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mercoledì, 5 Novembre, 2025
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Laicità dello Stato e religioni monoteiste

Fonte Civiltà Cattolica quaderno 4061 a firma di Giovanni Sale 

Il contesto dell’articolo. Secondo Max Weber, la formazione dei moderni sistemi giuridici va letta parallelamente al processo di laicizzazione dello Stato moderno e di secolarizzazione della società civile e politica, che ha separato la sfera religiosa da quella secolare. Questo approccio è fortemente eurocentrico e non può essere utilizzato, come spesso è stato fatto, per interpretare situazioni esistenti in altre parti del mondo, dove prevalgono tradizioni religiose diverse. 

Perché l’articolo è importante?

L’articolo mette a confronto le tre religioni monoteiste di matrice abramitica, sottolineando i diversi approcci che esse, soprattutto negli ultimi secoli, hanno avuto nei confronti della modernità e della laicizzazione della compagine statale e delle sue istituzioni giuridiche.

Nelle società cristiane, la distinzione tra ambito religioso e ambito secolare è frutto di un lungo e articolato processo storico – tra l’altro diverso, tra occidente e oriente – che in realtà è iniziato già nei primi secoli del cristianesimo.

Nella tradizione ebraica, di fatto – fino alle cosiddette «leggi di emancipazione», che in Europa, a partire dal XVIII secolo, permisero agli ebrei di diventare cittadini di quegli Stati che da secoli li ospitavano – negli ambienti della diaspora il rapporto tra religione e diritto era indissolubile. Il problema si cominciò a porre, secondo le categorie occidentali, con la nascita, nel 1948, dello Stato di Israele.

Nella tradizione islamica, la comunità politica e la comunità religio­sa sostanzialmente coincidono, nel senso che sono ordinate allo stesso fine, sebbene indichino realtà differenti. Per questo, generalmente, nel mondo islamico esiste una forte compenetrazione tra reli­gione e Stato, tra norme religiose e leggi civili. Alla luce di alcuni tentativi di modernizzazione di stampo europeo, è chiaro che debba essere lo stesso mondo islamico a creare una propria sintesi dei rappor­ti tra autorità politica e autorità religiosa, tanto più che il Corano a tale riguardo lascia ampia libertà di scelta.

Quali sono le domande che l’articolo affronta?

  • La cultura islamica e ebraica contemplano il concetto di democrazia e di laicità così come sviluppato nel tempo e inteso nelle società di tradizione cristiana, in particolare «occidentale»?

 

Per leggere l’articolo integrale segui il link

Commissione Ue: Gentiloni completa la squadra di Von der Leyen. Il 10 settembre la presentazione del Collegio. Juncker scrive a Conte

Fonte Agensir

“Sono contenta di aver ricevuto i nomi da tutti gli Stati membri”. Così oggi Ursula Von der Leyen, presidente eletta della Commissione Ue, annuncia di aver completato la lista dei 27 commissari che comporranno la sua squadra i prossimi cinque anni (il Regno Unito, in fase di recesso, non nomina il proprio commissario).

Ora il compito è di “comporre un collegio ben bilanciato”, distribuendo le responsabilità. Von der Leyen ha annunciato anche che il nuovo collegio sarà presentato martedì 10 settembre. Mancava all’appello solo il nome italiano, ora noto: Paolo Gentiloni.

“Amo l’Italia e l’Europa e sono orgoglioso dell’incarico ricevuto. Ora al lavoro per una stagione migliore”, ha scritto in un tweet il neo-commissario incaricato. Intanto da Bruxelles è giunta al primo ministro Conte una lettera di congratulazioni del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker. “La formazione del governo da lei presieduto giunge in un frangente importante per la nostra Unione che richiede il rinnovato impegno di tutti gli Stati membri”, scrive Juncker.

“Mi dà conforto la consapevolezza che le sfide che abbiamo di fronte, dalla migrazione alla necessità di assicurare uno sviluppo sostenibile alle nostre economie e sicurezza ai nostri cittadini, non sono uno sforzo da affrontare singolarmente, ma tutti assieme”, continua la lettera. “Sono convinto che l’Italia sarà capace di giocare un ruolo importante nell’affrontare queste sfide” e sarà “all’altezza della sua responsabilità di Stato fondatore dell’Unione”.

 

La Finlandia vuole salvare i “senzatetto”

La via finlandese è un modo di prendere decisioni per affrontare i problemi in maniera innovativa.

Questo è il caso di Housing First: il modo semplice – e allo stesso tempo originale – di portare fuori strada migliaia di senzatetto restituendogli un po ‘di dignità e integrandoli socialmente. “Il futuro inizia con un mucchio di chiavi”, dice il motto della campagna.

Un politico, un vescovo, un dottore e un sociologo hanno formato nel 2007 il comitato speciale del governo la cui missione era quella di portare migliaia di senzatetto ad una vita migliore. Ispirato al movimento statunitense Pathways Housing First, fondato nei primi anni ’90 dallo psicologo Sam Tsemberis , il governo del paese nordico ha ridotto del 35% il numero di cittadini che vanno a letto e si svegliano ogni giorno tra il 2008 e il 2015 sotto gli agenti atmosferici: 1.345 persone che vagano per le strade senza speranza per il futuro hanno smesso di farlo.

A Helsinki, affermano le ONG coinvolte nel programma, non ci sono quasi vagabondi. E l’obiettivo del governo ora è quello di sradicare la popolazione senza fissa dimora in tutto il paese entro il 2027, secondo Bloomberg.

La chiave del successo non è nella riabilitazione ma nell’accesso ad un’abitazione. E da lì, assicurano i promotori del progetto, le vite di migliaia di famiglie e cittadini inizino a migliorare. “La casa è concepita come punto di partenza e non come punto di arrivo sul percorso dei senzatetto”, spiega la ONG FEANTSA, coinvolta nel progetto che gestisce già più di 3.000 appartamenti in 10 città del paese.

A differenza degli Stati Uniti e di un’altra dozzina di paesi europei ( tra cui la Spagna ) in cui è stato esportato Housing First, i senzatetto della Finlandia, un paese di poco più di cinque milioni di abitanti, hanno il dovere di pagare un affitto.

I beneficiari possono pagare l’affitto della nuova casa con una parte dell’assistenza finanziaria che ricevono dallo Stato. Un altro punto che rende unico questo programma è che i complessi abitativi sono integrati nei quartieri della classe media per evitare ghetti.

 

Il Pentagono sposta 3,6 miliardi di dollari dai fondi militari al muro di confine

Il segretario alla Difesa Usa, Mark Esper, ha autorizzato il dislocamento di 3,6 miliardi di dollari dai fondi per l’edilizia militare alla costruzione del muro di frontiera con il Messico, attingendo ai finanziamenti per 127 progetti di opere militari.

Secondo la nuova visione, il muro ha lo scopo di scoraggiare l’ingresso illegale, incanalare i migranti verso i porti di ingresso e aiutare il personale del dipartimento della Difesa a supportare in modo più efficace gli sforzi per la sicurezza nazionale.

Anche se secondo il leader della minoranza del Senato, il democratico Chuck Schumer, la decisione è “uno schiaffo in faccia” ai membri delle forze armate. ”

Il Pentagono pubblicherà l’elenco dei 127 progetti di costruzione militare interessati dalla decisione alla fine di questa settimana, dopo che il dipartimento della Difesa avrà finito di informare i legislatori e le ambasciate straniere in merito ai progetti interessati nei loro distretti e paesi.

IL primo giorno di scuola

Il giorno fatidico è arrivato, quello tanto atteso dalle mamme, dai papà, dai nonni e dai parenti che formano il nucleo famigliare più allargato dei bambini e delle bambine.

Ma possiamo dire altrettanto per loro, per i nostri figli?

Oppure l’attesa – carica di emozioni, qualche volta di ansie incontenibili – è un fatto che riguarda prevalentemente gli adulti, di cui i piccoli percepiscono forse gli aspetti più deteriori, legati ai preparativi e al lungo rituale di acquisti, di corredo, di impegni e di un’immaginazione spesso fantasiosa?

Parliamo del primo giorno di scuola, naturalmente: un evento che si carica di significati allusivi prevalentemente legati alle suggestioni e al modo di pensare dei grandi.

Perché i diretti protagonisti – i figli-alunni – vivono di riflesso questo ‘avvenimento’ e spesso arrivano persino troppo preparati, tesi come se dovessero comportarsi seguendo strettamente un copione già scritto dai loro genitori.

E invece sono proprio loro, i bambini, i depositari delle proprie emozioni.

Mamme e papà, lasciate entrare vostro figlio con fiducia in quella scuola!

Non preoccupatevi subito dei risultati: arriveranno secondo i tempi e i ritmi di ciascuno, l’importante è che i bambini vivano con naturalezza il loro percorso scolastico, senza  sentire il peso dell’ansia anticipatoria degli adulti.

Il primo giorno di scuola è certamente un’esperienza importante nell’esistenza di ciascuna persona e sa consegnare – al di là delle coreografie del contesto e delle emozioni famigliari – un ricordo molto soggettivo e personale: è uno dei passaggi obbligati della nostra vita ma non per questo va caricato di attese esagerate, che spesso disegnano agli occhi dei bambini una realtà peggiore e diversa da quella che poi personalmente scoprono.

La regola fondamentale che ci sentiamo di suggerire a tutti è molto semplice: vivere e lasciar vivere ai bambini con naturalezza questo momento.

Se i nostri figli varcano la soglia della scuola è per imparare, per arricchire e allargare le proprie conoscenze e il primo apprendimento riguarda proprio l’esperienza in sé: ed è la vita comunitaria con i coetanei in un contesto nuovo, diverso dalla famiglia.

La prima cosa che si impara – dopo il fatidico suono di quella campanella – è stare in mezzo agli altri: con tutte le modalità di comportamento e i codici espressivi tipici dell’età.

