commissione Eat-Lancet che sarà presentato  a Oslo e pubblicato dalla prestigiosa rivista scientifica Lancet. La commissione, finanziata dalla Fondazione Eat della coppia di miliardari norvegesi Petter e Gunhild Stordalen, riunisce autori considerati tra i massimi esperti di nutrizione e sostenibilità (dal professore di Harvard Walter Willett all’inventore del ‘chilometro zero’ Tim Lang) provenienti da università di tutto il mondo e organizzazioni come Fao e Oms.

L’obiettivo è piuttosto ambizioso: proporre una ‘dieta sana universale di riferimento’ basata su criteri scientifici per nutrire in modo sostenibile una popolazione mondiale di 10 miliardi di persone nel 2050 ed evitando fino a 11,6 milioni di morti l’anno dovuti a malattie legate ad abitudini alimentari non sane.

La dieta universale prevede l’assunzione di 2.500 chilocalorie al giorno che, in una gamma flessibile, si traducono in approssimativamente 230 grammi di cereali integrali, 500 di frutta e verdura, 250 di latticini, 14 di carni (bovine o suine o ovine), 29 di pollo, 13 di uova, 28 di pesce, 75 di legumi, 50 di noci, 31 di zuccheri (aggiunti e non). Condimento consigliato gli oli vegetali, extravergine di oliva o colza. Oltre a cambiare i consumi, riducendo gli sprechi del 50%, gli autori del rapporto fissano obiettivi-limite nell’utilizzo di terra, acqua e nutrienti per la produzione agricola sostenibile. E indicano una grande varietà di aree di intervento per raggiungere questi risultati coinvolgendo governi, industrie e società, come ad esempio l’educazione e l’informazione, l’etichettatura, tasse sul cibo, il sostegno economico alla produzione di alimenti sani.

Chi sono i padroni della finanza mondiale

Articolo già apparso sulle pagine della rivista Interris a firma di Federico Cenci

o stato di sfiducia del cittadino medio europeo nei confronti della finanza sta toccando in questa fase storica vette mai raggiunte prima. Diversi sono i segnali che lo dimostrano, a cominciare dalla formidabile crescita di consenso, che si registra qua e là in tutti i Paesi dell’Unione europea, dei movimenti cosiddetti populisti ed euroscettici. Ma la finanza costituisce davvero una sorta di feroce Cerbero che minaccia i popoli o si tratta di una percezione alterata della realtà? Una risposta la offre il libro “I padroni della finanza mondiale – Lo strapotere che ci minaccia e i contromovimenti che lo combattono” (ed. Chiarelettere – 2018), scritto dal sociologo e già eurodeputato, nonché esperto di organizzazioni criminali Pino Arlacchi. Calabrese di Gioia Tauro, sottosegretario generale all’Onu dal ’97 al 2002, egli ritiene che “l’attuale sistema finanziario ultraglobalizzato” è “la minaccia più grave che incombe sul pianeta” e punta il dito nei confronti delle agenzie di rating americane, “le quali – afferma – perseguono interessi di privati”. Da parlamentare europeo fu tra i firmatari di una proposta per chiedere la riforma di queste agenzie rendendole pubbliche ed europee. In Terris lo ha intervistato a margine di una presentazione del volume avvenuta a Roma.

Dott. Arlacchi, chi sono i padroni della finanza mondiale?
“Si tratta di un concerto di poteri che ha il suo centro a Wall Street con delle depandance in Europa, nella Commissione europea, nelle principali banche d’investimento e nella city di Londra”.

Quando è nato questo dominio della finanza?
“È un processo graduale, iniziato negli anni ’70, quando la finanza ha smesso di servire l’industria, ed è proseguito espandendosi negli anni ’80 e ’90 con una serie di misure di deregolazione, liberalizzazioni, privatizzazioni, che hanno dato un grande spazio alla finanza privata che prima non c’era. È così che la finanza, anziché servire lo sviluppo economico di un Paese, è diventata la padrona dello sviluppo e questo fatto ha finito per uccidere lo sviluppo stesso”.

Quali sono state le cause di questa espansione liberista?
“Ci sono due cause. Ce n’è una immediata: la controrivoluzione liberista lanciata da Reagan negli Usa e dalla Thatcher in Gran Bretagna, come risposta alla crisi degli anni ’70. E ce n’è una nel lungo periodo: lo sviluppo naturale di questo ciclo del capitalismo, che vede il declino della potenza egemone statunitense e la nascita di nuove potenze”.

Prima ha parlato della Commissione europea come “depandance” del centro di potere finanziario che si trova negli Stati Uniti…
“È così. Sono stato eurodeputato per cinque anni e ho visto il diverso trattamento che hanno i temi economici e finanziari rispetto agli altri temi dell’agenda del Parlamento europeo, della Commissione e del Consiglio. E soprattutto ho visto che tipo di trattamento. Un esempio? Con l’estensione oltre i confini americani delle sanzioni a Teheran, è stato impedito alle imprese europee di intervenire nel mercato iraniano: siccome l’Iran non è integrato nel sistema finanziario degli Usa, l’apertura di un immenso campo d’investimenti all’industria europea avrebbe danneggiato la potenza egemone. Una prova più concreto dello strapotere finanziario non riesco a trovarla”.

Come valuta le dichiarazioni di Juncker di ieri sulla crisi greca e sulle misure d’austerità: un “mea culpa”?
“Ogni volta che si ottiene il proprio risultato, si fa questa professione di rammarico, che però non serve a nulla. Indietro non si torna, il risultato è stato ottenuto a costo di una vera e propria ‘tragedia greca’ che viene indicata come modello per gli altri Paesi dell’Unione”.

Nel suo libro indica come paradigma da seguire l’economia cinese…
“Non solo la Cina, ma anche altri Paesi dell’Asia come il Giappone e l’India, hanno dimostrato che si può crescere a tassi altissimi, ridurre la povertà, creare occupazione reale attraverso una economia sociale di mercato”.

Esistono però diverse contraddizioni in Cina, a cominciare dai diritti dei lavoratori…
“In Cina vado ogni anno da quasi vent’anni: conosco molto bene la traiettoria di sviluppo della Cina moderna e posso affermare che si tratta di un falso mito. I salari medi di un lavoratore cinese sono oggi più o meno uguali a quelli di un lavoratore portoghese, con un sistema di prezzi più basso e con un sistema di tutele maggiore. Chi fa queste affermazioni non conosce la Cina attuale, dove si è registrato un aumento del ceto medio e, nel giro di 25 anni, un aumento del reddito pro capite di 40 volte. Risultati ottenuti perché c’è stata una gestione efficace dell’economia, che consiste nello Stato che dirige il mercato e non viceversa; nell’industria che gestisce la finanza e non viceversa. Questo accadeva anche in Italia prima dell’ondata neoliberista degli anni ’70, quando infatti c’è stato il miracolo economico del dopoguerra: a quei tempi era il Governo che creava le infrastrutture giuste, necessarie per lo sviluppo economico. Dall’attuale stagnazione economica non potremo uscire finché non guarderemo al passato o finché non prenderemo esempio dall’Asia”.

Così può rinascere l’Europa?
“Esatto. Ma per farlo deve prima di tutto abbandonare l’idea – che tanto ha affascinato nel corso degli anni – degli Stati Uniti d’Europa, ovvero che, sull’esempio degli Usa, bisogna mettere insieme una serie di servizi e istituzioni con un grande centro federale a Bruxelles. Piuttosto, ritengo che la crisi dovrebbe suggerirci un modello diverso, di un’Europa più flessibile, che tenga conto delle diversità economiche dei vari Stati europei, che rispecchia anche il mosaico europeo composto da tante culture. Gli Stati Uniti sono nati distruggendo le culture che c’erano prima, l’Europa invece è nata sulla base di duemila anni di sviluppo locale, e tutto ciò non si può abolire per inseguire un modello non nostro”.

Una riappropriazione delle identità che è spesso il cavallo di battaglia dei movimenti cosiddetti populisti che stanno prendendo piede in Europa…
“Alcune istanze di certi movimenti rappresentano degli spunti di riflessione di cui tener conto, però non possiamo distruggere il sistema europeo, la moneta unica, sulla base di una visione nazionalistica: ciò sarebbe deleterio. Questo sistema va rifondato, tornando alle radici, con una Banca centrale che contribuisce allo sviluppo economico e non si occupa solo della stabilità dei prezzi; tornando al Trattato di Roma che a differenza di quello di Maastricht non parla solo di mercato e di finanza. Bisogna guardare ai padri fondatori, i quali ritenevano l’Europa non solo un’entità geografica, ma uno spirito”.

“Elogio dei liberi e forti”

Articolo apparso sulla rivista Tempi

Conoscere le radici cattoliche della nostra società e della vita istituzionale, ricostruendone le basi storiche: è questo l’obiettivo del saggio scritto a quattro mani da Lucio D’Ubaldo e Giuseppe Fioroni, due protagonisti della politica italiana. Il volume, dal titolo Elogio dei liberi e forti – La responsabilità politica dei cattolici (Giapeto Editore), è stato presentato ieri sera presso lo Spazio Espositivo Tritone della Fondazione Sorgente Group, nel corso di un incontro-dibattito con Giorgio De Rita, Segretario generale del Censis, intervistato dal giornalista de Il Foglio Matteo Matzuzzi.

Ripercorrendo i contenuti del libro, si è parlato di fondamentali passaggi storici partendo dall’800 fino alla pubblicazione dell’appello di Don Sturzo ai liberi e forti. Di grande impatto è considerata l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, che ha posto i semi della dottrina sociale della Chiesa sollecitando l’impegno a fianco dei lavoratori e dei bisognosi, per una riforma della società in chiave cristiana. Don Sturzo, dal canto suo, fu tra i primi a prefigurare la nascita di un partito a base popolare ma moderno, cioè organizzato e con un forte radicamento nella società.

Proprio questa chiave, secondo Giorgio De Rita, rende l’opera estremamente attuale: «Don Luigi Sturzo è stato profetico rispetto al futuro, perché ha creduto di poter aspirare a una società basata sulla libertà ma non sull’anarchia, che deve trovare una guida salda nel senso di responsabilità dei suoi governanti. È la stessa istanza che il Rapporto Sociale del Censis oggi riscontra: gli italiani si dichiarano più che mai bisognosi di una guida autorevole che sappia superare la perdita di riferimenti e il diffuso atteggiamento di rancore nei confronti del diverso».

«Il senso dell’appello di Sturzo – ha concluso l’autore D’Ubaldo – è costruire un partito organizzato che si richiamasse per la prima volta ai principi di uguaglianza, libertà e fratellanza mutuati dalla Rivoluzione francese, qualcosa di veramente nuovo rispetto a quello che era stato l’impegno dei cattolici fino a quel momento, soprattutto dopo il tramonto del progetto autoritario in seguito alla prima guerra mondiale. Si tratta di principi ancora validi per qualunque organizzazione politica».

Industria: Istat, a novembre fatturato in aumento dello 0,6%

A novembre si stima che il fatturato dell’industria aumenti leggermente in termini congiunturali (+0,1%), dopo la flessione dello 0,5% del mese precedente; nella media degli ultimi tre mesi, l’indice complessivo ha mantenuto lo stesso livello dei tre mesi precedenti.

Gli ordinativi registrano una lieve diminuzione congiunturale (-0,2%); nella media degli ultimi tre mesi, sui tre mesi precedenti, si registra un calo più consistente (-1,2%).

La dinamica congiunturale del fatturato riflette un leggero aumento del mercato interno (+0,1%) e una variazione nulla di quello estero. Per gli ordinativi la flessione congiunturale è sintesi di una contrazione delle commesse provenienti dal mercato interno (-1,1%) e di un incremento di quelle provenienti dall’estero (+1,1%).

Con riferimento ai raggruppamenti principali di industrie, a novembre gli indici destagionalizzati del fatturato segnano un aumento congiunturale dell’1,9% per i beni strumentali e una riduzione dell’1,0% sia per i beni di consumo sia per i beni intermedi.

Corretto per gli effetti di calendario (i giorni lavorativi sono stati 21 come a novembre 2017), il fatturato totale cresce in termini tendenziali dello 0,6%, con una flessione dello 0,4% sul mercato interno e un incremento del 2,5% su quello estero.

Con riferimento al comparto manufatturiero, il settore del coke e dei prodotti petroliferi raffinati registra la crescita tendenziale più rilevante (+13,5%), mentre l’industria farmaceutica mostra la flessione maggiore (-9,7%).

L’indice grezzo degli ordinativi segna un calo tendenziale del 2,0%, sintesi di una marcata diminuzione, del 4,4%, per il mercato interno e di un incremento dell’1,4% per il mercato estero. La maggiore crescita tendenziale si registra nel settore delle apparecchiature elettriche (+27,4%), mentre la diminuzione più marcata si rileva nel comparto dei mezzi di trasporto (-11,2%).

Cesare Battisti, il prode che cambiò divisa per un ideale

Anni 10 I° Guerra Mondiale 1915 / 1918 Nella foto: Cesare BATTISTI ( 1875 - 1916 ) in divisa degli Alpini FARABOLAFOTO ( 761554 )

Nato in Austria quando Trento era ancora controllata dagli Asburgo, è forse – con Guglielmo Oberdan – l’esponente dell’irredentismo italiano più popolare e citato dalla storiografia contemporanea.

Giuseppe Cesare Battisti, da non confondere con il Cesare Battisti pluriassassino ed ergastolano che il 14 gennaio 2019 è stato accolto a Ciampino in pompa magna da alcuni membri del governo leghista-pentastellato, trentino, classe 1875, decise di cambiare divisa militare in nome della libertà degli alto-atesini.

E così sposò la causa del giovane Regno d’Italia. Era una causa che partiva in realtà da molto lontano, ed era passata in maniera traumatica dall’occupazione napoleonica alla Restaurazione, per percorrere la tragedia della Grande Guerra e rivendicare ai posteri le ragioni della “vittoria mutilata”. Massone, di formazione socialista nel senso più complesso della sua accezione (era fondamentalmente un filantropo di estrazione umanistica), sin da ragazzo frequentò vari istituti di studio italiani (a Firenze e a Torino) aderendo ad alcuni movimenti studenteschi vicini a Gaetano Salvemini.

Nel momento in cui Cesare decise di cambiare sponda, lo fece da deputato del Reichsrat, l’allora parlamento austriaco, nel quale era stato eletto per il collegio Tirolo 6: impossibilitato a dare luogo tramite la politica alle istanze di autodeterminazione di Trento, nell’estate del 1914 emigrò definitivamente in Italia appellandosi a Vittorio Emanuele III perché annettesse con la forza l’Alto Adige all’Italia. Lo chiedevano migliaia di cittadini di etnia italiana per ragioni non solo geografiche, ma soprattutto politiche e identitarie.
Nel maggio 1915 l’Italia entra in guerra contro l’Austria, e Cesare non esita nemmeno un minuto: si arruola negli Alpini, Battaglione Edolo 50ma Compagnia. Ma le cose non vanno affatto per il verso giusto.

Solo un anno dopo, nel pieno degli scontri, è catturato proprio a Trento dalle truppe asburgiche; il 12 luglio 1916 è accusato di diserzione e alto tradimento, e viene impiccato in località Fossa del Cervara dopo essere stato sottratto a un tentativo di linciaggio da parte della folla che stava assistendo alla marcia verso il patibolo. Non rinnegò neanche in quei terribili attimi i suoi ideali, ma ribadì anzi la sua fede politica e la volontà di essere considerato cittadino italiano.

Il sacrificio di Battisti si compì in un periodo di forte tensione tra Austria-Ungheria e Italia, ovvero quando la Triplice era ancora operativa e attribuiva a Roma un ruolo assolutamente marginale. Tanto che la sistematica occupazione austro-tedesca di territori sovrani – tra cui la Bosnia Erzegovina – aveva provocato gravi malumori nella popolazione italiana e nelle stesse istituzioni.

Quella condizione, che evidenziò la posizione di partner debole del governo italiano, aveva lasciato nell’opinione pubblica uno strascico di malumori non più sanabili, e aveva contribuito a determinare un clima di avversione tramutatosi ben presto in sentimento di riscossa nazionale. Un clima per cui le aspirazioni irredentistiche sul Trentino e la Venezia Giulia si fecero sempre più energiche e confluirono in un ampio contesto di affermazioni colonialistiche, che il nascente regime mussoliniano esacerbò sino alla tragedia del secondo conflitto mondiale.

Venezuela, lʼAssemblea nazionale dichiara Maduro “usurpatore”

L’Assemblea nazionale venezuelana (controllata dall’opposizione) ha approvato una risoluzione in cui dichiara Nicolás Maduro “usurpatore della presidenza” e quindi considera “giuridicamente inefficace” la sua guida del Paese.

Il presidente della An, Juan Guaidó, ha dichiarato che “l’Assemblea assume le competenze che le riconosce la Costituzione, che le permettono di avanzare chiaramente verso un governo di transizione e libere elezioni”.

 

 

Una pista ciclabile unirà Torino a Milano

Una pista ciclabile lunga 82 km collegherà Torino e Milano dal 2020, lungo il Canale Cavour. Un protocollo d’intesa per realizzarla è stato firmato dalla Regione Piemonte, dalle Province di Vercelli e Novara, dai parchi del Ticino, del Po, della Collina Torinese e del lago Maggiore e Canale Cavour.

La ciclabile costerà 25 milioni di euro. Il progetto sarà in carico alla Città metropolitana di Torino e sarà curato dall’ingegner Luigi Spina, che ha già realizzato le ciclabili della provincia torinese. La ciclovia sarà larga 3,4 metri: partirà fra Chivasso e Crescentino, e correndo lungo il Canale Cavour raggiungerà Galliate e il Ticino. All’altezza di Turbigo si innesterà nella ciclabile esistente, che da Sesto Calende arriva a Milano lungo i Navigli.

Allevamento: A Brescia un caso di Lingua Blu

Al momento si tratta di un solo animale colpito dalla malattia, ma l’allarme è scattato su un perimetro di 30 km. Il «virus della lingua blu» (blue tongue), isolato in una stalla a Puegnago del Garda, torna a spaventare gli allevatori della  provincia.

La Bluetongue è una malattia infettiva, non contagiosa, dei Ruminanti domestici e selvatici.

Il virus si trasmette attraverso le punture dei moscerini ematofagi del genere Culicoides; in Africa e nel bacino del Mediterraneo la specie epidemiologicamente più importante è C.imicola sebbene il contagio sia possibile anche per mezzo di vettori passivi (attrezzature e strumentazioni di stalla contaminate).

Elevate temperature serali e forti precipitazioni alla fine dell’estate tendono ad aumentare l’attività dei vettori, che è massima nella tarda estate -primo autunno, e quindi la trasmissione della malattia. Una volta inoculato, BTV tende a colonizzare le cellule del sangue, soprattutto i globuli rossi, fatto che facilita la trasmissione tramite il pasto di sangue del vettore.