Direi anzi che i bambini e le bambine a scuola ci vanno proprio per questo: crescere e imparare, aprirsi a poco a poco al mondo e agli altri, passo dopo passo, giorno dopo giorno, interiorizzando conoscenze ed emozioni.

Cerchiamo dunque di non caricare in maniera eccessiva il senso di questa giornata d’esordio che è e rimane per tutti principalmente un’occasione di scoperta, di incontro e di relazioni.

Ogni momento della nostra vita può essere importante se lo avvertiamo come tale e questo dipende fondamentalmente da noi: lasciamo dunque che siano i bambini stessi a scoprire con spontaneità e gioia le emozioni personali che scaturiscono dal loro primo giorno di scuola.

Ricordo a tutti – soprattutto ai genitori e agli insegnanti – un vecchio detto, una regola non scritta tramandata dal buon senso e dalla tradizione: “la scuola è utile se ci si va volentieri”.

La motivazione, il desiderio, la volontà sono strumenti formidabili per crescere, per scegliere, per imparare.

Il primo segreto di un buon educatore consiste proprio nel saper preparare un ambiente scolastico umano, sereno e accogliente dove i bambini possano esprimere in modo spontaneo la loro creatività sempre sorprendente.

Educazione ambientale, stanziati 330 mila euro per progetti all’interno dei Siti di interesse nazionale

Il Ministero dell’Ambiente è sempre più impegnato a promuovere più educazione ambientale ed azioni concrete per difendere il Pianeta. Negli ultimi anni l’Educazione Ambientale ha assunto delle valenze più ricche, significative ed articolate, ma notevolmente più difficili ed impegnative da realizzare di una pura e semplice didattica naturalistica. L’obiettivo è quindi quello di superare la didattica ambientale sull’ambiente per approdare ad una didattica svolta per l’ambiente, basata sui comportamenti, sui valori e sui cambiamenti. L’educazione ambientale entra, ormai, a scuola non più dalla finestra, ma dalla porta principale. Un nuovo bando del Ministero dell’Ambiente è stato siglato, infatti, a due giorni dal debutto dell’educazione ambientale nelle scuole, grazie alla legge sull’educazione civica che la contempla e che entrerà presto in vigore.

Il Ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha firmato un bando che stanzia 330 mila euro a favore di progetti di educazione ambientale destinati alle scuole più sfortunate, quelle situate all’interno dei Siti di interesse nazionale, tra i luoghi più inquinati d’Italia e nei cui territori docenti e alunni si trovano a dover combattere una quotidiana battaglia contro l’inquinamento e il degrado ambientale. Per questi studenti la scuola, oltre ad essere luogo di formazione, è anche il posto in cui tornare a sperare e a credere fortemente in un cambiamento possibile e necessario, nella lotta al degrado e all’abbandono, nel contrasto senza sosta all’inquinamento ambientale, piaga ancora troppo diffusa che per guarire necessita della forza e dell’ottimismo delle nuove generazioni.

Brescia, Taranto, Napoli est, Gela, Porto Torres, Mantova, Genova, Brindisi, Piombino, per citare solo alcune delle 41 realtà nazionali identificate come Sin e i cui istituti scolastici potranno quindi partecipare al bando.

“Con l’aiuto delle associazioni ambientaliste – spiega il Ministro dell’Ambiente Sergio Costa – si potranno realizzare progetti che educhino a temi fondanti per la nostra società: qualità dell’aria, cambiamenti climatici, amore per la natura, rispetto degli animali, beni comuni, riduzione delle plastiche e tutela del mare, tra i temi previsti dal bando.  Aiuteremo – aggiunge Costa – anche le associazioni che organizzano manifestazioni culturali patrocinate dal ministero, e quindi plastic free, che diffondano l’amore per l’ambiente secondo tematiche definite”.

Il bando del Ministero dell’Ambiente arriva dopo il bando che ha premiato negli scorsi mesi le scuole situate all’interno dei parchi nazionali, e l’intenzione del Dicastero è quella di coinvolgere, per il prossimo anno, le scuole nei Sir, i siti di interesse regionale, “di competenza regionale per le bonifiche– specifica ancora il Ministro Costa – ma che non per questo devono essere lasciati ai margini di un progetto di sensibilizzazione culturale e civica così importante, che mi auguro possa trovare l’appoggio convinto anche del prossimo ministro dell’Istruzione”.

L’obiettivo è dunque quello di una formazione ambientale continua e senza sosta rivolta in particolare alle nuove generazioni. Un’attività che fiancheggia quella istituzionale che, in particolare sul tema delle bonifiche, ha visto il Ministero dell’Ambiente impegnato per sbloccarne alcune ferme da anni, in alcuni casi più di 20, incardinando anche un disegno di legge ad hoc “il cui testo è pronto – spiega il Ministro Costa – e aspetta il nuovo esecutivo per la sua approvazione”.

Il super batterio arriva in Toscana

Tutte le Aziende sanitarie della Regione Toscana sono attivate per affrontare il fenomeno dell’imprevisto aumento di positività al batterio Ndm (acronimo di New Delhi metallo beta-lattamasi) rilevato tra fine 2018 e inizio 2019 tra i pazienti degli ospedali toscani.

E’ un batterio tra i più resistenti agli antibiotici. Lo riferisce la Regione aggiungendo che il fenomeno sta interessando in particolare l’Area Nord Ovest dove ci sono 350 pazienti portatori di batterio Ndm, di cui 44 infetti.

La Regione ha varato un decreto con tutte le misure per contrastare la diffusione. “Il numero di pazienti portatori dall’inizio della diffusione è costantemente monitorato – sottolinea la Regione -. I portatori sono prontamente individuati e vengono messe in atto regolarmente le dovute precauzioni per non permettere la diffusione”. Non tutti i soggetti che entrano in contatto con batteri resistenti diventano portatori e solo una bassa percentuale dei portatori potrà contrarre un’infezione.

La tempesta perfetta

Abbiamo assistito a una tempesta perfetta. Nemmeno un romanziere, anche tra i più raffinati, non sarebbe riuscito a costruire una trama simile. Si è verificato una sorta di drammaturgia raffinatissima. Sconvolto tutto. Nell’arco di un mese, si è manifestato un sorprendente terremoto politico.

Nessuno, lo dico con fermezza, sarebbe stato in grado di concepire una evoluzione come quella che è capitata nel mese di agosto. Sono ancora incredulo. Devo darmi qualche pizzicotto per sapere se sono nel mondo reale o nel mondo della fantasia. L’estate sembrava essere il trionfo di Salvini e, ancora, nella stessa estate, un nubifragio che lo ha letteralmente messo fuori gioco.

Quale demone lo avrà mai indotto a fare quelle mosse? Ad alcuni è sembrato essere il demone delle spiagge, il diavolo in costume, i cocktail sulla riviera romagnola, a me, più modestamente, sembra essere stato un diluvio di onnipotenza gestito malamente.

Ci alziamo con un governo che mai nessuno avrebbe ipotizzato. Più a sinistra di così, credo non ci sia mai stato. Un Paese sintonizzato con il sovranismo di destra, si sveglia con un governo diametralmente opposto: europeista, umanitario, buonista, volto a simpatizzare con il lavoro, a riordinare il mondo della scuola e a posizionare, senza alcun tentennamento, Roma in affinità con Bruxelles e New York.

Basta litigi con Parigi, screzi con Berlino, occhietti dolci con Mosca, insomma in due e due quattro, rovesciato il calzino. Il governo Conte, meglio dire Conte bis, navigherà senza grandi tormenti. L’errore iniziale è stato tamponato. Non più un contratto con due linee, ma un programma unico.

Ancorando con alcuni suoi uomini in due o tre dicasteri importanti, il timoniere ha legato a sé il fiorentino, quello sempre in smania di repentine trasformazioni. Il vero nemico di questo governo non può essere che nel suo seno. Devono stare sempre attenti alle mosse di Renzi. Non si sa mai, come ha fatto la giravolta nei confronti dei 5 Stelle, non paghi con moneta strana anche questa nuova compagine.

Salvini, Berlusconi e Meloni saranno invece utilissimi al governo Conte. Più faranno confusione, più protesteranno, più scenderanno in piazza e più cementeranno la ragione delle tre forze di governo. L’insidia pertanto non potrà essere che una serpe interna.

Hanno brindato i mercati prima che gli italiani. Ieri la borsa e lo spread hanno abbondantemente festeggiato; hanno guadagnato le imprese quotate in borsa, ma hanno guadagnato anche gli italiani con lo spread che è sceso sotto 148 punti.

Sembra che sia giunta una sorprendente calma. Ne avevamo comunque bisogno. Troppo tirate le corde, negli ultimi tempi. È vero che l’Italia ha anche un’anima bizzosa ma, nel fondo, è più caratterizzata da uno spirito moderato. Questo sospiro di sollievo risponde a quest’ultima esigenza. Di fronte al perdurare di una difficile realtà economica, affrontare un autunno con le lance messe a tacere, non è poi un guaio, anzi per buona parte delle imprese e delle famiglie, questo fatto, verrà benevolmente salutato.

Però, è presto per dire che cosa succederà. Le mie brevi pennellate sono un preambolo immaginato. Adesso, invece, bisogna attendere le mosse concrete per capire che cosa ci attenderà nei prossimi mesi.

Fiducia al nuovo Governo: l’imbarazzo di Casini è una spina da rimuovere

“Mi auguro che non nasca un governo troppo squilibrato a sinistra. Se il bicolore PD-M5S si trasforma in un tricolore con LeU, molti di noi saranno in forte imbarazzo”. Questo, sul suo profilo Fb, scriveva ieri mattina Pier Ferdinando Casini.

Mancava poco alla presentazione della lista dei ministri. Non aveva notizie precise, l’ex Presidente dell’Udc? C’è da dubitarne. L’ingresso di LeU a quell’ora veniva dato per scontato. Quindi, con quella perorazione social Casini ha inteso prendere le distanze dal governo, senza con ciò revocare in toto la disponibilità alla collaborazione. Sta di fatto che il passaggio dal bicolore al tricolore, con lo spostamento a sinistra dell’asse di governo, segna un mutamento d’umore dell’area a vocazione centrista (residuale nelle Aule di Camera e Senato, in forte ripresa nella società).

In ogni caso, il sostegno parlamentare è necessario, pena l’indebolimento del nuovo esecutivo all’atto stesso della nascita. Non è il tempo dei (facili) distinguo. È fin troppo chiaro, infatti, il rischio di compromettere l’avvio di una nuova fase politica, svalutando la particolare congiunzione astrale che ha permesso di estromettere Salvini dal governo.

Sul Conte bis valgono obiezioni comprensibili, non solo, in verità, per la partecipazione determinante di LeU. Sì poteva fare di più e meglio. Ma oggi il primo dovere consiste essenzialmente nella difesa di un’operazione che ha sancito la sconfitta del sovranismo di matrice leghista. Poi si vedrà, a tempo debito, perché nessun governo è immune dalla critica proveniente dai suoi stessi sostenitori.

Ora, se l’idea di Casini è riconquistare spazio in questo modo, come pure immaginano di fare i Calenda e i Cairo,  assegnando cioè una funzione pregiudizialmente critica all’area di ‘centro’, il pericolo è che la destra riesploda in tutta la sua incontrollabile virulenza. Occorre lavorare ‘dentro’ la nuova maggioranza, con lealtà e responsabilità, assumendo l’onere di una ricomposizione possibile delle forze democratiche e popolari. Agire con lungimiranza è quanto mai opportuno, innanzi tutto nell’interesse complessivo dell’Italia.

L’augurio, dunque, è che a Palazzo Madama non venga a mancare l’apporto di Casini. Che la Bonino voti contro la fiducia, basta e avanza: fa parte, bene o male, della imprevedibilità del personaggio. Invece, aggiungere ulteriori elementi d’incertezza non sarebbe motivo di vanto, bensì di potenziale discredito. All’imbarazzo va messo un argine.

Memorie di un modernista

Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Felice Accrocca

Il 26 agosto 1869, a Ortignano Raggiolo, in provincia di Arezzo, nasceva Salvatore Minocchi, forse il personaggio più noto, dopo Ernesto Buonaiuti, del modernismo italiano. Allievo del Collegio Capranica, studente alla Gregoriana, sui banchi dell’università conobbe Giovanni Mercati, con il quale avviò un sodalizio intellettuale che si sarebbe intensamente protratto per alcuni anni, prima d’interrompersi all’alba del XX secolo: i due collaborarono attivamente nell’animazione della «Rivista Bibliografica Italiana», con la quale si proponevano di alimentare la cultura del giovane clero attraverso la presentazione critica delle pubblicazioni italiane e straniere più importanti, impegno cui Minocchi diede poi seguito con la rivista «Studi Religiosi», per alcuni anni (1901-1907) molto attiva nel dibattito teologico.

Biblista di buon livello, tra il 1898 e il 1906 dedicatosi anche agli studi francescani con notevole profitto, Minocchi era stato ordinato sacerdote a Firenze dal cardinale Agostino Bausa nel 1892, ma nel 1908 depose l’abito ecclesiastico in seguito alle polemiche che accompagnarono una sua conferenza sulla Genesi nella quale negava valore storico ai primi due capitoli del libro sacro. Sposatosi con Flavia Corradina Cialdini nel 1911, ebbe due figli. 

Prese avvio così una fase nuova della sua vita, determinata anche dalla necessità di doversi guadagnare da vivere: iniziò allora una vivace collaborazione con quotidiani e periodici d’ispirazione laica e socialista, cercando pure di ottenere un inquadramento stabile nelle istituzioni accademiche, tuttavia senza mai riuscirvi appieno.

Nel 1937 riprese i contatti con Giovanni Mercati, in vista anche di un suo possibile rientro nella Chiesa: dopo essere stato per lunghi anni prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, Mercati era infatti nel frattempo diventato cardinale bibliotecario. Gli ultimi anni della vita di Minocchi furono particolarmente duri: al dolore per la morte in guerra del figlio minore, nel 1940, si aggiunsero consistenti difficoltà economiche, che finirono per esacerbarlo ancor più. Morì nel 1943, privandosi volontariamente dell’assistenza religiosa.

L’esito amaro di questa vicenda fu, in definitiva, il compimento di un’esistenza raramente felice, che è stata in gran parte ricostruita — lo si coglie anche nella voce del Dizionario Biografico degli Italiani, redatta da Franco Malgeri — a partire dalle Memorie autobiografiche che si conservano nella Biblioteca Nazionale di Firenze, pubblicate nel 1974 da Attilio Agnoletto. Le Memorie di un modernista risalgono, però, agli ultimi anni della vita di Minocchi, quando egli poteva forse cogliere meglio il senso complessivo delle esperienze vissute, ma di certo in un momento in cui gli eventi successivi, con tutti i traumi che ne erano seguiti, potevano pure condizionare e perfino distorcere la ricostruzione di ciò che era accaduto in anni ormai lontani.

Una fonte insostituibile per ricostruire quindi la vita di Salvatore Minocchi sono i suoi carteggi, dispersi in vari fondi, in gran parte inediti e non ancora censiti: ebbe infatti un nutrito scambio epistolare con Antonio Fogazzaro, ma soprattutto intrecciò un’intensa corrispondenza — in particolare tra il 1893 e il 1901 — con Giovanni Mercati, lettere tuttora conservate nei Carteggi del cardinale Giovanni Mercati, oggi inventariati e accessibili al pubblico (al momento, solo fino al 1936) presso la Biblioteca Vaticana. Nel complesso, più di centottanta missive, oltre centosessanta delle quali relative agli anni 1893-1901: si tratta dunque di un dialogo fittissimo che consente, in più punti, di calibrare meglio, e in qualche caso anche di rettificare, alcuni fatti narrati e diversi giudizi emessi nelle Memorie.

È il caso, ad esempio, della ricorrente affermazione secondo la quale la «Rivista Bibliografica Italiana» fu fondata congiuntamente da Minocchi e Mercati: in realtà, come rivela una cartolina del 1° febbraio 1896 (data del timbro postale), l’iniziativa fu presa da Minocchi assieme ad altri due compagni, che tuttavia sono lasciati nell’anonimato. «Per ora, credi, è quasi un’inezia», scriveva all’amico chiedendogli anche di collaborare. «Ho fiducia che a poco a poco diventerà un periodico importante e sarà strettamente cattolico [sottolineato da Minocchi], perché i miei due compagni di fondazione son più cattolici di me». 

E continua: «Non ti mando prima il programma perché non potresti modificarlo senza mandare all’aria la rivista: è sorta in una settimana o quasi: da principio ci occuperemo di tutti i libri poi prenderemo quell’indirizzo che più si confarrà ai nostri lettori: […] è una cosa semplicissima, ma fatta bene e da persone competenti» (Carteggi, fol. 498r).

Ancora, nelle Memorie lo studioso fiorentino si mostra molto severo con lo zio, don Dionisio Minocchi, parroco a Decimo, presso San Casciano Val di Pesa, reo, a suo giudizio, di averlo condizionato oltre misura nelle scelte di vita, gretto e avaro. 

Nella lettera del 6 maggio 1897, però, confidandosi con l’amico, ne tracciò un ritratto alquanto differente: «Ho un monte di cose da dirti; è tanto tempo che non ti ho scritto! Dunque è morto il mio povero zio parroco: in questi ultimi tempi non andavamo d’accordo, perché egli era contrario a’ miei studi, né io potevo contentarlo a chiudere la mia vita in una parrocchia. Tuttavia ci volevamo sempre bene, ed io lo tenevo come secondo padre. Egli si è ricordato di me lasciandomi a metà erede de’ suoi non molti averi, ed io di lui rendendogli con molto decoro gli ultimi onori e suffragi» (Carteggi, fol. 498r).

Interessante è poi quanto — esternando le proprie convinzioni politiche e il proprio modo d’intendere i rapporti con gli studiosi di diverso orientamento — il 3 novembre di quello stesso anno Minocchi scrisse in una confessione accorata e sincera a Mercati, nella quale non mancò di riflettere sulle rispettive differenze caratteriali: «Io, vedi, sono un po’ mondano, compagnone, forse vanaglorioso e dissipato; tu, invece, vivi ritirato, raccolto in spirito, aborrente dal conversare col secolo; tu sei sempre gioviale, mi pare, io sono abitualmente triste e pieno di rancore contro gli uomini e la natura; vi son dei momenti in cui la considerazione della nequizia degli uomini e dei tempi, e il vedere l’accanimento dei funesti partiti mi indebolisce anche la fede nell’avvenire (non vorrei dire in Cristo). Io sono quindi un essere affatto conciliativo: e questa mia tendenza mi rende un po’ alieno dal partecipare a tutto questo movimento cattolico, che volendo esser papale cessa di essere italiano. Io non trovo niente nella mia coscienza che si opponga al prender parte al futuro congresso degli Orientalisti a Roma (…) E d’altronde se per riguardo di paure più o meno vane ci ritiriamo sempre, noi preti, dalle manifestazioni della vita pubblica, non faremo che nuocere alla causa della verità. Meglio combattere che starsene torpidi» (Carteggi, fol. 966r-v).

A centociquant’anni dalla nascita, c’è ancora tanto da scavare riguardo alla vita di Salvatore Minocchi e all’acceso dibattito che animò gli ultimi anni del pontificato di Leone XIII. Una ricerca che sono certo potrà trarre alimento dai carteggi del cardinale Mercati per nuove, importanti

L’happening degli Oratori

Torna l’appuntamento dell’Happening degli Oratori, che per la 3ª edizione (H3O) sbarca in Puglia. Gli animatori provenienti da tutta Italia si sono dati appuntamento fino al 6 settembre a Molfetta. Il tema scelto è “Facciamo fuori l’oratorio. Oratori in uscita” per interrogarsi insieme su come declinare in futuro questi spazi specifici dedicati dalla comunità cristiana ai giovani in modo che siano “luoghi appropriati che li accolgano e dove possano recarsi spontaneamente e con fiducia per incontrare altri giovani sia nei momenti di sofferenza o di noia, sia quando desiderano festeggiare le loro gioie”.