La mortalità può essere elevata specie nelle aree precedentemente indenni dalla malattia.

Identità e apertura dei liberi e forti

E’ stato davvero interessante l’incontro di ieri, caratterizzato dall’intervista a De Rita (Censis) sul saggio di Lucio D’Ubaldo e Giuseppe Fioroni, che ha avuto come tema  “I 100 anni dall’appello di don Sturzo: Elogio dei liberi e forti”. L’intervento finale di Lucio si è posto il problema di trovare il presupposto politico e culturale al fine della ricerca di quella ‘identità di cattolici popolari che sembra essersi indebolita, e lo ha fatto ripensando all’impegno sturziano. Sono tuttavia possibili delle alternative politiche.

Il contributo passato dei cattolici, a partire da don Sturzo, è stato quello di avere condotto le masse popolari dalla condizione “plebea” al livello della direzione dello Stato. La politica ha tentato di imprimere una spinta politico e idealistica che potesse trasformare le persone da uno stato di sudditanza a quello di liberi cittadini. Ma, oggi? Oggi, di fronte alla globalizzazione e alla secolarizzazione quello Stato post-guerra e post-boom economico, sembra essere una questione passata:  le risorse non ci sono, come pure non ci sono più piani Marshall o Putiniani. Questo Stato pesante, lento, inefficiente, non consente più lo sviluppo economico e sociale. Le casse pubbliche non coprono le guarigioni dai conflitti sociali (crisi dei corpi intermedi).

Ci vuole quindi un nuovo Stato, una nuova idea di Repubblica e di Democrazia. Ci vuole insomma un nuovo Patto tra governati e governanti. Tutti, cattolici e non, post-comunisti e non, devono ripensare a nuove identità che non buttino all’aria quelle vecchie (solidarietà, fraternità, correzioni del sistema capitalistico, responsabilità verso la res publica). Ecco, questo potrebbe essere il terreno più avanzato per ritrovare lo spirito di Sturzo, che, come sostiene Lucio, valorizzò l’impegno dei popolari per poter mettere in atto i suddetti principi fondamentali.

Per una nuova generazione di «liberi e forti»

Articolo già apparso sulle pagine di Aggiornamenti Sociali a firma di Giacomo Costa

ompie cent’anni il testo noto come Appello ai liberi e forti. Tradizionalmente associato al nome di don Luigi Sturzo, fu redatto il 18 gennaio 1919 da una Commissione provvisoria, di cui il sacerdote siciliano era segretario politico, nel percorso che condusse alla fondazione del Partito popolare italiano. Sebbene sia conosciuto spesso solo per brani, grazie a citazioni e richiami successivi che ne ricollocano le espressioni in un contesto parzialmente diverso da quello originario, questo testo ha segnato profondamente la storia politica italiana del Novecento e per questo abbiamo deciso di riprodurlo per intero insieme a questo Editoriale.

Compiere cent’anni significa inevitabilmente appartenere al “secolo scorso”, a un’epoca ormai sempre meno familiare. Non a caso al Novecento, a cui l’Appello appartiene, ormai si dedicano musei. Ma trasformare in reperto il passato comporta il rischio di sopprimerne la generatività e la capacità di interpellare ancora il presente. Lo ricordava lo scorso 22 maggio il card. Bassetti, presidente della CEI, nell’Introduzione alla 71ª Assemblea generale. Proprio dopo aver citato l’Appello, affermava infatti: «La storia della Chiesa italiana è stata una storia importante anche per la particolare sensibilità per l’aspetto politico dell’evangelizzazione […]. Dobbiamo esserne fieri, ma soprattutto è venuto il momento di interrogarci se siamo davvero eredi di quella nobile tradizione o se ci limitiamo soltanto a custodirla, come talvolta si rischia che avvenga perfino per il Vangelo».

Per sfuggire a questo rischio, occorre ripartire proprio dalla consapevolezza della distanza temporale che ci separa dal passato. Nel caso dell’Appello, questo significa prendere atto che non dà indicazioni da seguire alla lettera nel nostro presente: troppe situazioni sono cambiate (basti pensare che il suffragio universale è realtà ormai da tempo); troppe parole hanno mutato di significato o sono cambiate le risonanze che suscitano: alcune, ad esempio, sono state arricchite da cent’anni di ricerca e dibattito (è il caso dello statalismo, a cui era dedicato l’Editoriale dello scorso novembre); troppi sono i problemi che nemmeno esistevano o erano ignorati, come il degrado ambientale o i mutamenti climatici, o che hanno cambiato radicalmente di segno: l’Italia, oggi meta di flussi migratori, era un secolo fa terra di emigrazione di massa. Cercare nelle parole del passato istruzioni per i problemi del presente espone a rischiosi cortocircuiti.

Prenderne consapevolezza consente di mettere a fuoco che la potenza di un testo come l’Appello ai liberi e forti non risiede nelle soluzioni, ma nel continuare a rappresentare una fonte di ispirazione per le modalità con cui si approcciano i problemi nuovi e quelli che nel tempo si sono modificati ma non sono stati risolti, come la questione meridionale o la parità di genere, che, pur in forme diverse da quelle del 1919, continuiamo a trovare sulla nostra agenda politica. In questa linea, nelle pagine che seguono proporremo alcuni spunti che possano illuminare la perdurante fecondità di quel testo, cioè la ragione per cui, a cent’anni di distanza, vale la pena tornare a leggerlo.

Una carica dinamizzante

Dell’Appello colpisce innanzi tutto la brevità: in due sole pagine riesce ad articolare in modo coerente uno sfondo valoriale preciso, una visione antropologica e politica di riferimento, una lettura della società e dei suoi problemi che conduce a identificare misure pratiche da inserire in un programma politico. Colpisce ancora di più se lo si colloca nel suo contesto storico, ben precedente alle riflessioni del Concilio sulla coscienza, sulla libertà religiosa o sulla legittima autonomia delle realtà temporali e quindi sulla laicità; e in una fase in cui il magistero sociale della Chiesa consisteva di un’unica enciclica, la Rerum novarumPartendo da una serie di intuizioni che la riflessione impiegherà decenni a elaborare, quali i principi della dottrina sociale (dignità della persona, bene comune, sussidiarietà, solidarietà), l’Appello connette piani diversi: è questa capacità che oggi deve risultare di stimolo, ben più degli specifici contenuti.

Si nota poi la sua potenza espressiva: il testo interpella i lettori, parla insieme alla testa e al cuore, così da mobilitare le energie della persona e di tutte le persone. Non è una operazione di élite, in quanto sa cogliere in modo autentico l’anima popolare: non trascura chi è ai margini e soprattutto non esacerba le tensioni, ma si pone nella logica di una mediazione capace di risolvere i conflitti sociali di cui ha piena consapevolezza. È proprio questa attenzione a costruire ponti e tessere relazioni che gli conferisce autorevolezza. Convince perché sa entrare in contatto, non si impone come fa invece la propaganda. Da questo punto di vista si differenzia radicalmente da molte altre proposte, anche dei giorni nostri, che in modi diversi si richiamano a una ispirazione popolare, ma per marcare differenze identitarie, frammentando la società anziché unirla in un soggetto collettivo.

Infine, l’Appello ai liberi e forti ci permette di cogliere il contributo che la fede cristiana può dare alla politica e alla società. Si vede all’opera la creatività che la caratterizza quando non viene ridotta a ripetizione di formule e dottrine, o utilizzata come base di privilegi o di una pretesa di potere. Così il testo interpella tutti, aldilà di confini e appartenenze; sarebbe un tradimento utilizzarlo come bandiera della presenza organizzata di gruppi di cattolici in politica.

Rileggere l’Appello può così rivelarsi particolarmente fecondo oggi, in un tempo in cui – lo possiamo testimoniare da quell’osservatorio particolare che Aggiornamenti Sociali da 70 anni rappresenta (cfr il riquadro qui sotto) – sono molti i tentativi di riarticolare una proposta politica convincente e capace di suscitare un diffuso impegno politico democratico, sostenibile, partecipato. Anche il nostro è un tempo di chiamate, di convocazioni e di appelli, che si devono misurare con un contesto di ripiegamento identitario a livelli diversi: nei confronti dell’altro e del diverso (i migranti sono l’esempio più evidente), del futuro (la scarsa attenzione per la sostenibilità), così come dell’Europa e del resto del mondo (il tema dei sovranismi). Ne scaturisce una politica che anziché cercare mediazioni e progetti condivisi, esaspera le contrapposizioni, alimentando la lotta dei penultimi contro gli ultimi. Non basta essere contro tutto questo, occorrono soggetti politici “liberi e forti” che elaborino proposte per qualcosa che risulti chiaramente alternativo e capace di coagulare il consenso dei molti che non si riconoscono nella retorica politica oggi dominante. Del resto anche l’Appello si presentava come alternativo alle proposte muscolari (di destra e di sinistra) in circolazione ai suoi tempi.

Le ali della libertà

Oggi come nel 1919 libertà è un termine magnetico, capace di toccare le corde più profonde dell’essere umano e risvegliarne le aspirazioni e i desideri più intensi. Oggi come allora circolano però accezioni molto diverse di libertà, e la storia ci ha mostrato come queste differenze abbiano precise conseguenze quando si prova a tradurre l’aspirazione alla libertà in istituzioni e strutture sociali. La libertà dell’individualismo liberale non è quella del personalismo solidale, e così via. L’autodeterminazione è certamente un elemento fondamentale di ogni concezione di libertà, ma oggi si tende spesso ad assolutizzarlo. “Padroni a casa propria” è lo slogan che sembra condensare la concezione prevalente di libertà, a tutti i livelli, distogliendo l’attenzione alla sua altrettanto costitutiva dimensione relazionale.

L’Appello è sensibile all’importanza dell’autodeterminazione, dei singoli così come dei gruppi sociali e dei popoli – era un cardine del programma wilsoniano espressamente richiamato –, ma ciò che innanzi tutto qualifica i “liberi” a cui si rivolge è il senso del «dovere di cooperare» e la capacità di agire «senza pregiudizi né preconcetti». Quest’ultima espressione è spesso stata intesa con riferimento alla disponibilità, a prescindere dall’appartenenza confessionale: è del tutto chiaro, infatti, che l’Appello non si rivolge ai soli cattolici. Rileggendole oggi, ci rendiamo conto che quelle parole hanno un significato più ampio: fanno appello alla capacità di collaborare per il bene comune superando tutte le appartenenze, non solo quelle confessionali, ma anche quelle ideologiche, culturali, sociali, economiche, compresi quindi gli interessi di parte e il tornaconto individuale o di gruppo. Tutte le appartenenze portano con sé il pericolo dell’autoreferenzialità, della trasformazione in casta, rischiano di smarrire la propria parzialità pretendendo di diventare il tutto. In questo senso, libertà è anche un limite verso se stessi, un argine alla pretesa di assolutizzare la propria posizione e quella della propria parte.

Il primo frutto di questa libertà è la promozione dell’uguaglianza in maniera concreta, o almeno dell’equità in termini di opportunità (cfr artt. 2-3 Cost.). Ne è prova tangibile l’insistenza con cui l’Appello ribadisce la necessità di «congiungere il giusto senso dei diritti e degl’interessi nazionali con un sano internazionalismo», facendone anzi un indicatore di libertà morale. Questo non vale ovviamente solo sul piano dei rapporti internazionali, su cui torneremo: la tutela delle legittime aspirazioni alla libertà di ciascuno non può legittimare nessuna pretesa di “passare per primo” o di avere più diritti degli altri. La libertà, se non è disponibile a tutti, è oppressione degli uni sugli altri e odioso privilegio. Di questo, e non di autentica libertà, godevano gli aristocratici libertini dell’Ancien Régime, a scapito di una moltitudine di oppressi. È questo «il vero senso di libertà», che richiede di aprire spazi di autonomia per tutti, a prescindere da ogni identità e appartenenza, in quegli ambiti che l’Appello stesso elenca con grande chiarezza: libertà religiosa, libertà d’insegnamento, libertà sindacale e associativa (le «organizzazioni di classe»), libertà di partecipazione politica ai diversi livelli (la «libertà comunale e locale»).

Rileggendo l’Appello, tocchiamo con mano che ancora oggi la libertà non è un’etichetta vuota e che un buon criterio per discriminare le tante proposte politiche in circolazione può essere proprio la nozione di libertà su cui si fondano, e la disponibilità a concedere opportunità a tutti, e non solo a reclamare i diritti della propria parte.

Forza e potere

Il vero senso di libertà diventa anche un criterio per l’esercizio dell’autorità e del potere, a cui legittimamente ogni partito (anche il Partito popolare italiano che nasce con l’Appello) aspira.

I “liberi e forti” sanno riconoscere i propri limiti e aprire spazi perché i singoli e i gruppi – tutti, nessuno escluso – possano crescere grazie a una progressiva assunzione di responsabilità nella costruzione del bene comuneL’autorità così concepita non coincide col potere. Il potere può prescindere dal consenso o cercare di carpirlo; il potere si presta a essere abusato, seduce ed è sedotto. L’autorità è relazionale: non può agire se non è riconosciuta. Per questo i “liberi” hanno bisogno di essere “forti”, per usare il potere come forma per esercitare l’autorità.

L’aggettivo “forti” merita una riflessione specifica, in quanto rimanda sia alla forza e al suo uso, sia alla fortezza, intesa come la virtù che assicura fermezza e costanza nella ricerca del bene. Senza fortezza, l’uso della forza perde ogni riferimento etico e si trasforma in arbitrio e prepotenza. Proprio come la libertà, anche la forza ha bisogno innanzi tutto di un’istanza di autolimitazione. L’Appello ne è ben consapevole, tanto che invoca istituzioni internazionali “forti”, cioè capaci di resistere alle «tendenze sopraffattrici dei [popoli] forti» nei confronti dei «popoli deboli». Questa dinamica non interessa solo i rapporti tra i popoli, ma anche quelle tra i gruppi sociali e persino tra gli individui.

Dalla nozione di forza dipendono le modalità dell’agire politicoÈ una concezione mutilata della politica quella che si basa sulla rivendicazione dei diritti e sulla conquista del potere, ma dimentica l’esercizio di un’autentica mediazione sociale, scivolando su un piano inclinato in fondo al quale non può trovarsi altro che la violenza distruttiva di chi non ha altri modi per farsi ascoltare. Ce lo mostrano in modo eclatante le proteste dei “gilets jaunes” che stanno incendiando la Francia, e tante altre situazioni analoghe. Solo la libertà nel modo di esercitare il potere consente di aprire spazi di partecipazione democratica e di mediazione tra i diversi attori sociali. Altrimenti, come abbiamo imparato, le forme della democrazia si svuotano e si trasformano in un ginepraio di procedure, dentro cui crescono i privilegi di una minoranza, l’irresponsabilità della classe dirigente, il senso d’impotenza dei più e l’oblio dei deboli. E, inevitabilmente, il fascino per le “soluzioni di forza”.

Un appello per l’Europa

Rileggere l’Appello ai liberi e forti ci ha ricondotti ad alcune categorie portanti della politica, che quel testo continua a illuminare in modo stimolante. Oggi come allora le considerazioni di fondo premono per tradursi in atto: non a caso all’Appello seguiva un programma politico. Nessuna attuazione potrà esaurire la ricchezza e la profondità dei principi, ma senza di essa questi ultimi resteranno nel regno dell’astrazione, privi di efficacia. Che cosa significa provare oggi a esercitare libertà e forza? Ad articolare autorità e potere? In che direzione siamo chiamati a muoverci?

In un momento in cui l’Italia usciva da una guerra rovinosa, anche se vinta, e doveva impegnarsi per trasformarsi da Paese agricolo a nazione in via di industrializzazione e da democrazia “oligarchica” con suffragio censitario a democrazia di massa con suffragio universale (almeno maschile), colpisce come lo sguardo dei redattori dell’Appello non sia rivolto verso l’interno, ma collochi con decisione il futuro dell’Italia all’interno di un ordine internazionale imperniato sulla Società delle nazioni.

Un secolo dopo, il quadro di attori internazionali si è certamente arricchito – il livello delle istituzioni europee era probabilmente impensabile nel 1919 –, ma il nocciolo della questione non si è molto modificato: immaginare il futuro italiano richiede di definirne le modalità di relazione con il contesto internazionale. Oggi, ben più che l’orizzonte globale, i nodi riguardano il livello europeo e in particolare l’Unione Europea. Le difficoltà britanniche a gestire la Brexit dimostrano che alla fine risulta quasi impossibile fare a meno dell’Unione, non perché questa sia una gabbia o una condanna, ma perché l’esigenza di aggregazione di un’area continentale come la nostra è un dato di fatto in un mondo dominato da giganti geopolitici, cosa che nessun Paese europeo è. Non a caso, proprio la posizione nei confronti dell’Europa è diventata, quasi ovunque, una delle discriminanti principali tra gli schieramenti politici e uno dei temi più caldi delle campagne elettorali.

Proprio come la Società delle nazioni nel 1919, anche per noi italiani oggi l’Europa resta una scelta e volere l’Europa non può significare arrendersi a un’Europa qualunque e neanche accontentarsi di quella esistente, che in alcuni suoi aspetti è indifendibile(cfr Riggio G. [ed.], «Dietro le quinte dell’Unione Europea. Un dialogo a tre voci da Bruxelles» alle pp. 36-43 di questo fascicolo). Quali riforme sono possibili e necessarie per spingerla nella direzione desiderata? Sulla scorta dell’Appello, siamo interessati a provare a costruire un’Italia che sia parte e promotrice di un’Europa “libera e forte” nel senso che abbiamo delineato sopra?

È chiaro che si tratta di un progetto di riforma profondo e radicale, come lo era nel 1919 la richiesta di estendere il voto alle donne, di riformare la burocrazia, di rendere elettivo anche il Senato, di riconoscere le autonomie locali sulla base di una sussidiarietà che oggi anche la UE ha inserito tra i propri principi, ma che non è sempre facile percepire.

Un’Europa “libera e forte” sarà capace di articolare autorevolmente unità e rispetto delle differenze, senza obbligare tutti a marciare con lo stesso passo, ma senza nemmeno concedere a nessuno diritti di veto più o meno mascherati. Questa Europa potrà allora chiedere ai singoli Paesi che la compongono di essere a loro volta “liberi e forti”, cioè di rinunciare a interpretare la sovranità di cui dispongono in modo autoreferenziale e facendo del proprio interesse l’unica bussola dell’azione politica. Come abbiamo visto, liberi e forti sono coloro che sanno riconoscere un limite alle proprie pretese, e questo vale anche per gli Stati, nelle relazioni che li uniscono e ancora di più in quelle che istituiscono con i loro cittadini e le forme della loro vita associata.