Quattro le parole chiave che guideranno il cammino degli oratori italiani durante H3O, a cominciare dall’ascoltare frutto del lavoro del recente Sinodo, proseguendo con l’uscire per avvicinare nuove pratiche utili all’evangelizzazione, sperimentando l’incontrare dei momenti di fraternità a Molfetta fino all’osare in una proposta condivisa che guardi al futuro dell’oratorio nella Chiesa italiana.

“Il rischio che vogliamo correre in questi giorni – sottolinea don Michele Falabretti, responsabile del Servizio Nazionale per la pastorale giovanile – è tutto nel tema scelto. ‘Fare fuori’ nel senso di aprirsi verso ciò che ci aspetta al di là della porta del nostro oratorio, che a volte corre il rischio di essere semplicemente un curato circolo ricreativo. Fare fuori anche nel senso di lasciar andare qualcosa per fare spazio al nuovo, ben consapevoli che non si tratta di demolire quello che c’è o quello che facciamo, ma di mettere in conto la possibilità che qualcosa nelle nostre pratiche, nel nostro stile, nella nostra formazione, vada ripensato”.

Ecomafie: a Ferrara il censimento dei siti di stoccaggio dei rifiuti

Nella città estense è stata portata a termine la rilevazione dei siti di stoccaggio rifiuti e dei relativi gestori, 74 in tutta la provincia, con dati e analisi volti alla realizzazione di un database unico del territorio. A comunicarlo è stata la prefettura di Ferrara, dove il 3 settembre si è riunito il tavolo di monitoraggio dalla recente normativa su “prevenzione e contrasto alla criminalità mafiosa”, in particolare le disposizioni su stoccaggio e lavorazione dei rifiuti (articolo 26-bis del decreto legge n.113/2018 convertito con modificazioni dalla legge n.132/2018).

Al termine del monitoraggio sono stati avviati i lavori per mettere a punto uno schema di emergenza esterno, che la stessa normativa affida al prefetto insieme al coordinamento dell’attuazione del piano stesso. La stesura del documento, che recepirà le indicazioni operative del Viminale e del Ministero dell’Ambiente, è «un passaggio che completeremo in tempi rapidi – ha sottolineato il prefetto Michele Campanaro – con il pieno coinvolgimento degli Enti locali nel cui territorio insistono i siti di stoccaggio, per arrivare all’approvazione dei relativi piani di emergenza esterna entro il termine previsto del marzo 2020”.

L’Emilia Romagna è  tra le regioni virtuose in tema di rifiuti dove la raccolta differenziata continua a crescere superando 61%, mentre lo smaltimento in discarica scende sotto l’8,5%, percentuale già inferiore alla soglia prevista dall’Europa per il 2030. Più in generale, però,  sul fronte del traffico illecito dei rifiuti, sono 459 le inchieste condotte e chiuse dalle Forze dell’ordine dal febbraio 2002 al 31 maggio 2019. Complessivamente, sono state 90 le procure che si sono messe sulle tracce dei trafficanti, portando alla denuncia di 9.027 persone e all’arresto di 2.023, coinvolgendo 1.195 aziende e ben 46 stati esteri. Le tonnellate di rifiuti sequestrate sono state quasi 54 milioni. Tra le tipologie di scarti prediletti dai trafficanti ci sono i fanghi industriali e i rifiuti speciali contenenti materiali metallici.

In Tennessee Harry Potter viene messo all’indice

La notizia è stata pubblicata dal Tennessean, un giornale locale che fa parte del circuito di Usa Today.

Una scuola elementare cattolica privata di Nashville, nel Tennessee, ha rimosso dalla sua biblioteca tutti i libri di Harry Potter perché contengono “maledizioni e incantesimi reali, che se letti da un essere umano rischiano di evocare spiriti maligni”.

Il pastore della scuola cattolica di St Edward Father Reehil ha informato via mail i genitori sulla decisione presa “dopo aver consultato diversi esorcisti”.

“Le maledizioni e gli incantesimi usati nei libri sono veri”, ha spiegato il reverendo Reehil. “Quando letti da un essere umano rischiano di evocare gli spiriti maligni”.

Non è la prima volta che i libri di Harry Potter vengono messi all’indice. Ad aprile, nella cittadina polacca di Koszalin, alcuni sacerdoti hanno messo al rogo i libri del maghetto perché ritenuti sacrileghi.

Addio alla presbiopia

Un nuovo farmaco della Novartis, per ora solo una sigla (Unr844), potrebbe arrivare nel 2023 dopo la fine dei trial ancora in corso per farci dire addio alla presbiopia.

Concluso lo studio, e poi il suo iter autorizzativo, sarà possibile il commercio delle gocce oculari che dovranno essere prese tutti i giorni.

“Saranno gocce oculari che penetreranno nel cristallino, ristabilendone l’elasticità – ha spiegato Gaia Panina, Chief scientific officer della Divisione farmaceutica del Gruppo Novartis in Italia -. Siamo ora nella fase iniziale dello studio del programma di sviluppo clinico”.

Il nuovo Governo Conte

Il Presidente della Repubblica ha ricevuto oggi al Palazzo del Quirinale il Prof. Giuseppe Conte, il quale, sciogliendo la riserva, ha accettato di formare il nuovo Governo e ha sottoposto al Presidente della Repubblica le proposte relative alla nomina dei Ministri,.

Ecco la lista completa dei ministri del Conte bis

Sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Riccardo Fraccaro

Rapporti con il Parlamento, Federico d’Incà

Innovazione tecnologica, Paola Pisano

Pubblica Amministrazione, Fabiana Dadone

Sud, Giuseppe Provenzano

Politiche giovanili e Sport, Vincenzo Spadafora

Pari opportunità, Elena Bonetti

Affari Europei, Enzo Amendola

Esteri, Luigi Di Maio

Interno, Luciana Lamorgese

Giustizia, Alfonso Bonafede

Difesa, Lorenzo Guerini

Affari regionali, Francesco Boccia

Economia, Roberto Gualtieri

Sviluppo Economico, Stefani Patuanelli

Politiche agricole, Teresa Bellanova

Beni culturali, Dario Franceschini

Ambiente, Sergio Costa

Lavoro, Nunzia Catalfo

Miur, Lorenzo Fioramonti

Infrastrutture e Trasporti, Paola De Micheli

Salute, Roberto Speranza

Un nuovo Governo apre le porte a una fase di rigenerazione della politica.

Di fronte alle smargiassate di un Salvini pronto a tutto, vestito di niente (in spiaggia) pur di ottenere tutto, bisognava reagire. E fortunatamente la reazione c’è stata. Poteva essere migliore, perché sull’accordo M5S-Pd grava l’ombra di un’ambizione puramente difensiva, a dispetto dei proclami di Grillo sulla evidenza di una grande “opportunità storica”. Nulla vietava di promuovere un’intesa più leggera, e nondimeno egualmente impegnativa, per superare l’emergenza. Il governo di tregua aveva questo significato e non implicava la partecipazione diretta del Pd, fino a ieri all’opposizione. Il suo sostegno parlamentare avrebbe comunque garantito l’innesco di una svolta. Poi, avviata la nuova fase, quel che poteva maturare lo si sarebbe visto e apprezzato.

Acqua passata. Oggi conta il fatto che parte un nuovo esecutivo e con esso un nuovo tempo della politica italiana. Anche gli iscritti alla piattaforma Rousseau hanno dato il via libera. La procedura è stata inopportuna? Probabilmente sì è circondato di suspence un evento che i maestri del web dimostrano di saper controllare nelle dinamiche più profonde. Si è trattato di un voto circoscritto al mondo pentastellato, sebbene a pronunciarsi siano state migliaia di persone e non un limitato numero di dirigenti politici – quali di norma sono gli eletti nei diversi organi, allargati o ristrettì, di un partito tradizionale. Non c’è stato nessun vulnus, dunque, alla costituzione (formale o materiale) dal momento che l’operazione si è svolta prima che al Quirinale salisse – lo farà invece nelle prossime ore – il Presidente incaricato.

Cosa è lecito attendersi a questo punto? Certamente la pubblica opinione vorrebbe riscontrare la volontà di fare sul serio, con ciò intendendo, come prima cosa, la scelta di una bella squadra di governo. Bella, cioè, perché composta di figure autorevoli, specie nei gangli vitali dell’amministrazione (Interno, Economia, Esteri e Difesa) su cui, in particolare, Mattarella eserciterà il suo diritto-dovere di valutazione, ancorché discreta e garbata. Alla sarabanda di gesti e di proclami, come siamo stati abituati nei 18 mesi del governo uscente, deve subentrare uno stile di superiore concretezza e sobrietà. Già questo darebbe l’idea di un colpo d’ala assai prezioso.

Poi, come si dice, governare non è asfaltare. Urge l’impennata che al Paese manca da troppo tempo, se è vero che da un quarto di secolo, ovvero dalla fine della “Repubblica dei partiti” che solerti strateghi hanno voluto dipingere a tinte fosche, il ciclo della crescita si è interrotto. Abbiamo di fronte il declino dell’Italia: tanto debito e pochi figli, tanti diritti e pochi doveri, tante paure e poca solidarietà. Conte ha sulle spalle una responsabilità di prima grandezza. Oltre il governo, però, c’è la forza della politica. Alle prossime elezioni avremo sicuramente un quadro ben diverso dall’attuale, specie se il ritorno alla proporzionale, in misura calibrata con le esigenze della governabilità, segnerà lo sviluppo di nuove aggregazioni politiche.