Apparati pubblici “liberi e forti”, a livello nazionale e sovranazionale, sapranno promuovere concretamente la partecipazione dei cittadini, incoraggiando la loro capacità di iniziativa e le forme strutturate a cui questa dà vita. Questo riconoscimento permetterà a quelli che tradizionalmente sono chiamati corpi intermedi di esplicare la loro fondamentale funzione di mediazione. Solo così è possibile promuovere la coesione sociale e la formazione di capitale sociale, restituendo al popolo la sua soggettività e sovranità, non attraverso slogan o retoriche riaffermazioni di identità presunte. È probabilmente questa la differenza fondamentale tra una politica popolare, che rispetta il popolo e la sua autonomia originaria, e una politica populista, che rende il popolo un ostaggio di chi è al potere. Con un’attenzione particolare – anche su questo l’Appello è molto chiaro – a chi è ai margini e ai più deboli. È proprio la capacità di proteggere i più deboli e di promuovere la loro partecipazione che legittima l’uso della forza e lo differenzia dalla brutalità. Per questo è fondamentale che un’Europa che si pone alla ricerca di una identità popolare che rischia di smarrire non sacrifichi il “pilastro sociale”, ma lo metta al centro delle sue politiche.

Istituzioni europee e nazionali che funzionano con questo spirito consentiranno l’esistenza di popoli e gruppi sociali liberi e forti, capaci di resistere alle tentazioni solipsistiche, nazionali o nazionalistiche che siano. Questo è il vero DNA dell’UE: da norme, leggi, accordi e procedure non possiamo prescindere, ma restano il mezzo per dare attuazione a un ideale e a un sogno più alto. L’idea che possano esistere solo relazioni dirette, che prescindano da ogni mediazione istituzionale, non è invece altro che un’illusione esposta al rischio della manipolazione, per quanto sia molto di moda nei nostri giorni.

Se qualcosa ci insegna la lettura dell’Appello è che il cambiamento di cui abbiamo bisogno sarà possibile solo se i “liberi e forti” che anche oggi popolano la società italiana ed europea sentiranno ancora «il dovere di cooperare», senza chiudersi dietro barriere di interessi e appartenenze. Tra pochi mesi le elezioni europee ci riproporranno una domanda sempre più cruciale: quale Europa vogliamo? E quale Italia al suo interno? Ma di fronte a parole sempre più inflazionate, a proclami sempre più erosi dal cinismo della post-verità, i “liberi e forti” nell’Europa del 2019 decideranno ancora di unirsi?

 

A proposito dell’appello ai liberi e forti

La pubblicazione dell’ultimo rapporto del Censis ha sollevato più di qualche allarme con dati che fanno pensare ad un generale impoverimento, non solo economico, ma soprattutto culturale, della popolazione italiana, incattivita, impoverita, ulteriormente invecchiata e senza grandi progetti e interessi comuni. E’ immediato, ancorchè di parte, della nostra parte, il richiamo alla situazione che viviamo dopo il terremoto delle ultime elezioni politiche.

Il voto del 4 marzo, da un certo punto di vista, annuncia la fine del sistema democratico novecentesco. Non solo è l’evento che manda in primo piano umori, sentimenti e paure, seppellendo contenuti, valori e comportamenti della politica tradizionale, ma è soprattutto il voto che condanna i partiti tradizionali, PD in testa, alla marginalità, come e più di quanto successo altrove nella sinistra europea ed occidentale.

E’ anche il voto che rimuove ogni idea di futuro dall’agire politico e il M5S, aperto a ogni possibilità ed alleanza, si fa portatore di qualsiasi istanza e del suo stesso contrario. Non è di sinistra, non è di destra, anzi è sia di destra che di sinistra, è, come dice Di Maio, al di là della contrapposizione destra/sinistra. Lo stesso concetto di sinistra sembra ormai profondamente inattuale e nel centro destra, la formazione vincente è una Lega in possesso di armi lontane e diverse da quelle delle destre tradizionali e con le quali batte alla grande la tradizionale destra berlusconiana, non più in grado di esercitare egemonia moderata sulle spinte estremiste di Salvini.

Non è solo un problema italiano; i partiti tradizionali, soprattutto socialdemocratici, vivono una crisi profonda in tutta l’Europa e, con loro, vacillano le stesse colonne portanti della cultura sociale europea, quelle nate dalla rivoluzione francese: libertà ed uguaglianza, certo, ma anche la più cristiana delle tre architravi della modernità, la fratellanza.
Questo contesto storico così drammatico spinge a ritrovare in ciascuna forza politica, i valori degli inizi, quelli più puri e per questo il libro di cui parliamo è così pertinente. Ma, ci chiediamo subito, noi viviamo una fase in cui confermiamo la scelta già compiuta dalla Storia, cercando in Sturzo le idee e lo stile di lavoro così democristiani o dobbiamo anche andare a ripercorrere il politically incorrect di Murri, la sua etica intransigente così attrattiva per i giovani del suo tempo? Chi è più attuale oggi, Sturzo o Murri?, questa è la prima domanda che poniamo agli autori del libro.

Più in generale, in un mondo che sembra svuotarsi di valori e in cui il crollo di Verità condivise sembra aprire il campo alle più violente verità personali (dal linguaggio della politica agli hooligans) e in cui i progetti delle comunità sembrano diventare impossibili in un mare di desideri micronizzati, consumistici ed individuali, come può tornare attuale il richiamo a un programma che seppur politico e aconfessionale chiama in campo, ancora, una coscienza?
E’ evidente che questo programma, oltre che plurale, sociale, debba, superando grosse difficoltà, essere anche immediatamente credibile. Viviamo, però, in un tempo in cui il correlato della credibilità di un programma non risiede nelle competenze o nell’esperienza dei suoi propugnatori, quanto, piuttosto, nell’autorità della leadership. Ma come si fa, nell’epoca della comunicazione irresponsabile e infondata, nell’epoca della violenza non solo verbale, a rendere credibile un programma? Vediamo una sola strada alternativa al populismo dilagante ed è quella in cui il programma necessario (sottolineiamo necessario) sia la missione di un soggetto capace, oggi, di vestire il saio di chi riconosca errori commessi e si proponga con un sacrificio di parte dei poteri acquisiti. Per questo avanziamo questo provocatorio richiamo allo stile di vita e di lavoro di Murri, oltre che di Sturzo. Con l’avvertenza che un richiamo, a Sturzo, a Murri, o anche a Mattei o Moro, non potrà essere una semplice riproposizione. Troppe cose son cambiate, a partire dalla fine di quel peculiare mix interclassista che ha fatto della DC, erede del PP un vero partito di lotta e di governo, interprete di una cultura con larghe tracce di polemica anticapitalistica e di una pratica politica di conciliazione di istanze popolari ed assetti del potere. Interclassismo democristiano che è stato un modo tutto italiano di correlare realtà economica capitalistica e morale cattolica.

Oggi sembra irrecuperabile anche solo il richiamo a quel patto tra Trono e Altare di cui si pala nel libro. E non solo per le vicende della storia ma anche per quell’affinità elettiva tra capitalismo e spirito protestante così lontana dalla diffidenza cattolica verso il successo e la ricchezza. Il baricentro del rapporto tra capitalismo e spirito cristiano passa da tempo per Amsterdam, Londra, Berlino. Quale può allora essere la chiave di un nuovo patto sociale tra le masse non solo cattoliche e un potere economico sempre più lontano, non solo moralmente, ma anche spazialmente globalizzato?
Il 4 marzo italiano ha profonde analogie con le avanzate populiste in vaste aree del sistema delle democrazie occidentali. Da dove nasce tale rabbiosa e violenta carica antisistema?
Siamo da anni alle prese con una sostanziale stagnazione, puntualmente rilevata nel Rapporto del Censis, che ha visto in questi Paesi una sensibile decrescita del potere d’acquisto soprattutto tra i ceti medi e più deboli, con aumenti abnormi di disoccupazione soprattutto giovanile. Basta il dato socioeconomico a spiegare il 4 marzo italiano o i gilet gialli in Francia (con le debite differenze)? Oppure ha qualche valido motivo di proporsi, soprattutto fra i giovani, il rifiuto di una politica inconcludente e talvolta anche inquinata? Si dice che i giovani non voteranno alle europee e che si mostrano scettici verso la stessa Organizzazione Comunitaria. Certo, giusto, inevitabile: come potrebbero provare interesse per un ‘Europa che negli ultimi decenni non ha assicurato loro un futuro?

Il decadimento della politica, cui stiamo assistendo, ha motivi solo sociali, economici e morali oppure la politica sconta la perdita di autorevolezza e di credibilità dopo la caduta delle sue grandi verità del novecento? La difficoltà appare enorme. Da una parte i partiti non dispongono di luoghi utopici verso cui portare le speranze della gente, dall’altra non possono vantare risultati di gran vanto nell’azione politica sviluppata nel recente passato
E’ qui che il ripensamento dei motivi che portarono alla nascita dei Popolari può contribuire a costituire un riferimento verso una coscienza politica non solo dei singoli militanti, ma anche di un intero partito.
Una specie di mutazione antropologica emerge dal voto, come una frattura profonda, nel sistema democratico e nel patto tra democrazia rappresentativa e cittadini, ormai convinti in larghi settori che un sistema di partiti incapaci e burocrati non assicuri più l’equità e lo sviluppo sociale promesso a lungo. Occorrerà stare molto attenti alla rottura di questo patto, perché è stato finora elemento costitutivo delle stesse regole della convivenza civile e democratica.

Inoltre la democrazia non appare più, dogmaticamente, un bene supremo ed eterno, una specie di variabile indipendente rispetto ai costi dei suoi poteri, alle spese sempre crescenti del sistema di rappresentanza, a partire dalle campagne elettorali e dai costi di apparato. Non è da oggi che la democrazia mostra questo ed altri punti di crisi, in una fase difficoltosa del suo percorso nelle società occidentali. Andare a fondo di questo problema, però, porta a rivedere il rapporto di rappresentanza e gli stessi meccanismi di formazione – e di conservazione – del consenso, oltre che la qualità e la quantità degli organismi di governance, centrale e periferica. Non è questo è un terreno di riforma profonda del sistema dei partiti?
Una profonda mutazione sembra emergere anche dal punto di vista dell’architettura dei partiti, in particolare del PD, ultima formazione a chiamarsi partito, più strutturata e più solida di tutte. Il M5S ha vinto senza nessuna struttura territoriale. Lo stesso Macron , in Francia, ha vinto utilizzando al massimo i canali di comunicazione a disposizione con Internet e, anzi, distruggendo le strutture del partito di provenienza. La comunicazione oggi passa per altre strade ed altre modalità di aggregazione, tematiche più che territoriali.
Ma la stessa liquefazione del processo politico che ha visto affermarsi Macron sta oggi rivolgendosi contro il Presidente francese. Questo vuol dire che partiti e sistemi politici liquidi sembrano non poter garantire la stessa stabilità di una comunità politica che poggi su solidi corpi intermedi e associativi.

In questa situazione terribile dove, accanto ai problemi di carattere nazionale, emergono, ancora più minacciose, le immagini di una possibile disgregazione dell’Unione Europea, quale è il principale motivo di una chiamata in campo della militanza cattolica?
La parola maggiormente presente nella cultura cattolica delle origini, in Sturzo come in Murri e poi, dopo, in La pira e fino a Moro è Responsabilità ed essa fa anche da sottotitolo al libro di D’Ubaldo e Fioroni. Ma possiamo parlare di responsabilità verso un rinnovato impegno futuro senza assumerla anche per riesaminare la nostra azione passata?
Ci prendiamo o no la responsabilità, per la nostra parte, di un declino che iniziò ormai trent’anni fa e che non siamo riusciti, né dal governo, né dall’opposizione a contrastare, oppure scarichiamo tutte le colpe sui populisti?
La lotta di Sturzo contro le tre malattie diaboliche della politica sembra appartenere ad un lontano passato e in troppi ci siamo assuefatti ad una situazione, ormai così lontana da quel profilo morale, considerata, sotto sotto, standard. La forma partito che abbiamo scelto e praticato non ha nulla che vedere con la sottomissione della politica alle istanze elettoralistiche e relative correnti?
Tutti diciamo che la più grande differenza tra una forza politica organizzata come partito e i populisti sia nella presenza o meno, nel processo democratico, del ruolo dei corpi intermedi, sindacati ed enti locali soprattutto. Ebbene, mentre ne riproponiamo la funzione vitale ai fini del tessuto democratico, forse è il momento di ripensare il nostro stesso atteggiamento verso i sindacati, per esempio, troppo spesso liquidati e incolpati del mantenimento di tutti i corporativismi e massimalismi. O verso gli Enti Locali che troppo spesso guatiamo come il leone una preda. In questi grandi filoni di società civile, in questi grandi corpi intermedi, non è forse arrivato il momento di stare con abiti francescani, disposti ai necessari, pur dolorosi, sacrifici?

Nicola Zingaretti ha più volte parlato a favore di un grande partito di sinistra che, solo negli ultimi anni, sarebbe stato portato alla rovina da Renzi. Con tutti i limiti che non abbiamo mai smesso di rilevare in Renzi, noi pensiamo esattamente il contrario e cioè che Renzi abbia tentato un’opera di modernizzazione che ha visto proprio nel fuoco amico del suo stesso partito il primo avversario.

Su questi temi, al di là dei problemi stringenti, il PD dovrà avviare un dibattito congressuale straordinario alla ricerca di nuove identità programmatiche e nuovi protagonisti. Non è neanche detto che un dibattito del genere possa avere esiti, pur nelle differenze, unitari. La scelta obbligata di una linea radicalmente riformista, con un programma di cambiamenti urgenti a livello istituzionale ed elettorale, con obiettivi di riforma profonda nella politica fiscale, in quella energetica ed infrastrutturale, ponendo al primo posto il rientro da un debito pubblico il cui servizio costa, ogni anno, 70 – 80 miliardi di euro inesorabilmente sottratti a qualsiasi politica di rilancio dello sviluppo, porterà inevitabilmente all’ emergere di opzioni ed obiezioni ancora inclini al massimalismo. Per non parlare delle diversità connesse alle diverse visioni della forma partito da assumere.
A valle di una vera e propria rifondazione di questo tipo potranno essere compiute in modo più solido le alleanze e le scelte di schieramento più opportune tra culture distinte ma non distanti. Per adesso, la strada dell’opposizione è semplicemente obbligata.

Caritas: la povertà a Roma sta aumentando

La povertà a Roma sta aumentando. Lo si legge nel Rapporto 2018 sulle povertà elaborato per il secondo anno dalla Caritas di Roma.

Sono, infatti, 21.149 le persone che a Roma hanno chiesto aiuto alla Caritas nell’ultimo anno.

Il lavoro e la casa sono le richieste più diffuse: quasi il 60% degli utenti chiede un lavoro mentre il 61,3% chiede un sostegno per pagare la locazione abitativa, la voce di spesa di maggior peso per le famiglie. Le persone che si rivolgono alla Caritas hanno bisogno di “essere ascoltate” perché “è la solitudine, la mancanza di relazioni umane, il non essere considerati degni di attenzione, la cosa che più lamentano gli ultimi”.

Tra i bisogni principali svetta la questione del reddito inadeguato, dunque la povertà materiale che registra quasi l’80% delle persone che bussano alle porte di Caritas. Ma sono presenti anche problemi come “isolamento, precarietà abitativa, gestione economica inadeguata, fragilità psicologica, malattie, bassa scolarità, conflittualità familiare, disinformazione rispetto ai propri diritti”.

A Roma, in particolare, il reddito individuale imponibile medio si distribuisce in maniera profondamente diseguale: si va dai 40.530 del II Municipio ai 17.053 del VI Municipio (dunque meno della metà rispetto al primo municipio in classifica). Nel complesso meno del 2% (1,8) denuncia un reddito di oltre 100.000 euro l’anno, mentre il 51,3% possiede un reddito fino a 15.000. euro.

Vicenza: “Verso un’Europa migrante”

Creare momenti di dialogo e confronto sul tema delle migrazioni e comprendere a fondo le ragioni che spingono migliaia di persone a spostarsi dai propri Paesi d’origine, ma anche promuovere una visione comunitaria del fenomeno migratorio. Sono gli obiettivi di “Verso un’Europa migrante”, un ciclo di sei incontri che si terrà a Vicenza nei prossimi mesi e che sarà rivolto a tutta la cittadinanza. Una rassegna che si pone in continuità con l’esperienza biennale di “Verso una città migrante”, iniziata nel 2017.

Il primo appuntamento è in programma per il 22 gennaio alle 20.30 al Centro Culturale San Paolo di viale Ferrarin con padre Camillo Ripamonti, presidente dell’associazione Centro Astalli di Roma, e Simone Varisco della Fondazione Migrantes. I due ospiti tratteranno i dati e i numeri del fenomeno migratorio in un’ottica che va oltre i pregiudizi fornendo un’analisi realistica e puntale della situazione in Italia e in Europa.

La seconda data della rassegna, poi, è prevista per il 18 febbraio alle 20.30 al Centro dei Ferrovieri di via Rismondo con l’incontro dal titolo “Un’invasione che non si ferma”. Fabio Butera, giornalista che collabora con La Repubblica e autore del reportage sul caso della nave Trenton, incontrerà Nello Scavo, inviato di  Avvenire che lo scorso ottobre è stato inviato a bordo della Missione Mediterranea.

Il Polo giovani B55, in Contrà Barche, invece, farà da cornice al terzo appuntamento in calendario per il 18 marzo. Sempre a partire dalle 20.30 Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale e vincitrice del premio “Anna Lindh Foundation Award” con il reportage “La barca senza nome”, spiegherà cosa c’è da sapere oggi sull’immigrazione.

“La quotidiana storia di un medico a Lampedusa” è il titolo del quarto appuntamento, che si terrà il 15 aprile nella Sala dell’Arco del Palazzo delle Opere Sociali di Piazza Duomo (ore 20.30). Ospite della serata il dottor Pietro Bartolo, direttore del Presidio Sanitario e Poliambulatorio di Lampedusa, che dall’inizio degli anni Novanta ha curato migliaia di uomini, donne e bambini sbarcati sull’isola. Bartolo è stato anche uno dei protagonisti del docufilm di Gianfranco Rosi “Fuocoammare” (vincitore dell’Orso d’Oro di Berlino).
Si continua il 6 maggio nella sede del Centro e Documentazione e Studi di Presenza Donna, in contra’ Mure Pallamaio. Alle 20.30 Laura Silvia Battaglia, giornalista e documentarista specializzata in Medio Oriente e zone di conflitto, condurrà l’incontro “Yemen, una guerra con armamenti italiani”.

L’ultimo appuntamento il 13 maggio negli spazi di Porto Burci (Contra’ dei Burci, 27) alle 20.30.

La rassegna, organizzata con il patrocinio del Comune di Vicenza, è promossa da Non Dalla GuerraCentro Astalli Vicenza, Centro Culturale San Paolo-Vicenza, Cittadini per Costituzione, Cooperativa Pari Passo, Incursioni di Pace-Rete Progetto Pace Vicenza, Migrantes, Movimento dei Focolari Veneto, Pax Christi, Presenza Donna. 

CO-GOVERNANCE: corresponsabilità nelle città oggi

Dal 17 al 20 gennaio 2019, 400 amministratori, cittadini, economisti, esperti e
professionisti di tutto il mondo si incontreranno a Castel Gandolfo (Roma): quattro giorni
di confronto e approfondimento sulla gestione delle città, fare rete e imparare modelli di
sostenibilità e convivenza.

Interverranno, tra gli altri, pensatori e protagonisti del lavoro nelle città, che rifletteranno sul loro significato in quest’era ‘post-democratica’ come Emilce Cuda, argentina, politologa e profondamente conoscitrice del pensiero di Papa Francesco o l’ on. Sunggon Kim (김성곤) – buddista, già Segretario Generale dell’Assemblea Nazionale Coreana. Sarà presente
l’architetto Ximena Samper, colombiana, l’on.Ghassan Mukheiber, libanese, Chairman
dell’Arab Region Parliamentarians Against Corruption. Da segnalare anche la presenza del
Sindaco di Katowice (Polonia) dove si è appena conclusa la COP 24, il responsabile
dell’accoglienza ai rifugiati della Catalogna, Angel Miret e il Presidente della Comunità islamicadi Firenze e della Toscana, Izzedin Elzir.

Se governare le città è sempre stata un’arte complessa, oggi lo è ancora di più. Occorre
rispondere a una società che cambia senza sosta, attraversata da problemi locali e globali e da un ritmo di sviluppo tecnologico convulso che rischia di aprire abissi economici e zone inedite di nuove povertà. Occorre decidere per oggi e programmare a lunga distanza. È per questo che le città sono strategiche dal punto di vista politico e culturale perché sono “casa” per più della metà della popolazione mondiale (fonte Onu) e non è una scelta libera, ma spesso legata a mancanza di cibo e lavoro.

In questa epoca di sovranismi, le città stanno emergendo come veri e propri hub sociali,
distributori di infinite connessioni: civili, politiche, antropologiche, economiche, comunicative. Le città, dunque, come espressione di un nuovo modello identitario, dove identità non fa rima con localismo o nazionalismo esasperati, ma con partecipazione, condivisione dell’appartenenza a una vicenda comune, perché siamo parte della famiglia umana, prima ancora di prendervi parte.

Bankitalia, a novembre nuovo record del debito pubblico: 2.345,3 miliardi

Nuovo record per il debito pubblico italiano. A novembre è aumentato di 10,2 miliardi rispetto al mese precedente, risultando pari a 2.345,3 miliardi. E’ quanto si legge nel supplemento al Bollettino Statistico “Finanza pubblica, fabbisogno e debito” di Bankitalia.

L’incremento segnato nel mese di novembre è andato a finanziare il fabbisogno del mese (5,8 miliardi) e l’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (3,3 miliardi, a 51,9). Bankitalia precisa che l’effetto complessivo degli scarti e dei premi all’emissione e al rimborso, della rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e della variazione dei tassi di cambio ha inoltre incrementato il debito di 1,2 miliardi.

In riferimento alla ripartizione per sottosettori, la variazione del debito ha sostanzialmente riguardato le amministrazioni centrali, aggiungono a via Nazionale, specificando che il debito delle amministrazioni locali e quello degli enti di previdenza sono rimasti pressoché invariati.

Milano al top in Italia per nascita di imprese innovative e hi-tech

Nel Belpaese il 15% di tutte le start up innovative  nasce  nel capoluogo lombardo.  A snocciolare i dati, la scorsa settimana, è stato l’assessore alle Politiche per il lavoro, le attività produttive e il commercio, Cristina Tajani in occasione della presentazione dei risultati raggiunti grazie alle azioni messe in campo dal Comune di Milano in questi ultimi anni. Nel periodo 2012-2018 sono state 1.169 le imprese sostenute, a vario titolo, dall’Amministrazione: 573 nuove imprese, ovvero realtà costituite da meno di un lustro (di cui 238 start up innovative) e 596 costituite prima del 2013. Piccole aziende che hanno permesso la creazione di 8.812 posti di lavoro capaci di generare complessivamente un fatturato di oltre un miliardo di euro.

I settori che maggiormente vedono impegnate le nuove imprese sono: i servizi (52%); il commercio (35%); l’artigianato (11%). Un dato quest’ultimo che evidenzia come sul territorio cittadino si stia assistendo ad un progressivo ritorno del manifatturiero leggero, settore che grazie all’uso diffuso delle nuove tecnologie 4.0 permette, soprattutto a molti giovani, di trasformare la propria creatività in idee, progetti e oggetti che incontrano il gusto e il gradimento di molti acquirenti. In sei anni, le imprese innovative che fanno dell’utilizzo delle nuove tecnologie il loro elemento caratterizzante, sono passate dal 6% del 2012 al 20% del 2018, una percentuale degna di nota.

In questi anni attraverso i suoi provvedimenti il Comune di Milano ha messo a disposizione delle imprese risorse che superano i 16 milioni di euro complessivi. In particolare 11,5 milioni destinati alla nascita di nuove imprese, circa 3,2 milioni di uro rivolti ad imprese già consolidate e 1,9 milioni per gli incubatori e acceleratori d’impresa presenti sul territorio: Polihub (ICT,Web,High Tech), SpeedMI-Up (Management), FabriQ (Innovazione sociale) e Milano Luiss Hub For Makers&Student.

Due i provvedimenti attuati dall’Amministrazione municipale che, nel corso del 2018, hanno reso possibile il sostegno e la nascita di 35 nuove realtà imprenditoriali: Metter su Bottega e FabriQ Quarto. Il primo teso a valorizzare, animare e far crescere le periferie, soprattutto in zona Niguarda, grazie all’apertura di nuovi laboratori artigiani, imprese commerciali o di servizi, incentivando anche l’autoimprenditorialità femminile e il commercio di vicinato. Il provvedimento si è avvalso di una dotazione di 1,4 milioni di euro a favore dei neo imprenditori e ha visto 40 domande di partecipazione, per 29 progetti ammessi (22 dei quali, di imprese a prevalenza femminile) con un’età media di 39 anni. Ciascuna iniziativa ha ricevuto dall’Amministrazione un finanziamento medio di 36.000 euro.

Il secondo è “FabriQ Quarto”  che ha portato con sé una dotazione di 270.000 euro per finanziare piani d’impresa ad alto impatto sociale, con la volontà di rispondere ai bisogni degli abitanti del quartiere, sperimentando nuovi modelli di business tra sostenibilità economica, creazione di lavoro ed effetti d’inclusione sociale sul contesto territoriale nelle zone di Quarto Oggiaro, Villa Pizzone, Bovisa, Bovisasca, Comasina, Affori, Bruzzano e Dergano. A tale riguardo, sei le idee progettuali  ammesse (su un totale di 27 domande) che riceveranno un finanziamento che andrà da un minimo di 35.000 euro ad un massimo di 45.000. I programmi partiranno dalla rilevazione della qualità dell’aria che si respira nel quartiere (progetto “Wiseair”)  per arrivare all’attivazione di spazi in cui unire l’attività fisica alla pratica ormai diffusa del lavoro (“Active & Cowo”) passando per la creazione di un’area destinata a servizi di orientamento, formazione e promozione delle relazioni tra i cittadini (“Questo non è un bar”). Vi sarà inoltre la creazione di un luogo per i tradizionali servizi di “portierato” (“Apriamo bottega”), la valorizzazione e messa in rete del patrimonio culinario nei quartieri con l’obiettivo di soddisfare la domanda di “cibo come a casa” (“Amore & sapore”), nonché la rivisitazione del classico “Drive in” per la fruizione del cinema attraverso il riutilizzo e l’animazione di spazi urbani ormai dismessi (“Drive in Bovisa”).

Oltre al contributo economico ogni progetto avrà una propria estensione all’interno di FabriQ, il primo incubatore del Comune di Milano dedicato all’innovazione sociale, e potrà contare su un percorso di accompagnamento personalizzato della durata di quattro mesi oltre ad un aiuto nell’incontrare potenziali investitori economici. Le azioni per il sostegno alla nascita e sviluppo delle imprese proseguiranno anche nel corso di quest’anno in linea con le disponibilità di bilancio dell’Amministrazione.

Coreografia per una mostra

Coreografia per una mostra si concentra in modo inedito sull’intima matrice performativa della pratica fotografica di Mapplethorpe, sviluppata, nel concetto e nella struttura di questa mostra, come un possibile confronto fra l’azione del “fotografare” in studio (nell’implicazione autore / soggetto / spettatore) e del “performare” sulla scena (nell’analoga implicazione performer / coreografo / pubblico).

Questa “coreografia” espositiva si articola in tre sezioni fra loro connesse. All’inizio un’Ouverture, nella sala d’ingresso e nelle due sale attigue, che ridisegnano lo spazio-tempo del museo infondendogli un’ispirazione teatrale, tesa nel gioco di sguardi fra le due “muse” mapplethorpiane, femminile e maschile, Patti Smith e Samuel Wagstaff Jr.

A seguire, nelle cinque sale iniziali e nelle sei sale finali (prima sezione), il pubblico è introdotto direttamente sul palcoscenico di questo “allestimento per immagini” – fra balleriniatletibody-buildersmodelle e modelli – esplorando la performatività del soggetto fotografatoche Mapplethorpe riprendeva con un’accurata preparazione nel suo studio.

Le due sale che precedono e seguono la sala centrale (seconda sezione) portano il pubblico in una potenziale platea, analizzando il ruolo del visitatore e il suo desiderio ritrovato nello sguardo di decine di ritratti che, nel loro complesso, non solo ci restituiscono uno straordinario diario personale della vitadegli affettiamicizieincontricollaborazioni e commissioni dell’artista, ma al contempo ricostruiscono, fra dimensione privata e sfera pubblica, un affresco collettivo della società newyorkese e del jet-set internazionale fra gli anni Settanta e Ottanta del XX secolo.

Tra i volti di questa platea “viva”: John Mc Kendry (1975); Arnold SchwarzeneggerPhilip Glass con Robert Wilson e David Hockney con Henry Geldzalher (1976); Deborah Harry(1978); Carolina Herrera (1979); Francesca Thyssen (1981); Louise Bourgeois e il gallerista della Pop Art Leo Castelli (1982); Doris SaatchiAndy Warhol, Francesco Clemente Lucio Amelio (1983); Susan Sontag (1984); Norman Mailer (1985), Louise Nevelson (1986), Laurie Anderson (1987); oltre alle immagini di ballerini e coreografi come Lucinda Childs, Gregory Hines, Bill T. Jones, Molissa Fenley e i danzatori dell’NYC Ballet.

La sala centrale (terza sezione) – dominata da un tappeto rosso per danzatori e da una sequenza di autoritratti di Mapplethorpe – si trasforma in un vero e proprio teatro tridimensionale, in cui, congiungendo fra loro tutti i temi della mostra, la performatività diviene coreografia contemporanea e attuale, con al centro lo stesso artista.

Integrano questa sezione, come due spazi di retro-scena, due sale attigue alla sala centrale: l’(Un)Dressing Room, un vero camerino allestito, dove i performer si scaldano prima dell’esibizione, che ospita alcune immagini che ci introducono nella dinamica dello studio dell’artista, e la X(Dark) Room (vietata ai minori), in cui sono esposte le opere più “segrete ed estreme” a soggetto erotico, fra cui una selezione del famoso Portfolio X.

I vari soggetti di Mapplethorpe, anche i più controversi come le immagini S&M del Portfolio X, sono protagonisti di una messa in scena che rivela continui e sofisticati richiami alla storia dell’arte, in cui evocano archetipi e soggetti universali. Le riprese fotografiche avvenivano, del resto, prevalentemente nell’intimità dello studio di Mapplethorpe, dove l’artista predisponeva accuratamente sfondi ed elementi scenografici, insieme a un rigoroso disegno luci, per astrarre in un “tempo senza tempo” il soggetto fotografato.

I tumori non sono più invisibili

Per la prima volta è stato neutralizzato il “mantello dell’invisibilità” dei tumori, ossia l’abile travestimento molecolare che le cellule malate indossano per nascondersi e sfuggire al ‘checkpoint’ del sistema immunitario, distruggendolo sul nascere. Il risultato parla italiano e promette una nuova strada per curare la malattia. Il composto che blocca il travestimento è già in sperimentazione sull’uomo.

Pubblicato su Nature Medicine, lo studio si deve ai ricercatori dell’università della California a San Francisco, guidati dall’italiano Davide Ruggero. «Abbiamo trovato un nuovo punto debole del cancro, per distruggere le sue cellule» ha detto Ruggero. «Abbiamo capito – ha aggiunto – come le cellule dei tumori producono specifiche proteine importanti per la loro crescita. Una di queste è la proteina PD-L1 che rende le cellule cancerogene invisibili dall’attacco del sistema immunitario».

La ricerca infatti rientra nel campo dell’immunoterapia dei tumori, un trattamento promettente, che ‘reclutà il sistema immunitario per combattere la malattia. Una classe di farmaci, chiamati «inibitori del checkpoint», prende di mira queste proteine e ne blocca l’attività, per rendere i tumori visibili e vulnerabili agli attacchi del sistema immunitario. Uno di questi farmaci blocca proprio PD-L1, tuttavia non è efficace nella cura di tumori molto aggressivi come quello del fegato e di altri, come del colon, polmone e linfoma. La ricerca del laboratorio di Ruggero offre un’alternativa e punta a uccidere le cellule di questi tumori molto aggressivi «bloccando per la prima volta, non l’attività delle proteine, ma la loro produzione» ha rilevato il ricercatore originario di Catanzaro che da anni lavora negli Usa.

Augusto Gregori: “il futuro è qui e ora. Roma ci aspetta”

Gregori, partiamo da Roma. Come giudica la situazione attuale?

Roma oggi è ai margini del processo decisionale in cui sono coinvolte le grandi capitali europee e mondiali. Al di là dei drammi organizzativi che sono sotto gli occhi di tutti, Roma è fuori da un progetto di sviluppo mondiale che le grandi città del globo, assieme, stanno portando avanti sulla base di principi economici e di sostenibilità ampiamente condivisi. La collocazione di Roma tra le grandi città globali non è solo un obiettivo effimero da campagna elettorale, o un lusso inutile in questo periodo di crisi, ma una delle condizioni indispensabili per poter influire, da protagonista, nel contesto internazionale dal quale manca da troppi anni. La nostra città deve avere nuovamente un posto prestigioso al tavolo delle politiche europee di sviluppo economico ed urbano, dal quale oggi è più che mai assente, anche a causa dello scarso prestigio di chi la rappresenta. Questo si raggiunge con un’idea forte e credibile del suo sviluppo futuro. Il governo locale non può continuare a far finta di non vedere.

E qui arriviamo ad “ideaRoma”. Di cosa si tratta?

IdeaRoma ha l’obiettivo di rifondare il modello di lavoro, rivoluzionando al contempo il modo di fare politica oggi a Roma. Il principio da cui partiamo è piuttosto semplice: chi amministra una città, deve conoscerne a fondo ogni aspetto. Oggi viviamo troppo spesso di slogan. Vogliamo partire dalla promozione e dal supporto dell’elaborazione di ricerche, analisi, studi e proposte, condivise con tutte le realtà coinvolte, per avere una visione della città completa e più vicina alle reali esigenze dei cittadini. Non esiste buona Politica senza una buona preparazione. Ci sono amministratori, oggi anche all’opposizione ed al governo di alcuni Municipi, oltre a tante realtà civiche, dell’associazionismo, del mondo imprenditoriale e universitario, che hanno le competenze giuste per aiutarci a ripartire. Mettendo a sistema queste energie, vogliamo costruire una nuova visione della nostra città, che torni ad attrarre persone e imprese da tutto il mondo.

L’idea è nobile. Ma qual è il piano di realizzazione, per evitare che non rimanga l’ennesimo “slogan” elettorale?

Ci tengo a specificare che siamo aperti all’ascolto, a collaborare per la città. Il progetto non è finalizzato a vincere le elezioni domani. Vogliamo incidere oggi su Roma e potenziarne l’azione, svolgendo il ruolo di opposizione costruttiva e responsabile, dando sempre più forza ai nostri rappresentanti che ogni giorno combattono in Campidoglio e nei municipi. Nonostante la nostra vocazione maggioritaria, vogliamo oggi ripartire dal concetto di “metterci al servizio”, con idee e progetti vincenti. Roma prima di tutto. La campagna elettorale avrà i suoi tempi, e svolgerà il suo corso a tempo debito…

E dunque?

La vocazione globale della Città Eterna, da sempre caratteristica della sua natura, va riletta ed interpretata alla luce della contemporaneità.

C’è la disperata esigenza di una visione chiara e netta del modello di sviluppo strategico sul quale concentrare progetti e investimenti pubblici e privati, soprattutto visto il momento di transizione che stiamo attraversando a livello mondiale. Quindi dobbiamo comprendere le sue prospettive di cambiamento su tutti i fronti ed in tutti i settori.

Partiamo dunque dall’ascolto! Partire dalla profonda conoscenza di cosa è importante per la città è il punto di partenza per (ri)progettare, ed offrire al contempo una vera “Idea” di futuro, lavorando senza dimenticare la storia ultra millenaria di Roma, suo inestimabile patrimonio.  E questa è “ideaRoma”, utile ad arginare il processo di progressiva “desertificazione” economica di Roma.

Facciamo un passo indietro. Cosa manca secondo lei al modello di governance romano?

Per il miglioramento dell’amministrazione capitolina, con le sue tante specificità, bisogna essere in grado di offrire una gestione della cosa pubblica adeguatamente modulata. Questa deve essere interpretata e sostenuta da parte dei componenti degli organi più prossimi ai territori. Per questo i Municipi di Roma vanno resi maggiormente partecipi nella vita amministrativa della città, poiché oggi, nonostante gli alti costi sostenuti dalla collettività per la loro esistenza, sono ben pochi i risultati che è consentito ottenere alle giunte municipali; troppo spesso in ostaggio dei soffocanti limiti posti alle loro ristrette competenze.

E’ giusto regolamentare, ma senza rendere le regole un argine all’efficacia dell’azione politico-amministrativa da parte dei Municipi. Lasciando le cose come sono attualmente, al contrario, prevarrà l’idea che le domande dei cittadini all’amministrazione non saranno più raccolte dall’interlocutore preposto, e dunque cadranno nel vuoto. Ricordiamo che gli enti municipali hanno un costo elevato, e ricoprono un numero limitato di competenze. Bisogna invece che questi ultimi possano incidere e siano messi nelle condizioni di poter fare, prima di ogni cosa.