Si tratta di capire, allora, se la variegata galassia del cattolicesimo democratico incrocerà la ritrovata consapevolezza di un ruolo più organico, senza cadere nelle velleità di un risorgente integralismo. Adesso, in fondo, si riparte da una premessa largamente condivisa, quella che ha portato nel passaggio della crisi a scegliere il fronte dell’antisovranismo. Da ciò può derivare, come obbligo per tutti, la ripresa di un dialogo ad ampio raggio, ma con i tempi giusti e le aperture necessarie, evitando perciò fughe in avanti. Nessuno sa, per altro, quale sviluppo avrà la discussione sul futuro del sistema politico italiano. Un nuovo cantiere democratico implica la verifica di ciò che serve veramente o viceversa, nel concreto dipanarsi del lavoro politico, non serve affatto. Non è detto che il luogo dove i cattolici democratici applicheranno il loro talento debba avere, in senso stretto, le caratteristiche di un partito vecchio stampo, quanto invece le forme di un ambiente circolare, per qualche verso fluido, identificabile all’occorrenza nei termini di una inedita coalizione libera e permanente, capace di corrispondere alle domande di progresso e sicurezza del Paese. L’importante è che il cantiere sia vissuto e animato in spirito di autentica volontà ricostruttiva.

5 stelle e Pd, addio al centro sinistra.

Dopo la più grande operazione trasformistica del secondo dopoguerra, la politica italiana è destinata a cambiare in profondità. Nulla sarà più come prima. Certo, è perfettamente inutile ricordare ciò che ormai tutti – o quasi tutti – sanno. Ovvero, il sostanziale “terrore” dei due partiti che si accingono a governare, delle elezioni anticipate perché sarebbero state sconfitte dalle urne. Almeno così hanno sostenuto ripetutamente i leader dei due partiti. La conferma del seggio, e quindi dello stipendio, per un arco di tempo non breve per gli eletti. Il tutto condito e giustificato dal fatto che, come da copione, siamo di fronte al rischio della “minaccia fascista”, del pericolo di una “dittatura” strisciante, del restringimento delle “libertà democratiche”, della “concentrazione dei poteri” e via discorrendo con queste amenità. Oltre a queste considerazioni, peraltro note e ormai straconosciute da tutti, il governo Pd/5 stelle introduce anche un altro tema, sino ad oggi non così platealmente confermato e anche teorizzato. E cioè, d’ora in poi la cosiddetta “coerenza” in politica diventa sostanzialmente un optional, un accessorio, un elemento del tutto estraneo ed avulso dalla dialettica politica italiana. Ci si può insultare per 10 anni esaltando, scrivendo, sostenendo, votando, evidenziando le diversità insormontabili e invalicabili tra due partiti e dopo, nell’arco di pochi giorni, siglare addirittura un “accordo politico”, di “lunga durata” , “strategico” e quasi “storico”. Tutto cancellato, tutto rimosso, tutto azzerato. Appunto, è scomparsa ogni sorta di coerenza politica, culturale, programmatica e anche di natura comportamentale. Ma, ripeto, si tratta di considerazioni e di riflessioni talmente note e conosciute che non meritano neanche di essere ulteriormente commentate. 

Quello che, invece, merita un supplemento di riflessione dopo il varo del governo degli ex nemici irriducibili 5 stelle/Pd, è il destino di quello che comunemente e per molti decenni si è chiamato “l’alleanza di centro sinistra”. È un dato altrettanto scontato che l’alleanza con un partito antisistema, populista, assistenziale, giustizialista e con l’obiettivo di favorire una “decrescita felice” segna la fine – momentanea o definitiva lo verificheremo nei prossimi anni – di quella esperienza che ha segnato in profondità la storia politica italiana. Una alleanza che, seppur nelle diverse fasi storiche, ha saputo elaborare politiche e ricette di governo frutto dell’incrocio e della sintesi fra le migliori culture riformiste e costituzionali del nostro paese. È persin ovvio ricordare che l’accordo storico e di lunga durata con il partito di Grillo e Casaleggio, come lo definisce Zingaretti, chiude quella pagina e ne apre un’altra del tutto diversa che, ad oggi, non si capisce ancora quale ne sarà il profilo, la natura e soprattutto il progetto politico e di governo. Ma, al di là di ogni considerazione, è del tutto evidente che si chiude una lunga fase storica e si apre una nuova pagina. Ancora tutta da decifrare e da scrivere. Del resto, che si chiuda una pagina lo dicono le tonnellate di insulti, di contumelie, di diffamazioni, di attacchi personali e politici che hanno accompagnato i rapporti tra gli esponenti principali di quei 2 partiti da oltre 10 anni e che sono stati misteriosamente ed inspiegabilmente sospesi da circa 15 giorni. E cioè, per elevarla su un terreno politico – si fa per dire – una contrapposizione politica frontale che per alcuni lustri ha caratterizzato i comportamenti a livello nazionale e a livello locale tra i due partiti e che poi si sono sciolti come neve al sole in pochissimi giorni. 

Ora, per chi crede ancora che una prospettiva politica, culturale e programmatica di centro sinistra possa ancora dare un contributo importante per la vita di questo paese, non può rinunciare a riproporre un patrimonio che è stato decisivo per la stessa qualità della nostra democrazia e per la credibilità della cultura riformista italiana. A cominciare da quelle culture e da quei filoni ideali che in questi decenni non hanno rinunciato a dispiegare, seppur tra mille difficoltà e contraddizioni, la loro potenzialità nelle diverse fasi storiche. Penso, nello specifico, alla tradizione e alla storia del cattolicesimo democratico e popolare che non può essere sacrificata sull’altare di uno spregiudicato disegno trasformista e di potere. 

Certo, i conti si fanno sempre con i dati che la realtà di volta in volta ti propone. Anche quando si tratta della più grande operazione trasformistica del secondo dopoguerra. Però, alla fine, forse la coerenza alle proprie radici e alla propria cultura potrà ancora giocare un ruolo decisivo per rafforzare la nostra democrazia e irrobustire il miglior riformismo democratico, costituzionale e sociale del nostro paese. 

 

Per non accontentarsi di essere in vita

Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Roberto Righetto

L’ultimo in ordine di tempo è stato Michel Onfray, notissimo filosofo ateo d’Oltralpe: nel suo ultimo volume, Theorie de la dictature, come segnalato da Giulio Meotti sul «Foglio», fa il verso alla Chiesa cattolica e se la prende con la teoria del gender, «una rivoluzione ideologica che vuole annichilire la natura», paventando l’avvento di una società che «pratica il linguaggio unico, cancella il passato e riscrive la storia». In un articolo sul «Nouvel Observateur» poi, Onfray ha scritto che è in corso oggi un conflitto «fra chi afferma che il corpo e la carne non esistono, che gli esseri umani sono solo archivi culturali, che il modello originale dell’essere è l’angelo, il neutro, l’asessuato, la cera malleabile, l’argilla priva di sesso da plasmare sessualmente, e chi sa che l’incarnazione concreta è la verità dell’essere che viene al mondo».

Qualche mese fa era stato lo scrittore Michel Houellebecq, in un’intervista al settimanale tedesco «Der Spiegel», a parlare di «un curioso ritorno del cattolicesimo», sposando poi con forza nel suo ultimo romanzo Serotonina, pubblicato in Italia da La nave di Teseo (Milano, 2019, pagine 332, euro 19) «il punto di vista di Cristo, il suo ripetuto irritarsi di fronte all’insensibilità dei cuori, il suo dare la vita per i miserabili». 

Ora è un altro filosofo esplicitamente non credente, François Jullien, a sorprendere con il suo libro da poco tradotto in italiano col titolo Risorse del cristianesimo. Ma senza passare per la via della fede (Firenze, Ponte alle grazie, 2019, pagine 120, euro 14). 

Assai conosciuto per i suoi lavori sullo scarto fra la cultura occidentale, segnata dalla Grecia, e quella cinese, ora riapre al cristianesimo come punto essenziale per la cultura europea e lo fa rileggendo il Vangelo di Giovanni. Un po’ come aveva fatto Emmanuel Carrère con quello di Luca: ma se  Il regno  aveva l’impronta dello scrittore, il saggio di Jullien ha il tratto del filosofo. Sulla scia di pensatori come Agostino, Pascal e Kierkegaard e, per venire più vicino a noi, di Jean-Luc Marion, Jean-Louis Chrétien e Michel Henry, Jullien  parla del cristianesimo come di una questione centrale, anzi «esplosiva», per il pensiero contemporaneo, portato spesso a liquidarla come appartenente al passato. 

La peculiarità del libro di Jullien è che il suo approccio — come si comprende dal sottotitolo — elude preliminarmente la consueta e scontata disputa fra credenti e non credenti. Egli non ha in mente di riproporre una filosofia cristiana e nemmeno anticristiana: inoltre, più che di “valori” o “radici”, preferisce parlare di “risorse”, un termine che piacerebbe a Papa Francesco.

«La peculiarità della risorsa — spiega — è che essa si esplora e si sfrutta; e che la si esplora mentre la si sfrutta». La risorsa contiene un appello alla responsabilità, mentre il valore «ha fatto deflagrare la nozione tradizionale di Bene nel pensiero contemporaneo». Le risorse poi non entrano in concorrenza l’una con l’altra, per cui ci si può avvalere delle risorse del pensiero cristiano come di quelle del pensiero taoista. Infine, “risorsa” non equivale a “radice”, un concetto che porta a rafforzare l’identità nel senso della chiusura, e «chiama alla condivisione»: il cristianesimo ha compiuto un’operazione di «sradicamento» rispetto al passato, di rifiuto di ogni marchio etnico, di apertura totale verso l’alterità. 

Ma torniamo a Giovanni. Per il nostro filosofo il quarto Vangelo è quello meno ideologico e punta sulla possibilità di un evento che appare inaudito, un evento che viene inscritto dentro l’Essere. E qui c’è un’enorme novità rispetto al pensiero dei greci, che avevano sempre considerato il divenire come un depauperamento dell’Essere. 