E’ un progetto certamente ambizioso. Pensate di far collaborare la Città intera al suo rilancio, in questo processo di nuovo decentramento amministrativo?

Il decentramento amministrativo si è rivelato un progetto ambizioso, ma non è stato mai completato nel suo complesso. La competenza degli organi municipali è tanto più importante, quanto più i luoghi da amministrare sono prossimi alla vita delle persone. Questo perché solo l’amministrazione più vicina al territorio, quindi con organi elettivi composti da rappresentanti davvero locali, può dare il migliore indirizzo su alcune delle tematiche di maggiore interesse. Su tutte, la programmazione in merito alla valorizzazione di alcune aree non adeguatamente sfruttate.

Chi meglio degli organi di indirizzo municipale può decidere quali sono gli interventi migliori, per il mantenimento dei luoghi simbolo degli spazi urbani che valorizzano tutto quel che è circostante? Questo è uno dei trasferimenti di competenze che, almeno temporaneamente, andrebbe operato sovente da parte del Comune per avere a disposizione una migliore conoscenza dei territori ed un monitoraggio costante della situazione.

Torniamo a “ideaRoma”. Quali risultati pensate di poter realizzare per rendere concreta tale azione di riordino?

Ci tengo a fare una premessa: laddove i trasferimenti di competenze sono avvenuti, cosa non frequente, anche se prevista dal regolamento del decentramento amministrativo, i risultati sono stati soddisfacenti. In alcuni Municipi di Roma come il Terzo, il trasferimento di poteri è avvenuto ed ha portato buoni risultati. Sulla base di questo principio, il Municipio III ha emanato il Bando pubblico per l’assegnazione in concessione d’uso dell’immobile destinato a punto ristoro in Largo Fausta Labia, di proprietà di Roma Capitale, per l’utilizzazione di spazi commerciali e lo sviluppo di attività imprenditoriali. In tal modo si sono messe in moto tutte le forze produttive e sociali per sviluppare un modello di riqualificazione urbana attraverso un utilizzo produttivo di aree o immobili sottoutilizzati o abbandonati, al servizio di una crescita delle economie locali e della qualità urbana (contrastando il degrado), con azioni rivolte prevalentemente ai giovani e attraverso forme di innovazione sociale. Successi sfortunatamente sporadici, che vanno replicati su ampia scala.

Articolare significative azioni di questo tenore, coordinate tra Comune e Municipio, poi anche tra Municipio e Municipio (alcuni Municipi potrebbero cooperare tra di loro, soprattutto se confinanti) permette di recuperare un importante spazio di governo dei territori dando efficienza a tutta la città.

Questo rappresenta una buona esemplificazione di quanto la giusta sinergia tra Comune e Municipi possa aiutare a rendere un migliore servizio ai cittadini, facendo in modo che nessuno sia esautorato dal processo decisionale.

In conclusione, cosa direste ai romani? E qual è il primo passo di questa “chiamata alle armi”?

Ai romani vogliamo dire che questa è solo una delle tante idee che abbiamo per Roma, che deve tornare ad essere una metropoli VIVA (Vivibile, Innovativa, di Valore, Attrattiva). Siamo pronti a guardare avanti e ad iniziare il lavoro insieme a chi ci sta, con una idea condivisa ed aperta per la nostra città.

Per tutti questi motivi, nelle prossime settimane fisseremo il primo incontro pubblico con gli attori principali del panorama romano e i cittadini, dal quale inizieremo un tour   in tutti i municipi, per sviluppare l’idea condivisa della Roma che meglio si addice alla capitale d’Italia. Il futuro è qui e ora, Roma ci aspetta.

Card. Bassetti: “Noi cattolici non disertiamo le sfide impegnative”

Articolo già apparso sulle pagine di Agensir

“Vorrei arrivare all’Assemblea di maggio con un progetto condiviso, così che si possa dire: la Chiesa italiana non si lamenta, ma si prepara a fare di più e meglio”. È la proposta lanciata dal card. Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia-Città della Pieve e presidente della Cei, nell’introduzione al Consiglio episcopale permanente, dedicata tra l’altro ad alcuni temi politici del momento.

“Vorrei che sapessimo mostrare al Paese che noi cattolici non disertiamo le sfide impegnative di questo nostro tempo, convinti come siamo che possono essere affrontate e superate”,

l’auspicio del cardinale, che dice un “grazie” agli abitanti di Torre di Melissa, la piccola cittadina calabrese che ha saputo esprimere una “solidarietà corale” verso quella cinquantina di migranti in balia delle onde, esempio di accoglienza in controtendenza rispetto al dibattito attuale sulle migrazioni.

“Sui poveri non ci è dato di dividerci, né di agire per approssimazione”, il monito di Bassetti: “La stessa posizione geografica del nostro Paese e, ancor più, la nostra storia e la nostra cultura, ci affidano una responsabilità nel Mediterraneo come in Europa”.

Il secondo ringraziamento del presidente della Cei è riservato

“a quanti – non da ultimo le testate giornalistiche – si sono adoperati per evitare il raddoppio della tassazione sugli enti che svolgono attività non profit”.

“Il mondo del Terzo settore riveste nella società italiana un ruolo determinante”, sottolinea il presidente della Cei a proposito dell’Ires: “Più di ieri c’è bisogno di questa società civile organizzata, c’è bisogno dei corpi intermedi, di quella sussidiarietà che risponde alle povertà e ai bisogni con la forza dell’esperienza e della creatività, della professionalità e delle buone relazioni”.

“Governare il Paese significa servirlo e curarlo come se lo si dovesse riconsegnare in ogni momento”,

l’appello finale, a 100 anni dall’appello di don Sturzo. “Ai liberi e forti di oggi – l’attualizzazione di Bassetti – dico: lavorate insieme per l’unità del Paese, fate rete, condividete esperienza e innovazione”. “Come Chiesa assicuro che faremo la nostra parte con pazienza e coraggio, senza cercare interessi di bottega, per meritarci fino in fondo la considerazione e la stima del nostro popolo”, garantisce il presidente della Cei.

“Portiamo nel cuore le fatiche e le speranze della nostra gente, delle nostre Chiese e dei nostri territori, coinvolti come siamo dalla loro domanda di vita: domanda che ci interpella in prima persona, rispetto alla quale avvertiamo la responsabilità di non far mancare il contributo sostanziale di quell’esperienza cristiana che passa dall’annuncio credente e dalla testimonianza credibile del Vangelo”. Comincia con questo sguardo di condivisione l’introduzione del card. Bassetti al primo Consiglio episcopale permanente del 2019.

Di fronte a “venti che disperdono, provocando in molti confusione e smarrimento, ripiegamento e chiusura, dobbiamo impegnarci a lavorare meglio”, il primo appello ai cattolici: “Se la confusione è grande, non dobbiamo essere noi ad aumentarla; se ci sentiamo provocati o criticati, dobbiamo cercare di capirne le ragioni; se siamo ignorati, dobbiamo tornare a bussare con rispetto e convinzione; se veniamo tirati per la giacca, dobbiamo riflettere prima di acconsentire e fare”.

No, allora, allo scoraggiamento e alla sfiducia, a quella forma di male che, travestito da indifferenza, “si impadronisce delle paure per trasformarle in rabbia”: “Temo l’astuzia che si serve dell’ignoranza. Temo la vanità che avvelena gli arrivisti. Temo l’orizzonte angusto dei luoghi comuni, delle risposte frettolose, dei richiami gridati”. “La relazione cristiana non è un galateo o una lezione di buone maniere”: bisogna “pensare meglio e agire con discernimento e concretezza”, come ci esorta a fare il Papa.

“Quando il popolo è confuso, il modo migliore per rispondere al nostro dovere non è quello di proporre facili rassicurazioni,

lasciando capire che poi tutto s’aggiusta o che, comunque, altri sono quelli che devono pensarci”. Ai cattolici, il presidente della Cei chiede di confrontarsi con franchezza e “assumere con determinazione le scelte necessarie, così da essere non solo più efficienti, ma soprattutto più chiari e uniti”, senza limitarsi alle critiche. L’improvvisazione o il pressappochismo non fanno parte del patrimonio del cattolicesimo politico, la tesi del cardinale:

“Non possiamo limitarci a rincorrere l’attualità con comunicati e interviste; non possiamo perdere la capacità di costruire autonomamente la nostra agenda, aperti a ciò che accade – a partire dalle emergenze che bussano ogni giorno alla porta – ma fedeli a un nostro programma pastorale, che è poi il Vangelo di nostro Signore, incarnato in questo tempo”.

“Le nostre decisioni – spiega – devono seguire un metodo, supportato da un’idea forte e da continue verifiche, da un luogo di elaborazione culturale che non sia semplicemente una vetrina per proporre se stessi. Ci serve metodo anche per utilizzare al meglio le risorse materiali e finanziarie che i cittadini e i fedeli mettono a disposizione della Chiesa; ci serve metodo per interagire con le Istituzioni, in modo distinto e collaborativo; ci serve metodo per guardare avanti con fiducia e impegno”.

Dare più voce alle Conferenze episcopali regionali, una delle proposte: non per “grandi riforme”, ma per renderle maggiormente protagoniste e “maturare quell’arte del governo che rende tutti responsabili e gratifica chi compie al meglio il proprio dovere”. “Ripartiamo da questo stile sinodale, viviamolo sul campo, tra la gente, per consigliare, sostenere, consolare”, l’esortazione indirizzata ai vescovi: “Sarà, allora, più facile distinguere le buone idee dalle cattive, adottare i provvedimenti più incisivi, scegliere i collaboratori più validi”.

Spazio per l’Europa, spazio europeo nel mondo

Mancano pochi giorni alla 11ª conferenza annuale sulla politica spaziale europea (Bruxelles, 22-23 gennaio) che quest’anno ha come titolo “Spazio per l’Europa, spazio europeo nel mondo”.

Il contesto attuale presenta diversi nodi: la definizione del nuovo programma spaziale dell’Ue, con le sue ricadute sul piano finanziario pluriennale 2021-2027 ancora da adottare, è in discussione il Fondo strategico europeo di difesa e si attende la definizione del programma spaziale Space19Plus che il consiglio ministeriale dell’Agenzia spaziale europea (Esa) affronterà a fine anno.

Il programma dell’evento di Bruxelles prenderà le mosse dal confronto su “autonomia digitale europea come obiettivo strategico: il ruolo chiave della connettività nel fornire servizi spaziali”; si parlerà di indipendenza dello spazio europeo per la concorrenza e il settore commerciale. Un momento di confronto verterà su “Politiche dell’Ue strategiche per spazio autonomo, difesa e sicurezza”, per poi affrontare anche l’utilizzo degli strumenti spaziali per clima e ambiente, le radiocomunicazioni, il fondo europeo per la difesa, e da ultimo il tema degli sviluppi futuri dell’industria spaziale europea.

Sono attesi circa 1.200 partecipanti e oltre 60 interventi: si confronteranno autorità delle istituzioni europee, dei governi nazionali, rappresentanti delle organizzazioni internazionali e del mondo dell’industria.

La California vuole mettere al bando gli scontrini cartacei

Dopo buste di plastica e cannucce, la California prende di mira gli scontrini di carta e il loro impatto negativo sull’ambiente.

La proposta per abolire gli scontrini, che vanno sostituiti con le ricevute elettroniche, prevede multe a chi li emetterà senza un’esplicita richiesta del cliente. Il disegno di legge, se passerà, andrà in vigore nel 2022.

”Hanno un impatto negativo sull’ambiente e non possono essere riciclati”, dice il parlamentare democratico di San Francisco, Phil Thing, spiegando che la battaglia è anche legata ad alcuni degli agenti chimici usati per gli scontrini.

Secondo l’associazione ambientalista Green America, fino a 10 milioni di alberi e 79 miliardi di litri di acqua sono usati ogni anno negli Stati Uniti per gli scontrini, che generano diossido di carbonio pari all’avere un milione di auto sulla strada.

Programmazione nazionale per l’edilizia scolastica 2018-2020

Novantatre gli interventi che verranno finanziati con i 50 milioni di euro stanziati dal Miur. L’avviso pubblico per la presentazione dei progetti è stato pubblicato lo scorso 13 dicembre, ma dal 10 gennaio è disponibile online l’elenco degli interventi che hanno ottenuto il finanziamento. Costruzione di nuove palestre e messa in sicurezza di quelle esistenti è il leitmotiv delle 77 idee progettuali che riguardano il restyling (anche antisismico) delle strutture esistenti, le altre 16 iniziative prevedono invece la realizzazione di nuovi edifici.

L’elevato tasso di dispersione scolastica, l’assenza di strutture sportive e le condizioni di forte deprivazione territoriale sono stati, insieme al livello tecnico, alcuni dei criteri utilizzati per l’individuazione dei progetti da finanziare. Le regioni in cui verranno realizzate le 16 nuove palestre, che in alcuni casi sostituiranno edifici ormai inutilizzabili, sono: Abruzzo, Basilicata, Campania, Emilia Romagna, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana e Umbria.

I finanziamenti più ingenti andranno alla Lombardia (oltre 6,6 milioni di euro), alla Campania (5 milioni), alla Sicilia (4,6 milioni), al Lazio (4,1 milioni) e al Veneto (3,8 milioni di euro). Sardegna ed Emilia Romagna, rispettivamente con 16 e 12 piani di lavoro, sono le regioni nelle quali verranno realizzati più interventi; seguite da Basilicata, Campania e Lazio, tutte con 7 interventi ciascuna. “Il nostro impegno di rilancio dello sport all’interno della scuola italiana prosegue con costanza e determinazione – ha sottolineato il ministro Marco Bussetti -.

La pubblicazione dell’elenco dei progetti di nuova costruzione e di messa in sicurezza degli edifici esistenti è un altro passo importante, che guarda non solo all’aspetto didattico ma anche a quello della sicurezza, altro punto fermo del nostro operato”.

Maria Lai. Art in public space

La mostra “Maria Lai. Art in public space”, allestita negli spazi dell’ex convento del Carmelo, è visitabile fino al 31 gennaio, dal martedì alla domenica dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 19. L’esposizione temporanea, realizzata da Agave e Character e curata da Davide Mariani, recentemente nominato direttore della Stazione dell’arte di Ulassai, è dedicata all’intera produzione di arte pubblica di Maria Lai. Il percorso espositivo, firmato da Alberto Paba, si sviluppa nei tre piani dell’edificio, che ospitano oltre 150 opere, tra fotografie, studi e progetti. Non mancano i contenuti audiovisi, le proiezioni e le installazioni interattive.

La mostra è sostenuta dal Comune di Sassari e realizzata con il contributo della Fondazione Stazione dell’Arte di Ulassai e della Fondazione di Sardegna, in collaborazione con l’Archivio Maria Lai, ed è patrocinata dalla Presidenza del Consiglio Regionale della Sardegna e dalla Presidenza della Giunta Regionale della Sardegna.

La presenza di materiali inediti provenienti da archivi pubblici e privati è stata possibile grazie al coinvolgimento di tutti i comuni, sardi e non, in cui l’artista ha operato, a partire da Ulassai, il suo paese natale, passando per Aggius, Camerino, Carbonia, Castelnuovo di Farfa, Nuoro, Orotelli, Osini, Siliqua, Sinnai, Tortolì e Villasimius e della Cooperativa Teatrale Fueddu e Gestu.

Influenza: i sintomi

I sintomi dell’influenza sono quelli che tutti noi conosciamo. Si può manifestare sotto
forma di febbre oppure con dolori muscolari e alle articolazioni. Inoltre è frequente
una specie di “attacco” alle vie respiratorie che causa tosse, mal di gola e secrezione
nasale. Inne può essere accompagnata da una spossatezza che ci fa sentire
stanchi e particolarmente affaticati.

Il picco dell’influenza si registrerà questo mese. Stando al bollettino, con dati riferiti al 9 dicembre 2018, i più colpiti dalla sindrome influenzale sono i bambini: l’incidenza è pari a 6,88 su 1000 casi.

Si stima che dell’influenza possa seguire una curva epidemica molto simile a all’anno precedente. Per cui diventa fondamentale seguire i consigli degli esperti per evitare di essere colpiti dal virus.

Roma: Parrocchie, il corso “Metti a fuoco la carità!”

La Parrocchia SS. Annunziata e la Caritas diocesana di Roma propongono il percorso formativo “Metti a fuoco la carità!”. Dal 23 gennaio propongono quattro incontri indirizzati a tutti coloro che sono coinvolti, o volessero coinvolgersi, nel volontariato parrocchiale.

“Un’occasione preziosa – spiega il parroco, don Roberto Savoja – per riscoprire il senso del nostro essere carità, essere Chiesa, in un territorio”.

Gli incontri si svolgeranno il mercoledì dalle ore 18.30 alle ore 20, presso il teatro parrocchiale (via di Grotta Perfetta, 591).

Il programma:

23 gennaio: narrare la (nostra) carità
30 gennaio: alla scoperta dei bisogni e delle risorse del nostro territorio
6 febbraio: chiesa e carità
13 febbraio: carità e innovazione presso il teatro parrocchiale

Serena Andreotti: “Mio padre si pentì della legge sull’aborto”

Articolo già apparso sulle pagine della rivista www.interris.it a firma di Federico Cenci in cui Serena Andreotti “schiera” idealmente la figura del padre alla “opposizione” di questo quadro politico, nazionale e internazionale.

Avrebbe compiuto cent’anni oggi. Ma Giulio Andreotti ha attraversato la storia d’Italia condensando su di sé esperienze storiche talmente importanti da sembrare più longevo di un secolo. Sul suo conto è stato detto e scritto tanto. Encomi e denigrazioni, miti e sospetti si sono avvicendati freneticamente intorno alla peculiare sagoma del Divo Giulio. Per via di un carattere riservato, i suoi aspetti umani restano però imperscrutabili ai più. In Terris ha provato a conoscere l’Andreotti uomo, legato in modo indissolubile al politico, intervistando la figlia Serena, che insieme al fratello Stefano ne ha riordinato le carte dell’immenso archivio fino a recuperare un romanzo inedito del padre, Il buono cattivo, scritto tra il 1974 e il 1975 e ora pubblicato da “La nave di Teseo”.

Che padre era Giulio Andreotti?
“Era un padre molto particolare, in sostanza un gran padre. Era molto affettuoso, attento, quando eravamo piccoli ci viziava. Era anche un padre che stava spesso fuori casa, dunque lo vedevamo piuttosto poco, però la quantità di tempo scarsa era compensata da una qualità immensa”.

L’immaginario di molti italiani su suo padre è condizionato dal film “Il Divo”. Come reagì a quella pellicola?
“L’ha definita una mascalzonata. In genere il modo di parlare di mio padre era alquanto soft: già mascalzonata era un termine molto forte nel suo linguaggio”.

Suo padre fu ministro degli Esteri durante la vicenda di Sigonella. Oggi si parla molto di sovranismo; quello da molti è considerato un episodio in cui la sovranità italiana fu onorata dal Governo. Che ricordi ha di quei concitati giorni?
“In quei giorni credo che mio padre a casa non ci sia stato mai; i miei ricordi sono dunque legati a ciò che leggevo sui giornali, ascoltavo alla radio o vedevo in tv. A casa avemmo fin da subito il sentore che fosse in gioco una posta molto alta, pertanto furono giorni concitati anche per noi. Poi mi è capitato, ultimamente, mettendo a posto alcune carte all’archivio dell’Istituto Luigi Sturzo, di trovare dei documenti che dimostrano che alcuni aspetti di quella vicenda rimasero poco chiari per molte ore. Ad esempio, quando le autorità italiane concessero ai terroristi di scendere dalla nave Achille Lauro, non si sapeva ancora che a bordo c’era stata una vittima. Direi quindi che è stata una vicenda molto complicata, che testimonia però che l’Italia non si fece mettere i piedi in testa”.

E questo atteggiamento di forza da parte italiana potrebbe essere stato fatto pagare agli uomini di Governo di allora?
“Si è detto più volte che la vicenda di Sigonella potrebbe aver creato dei presupposti di inimicizia che poi hanno dato cattivi frutti anni dopo. Ma chi può saperlo con certezza? Siamo nell’ambito delle supposizioni, non ci sono prove. Direi che è inutile parlarne”.

Che rapporto aveva suo padre con la fede?
“Mio padre era molto credente. Andava a Messa tutti i giorni, dovunque si trovasse anzitutto chiedeva dove fosse una chiesa in cui poter andare per partecipare alla liturgia. Ma era una fede anche molto vissuta nella vita concreta, alimentata dall’aver conosciuto persone di straordinario livello. Aveva poi una devozione particolare nei confronti di Santa Teresa del Bambino Gesù e di San Josemaría Escrivá de Belaguer; il messaggio di quest’ultimo è chiaramente un invito al laico impegnato, che era la missione che babbo sentiva di dover svolgere”.

Quanto l’ha aiutato la fede durante il suo calvario processuale?
“Enormemente. Non credo che ce l’avrebbe potuta fare se non avesse avuto questa convinzione profonda che ciò che veramente conta è la giustizia divina e non quella umana”.

Si dice che Andreotti si pentì di aver firmato la legge 194 sull’aborto. È così?
“È vero. La legge è del 1978, quando anni dopo un ginecologo, credo fosse il prof. Adriano Bompiani, gli mostrò delle ecografie ostetriche, lui fu molto colpito e ne ebbe una pena enorme. Anche se allora la firma fu dettata dalla ragion di Stato, rimase per lui un rammarico”.

Che messaggio rivolge oggi la figura di suo padre all’attuale classe politica?
“Mio padre riteneva fondamentale studiare, informarsi, non improvvisare mai l’intervento su un qualsivoglia argomento. E poi riteneva altrettanto essenziale mantenere un tono medio, in modo da trattare avversari politici e compagni di partito con rispetto e pacatezza. Si tratta, a mio avviso, di insegnamenti che sarebbero molto importanti oggi”.

Giulio Andreotti che idea avrebbe dell’attuale contesto politico italiano?
“Non credo che gli piacerebbe, anzi ritengo che non gli piacerebbe per niente. Ma un simile sentimento lo avrebbe non solo verso l’Italia. Uno dei punti cardine della sua politica era un europeismo convinto, dunque anche la deriva che ha preso oggi l’Europa sarebbe per lui motivo di dolore”.

I 100 anni di Giulio Andreotti

Nei giorni scorsi avevamo già proposto questa intervista inedita,  che ripercorreva la storia del Ministero degli Interni, oggi per i 100 anni dalla nascita proponiamo questo nuovo contributo.

Cesare Battisti: si conclude una vicenda lunga e travagliata

La cattura in Bolivia del pluriomicida terrorista latitante Cesare Battisti è una ottima notizia.
È giusto dedicarla ai tanti servitori dello Stato democratico assassinati o ferirti durante la follia degli anni di piombo.
Non per spirito di vendetta ma per amore – e necessità – di giustizia. E per un dovere di credibilità delle istituzioni.
Occorre dare atto dell’impegno da sempre messo in campo da tutti i Governi italiani che si sono succeduti in questi decenni e di cui l’attuale Governo coglie oggi legittimamente i frutti.
È decisamente stucchevole la volontà del Ministro Salvini a rivendicare a se’ in via esclusiva il merito di questo auspicato epilogo. L’attuale Governo italiano non ha fatto altro che il suo dovere istituzionale, così come i Governi che lo hanno preceduto.
Ha avuto la fortuna – e tutti ce ne rallegriamo – di aver concorso alla conclusione di una vicenda lunga e travagliata. E di aver colto il frutto dei nuovi equilibri politici in Brasile.
Se come speriamo il latitante sarà subito estradato in Italia, si tratterà molto probabilmente dell’unica scelta apprezzabile e positiva della nuova Presidenza di destra di quel Paese.
In ogni caso, la notizia va salutata con viva soddisfazione “nazionale”, al di sopra delle parti, perché va nel senso della giustizia.

Popolari, Pd, Zingaretti e i cattolici

Senza alcuna presunzione e senza alcuna arroganza culturale e politica credo sia corretto chiarire qualche equivoco che continuano ad aleggiare quando si parla di Pd, di partito plurale e della prospettiva politica dei cattolici popolari.

Voglio essere volutamente schematico per essere il più chiaro possibile.

Le elezioni del 4 marzo scorso hanno archiviato, almeno per il momento, la stagione dei “partiti plurali”. Nello specifico mi riferisco alla vicenda del Partito democratico. Come, sul versante per così dire alternativo, si potrebbe tranquillamente parlare di Forza Italia. Ma, per fermarsi al Pd, e’ chiaro che la stagione del partito veltroniano e’ ormai alle nostre spalle. E mi riferisco, per essere ancora più esplicito, al tramonto della “vocazione maggioritaria”, del “partito plurale” come sintesi tra le grandi culture politiche del novecento, della identificazione tra il capo del partito e il candidato a Premier e della sostanziale cancellazione della “cultura della coalizione”. Cioè delle alleanze. Tutto semplicemente cancellato.

In secondo luogo, piaccia o non piaccia, sono ritornate le identità. Certamente rinnovate e modernizzate rispetto anche solo ad un recente passato. Ma sono ritornate. Innanzitutto la sinistra. Come dicono giustamente, e comprensibilmente, i due candidati alla segretaria nazionale del Pd, cioè Zingaretti e Martina. Ovvero, entrambi si impegnano e auspicano “la rifondazione, la riscoperta e il rilancio del pensiero e della cultura della sinistra italiana”. È ritornata, in chiave fortemente minoritaria, la sinistra radicale. Grazie alla intelligenza e alla abilità di Salvini e’ in campo una destra europea, moderna, di governo e chiaramente identificabile. Resiste una ideologia, la definisco così per comodità, antisistema, populista e fortemente antipolitica. Cioè i 5 stelle. In un quadro del genere può restare a bordo campo la cultura, la tradizione e la ricchezza ideale del cattolicesimo democratico, sociale e popolare del nostro paese?

In ultimo, la domanda di un rinnovato protagonismo – ovviamente laico, aconfessionale, riformista e moderno – dei cattolici italiani, nel pieno rispetto di un ormai consolidato ed acquisito pluralismo della scelte politiche, richiede una risposta credibile. Politica e forse, adesso, anche organizzativa. Una domanda che non parte dall’alto di qualche pulpito. Certo, anche da alcuni settori della gerarchia. Ma soprattutto dalla base, da settori sempre più consistenti dell’associazionismo, da una moltitudine di elettori delusi e senza più alcuna rappresentanza politica credibile e coerente e da persone, gruppi sociali e “movimenti civici” che non intendono più, nell’attuale fase storica italiana, consegnare agli archivi una storia e una cultura politica che continua a conservare una bruciante attualità e anche modernità. Anche e soprattutto nell’affrontare e cercare di risolvere i problemi che attraversano la società contemporanea. E a questa domanda politica, quindi, va data una risposta politica.

Ecco perché, di fronte al tentativo, peraltro legittimo anche se un po’ curioso, di Zingaretti e altri di accreditare il futuro Pd come partito che può farsi anche tranquillamente carico del popolarismo di ispirazione cristiana o della cultura cattolico democratica e sociale, e’ bene essere chiari e coerenti. Certo, il problema non riguarda quei popolari e cattolici democratici che hanno la necessità, e la priorità – peraltro comprensibili – di conservare e consolidare il proprio spazio di potere all’interno del futuro Pd, o Pds che dir si voglia. Comportamento ovviamente legittimo ma che non va affatto confuso con la riscoperta, la rifondazione e il rilancio della cultura politica popolare di ispirazione cristiana.

È giunto, cioè, il momento della chiarezza e anche del coraggio. Il profondo cambiamento della geografia politica italiana accompagnato da un nuovo riassetto delle varie forze politiche, ha definitivamente aperto una nuova fase. È inutile, e forse anche inconsapevolmente un po’ patetico, riproporre le stesse formule del passato fingendo che tutto è rimasto uguale rispetto ai tempi della fondazione del Partito democratico nel lontano 2007. Dopo la felice e feconda stagione veltroniana

c’è stata la lunga stagione renziana che ha sostanzialmente distrutto quel Pd e con il Pd anche il tradizionale centro sinistra. Pensare oggi, come mi pare sostengano a giorni alterni i futuri leader del Pd, che si può riportare tranquillamente indietro le lancette della storia, mi pare più una operazione da furbacchioni che non una credibile e consapevole operazione politica.

È cambiata una fase politica e storica. Dobbiamo prenderne atto tutti. Da Zingaretti ai Popolari, dal futuro Pds, oggi ancora Pd, al mondo cattolico seppur variegato e complesso, dagli altri partiti di centro sinistra allo stesso episcopato. Pensare che dopo il voto del 4 marzo tutto si può aggiustare oltre che un gesto politico irresponsabile sarebbe anche disonesto a livello intellettuale. E i futuri capi del Pd certamente non lo sono.

Il Papa battezza 27 neonati

Il compito che oggi ricevete è di trasmettere la fede ai vostri figli. E’ il forte invito che stamani Papa Francesco ha rivolto, nell’omelia a braccio, ai genitori dei 27 neonati a cui impartisce il Sacramento del Battesimo. La sua riflessione ruota sulla trasmissione delle fede ai figli.

Sì, quando andranno al catechismo studieranno bene la fede, impareranno la catechesi. Ma prima che studiata, la fede va trasmessa, e questo è un lavoro che tocca a voi. È un compito che voi oggi ricevete: trasmettere la fede, la trasmissione della fede. E questo si fa a casa. Perché la fede sempre va trasmessa “in dialetto”: il dialetto della famiglia, il dialetto della casa, nel clima della casa.

L’importante è trasmettere la fede con la vostra vita di fede: che vedano l’amore dei coniugi, che vedano la pace della casa, che vedano che Gesù è lì. E mi permetto un consiglio – scusatemi, ma io vi consiglio questo –: non litigate mai davanti ai bambini, mai. È normale che gli sposi litighino, è normale. Sarebbe strano il contrario. Fatelo, ma che loro non sentano, che loro non vedano. Voi non sapete l’angoscia che riceve un bambino quando vede litigare i genitori. Questo, mi permetto, è un consiglio che vi aiuterà a trasmettere la fede. È brutto litigare? Non sempre, ma è normale, è normale. Però che i bambini non vedano, non sentano, per l’angoscia.

Quindi, Francesco raccomanda ai genitori di allattare i bambini se hanno fame. Magari piangono per il caldo che sentono o perché hanno fame o per il “pianto preventivo”, perché non sanno cosa succederà, come una difesa:

Io vi dico: che siano comodi. State attenti a non coprirli troppo, e se piangono per fame, allattateli. Alle mamme dico: “Allattate i bambini, tranquille, il Signore vuole quello”. Perché loro – dov’è il pericolo? – che anche hanno una vocazione polifonica. Incomincia a piangere uno, e l’altro gli fa il contrappunto, e l’altro, e poi questo è un coro di pianto. E così andiamo avanti in questa cerimonia in pace con la consapevolezza che tocca a voi la trasmissione della fede.

Consumi: record di 9 mld per la frutta

Con l’arrivo del maltempo e la neve la corsa agli acquisti di agrumi contro l’influenza e alla preparazione delle zuppe di verdure e legumi “antigelo” conferma la svolta salutistica in atto tra gli italiani che ha portato nel 2018 a far segnare il record dei consumi di frutta e verdura degli ultimi venti anni, con quasi 9 miliardi di chili nel carrello, in aumento del 3% rispetto all’anno precedente. E’ quanto emerge da una analisi della Coldiretti sulle scelte alimentari degli Italia nell’anno appena concluso nel quale si evidenzia una decisa svolta salutistica nelle abitudini alimentari nazionali, con una ripresa delle vendite nei canali tradizionali e una forte crescita degli acquisti diretti dagli agricoltori in azienda o nei mercati di Campagna Amica.

Mai così tanta frutta e verdura sono state consumate in Italia dall’inizio del secolo per effetto soprattutto alle preferenze alimentari dei giovani che – sottolinea la Coldiretti – fanno sempre più attenzione al benessere a tavola con smoothies, frullati e centrifugati consumati al bar o anche a casa grazie alle nuove tecnologie

Se le mele – precisa la Coldiretti – sono state il frutto più consumato, al secondo posto ci sono le arance, mentre tra gli ortaggi preferiti dagli italiani salgono sul podio nell’ordine le patate, i pomodori e le insalate/indivie.

Da segnalare – continua la Coldiretti – il boom nei consumi di frutta a guscio, dalle noci alle mandorle fino al nocciole, con un aumento del 10% degli acquisti. La frutta in guscio infatti – precisa la Coldiretti – considerata in passato nemica della linea per l’apporto calorico è stata infatti rivalutata come preziosa alleata della salute ed i consumi sono dunque esplosi. In crescita del 4% anche la spesa delle verdure in busta, la cosiddetta quarta gamma, che garantisce maggiore per la praticità di consumo. Tra le tendenze si registra il forte aumento degli acquisti diretti dal produttore dove nel corso del 2018 hanno fatto la spesa 6 italiani su dieci almeno una volta al mese secondo l’indagine Coldiretti/Ixe.

Complessivamente la superficie italiana coltivata ad ortofrutta – sottolinea la Coldiretti – supera 1 milione di ettari e vale oltre il 25% della produzione lorda vendibile agricola italiana. I punti di forza dell’ortofrutta italiana sono l’assortimento e la biodiversità, con il record di 107 prodotti ortofrutticoli DOP/IGP riconosciuti dall’UE, la sicurezza, la qualità, la stagionalità che si esalta grazie allo sviluppo latitudinale e altitudinale dell’Italia, una caratteristica vincente per i prodotti ortofrutticoli del Belpaese.

La ricerca di sicurezza e genuinità nel piatto porta l’88% degli italiani a bocciare la frutta straniera e a ritenere importante scegliere nel carrello frutta e verdura Made in Italy secondo l’indagine Coldiretti/Ixè, visto che l’Italia è al vertice della sicurezza alimentare mondiale con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici irregolari (0,6%).

Sotto accusa sono invece le importazioni incontrollate dall’estero favorite dagli accordi commerciali agevolati stipulati dall’Unione Europea come il caso delle condizioni favorevoli che sono state concesse al Marocco per pomodoro da mensa, arance, clementine, fragole, cetrioli e zucchine o all’Egitto per fragole, uva da tavola, finocchi e carciofi. Accordi – continua la Coldiretti – fortemente contestati perché nei paesi di origine è spesso permesso l’uso di pesticidi pericolosi per la salute che sono vietati in Europa, ma anche perché le coltivazioni sono realizzate in condizioni di dumping sociale per il basso costo della manodopera.

Verificare l’origine nazionale per essere sicuri della stagionalità, preferire le produzioni locali che non essendo soggette a lunghi tempi di trasporto garantiscono maggiore freschezza, privilegiare gli acquisti diretti dagli agricoltori, nei mercati e nei punti vendita specializzati anche della grande distribuzione dove è più facile individuare l’origine e la genuinità dei prodotti sono alcuni consigli della Coldiretti per gli acquisti di frutta e verdura di qualità.

Istantanee di vita e ambiente nell’era dei cambiamenti climatici

Al Museo di Roma in Trastevere, attraverso un percorso di fotografie Greenpeace racconta come i cambiamenti climatici non riguardino solo Paesi e luoghi lontani da noi e come non siano così distanti nel tempo. È un processo ormai inarrestabile che tocca anche noi, protagonisti inconsapevoli di un cambiamento in cui, invece, dobbiamo avere un ruolo attivo. Lo scioglimento dei ghiacciai, infatti, riguarda l’Artico ma anche i ghiacciai italiani.

La desertificazione non è una questione interna al continente africano ma è presente anche in alcune zone d’Italia, così come l’innalzamento del livello del mare non riguarda solo le isole del Pacifico.

Una serie di foto scattate in Italia e in tutto il mondo da diversi fotografi che collaborano con Greenpeace, l’organizzazione ambientalista con la collaborazione del CNR, racconta come i cambiamenti climatici siano più vicini nello spazio e nel tempo di quanto immaginiamo.

Dalla siccità nel Sud Italia all’acqua alta a Venezia, dal tifone Hayan che ha devastato le Filippine all’innalzamento del livello del mare nelle isole del Pacifico, la rappresentazione degli impatti dei cambiamenti climatici è ampia, anche grazie all’impegno globale di Greenpeace (presente con i suoi uffici in oltre cinquanta nazioni) testimoniato in questa mostra da oltre 50 immagini provenienti da tutto il mondo.
Nubifragi, ondate di calore, siccità e tutti i fenomeni meteorologici estremi sono sempre più intensi e frequenti proprio a causa dei cambiamenti climatici.
L’unica soluzione secondo la scienza – come conferma Luca Iacoboni, responsabile campagna Clima di Greenpeace Italia – è quella di abbandonare carbone, petrolio e gas e accelerare la transizione energetica verso un mondo totalmente rinnovabile, oltre che diminuire il consumo di carne e fermare la deforestazione.

Anche la Basilicata. aderisce al Patto trasversale per la scienza di Burioni

L’Irccs Crob è tra i sottoscrittori del “Patto trasversale per la scienza” psul sito di divulgazione scientifica anti bufale “Medical facts” lanciato dall’immunologo Roberto Burioni.