Giovanni compie una vera rivoluzione e mette a fuoco la capacità del divenire come evento. Jullien azzarda anche una diversa traduzione dei verbi “essere” e “divenire” che compaiono più volte proprio all’inizio del Vangelo di Giovanni: per lui la traduzione corretta è “avvenire”: «Il mondo avvenne attraverso di lui» oppure «il Logo avvenne carne», eccetera. Questa rilettura del Prologo porta Jullien a sostenere che «Giovanni ha scelto di pensare che esiste un tale “avvenire” che apre un futuro non già contenuto dentro ciò che l’ha preceduto, che non è già legato e incatenato. Qualcosa di inedito è possibile». Il divenire viene ancorato di nuovo all’Essere e lo rende in grado di innovare. 

L’Incarnazione rivista filosoficamente acquista un senso nuovo anche rispetto alla vita, diversamente dai greci, i quali distinguevano fra bios, la vita buona, etica e politica, e zoé, la vita in quanto semplicemente si è in vita, quella che fa di noi dei viventi. Giovanni invece distingue fra psyché, il soffio vitale, il semplice essere in vita, e zoé, intesa come il fatto di avere in sé la vita nella sua pienezza, la vita in sovrabbondanza, differente dal bios greco che ha un significato pressoché solo politico. 

Jullien anche qui critica la traduzione consueta che non rispetta questa distinzione e rende i due epiteti uniformemente come “vita”. E porta l’esempio del dialogo fra Gesù e la samaritana: l’acqua del pozzo che Gesù chiede è quella che mantiene l’essere-in-vita, al livello della psyché, ma «l’acqua che potrebbe offrire il Cristo in cambio è l’acqua viva, nel senso della zoé». Vale a dire «un’acqua che zampilla per la vita che non muore». Uno scarto che si ripresenta a proposito del termine “agape” e che per Jullien va inteso nel senso della vita espansiva, dell’apertura radicale all’altro, in opposizione all’amore considerato come possessivo. 

Come si vede, quella di Jullien è una proposta affascinante, che egli consegna a credenti e non credenti, secondo una concezione del cristianesimo non più come valore ma come risorsa: l’appello a «non contentarsi di essere in vita, ma cercare di raggiungere, in seno a questa stessa vita, con sempre maggior esigenza, ciò che fa vivere». Una vita “espansa” che si offre e si condivide, che non si tiene in serbo ma si dedica all’altro.

Unhcr: rafforzare l’istruzione dei rifugiati

Secondo il Rapporto “Stepping Up: Refugee Education in Crisis – Rafforzare l’istruzione dei rifugiati in tempi di crisi – dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, solo il 63% dei bambini profughi frequenta la scuola elementare, rispetto al 91% su scala globale, mentre gli adolescenti esuli iscritti alla scuola secondaria sono il 24%, a fronte dell’84% nell’intero pianeta. Un grido d’allarme quello dell’Agenzia, poichè senza scolarizzazione il futuro dei rifugiati è ancor più compromesso.

A fine 2018, sono stati stimati oltre 25,9 milioni di profughi nel mondo, di cui 20,4 milioni sotto il mandato dell’Unhcr. Circa la metà di essi ha meno di 18 anni e diversi milioni di loro vivono in situazioni di crisi prolungate, con poche speranze di tornare a casa nel breve periodo. Il notevole calo della frequenza scolastica da parte dei rifugiati nel passaggio tra la scuola primaria e secondaria è il risultato della mancanza di finanziamenti da destinare alla loro istruzione. Per questo l’Unhcr esorta i governi, il settore privato, le organizzazioni educative a fornire sostegno finanziario ad una nuova iniziativa tesa a promuovere l’istruzione secondaria per i rifugiati.

Il Report sottolinea la necessità che gli esuli vengano inclusi nei sistemi educativi nazionali, anziché essere trasferiti in scuole alternative non ufficiali, e che essi possano seguire programmi di studio riconosciuti durante tutto il ciclo dell’istruzione prescolare, primaria e secondaria. Questo per poter consentire loro di ottenere un titolo idoneo per l’accesso all’università o ai corsi di formazione professionale superiore.

L’Amazzonia, il Sinodo e noi: l’editoriale di Aggiornamenti Sociali

Pubblichiamo la prima parte dell’editoriale che appare, a firma di Giacomo costa sul numero giugno – luglio di “Aggiornamenti sociali”, rivista dei gesuiti milanesi.

Un nuovo appuntamento sinodale attende la Chiesa: dal 6 al 27 ottobre si svolgerà l’Assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per la Regione Panamazzonica. I devastanti roghi di queste settimane, e la conseguente attenzione mediatica su una regione spesso dimenticata, hanno reso meno difficile capire perché il presente e il futuro dell’Amazzonia ci riguardano. Resta però importante riflettere sui motivi per cui questo evento coinvolge tutti i credenti (e non solo loro), anche quelli di Paesi e Chiese molto lontani.

«Occuparci del Sinodo per l’Amazzonia – scrive nell’editoriale del nuovo numero il direttore di Aggiornamenti Sociali, padre Giacomo Costa, che è anche Consultore della Segreteria dello stesso Sinodo – non è una fuga esotica dai nostri problemi locali. (…) Questo Sinodo è un esperimento, il primo probabilmente, di articolazione tra la dimensione locale e quella globale all’interno del paradigma dell’ecologia integrale. L’attenzione a legami e connessioni permette di cogliere ciò che fa dell’Amazzonia una unità peculiare, al di là delle frontiere che la percorrono, e obbliga a non dimenticare ciò che la collega al resto del pianeta». In questo senso, «sebbene applicare altrove proposte e soluzioni elaborate per il contesto amazzonico sarebbe un cortocircuito, resta vero che tutti abbiamo da imparare che cosa significa affrontare problemi peculiari di un territorio con un metodo sinodale».

Dopo avere passato rapidamente in rassegna alcuni tratti caratteristici del “bioma amazzonico”, definizione che esprime la complessità di questa regione dal punto di vista geografico, antropico e ambientale, l’editoriale si sofferma sull’importanza di porsi «in ascolto dei popoli indigeni, liberandoci da molti retaggi, (…) dal mito del “buon selvaggio” alla dialettica tra arretratezza e modernità. Le culture amazzoniche sono tutt’altro: una civiltà articolata e viva, che da secoli si confronta con la sfida della modernità e della colonizzazione, e continua a fare i conti con conflitti e contraddizioni interni ed esterni».

Solo questo atteggiamento di ascolto contentirà, durante e dopo il Sinodo, di comprendere meglio un concetto chiave, quello del “buen vivir”, ovvero «un modo di vivere che affonda le radici nelle tradizioni indigene e fa riferimento non a una dottrina compiuta, ma a pratiche di creazione di relazione tra le persone e i gruppi attraverso il legame con il territorio». Il buen vivir – precisa padre Costa – «non è una condizione idilliaca data una volta per tutte, ma un cammino tanto concreto quanto fragile».

Per noi occidentali, questo ascolto potrebbe e dovrebbe generare «un interrogativo radicale sulla definizione di “vita buona” alla base del nostro modello di progresso». Occorre infatti «abituarsi a vedere la realtà da più punti di vista e accettare di essere messi in discussione da quelli degli altri, non per assumerli supinamente – il complesso di colpa dell’Occidente –, ma per esserne stimolati e a nostra volta stimolarli. Sono legittimi quei rilievi che segnalano limiti e debiti ideologici in certe argomentazioni e letture dei fenomeni sociali ed economici che provengono dai contesti latinoamericani, ma a condizione che accettiamo di lasciarci dire che, visto dalla loro prospettiva, il nostro ideale di “vita buona”, anche nella sua versione migliore, è intriso di materialismo, che la nostra cultura, anche ecclesiale, trasuda non solo secolarizzazione, ma secolarismo, e fatica a lasciare uno spazio riconoscibile per la trascendenza».

Risulta allora chiaro come il Sinodo del prossimo ottobre possa e debba coinvolgerci molto più di quanto pensiamo. E se è evidente, conclude Costa, che «le soluzioni a cui il percorso sinodale giungerà difficilmente risulteranno appropriate ad altri contesti», tuttavia l’approccio richiesto dal Sinodo, il suo appello a mettersi in ascolto di una pluralità di prospettive potrebbe risultare prezioso anche per altri contesti. «È il caso del Mediterraneo – suggerisce Costa -, che ha molte analogie e altrettante differenze rispetto all’Amazzonia. (…) Davvero non riusciamo a guardare al Mediterraneo da prospettive alternative, capaci di farci superare le contraddizioni in cui continuiamo a inciampare e i problemi a cui non riusciamo a dare soluzione? (…) Perché non sognare anche un Sinodo mediterraneo, senza con questo scaricare sul Papa l’onere di assumere tutte le iniziative? I nuovi cammini dell’ecologia integrale riguardano l’Amazzonia, ma non solo».

Dalla Chiesa: Mattarella, “suo sacrificio è stato il seme di una forte reazione civile”

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ricorda il gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa in occasione del XXXVII anniversario dell’uccisione avvenuta a Palermo per mano mafiosa.

«Nel trentasettesimo anniversario della strage di Via Isidoro Carini, rinnovo l’omaggio commosso del Paese e mio personale alla memoria del Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, della Signora Emanuela Setti Carraro e dell’agente Domenico Russo, vittime della barbarie mafiosa.

Innovatore attento e lungimirante, il Generale Dalla Chiesa era mosso da una profonda fiducia nello Stato e nella sua capacità di sconfiggere le organizzazioni nemiche della sicurezza e della legalità repubblicana, anche quelle più subdole e pervasive; rifiutava il mito dell’invincibilità della mafia così come, nelle sue precedenti esperienze, non aveva mai accettato che si potesse cedere o indietreggiare davanti alla violenza terroristica.