Il Patto a carattere universale è a tutela della scienza e della ricerca scientifica ed è un appello a “tutte le forze politiche italiane, affinché sottoscrivano il seguente Patto Trasversale per la Scienza e s’impegnino formalmente a rispettarlo, nel riconoscimento che il progresso della Scienza è un valore universale dell’umanità, che non può essere negato o distorto per fini politici o elettorali”.

L’Irccs Crob, fino ad ora, è l’unico Istituto di ricerca sottoscrittore del Patto.

“L’Irccs Crob – spiega in una nota il direttore generale Irccs Crob Giovanni Battista Bochicchio – ha aderito con ferma convinzione al Patto trasversale per la scienza. Riteniamo che oggi sia quanto mai necessario porre un freno alla deriva delle pseudo scienze che ci inondano quotidianamente di fake news insinuando dubbi sull’efficacia delle cure mediche e della ricerca scientifica, mettendo così a rischio la salute pubblica. L’Irccs Crob è e sarà sempre a sostegno della scienza e della conoscenza”.

Studiare di più

Siamo davvero alla vigilia di un altro boom economico pari a quelli degli anni sessanta, come sostiene il Ministro Luigi Di Maio?

Qui siamo proprio nel campo della pura fantasia e, purtroppo, spiace dichiararlo, di una palese incompetenza sul versante degli studi economici. Di Maio, sfiora persino il ridicolo sostenendo quella tesi. Immagino che uno studente di economia al primo anno di università, lo potrebbe persino prendere in giro.

In cosa difetta il Ministro: nel non sapere alcuni fondamentali dell’economia. Un paese può crescere in modo vigoroso, intenso a patto che presenti alcuni parametri che consentirebbero la crescita indicata. Quali sono questi parametri? Indubbiamente, il grado di ricchezza complessiva del Paese in esame. In altri termini: quanto più un Paese è ricco tanto meno può crescere. L’Italia degli anni cinquanta e sessanta, era una realtà economica fortemente penalizzata, come del resto gran parte della Europa dal precedente conflitto mondiale e la sua struttura economica era ancora largamente caratterizzata dall’essere, almeno in alcune sue larghe parti, da uno sviluppo squisitamente agricolo. Questo aspetto permetteva, in ragione di una evidente debolezza economica, una possibilità di sviluppo enorme; quello che in effetti è capitato.

Tanto per rammentare, la crescita del Pil degli anni del cosiddetto boom economico, non saliva sopra il 3%, tanto per capirci.

La condizione attuale vede il nostro Paese, ancorché in difficoltà da dieci anni, completamente diverso da quello di cinquanta sessanta anni fa. La ricchezza media non è nemmeno confrontabile tanto è superiore quella attuale, rispetto a quegli anni. Quindi, un parametro fondamentale quale quella della ricchezza di un paese, non potrebbe mai, nello stato attuale delle cose, permettere all’Italia di raggiungere il boom economico di allora.

Serietà vuole, oso dire, serietà scientifica vuole, che da una crescita dell’1% nelle condizioni date, sarebbe già un ottimo risultato.

Che un vice primo Ministro della Repubblica italiana vada dicendo quel che ha detto, è sinonimo di un profondo malessere della classe politica attuale. Cadere nel ridicolo non fa bene ad alcuno e non fa bene nemmeno ai nostri connazionali sapere che un rappresentante del Governo cada in una condizione espressiva così pietosa.

Dall’Epifania al battesimo di Gesu’: con il “sacramento dell’illuminazione” si conclude il Natale

Il Cristianesimo adotta diverse “scansioni” temporali per celebrare il Battesimo di Gesù, il quale, pur nelle varie forme, ricorre sempre e comunque durante il mese di gennaio. E’ il sacramento che di fatto, annualmente, pone fine alle feste del Natale.

La Chiesa cattolica, secondo il rito ordinario romano, commemora l’evento nel corso della settimana che va dal 6 al 13 gennaio e lo conclude la domenica successiva alla festa di Epifanìa di Nostro Signore. I riferimenti biblici sono molto numerosi, e lo scenario ideale è rappresentato dal Giordano, fiume in cui Gesù fu battezzato. E’ per questo che il luogo dell’evento, bacino d’acqua che bagna Libano, Siria, Giordania, Israele e Palestina, regioni-simbolo del Cristianesimo, è da tempo ancestrale meta storica di pellegrinaggio; ed è secondo il Nuovo Testamento che Cristo riceve il battesimo da Giovanni Battista (Matteo, passi 3 e 11), il quale, inizialmente riluttante, si augura che vi sia un cambio di vita consistente nell’abbandono delle convinzioni per cui l’ebraismo debba rappresentare “gli eletti”. «Lascia fare per ora, poiché conviene che così si adempia ad ogni giustizia.»  è la risposta di Gesù all’asceta che lo interroga. Di conseguenza, come anche secondo Marco e Luca, la tradizione cristiana vuole che Gesù si converta alla volontà del Padre, riceva lo Spirito Santo (sotto le sembianze di una colomba) e inizi la sua missione di Messia.

Ma che tipo di tradizione ha il rito battesimale, che per i cristiani cattolici riveste un valore simbolico tra i più importanti di tutti le sacramenti religiosi? Nel IV secolo – sebbene i cristiani fossero ancora oggetto di discriminazione – questa osservanza divenne già una pratica diffusa grazie all’usanza di battezzare i catecumeni nel corso della Veglia di Pasqua. Le testimonianze affermano che il battesimo degli infanti fu introdotto successivamente con l’appellativo di “Sacramento dell’Illuminazione”, riferito alla ricezione degli insegnamenti da parte degli apostoli (gesto “illuminante”). Ovviamente, il Battesimo di Gesù, in relazione alle varie descrizioni e interpretazioni evangeliche, risulta essere molto diverso dal rito ordinario ecclesiastico contemporaneo (in latino Ordinis Baptismi parvulorum). Egli, nonostante sia senza peccato, è comunque sottoposto al sacramento e dà luogo al suo ministero tramite il viaggio in Galilea, durante il quale predica costituendo via via  i primi gruppi di proseliti.

Altro senso teologico e spirituale ha l’attuale celebrazione: l’infante riceve il battesimo per essere “iniziato”, ovvero per avere la facoltà di accedere ai successivi sacramenti. Ben diverso il significato che assume il rito compiuto da Gesù : Egli, uscito dall’acqua, vede aprirsi i cieli e vede scender su di Lui Dio, che intraprende col Figlio un rapporto di paternità. Scoprire e riscoprire alcuni valori, imparare il contenuto di antiche celebrazioni cristiane e – lasciatemelo dire – rileggere alcuni passi della Bibbia, è sempre affascinante. Ma soprattutto istruttivo.

Cambiare

Cambiare, vocabolo ambiguo, ha diversi significati e sfumature. Si può cambiare in meglio o in peggio. Cambiare come, perché, per chi? Potrebbe essere utile mettere a confronto quello che si vorrebbe cambiare col modello che si vorrebbe realizzare.

Il messaggio del Presidente della Repubblica, magistrale, consente di proporre qualche paragone nella logica del cambiamento. Ha richiamato, sobriamente e chiaramente, principi, valori e tradizione che sono il profilo del popolo italiano.

In controluce, chiunque fosse in buona fede, ha intuito e ‘visto’ le scelte proclamate – e “fatto!”- dal ‘governo del cambiamento’. Questo governo ha preparato per gli Italiani e l’Italia un programma – la legge di bilancio indica gli obiettivi e i relativi finanziamenti del programma di governo – che li fa arretrare economicamente, culturalmente e istituzionalmente. In questo senso alcuni provvedimenti bandiera della maggioranza inducono a temere questa deriva: il reddito di cittadinanza, il decreto sicurezza.

Il reddito di cittadinanza amplia il Rei (reddito di inclusione approvato dal governo Renzi). In che modo può ottenere risultati opposti alla finalità declamata? Sono affidati ai Centri per l’impiego le procedure per attuarlo. Anche a detta del governo, per ora, tali centri non sono abbastanza attrezzati. Meglio sarebbe stato prima rafforzarli. Il finanziamento è stato messo in bilancio. Nei diciotto mesi, nei quali si ottiene il reddito di cittadinanza, bisogna cercare lavoro, ma non è detto che chi è disoccupato trovi il lavoro per il quale è adatto. Sarebbe necessario piuttosto un periodo di formazione retribuito e, se poi venisse rifiutato il lavoro, cesserebbe il sostegno economico. Invece l’applicazione del reddito di cittadinanza, almeno per 18 mesi, potrà suggerire un lavoro ‘in nero’ o nessuna occupazione …Non è educativo il meccanismo che non spinge a trovare lavoro!

Inoltre vale la pena di ricordare che non è automatica anche la sostituzione di chi va anticipatamente in pensione con giovani, se questi non sono in possesso delle caratteristiche adatte. Il Paese ha bisogno di lavoro, prima del reddito. Un’altra bandiera, che purtroppo sventola con successo e non si sa fino a quando: il decreto sicurezza, che introduce due modalità applicative che preoccupano, la legittima difesa col possesso di armi “all’americana“ e la chiusura dei centri che ospitano immigrati richiedenti asilo. Vale la pena chiarire. Anche il Papa sostiene che una verità a metà è una bugia. È vero che il problema della immigrazione è un problema! Il Diritto Umanitario, la nostra Costituzione e la tradizione culturale del Paese hanno dato certamente fondamento alla attitudine alla accoglienza, ma per troppo tempo senza una strutturata metodologia di integrazione. Il rispetto della dignità umana e le emergenze di cui sono portatori gli immigrati esigono la messa in opera di procedure che salvano le persone bisognose di aiuto e insieme la sicurezza dei cittadini. Questi non hanno motivo di ritenere che sono stati ‘invasi’ ma se il ‘sentire’, la propaganda e la vista degli immigrati per le strade, suscitano sentimenti di paura o di reazione ‘razzista’ la politica deve – perché ha gli strumenti – rassicurare i cittadini, gli immigrati e gli organismi internazionali. “Aiutarli a casa loro” certamente, dove non ci sono guerre e carestie, con la nostra Cooperazione internazionale, che è di qualità. I migranti che fuggono da guerre o da post-guerre (di cui siamo responsabili come occidentali) devono avere con tempestività (non dopo mesi o anni) i documenti per rimanere in Italia o migrare altrove. Il ‘governo del cambiamento‘ aveva da modificare o abrogare le leggi Bossi-Fini, la Turco-Napolitano e proporre modifiche ai trattati europei. Col decreto sicurezza, invece, semplicemente gli immigrati irregolari vengono mandati in strada: quale sicurezza che non delinquano, che non infastidiscano i cittadini, ecc.? Se non possono stare in Italia, si provveda ai rimpatri. Perché non si fa?

Come è noto, esiste l’obiezione di coscienza di fronte a leggi che contraddicono la morale, ma è pur vero che le leggi, quando sono in vigore, soprattutto da parte dei rappresentanti delle istituzioni devono essere osservate, mentre si lavora per farle modificare. E di fronte a conseguenze, come quelle preventivate dai Sindaci, nelle more di una discussione che modifichi le norme, i Comuni possono attivare soluzioni di protezione umanitaria. È un fatto che la protesta ha attivato una riflessione più ampia di una volgare opposizione come alcuni membri del governo, in continua campagna elettorale, hanno insinuato.

(Vorrei ricordare, tra parentesi, che l’attuale Ministro dell’Interno, ha invitato tre anni fa alla disobbedienza civile contro la legge sui diritti civili, contro il canone Rai e altro).

Purtroppo anche i sindaci, che sembrano fare una resistenza civile, hanno dalla loro parte norme vigenti contraddittorie che, quindi, il governo avrebbe potuto e dovuto modificare in sede di approvazione del decreto sicurezza.

Il linguaggio rispettoso, il comportamento decoroso, il dialogo, invece che il disprezzo, per chi non la pensa alla stessa maniera, esprimono uno stile di vita che ci fa comunità. Il ‘cambiamento’ non deve rubarci l’anima.

“Signore, dammi la forza di cambiare le cose che si possono cambiare. Dammi il coraggio di accettare le cose che non si possono cambiare. Signore, dammi il buon senso di distinguere le une dalle altre” (forse, San Tommaso Moro, protettore dei governanti e dei politici)

Usa, lo shutdown di Trump è il più lungo della storia

Lo shutdown che paralizza parte delle attività del governo federale americano, entrando nel suo 22esimo giorno, è diventato il più lungo della storia degli Stati Uniti. Iniziato il 22 dicembre, infatti, lo shutdown ha battuto i 21 giorni raggiunti sotto la presidenza di Bill Clinton, nel 1996. Il blocco è causato dal mancato accordo tra repubblicani e democratici sul finanziamento del contestato muro con il Messico.

Il blocco sta lasciando senza stipendio circa 800mila lavoratori federali.

I sindacati federali hanno già fatto causa al governo Usa perché – a causa dello shutdown – i dipendenti ritenuti “essenziali” stanno continuando a prestare servizio senza stipendio, in violazione delle leggi sul lavoro. L’azione legale – riportano i media americani – è stata depositata dai sindacati che rappresentano i lavoratori federali, ovvero la National Federation of Federal Employees, la National Association of Government Employees SEIU e la National Weather Service Employees Organization.

settori toccati dalla paralisi sono i più disparati, dalla protezione ambientale alla sicurezza negli aeroporti. Lo scalo di Miami, per esempio, dovrà chiudere uno dei propri terminal fino a lunedì per concentrare le risorse disponibili sui controlli rimasti attivi.

Anche parchi nazionali e zoo come quello nazionale di Washington chiuderanno i battenti. Attività sospese anche per i dipendenti della Nasa e dell’ente che processa le dichiarazioni dei redditi, l‘Internal Revenue Service. A essere precettati sono invece i lavoratori di alcuni settori strategici come i dipartimenti di Stato e la sicurezza nazionale.

Athletica Vaticana: la prima squadra di running della Santa Sede

In tutto sono una sessantina: sacerdoti, suore ma anche guardie svizzere e gendarmi, vigili del fuoco e operai, giardinieri, farmacisti. In comune hanno la passione per la corsa che condividono vestendo una maglietta gialla con lo stemma papale: questa la divisa di Athletica Vaticana, la prima associazione sportiva con sede nella Santa Sede.

Melchor Sanchez de Toca, è Presidente di Athletica Vaticana .

Da tempo esistono sia la rappresentativa calcistica dipendenti vaticani sia il St. Peter Cricket club, ma Athletica Vaticana è la prima squadra nata e con sede in Vaticano riconosciuta all’estero, che può ora partecipare a tutte le manifestazioni podistiche nazionali e internazionali. Anche le Olimpiadi.
Vedere la bandierina vaticana sfilare durante la cerimonia di apertura sarebbe un sogno” dice il Presidente specificando però che non è fra gli obiettivi a breve e medio termine.

Diabete, cancro e infarto: i super cibi che proteggono

La salute del nostro corpo passa dalla tavola: cresce sempre di più la consapevolezza che per stare bene, e ridurre i rischi di malattie, si debba seguire una dieta attenta.

Fibre alimentari: le persone che hanno assunto quotidianamente 35 g di fibre hanno ridotto del 30% il rischio di morte prematura, lo rivela uno studio pubblicato sul Lancet.
Gli esperti hanno scoperto che cereali integrali, noci e fagioli proteggono dalle malattie cardiache, dal diabete di tipo 2 e dal cancro dell’intestino.

Gli scienziati dicono che migliaia di vite sarebbero salvate ogni anno se tutti mangiassero 25g a 29g di fibre ogni giorno.

Il prof. John Cummings, della Dundee University, ha dichiarato: “Raggiungere questi livelli è impegnativo, ma realizzabile. Più persone devono prendere sul serio questo consiglio e aumentare l’assunzione di fibre, passando al pane integrale e mangiando più noci e fagioli. Aiuterebbe a salvare migliaia di vite.”