La sua determinazione, sorretta da un profondo senso etico e istituzionale, si è tradotta in metodi di lavoro e modelli organizzativi originali, che hanno orientato il lavoro di successive generazioni di servitori dello Stato. Il suo sacrificio è stato il seme di una forte reazione civile che – anche attraverso nuovi strumenti normativi – ha prodotto un significativo incremento nella capacità di risposta e di contrasto alla violenza mafiosa.

Con sentimenti di partecipe emozione, rivolgo un particolare ricordo ad Emanuela Setti Carraro e Domenico Russo. Il loro esempio di coraggio e generosa dedizione è comune a tanti uomini e donne che anche oggi, per motivi familiari o professionali, coscientemente condividono i rischi e le preoccupazioni di chi è esposto a tutela della libertà, della legalità e della giustizia.

Con questo spirito, rinnovo alle famiglie Dalla Chiesa, Setti Carraro e Russo i sentimenti di solidarietà e vicinanza miei e dell’intera comunità nazionale».

La battaglia per Budapest

L’Ungheria si sta preparando per le elezioni locali. E mentre la politica nazionalista di Orbán gode di un forte sostegno in tutto il paese, non è così a Budapest, dove il suo partito ha vinto, alle elezioni europee, con il  41,17% (scendendo fino al 31,72% nel distretto del centro città), dati molto bassi rispetto con il 52,56% raccolto a livello nazionale.

Quindi, l’opposizione, che vuole allentare la presa di Viktor Orbán sul potere, sta sperimentando una nuova strategia: una coalizione di tutti i partiti anti Orban che prevede candidati comuni alle elezioni locali per impedire una competizione al massacro.

E cosi succede che il Partito liberale ungherese (Mlp) decida con i socialisti e i verdi di sostenere la candidatura di Gergely Karacsony a sindaco di Budapest nelle amministrative.

Mentre la destra, cosa impensabile fino a qualche tempo fa, non sta schierando il proprio candidato.

Anche nei distretti della città, oltre che fuori Budapest, sono stati scelti candidati comuni dopo mesi di trattative tra i gruppi di opposizione.

Un segnale nuovo per la politica ungherese.

Anche se ciò che sarà più importante per gli elettori non saranno le coalizioni ma i temi riguardanti le varie città.

Per avere il sostegno di una comunità, prima di tutto, bisogna sapergli indicare le prospettive ma anche i valori e i principi che regolano il proprio agire una volta eletti.

Così la gara, nella capitale, così come in tutte le altre amministrative,  che sarà in gran parte incentrata su questioni che incidono sulla vita quotidiana dei residenti, non dovrà solo concentrarsi come avverrà a  Budapest, su questioni quali l’aumento dei prezzi delle case, le sfide dei trasporti e la scarsa qualità dell’aria, ma sopratutto sul tipo di valori che si intende perseguire.

 

 

Una speranza per combattere il Parkinson

Un gruppo di ricercatori italiani dell’Università di Roma “Tor Vergata”, Fondazione Santa Lucia IRCCS e Università Campus Bio-Medico di Roma ha scoperto che, la malattia di Parkinson potrebbe essere rallentato grazie alle Resolvine, molecole prodotte dal nostro organismo per spegnere processi infiammatori e riparare i tessuti danneggiati da questi processi.

Il gruppo di ricerca è così riuscito a rallentare il processo neurodegenerativo che caratterizza la malattia di Parkinson. I risultati dello studio pubblicati su “Nature Communications”

Il programma M5s-Pd: la bozza integrale

Pubblichiamo la bozza del programma M5s-Pd pubblicata sul Blog delle Stelle per informare gli iscritti alla piattaforma Rousseau al voto

 

1) Con riferimento alla legge di bilancio per il 2020 sarà perseguita una politica economica espansiva, senza compromettere l’equilibrio di finanza pubblica, e, in particolare: neutralizzazione dell’aumento dell’IVA, sostegno alle famiglie e ai disabili, il perseguimento di politiche per l’emergenza abitativa, deburocratizzazione e semplificazione amministrativa, maggiori risorse per scuola, università, ricerca e welfare.

2) Occorre: a) ridurre le tasse sul lavoro, a vantaggio dei lavoratori; b) individuare una retribuzione giusta (“salario minimo”), garantendo le tutele massime a beneficio dei lavoratori; c) approvare una legge sulla rappresentanza sindacale; d) individuare il giusto compenso anche per i lavoratori non dipendenti, al fine di evitare forme di abuso e di sfruttamento in particolare a danno dei giovani professionisti; e) realizzare un piano strategico di prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali; f) introdurre una legge sulla parità di genere nelle retribuzioni, recepire le direttive europee sul congedo di paternità obbligatoria e sulla conciliazione tra lavoro e vita privata.

3) È essenziale investire sulle nuove generazioni, al fine di garantire a tutti la possibilità di svolgere un percorso di crescita personale, sociale, culturale e professionale nel nostro Paese. Occorre altresì creare le condizioni affinché chi ha dovuto lasciare l’Italia possa tornarvi e trovare un adeguato riconoscimento del merito.

4) Occorre promuovere una più efficace protezione dei diritti della persona e rimuovere tutte le forme di diseguaglianze (sociali, territoriali, di genere), che impediscono il pieno sviluppo della persona e il suo partecipe coinvolgimento nella vita politica, sociale, economica e culturale del Paese. Occorre intervenire con più efficaci misure di sostegno alle famiglie con persone con disabilità e alle famiglie numerose.

5) Occorre realizzare un Green New Deal, che comporti un radicale cambio di paradigma culturale e porti a inserire la protezione dell’ambiente tra i principi fondamentali del nostro sistema costituzionale. Tutti i piani di investimento pubblico dovranno avere al centro la protezione dell’ambiente, il ricorso alle fonti rinnovabili, la protezione della biodiversità e dei mari, il contrasto dei cambiamenti climatici. Occorre adottare misure che incentivino prassi socialmente responsabili da parte delle imprese. Occorre promuovere lo sviluppo tecnologico e le ricerche più innovative in modo da rendere quanto più efficace la “transizione ecologica” e indirizzare l’intero sistema produttivo verso un’economia circolare.

6) Occorre potenziare le politiche sul dissesto idrogeologico, per la riconversione delle imprese, per l’efficientamento energetico, per la rigenerazione delle città e delle aree interne, per la mobilità sostenibile e per le bonifiche. Bisogna accelerare le procedure di ricostruzione delle aree terremotate.

7) Occorre potenziare il sistema della ricerca, favorendo un più intenso coordinamento tra centri universitari ed enti di ricerca, nel segno della internazionalizzazione.

8) Sono necessari investimenti mirati all’ammodernamento delle attuali infrastrutture e alla realizzazione di nuove infrastrutture, al fine di realizzare un sistema moderno, connesso, integrato, più sicuro, che tenga conto degli impatti sociali e ambientali delle opere.

9) Con la nuova Commissione occorrerà rilanciare investimenti e margini di flessibilità per rafforzare la coesione sociale, promuovendo modifiche necessarie a superare l’eccessiva rigidità dei vincoli europei in materia di politiche di bilancio pubblico. Occorrono regole orientate anche alla crescita non solo alla stabilità. Abbiamo bisogno di un’Europa più solidale, più inclusiva, soprattutto più vicina ai cittadini.

10) È necessario inserire, nel primo calendario utile della Camera dei deputati, la riduzione del numero dei parlamentari, avviando contestualmente un percorso per incrementare le garanzie costituzionali, di rappresentanza democratica, assicurando il pluralismo politico e territoriale.

11) L’Italia ha bisogno di una seria legge sul conflitto di interessi, con una contestuale riforma del sistema radiotelevisivo improntato alla tutela dell’indipendenza e del pluralismo.

12) Occorre ridurre drasticamente i tempi della giustizia civile, penale e tributaria, e riformare il metodo di elezione dei membri del Consiglio superiore della Magistratura.

13) Occorre potenziare l’azione di contrasto delle mafie e combattere l’evasione fiscale, anche prevedendo l’inasprimento delle pene per i grandi evasori e rendendo quanto più possibile trasparenti le transazioni commerciali.

14) Il Paese ha bisogno di un’ampia riforma fiscale, con semplificazione della disciplina e abbassamento della pressione fiscale. Occorre razionalizzare la spesa pubblica, operando una efficace opera di spending review e rivedendo il sistema di tax expenditures.

15) È indispensabile promuovere una forte risposta europea al problema della gestione dei flussi migratori, anche attraverso la definizione di una normativa che persegua la lotta al traffico illegale di persone e all’immigrazione clandestina, ma che – nello stesso tempo – affronti i temi dell’integrazione. La disciplina in materia di sicurezza dovrà essere aggiornata seguendo le recenti osservazioni formulate dal Presidente della Repubblica.

16) Va lanciato un piano straordinario di investimenti per la crescita e il lavoro al Sud, anche attraverso l’istituzione di una banca pubblica per gli investimenti che aiuti le imprese in tutta Italia e che si dedichi a colmare il divario territoriale del nostro Paese.

17) È necessario completare il processo di autonomia differenziata giusta e cooperativa, che salvaguardi il principio di coesione nazionale e di solidarietà, la tutela dell’unità giuridica e economica. Occorre inoltre avviare un serio piano di riorganizzazione degli enti locali, sopprimendo gli enti inutili.

18) È necessario porre in essere politiche per la tutela dei risparmiatori e del risparmio.

19) Occorre tutelare i beni comuni, come la scuola, l’acqua pubblica, la sanità. Anche le nostre infrastrutture sono beni pubblici ed è per questo che occorre avviare la revisione delle concessioni autostradali.

20) Per favorire l’accesso alla piena partecipazione democratica, all’informazione e la trasformazione tecnologica, la cittadinanza digitale va riconosciuta a ogni cittadino italiano sin dalla nascita, riconoscendo – tra i diritti della persona – anche il diritto di accesso alla rete.

21) Il progetto di innovazione e digitalizzazione della P.A. costituisce una misura particolarmente efficace per contribuire allo sviluppo e alla crescita economica e culturale del Paese.