Giulio Andreotti: un uomo di Stato

E’ stato tra i protagonisti della vicenda italiana del Dopoguerra. Con questa intervista inedita,  che ripercorre la storia del Ministero degli Interni, il “Domani d’Italia” intende ricordarne il senso dello Stato e il rispetto per le istituzioni
Presidente, che ruolo ebbe, a suo giudizio, il Ministero degli Interni della nascente Repubblica nel conciliare le diverse anime del Dopoguerra, in modo particolare i “vincitori” con quella parte del Paese che era rimasta compromessa con il passato regime fascista ?
Se ricordo bene, durante il fascismo metà dei prefetti era nominata direttamente (di norma tra i Segretari Federali) mentre l’altra metà apparteneva alla carriera, che era molto rigorosa nelle promozioni. Epurati i prefetti politici, restò una splendida schiera di “amministrativi”, che fu determinante per la ricostruzione e la normalizzazione del Paese. Prefetti come Vicari e Vicedomini erano “di cappa e di spada”. Ma tutta l’Amministrazione funzionò benissimo.
Nel 1947 finisce il “tripartito” e con esso la possibilità della “democrazia compiuta”. Il clima dovuto alla “guerra fredda” porta a relegare la sinistra verso un ruolo di continua opposizione. De Gasperi, nel suo III governo sceglie, come ministro degli Interni, Mario Scelba e lo confermerà fino al settembre del 1952 nel suo VII Governo. E’ una figura profondamente anticomunista, ma altrettanto antifascista e vicina a Sturzo fin dalle origini del Partito Popolare. Non pensa che la scelta di Scelba sia stata determinata anche per garantire che l’Italia non cadesse nel rischio di regimi di estrema destra?
Scelba aveva fatto benissimo al Ministero delle Poste (bloccando anche interessi di un gruppo americano) e, per di più, era un duro. Quando, dopo la liberazione di Roma, la sinistra voleva Nenni alla Presidenza del Consiglio, fu lui ad opporsi con forza e ci riuscì. Certamente anche De Gasperi era contrario, ma la battaglia in prima fila la condusse Scelba. Antifascista da sempre, Scelba fu un difensore formidabile della libertà, opponendosi ai comunisti e arginando ogni velleità di restaurazione fascista. Fu anche dichiaratamente per la Repubblica, mentre la Dc come tale era possibilista (non tanto nei dirigenti, ma negli elettori, specie del Centro e del Sud). Quando socialisti e comunisti, durante il dibattito sul Patto Atlantico, tentarono di occupare Montecitorio, Scelba dette ordini drastici alla Celere e il corteo – capeggiato dai parlamentari – fu bloccato a Piazza Colonna con inflessibilità.
Sempre in quel periodo avviene la strage di Portella della Ginestra dove Salvatore Giuliano e la sua banda uccisero undici dimostranti durante la festa del 1 maggio. L’assassinio del luogotenente Pisciotta non portò mai a chiarire fino a che punto ci fosse stata una interferenza da parte di alcune frange del mondo politico. Quali sono i suoi ricordi in merito?
Qualche volta Scelba sembrava persino provocatore. All’indomani della strage di Portella della Ginestra nel 1947, ad esempio. Nel dibattito disse con fermezza – provocando l’ira della sinistra – “come mai, essendo la Festa del Lavoro di tutta la provincia di Palermo, nessuno di voi deputati comunisti era li?”. L’onorevole Li Causi reagì, concitatissimo. Lo chiesi a Scelba, dopo la seduta, se pensasse davvero che i comunisti avessero responsabilità nella strage. Mi rispose di no, ma certamente qualcuno li aveva consigliati a starsene a casa.
Nel 1954 Lei ebbe l’incarico come Ministro degli Interni. Come ricorda quell’esperienza?
Fu De Gasperi a volerlo per dimostrare visivamente che appoggiava il governo Fanfani. Eravamo però privi di maggioranza precostituita e Fanfani si illudeva di appoggi o almeno di una non belligeranza di Nenni. Come è noto non avemmo la fiducia. Io restai governativamente disoccupato per circa un anno e mezzo, quando Segni mi nominò alle Finanze. Al Ministero dell’Interno non sono più tornato.
Nel luglio del 1960, dopo che il governo Tambroni aveva dato il via libera al Congresso del Msi a Genova, ci sono violente repressioni da parte delle forze dell’ordine a seguito delle manifestazioni di protesta contro il governo. Alcuni manifestanti furono uccisi. Correvamo effettivamente il rischio di un colpo di Stato?
Per quello che ricordo Gronchi aveva ottenuto da Nenni la non belligeranza verso Tambroni; c’era una bozza del programma di governo con correzioni di pugno di Nenni. Il gruppo socialista non ne volle sapere e Nenni abilmente si ritrasse. La destra cercò di inserirsi, ma la Dc non accettava questo ricambio. Ricordo che nel 1953, abbandonato dagli Alleati, De Gasperi cercò senza successo la tolleranza dei monarchici (non dei missini, che chiamava “gambalati” perché gli ricordavano il passo dell’ oca). Rischi di colpi di Stato in Italia non ce ne sono mai stati. Questo perché le forze armate sono rigorosamente al servizio della Nazione e non l’avrebbero permesso.
Con l’ingresso dei socialisti al governo, Moro forma il primo governo di centro-sinistra. Agli Interni è designato Paolo Emilio Taviani. Come reagì l’allora Ministro nel luglio del 1964, al pericolo di un colpo di Stato da parte del generale De Lorenzo?
Ripeto che colpi di Stato non si sono mai tentati in Italia proprio per le caratteristiche delle nostre forze armate. Il generale De Lorenzo sembrò autore di un progetto autoritario, ritenendo di dover calmare le ansie del Presidente Segni, preoccupatissimo per la situazione economica e già ammalato gravemente. Fu un momento di confusione. Tra l’altro a casa di Morlino fu fatta una riunione di vertici democristiani con De Lorenzo, senza che né Taviani (Interni) né io (Difesa) ne fossimo al corrente. Grande confusione sì, ma golpe no.
Come si caratterizzò l’operato del ministero a cui era a capo Taviani e perché fu scelto da Moro?
Taviani era un uomo concreto, un partigiano vero, serissimo. Dava tutte le garanzie.
Franco Restivo fu a capo degli Interni in un periodo drammatico e oscuro in cui l’Italia assisteva impotente ad episodi che vanno dalla strage di Piazza Fontana al  tentato “golpe Borghese” alle prime apparizioni delle Brigate Rosse. Che ricordi ha di quel periodo?
Eravamo impreparati alla ferocia delle Brigate Rosse, ma un regime democratico non può mettere tutti sotto controllo. Del resto quando fa approvata la mite Legge Reale (fermo di polizia per quarantotto ore) vi fu una opposizione feroce e nel referendum sul tema la legge fu salvata, ma con stretto margine di voti nonostante la sostenessimo sia noi che i comunisti.
Che ricordi ha dei ministri dell’Interno che operarono durante i suoi governi? In particolare, ritiene che il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro possa aver bloccato definitivamente  il tentativo di portare a compimento il processo democratico?
Per Moro cercammo di fare tutto il possibile e non lasciammo nulla di intentato.
Ricordo che la vedova di uno degli agenti della scorta di Moro (che fu annientata la mattina di via Fani) disse che in caso di trattativa con i brigatisti si sarebbe data fuoco.
Anche la Santa Sede si mosse, attraverso i cappellani delle carceri e mettendo a disposizione una somma di denaro per il rilascio di Moro. Purtroppo fu inutile.
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Gli ultimi suoi governi coincidono con il crollo del muro di Berlino e la fine della “guerra fredda”. Ritiene che a partire da quel momento sia venuto meno quel clima di contrapposizione alimentato dal conflitto fra Occidente e comunismo?
Gli antidemocratici di sinistra persero la sponda di riferimento con il crollo dell’Unione Sovietica. E anche i fanatici di destra – che ci accusavano di essere illusi nel fronteggiare democraticamente i comunisti – persero uno strumento di lotta politica.
Oggi i problemi legati alla sicurezza sono cambiati. Nonostante qualche episodio grave, lo stragismo è ridotto ai margini. Si affacciano nuovi problemi come il terrorismo  internazionale, l’esigenza di governare il problema dell’immigrazione. La sicurezza assume dimensioni più internazionali, più globali. Qual è il suo giudizio in merito?
Dobbiamo evitare l’errore delle guerre di religione. Mi sembra che la linea espressa dai
Ministri degli Interni che si sono succeduti negli ultimi governi sia quella giusta.

Non basta l’evocazione di Sturzo

Articolo già pubblicato sulle pagine dell’www.huffingtonpost.it

Cresce, in questi giorni, l’attenzione sul centenario dell’Appello ai liberi e forti, un testo che appare ancor oggi fresco di suggestioni importanti. Bisogna far tesoro di questa novità che increspa gli umori della pubblica opinione. Qualche cosa si muove.

Non c’è solo il mondo cattolico, democratico e popolare, dietro l’attesa per la data simbolo (18-19 gennaio); in realtà, con qualche sorpresa, l’attenzione coinvolge altri mondi, più che mai desiderosi di ritrovare un’anima della politica.

Zingaretti scrive che “emoziona e fa impressione” la rilettura di questo Appello. Segno, possiamo dire, di un Novecento diverso dal secolo delle magniloquenti e spietate profezie a sfondo totalitario. Il popolarismo è la dottrina politica – forse l’unica – a non essere stata travolta dal moto anti-ideologico susseguente alla caduta del Muro di Berlino.

Ora occorre chiedersi, però, se dopo l’emozione non s’imponga l’urgenza di una meditazione adeguata alla ricorrenza del centenario; se insieme a un sussulto, derivante dalla sorpresa, non si debba coltivare la consapevolezza di nuove sfide; se infine la “formula popolare”, inventata da Sturzo, non richieda scelte coraggiose e in controtendenza.

Lo dico con franchezza, ma in spirito costruttivo: non intendo sfuggire al dilemma che nasce dall’esaurimento del Pd, partito unico del riformismo, così come lo abbiamo concepito e vissuto finora. Il popolarismo è l’antitesi del populismo, il suo più diretto e attrezzato antemurale, la sua “decostruzione” morale e politica. Ma può il popolarismo sopravvivere nei limiti angusti di una esortazione o di una memoria?

Zingaretti rassicura sulla direzione di marcia. “Nell’Appello di un secolo fa si possono cogliere grandi temi profetici e fecondi, che devono continuare a liberare energie e che, soprattutto, ci impegnano a non restare alla finestra quando tutto sembra difficile, fragile o incomprensibile”. Sono parole impegnative, anche autocritiche per molti aspetti. Ma siamo sicuri che bastino? Si potrebbe dire, meglio tardi che mai. Ma la conversione di San Paolo è un difficile modello da perseguire.

Bisogna sempre evitare di aggrapparsi astutamente alle circonlocuzioni di comodo perché non rappresentano una risposta alla crisi del Pd, né tanto meno un viatico di ritrovata energia per i Popolari impegnati in questo partito. Ci vuole una svolta vera, per ricostruire le ragioni di una cooperazione allargata tra i riformisti di varia matrice. In mancanza di tale svolta, ideale e politica, il rischio è la caduta irrimediabile di un progetto pur nelle sue origini tanto ambizioso.

Il richiamo a Sturzo esige una schietta verifica, senza infingimenti e retorica, delle condizioni di sussistenza del “fattore popolare” nella vita reale del nuovo Pd. Facciamo in modo che nell’imminente congresso ci sia un vero cambiamento.

Nasce l’assemblea parlamentare franco-tedesca

Il 22 gennaio prossimo, il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Angela Merkel firmeranno ad Aquisgrana un nuovo trattato di cooperazione e integrazione tra Francia e Germania. La nuova intesa tra Parigi e Berlino, spiega il quotidiano francese “Les Echos”, sarà complementare al trattato dell’Eliseo, firmato il 22 gennaio 1963 dal presidente francese, Charles de Gaulle, e dal cancelliere tedesco, Konrad Adenauer. Con il trattato di Aquisgrana, si legge su “Les Echos”, Francia e Germania intendono dare “una nuova dimensione alla loro cooperazione”.

L’obiettivo è quello di rendere la Germania e la Francia il “laboratorio di una grande convergenza europea” nei settori dell’economia, della fiscalità e delle politiche sociali.

Macron e Merkel rafforzeranno anche la collaborazione tra i rispettivi paesi in politica internazionale, “per arrivare a parlare con una sola voce al di fuori delle frontiere” di Francia e Germania. Il trattato di Aquisgrana prevede, inoltre, l’istituzione a febbraio prossimo di un’Assemblea parlamentare franco-tedesca composta da 100 rappresentanti, 50 francesi e 50 tedeschi.

 

Viaggio tra gli italiani all’estero

Articolo estratto dalla rivista “il Mulino” n. 6/18 a firma di Bruno Simili

Secondo le stime ufficiali, gli italiani residenti all’estero al primo gennaio 2018 erano più di 5 milioni (5.114.469). Emigrati o figli di emigrati che hanno raggiunto i quattro angoli del pianeta nel corso dei decenni, sulla scia della grande epopea migratoria che, dalla fine dell’Ottocento agli anni Sessanta del secolo scorso, ha visto un gran numero di persone, spesso famiglie intere, lasciare l’Italia alla ricerca di condizioni di vita migliori di quelle che il loro Paese di origine poteva offrire. La crescita economica e le nuove opportunità che si presentarono agli italiani del miracolo economico aveva poco alla volta ridotto quella che un tempo era stata un’ondata di piena. Si pensi che in soli quarant’anni, tra il 1876 e il 1915, lasciarono l’Italia quasi 10 milioni di persone, un dato che allargato a un intero secolo (1876-1975) arriva a superare i 25 milioni tra Europa e Americhe (di cui 11 milioni e mezzo solo per l’emigrazione diretta verso il continente americano).

Si tratta dunque di un fenomeno di lunga durata, accompagnato dalla nascita di vere e proprie comunità di italiani espatriati, che per il loro numero hanno via via attirato anche l’attenzione della politica di casa nostra, spesso in modo non propriamente edificante e con molte polemiche, in particolare in prossimità di un voto politico o di un referendum. In tempi recenti, l’emigrazione italiana all’estero è stata per lo più assente dal dibattito nazionale; almeno fino a quando ha ripreso a salire, a partire dal 2010, quindi un paio d’anni dopo l’esplosione della crisi finanziaria ed economica che ha segnato, e ancora segna, il tessuto socioeconomico del nostro Paese. Da quel momento l’emigrazione è ripartita. Purtroppo, e non solo in Italia, i dati disponibili sui fenomeni migratori sono assai poco uniformi e non sempre del tutto affidabili. Si può considerare il numero complessivo degli italiani residenti in un determinato Paese. Oppure osservare i flussi di coloro che rinunciano a una residenza in Italia in favore di una residenza all’estero. Ma anche in questo caso risulta difficile procedere in maniera ordinata e compiere confronti.

Anche limitandosi ai dati degli iscritti Aire (l’Associazione degli italiani residenti all’estero), l’aumento delle uscite negli ultimi dieci anni è comunque evidente. Nel 2007 si registrano circa 36 mila persone verso l’estero. Un dato che nel 2011 già sale a 50 mila, per superare nel 2017 le 128 mila unità.

A partire da qualche anno, dunque, la dimensione del fenomeno ha fatto sì che di emigrazione italiana si tornasse a parlare, nonostante il dibattito nel frattempo si sia concentrato prevalentemente sugli arrivi, dunque sugli immigrati, anziché sulle partenze. Ma se di emigrazione si è ricominciato a parlare lo si è fatto soprattutto in termini di «fuga dei cervelli». E soprattutto in relazione alla fasce più giovani della popolazione. Non a caso: da un lato infatti la disoccupazione giovanile è cresciuta enormemente (passando dal 20,3% nel 2007 al 37,3% nel 2013, per poi ridiscendere un poco verso valori che oggi si attestano intorno al 33%), e al suo interno è cresciuta la cosiddetta disoccupazione intellettuale. Dall’altro lato, tra chi lascia il Paese cresce la quota dei più istruiti: se nel 2005 gli emigrati laureati erano il 15%, tra il 2013 e il 2016 essi hanno raggiunto il 24%, un dato che tocca il 30% se si guarda alla fascia di età 25-44 (e oltre il 35% considerando solo le donne). Dunque cresce il numero di italiani che lasciano il Paese – un fenomeno il cui allarme, tuttavia, secondo alcuni andrebbe ridimensionato osservando tendenze analoghe in altri Paesi europei – e cresce in proporzione il numero di chi ha alle spalle un percorso formativo più lungo e qualificato. Tuttavia, questa visione dell’emigrazione italiana contemporanea rischia di lasciare in ombra tutti gli altri, coloro che hanno lasciato il Paese con in tasca un diploma o, in non pochi casi ancora oggi, la sola licenza media.

Sulla scorta del Viaggio in Italia pubblicato lo scorso anno, questo Viaggio tra gli italiani all’estero cerca di dare uno sguardo il più possibile d’assieme di un fenomeno che, come si è detto, è assai variegato, difficile da cogliere e molto spesso presentato per stereotipi. Entrambi i Viaggi sono uniti dal proposito di descrivere l’Italia e gli italiani cercando di rendere il senso di una realtà piena di sfaccettature, che non si lascia ridurre a semplici contrapposizioni. La nuova emigrazione tocca tutti da vicino. Sia perché, come ci ricorda Maddalena Tirabassi, «più o meno direttamente tutta la popolazione italiana ha avuto un’esperienza migratoria e più o meno chiunque di noi oggi conosce – perché parente, amico, collega, compagno – qualcuno che ha deciso di lasciare l’Italia per trasferirsi all’estero». Sia perché non si può trascurare la decisione di vivere altrove presa da un numero crescente di persone che, in ragione della loro età, dovrebbero costituire l’architrave del Paese in cui sono nati. Non è soltanto la tanto citata «fuga dei cervelli» che viene analizzata in questo volume. Ma più in generale una nuova emigrazione – o, se si preferisce, una diversa e più vivace mobilità, quella di cui ci parla qui Piero Bassetti, con uno sguardo meno pessimistico – spesso non caratterizzata da lavori altamente qualificati che coinvolgono però anche persone con un livello di istruzione medio-alto.

Quella del «Mulino» è una tradizione di analisi, che anche in questo volume – un monografico che segna il numero 500 della rivista, uscita senza interruzioni a partire dal 1951 – viene confermata grazie al lavoro di alcuni dei principali esperti di emigrazione italiana. Dopo l’introduzione affidata a Enrico Pugliese, una prima parte di contributi, aperta dalla lettura storica di Maddalena Tirabassi, analizza nelle sue diverse sfaccettature l’emigrazione italiana contemporanea. Una terza parte presenta le diverse forme di autonarrazione (nel secolo del grande esodo, quando si scrivevano lettere e memorie, spesso senza alcuna consapevolezza che un giorno qualcuno le avrebbe lette; in questi anni Duemila, ricorrendo ai social network e ai blog, consapevoli viceversa che un pubblico ci sarà comunque) e ripercorre alcune forme di racconto cinematografico dell’emigrazione italiana.

Del tutto nuova nell’impostazione è invece la seconda parte. Suddivisi per area geografica – e preceduti da un breve capitolo di inquadramento delle caratteristiche migratorie nei diversi Paesi – quaranta italiani che hanno scelto di vivere all’estero si raccontano in altrettante storie autobiografiche. Le motivazioni all’origine del trasferimento, l’arrivo, la ricerca di una casa e di un lavoro, le difficoltà con la lingua, i primi contatti con la comunità ospitante, il processo di inserimento e l’evoluzione del percorso migratorio, i rapporti con l’Italia e la famiglia di origine sono solo alcuni dei temi che ciascuno di loro tratta nel riportare la propria esperienza migratoria. Sono storie anche molto diverse, ognuna speciale a suo modo, dove abbiamo cercato di comprendere il maggior numero possibile di casi, raggruppandoli per Paese di destinazione in base alle mete preferite in Europa, ma anche considerando alcuni Paesi europei di nuova emigrazione e, naturalmente, l’emigrazione extraeuropea.

Nel raccogliere le varie testimonianze si è scelto di includere più livelli di formazione e professionalizzazione. Ogni contatto è stato preceduto da diversi scambi di mail e messaggi e da vari colloqui. Anche per noi, come è per loro nei rapporti con i parenti rimasti in Italia, l’aiuto di Skype e WhatsApp è stato fondamentale. Non sempre è stato facile darsi un appuntamento: chi lavora in un ufficio più spesso riusciva a trovare una mezzora di tempo lungo la giornata. Chi lavora in un cantiere o nella ristorazione, viceversa, il più delle volte preferiva un colloquio di prima mattina o a tarda sera. In qualche caso abbiamo disturbato le persone nella loro intimità familiare – e di questo ancora una volta ci scusiamo – in altri durante una pausa nel turno di lavoro.

A ogni modo, da tutti abbiamo ricevuto una grande disponibilità. All’inizio non lo davamo per scontato: mettere in pubblico la propria vita, seppure per sommi capi, soprattutto accettando di raccontare non solo i successi e le soddisfazioni ma anche le difficoltà e i fallimenti, non è facile. Ci sono infatti storie di crescita, altre di arretramento. Storie nate in base a nuovi, forti legami affettivi, altre decise in base a un promettente percorso professionale. Qualcuno, dopo un’esperienza più o meno lunga all’estero, è rientrato in Italia. Ma per quasi tutti la vita ha preso una strada che poco alla volta li ha allontanati dal Paese in cui sono nati e cresciuti. La loro scelta, il più delle volte definitiva e il più delle volte motivata da difficoltà riscontrate in Italia a trovare un’occupazione degna, a costruire un proprio percorso famigliare, è un segno da prendere molto sul serio – ci pare – di un declino italiano che, per essere arrestato, richiederebbe una visione che possa ridare fiducia nel futuro. Quel futuro che in tanti oggi scelgono di cercare altrove.