22) Occorre concentrarsi sull’equità fiscale, la portabilità dei dati, i diritti dei lavoratori digitali (cosiddetti riders), i modelli redistributivi che incidono sul commercio elettronico, sulla logistica, sulla finanza, sul turismo, sull’industria e sull’agricoltura. Occorre introdurre la web tax per le multinazionali del settore che spostano i profitti e le informazioni in Paesi differenti da quelli in cui fanno business.

23) Occorre offrire maggiore tutela e valorizzare il personale della difesa, delle Forze dell’ordine e dei vigili del fuoco (comparto sicurezza).

24) Occorre promuovere i multiformi percorsi del turismo, valorizzando la ricchezza del nostro patrimonio naturale, storico, artistico, anche attraverso il recupero delle più antiche identità culturali e delle tradizioni locali.

25) Occorre rafforzare il nostro export, individuando gli strumenti più idonei per promuovere e accompagnare il made in Italy.

26) Il Governo dovrà collaborare per rendere Roma una capitale sempre più attraente per i visitatori e sempre più vivibile e sostenibile per i residenti.

Un problema “climatico”. Come orientare le priorità politiche

Sul Foglio di ieri Antonio Spadaro indica cinque punti “per svelenire il clima”. Come dice lui stesso non è una ricetta, ma cinque priorità che consiglia di tener presenti. Come suo solito, prende parola senza alzare la voce, con compostezza. Eppure i cinque consigli non restano tanto nel vago: parla di legge elettorale, di politiche sociali, di immigrazione, di Europa. Soprattutto bisogna cogliere l’orizzonte entro il quale queste priorità si presentano: la normalizzazione del “clima” sociale. Qui sta il punto.

Affannati da urgenze disordinatamente sbandierate come prioritarie, i leader attuali sembrano aver perso di vista qualsiasi prospettiva d’insieme. Il taglio dei parlamentari, ad esempio, è presentato come un traguardo epocale, quando dovrebbe essere ricompreso in una revisione più ampia e coerente del sistema rappresentativo, che abbia di mira un risultato ben maggiore del risparmiare un po’ di soldi attaccando ideologicamente “la casta”. Si rischia, anche con questo nascente governo, di scegliere le priorità solo sull’onda della retorica della discontinuità fine a se stessa, di cadere in una sorta di contro-populismo sterile quanto il populismo che si combatte.

Il problema sta nell’ampiezza dell’orizzonte che si sceglie di guardare. La vera sfida che la stessa realtà nei suoi sviluppi lancia all’intero sistema partitico, da tempo preda di una “sindrome della polarizzazione”, è cambiare prospettiva, cambiare orizzonte, cambiare aria. In tono pacato ma diretto, Spadaro sembra indicare proprio questo: le priorità politiche vanno pensate e messe in atto a partire da un nuovo orizzonte, da una nuova “atmosfera”. Non basta questa o quell’altra misura d’emergenza, mettere a posto i conti, tenere buona l’Europa: bisogna cambiare il clima, far circolare nuova aria, far uscire il veleno tossico della rissa da teppisti, della demonizzazione dell’avversario o dell’“altro”, occorre impostare i problemi in una prospettiva diversa.

È in vista di questa prospettiva che si rendono necessarie alcune priorità, del resto individuate da qualche tempo da un certo mondo cattolico (Politica Insieme e Rete Bianca). Tali proposte politiche sono del tutto aliene da un grigio “moderatismo” e dal conservatorismo istituzionale che tanto ha contribuito ad aumentare la distanza fra potere e cittadini (culminata nella ricerca dello scontro per recuperare l’attenzione delle masse). Assumono invece una funzione “catartica”, che riconfigurando alcune strutture fondamentali ormai cristallizzate (rappresentanza e sistema dei partiti, welfare, regionalismo, rapporti con l’Europa), aprano poi il campo ad una nuova stagione più limpida e serena della nostra politica, a un clima migliore.

Le autonomie locali al centro del rinnovamento della società italiana. Verso il congresso dell’Anci.

Con la crisi generata dalla finanza globalizzata, lo spirito di solidarietà ha subito un contraccolpo durissimo. È venuto meno, nella percezione comune, un pilastro fondamentale della vita civile. Appare così che ne prenda il posto un simulacro senza mordente, capace solo di accompagnare la grezza ebollizione degli istinti. Fatalmente, dietro la volgarità si staglia il declino della politica. Tutto si lega. L’ansia di sottrarsi alla pena di un regresso generalizzato – un mix di stagnazione economica e crescente diseguaglianza  – ha iniettato nelle arterie della società il veleno del populismo, paralizzando la funzione di gruppi o ceti dirigenti. Domina pertanto l’evocazione della sicurezza, persino nelle forme più irrazionali. È il simulacro, appunto, che adombra e distorce il bisogno di solidarietà. Ora, lontani dall’Europa saremmo forse più sicuri? E lo saremmo agitando la bandiera del nazionalismo? Piuttosto, l’Italia ha bisogno di rintracciare nel suo carattere di nazione aperta e dinamica, capace di unire intraprendenza individuale e coesione sociale, una versione alternativa alla politica del riscatto immaginifico e velleitario, sostanzialmente alieno da ogni basilare principio di responsabilità.

Se invece guardassimo più al dentro della crisi, con uno sforzo vero di analisi e comprensione, potremmo scorgere e apprezzare il ritratto migliore della nazione. Contro il ripiegamento pessimistico che debilita il Paese, la fiducia nel binomio di solidarietà e creatività trova linfa preziosa nelle comunità locali. Se nella nostra storia i Comuni hanno aperto la via alla modernità, oggi restano il nucleo pulsante del corpus istituzionale repubblicano. Sono il vestito, per dirla con il sindaco La Pira, di una autonomia in senso pieno e autentico, che risiede e opera nel quadro di aggregazioni naturali antecedenti alla costituzione dello Stato. Essi, in sostanza, esprimono e rappresentano qualcosa – l’autonomia, appunto – che qualifica l’identità comunitaria e ne struttura l’articolazione democratica.

Come la famiglia, anche la comunità incarna la proiezione sociale della persona umana. Qui è la concreta manifestazione del solidarismo possibile. Da ciò deriva il senso di “appartenenza plurale” che libera energie e promuove sintesi, facendo del civismo politico il substrato dell’unità della nazione. Quando ai primi del Novecento (1901) nacque l’Associazione dei Comuni, lo spirito di solidarietà ne fu il principio informatore: enti piccoli e grandi, sia del nord che del sud, decidevano di mettere insieme le loro esperienze per organizzare, in questo modo, una rappresentanza politico-istituzionale, non subalterna al potere accentratore dello Stato.

Fu merito di radicali e socialisti avviare il processo di organizzazione dell’Anci, fu responsabilità di Sturzo e dei cattolici municipalisti entrarvi a testa alta e con sincera convinzione, appena un anno dopo. Dunque, le forze popolari muovevano dai Comuni per cambiare l’Italia. Dobbiamo far tesoro di una lezione – oltre al metodo anche la sostanza politica – sottesa alla prima spinta autonomistica a vocazione nazionale. L’aspetto esemplare di quella operazione rifulge ancora oggi: sull’istinto egoistico doveva prevalere lo spirito di condivisione, prefigurando il superamento dello Stato monoclasse. Il decentramento, perciò,  ordinava il pluralismo sull’asse di una nuova democrazia della partecipazione, al riparo da formule ideologiche di contrapposizione tra centro e periferia, tra classi popolari ed élite, tra libertà e potere. Urge recuperare il senso di questa memoria, per capire bene cosa fare nel presente. Alle attuali spinte disgregatrici, specialmente quando prendono le forme di un regionalismo astratto e radicale, al fondo incomprensivo del rischio di riprodurre in scala i vizi e gli errori del centralismo statuale, occorre giustapporre l’ipotesi di un amalgama virtuoso, generato dalla base della società, con l’unico accentramento amico dell’autenticità autonomistica: quello prodotto dal principio di solidarietà, a sua volta congiunto al principio di libertà. L’Italia, in definitiva, può uscire dal labirinto di frustrazione e declino anche riscoprendo la forza propulsiva del suo “cuore” comunitario locale.

Si tratta, allora, di affrontare il dibattito sulla ricostruzione del Paese con un comportamento più ricco di sensibilità e consapevolezza, volto perciò a contrastare il ricorso alla vuota retorica del cambiamento. L’occasione del congresso fa dell’Anci una sede privilegiata della discussione sul futuro dell’Italia. Non serve un congresso di segno burocratico, nella logica cioè del ricambio pure e semplice delle rappresentanze elettive negli organi di direzione. Il confronto deve farsi vivo, suscitando in noi la presa d’atto di nuovi compiti e nuove sollecitazioni. Se pure nell’Anci cede lo spirito di solidarietà, sarebbe vano credere che non possa cedere in seno all’architettura complessiva delle istituzioni. 

Solidarietà vuol dire tante cose, altre ne lascia intuire e definire, dal monento che obbliga a discutere sul programma di rigenerazione dal basso di un’Italia sfiduciata e stanca. Non possiamo assistere inermi allo spopolamento delle aree interne e all’abbandono dei piccoli comuni di montagna. Alcuni studiosi, lanciando il tema del “riabitare l’Italia”, ci propongono d’intervenire sulla base di un nuovo welfare statale, così da evitare lo spreco di risorse a causa del particolarismo cristallizzato in una legislazione tortuosa, ben lontana da visioni equilibrate e lungimiranti. Sulla finanza e la fiscalità locale manca da troppo tempo l’affermazione di politiche improntate alla logica di perequazione, per avvicinare i più deboli ai più forti. I centri minori, con risorse scarse e basi imponibili ridotte, non possono essere lasciati ai margini di tutto. Anche la bellezza dei nostri borghi, vanto di un’Italia ammirata in tutto il mondo, non deve  essere di pretesto a un’azione di nera propaganda. Ci vuole più gusto della complessità. Le grandi città oramai prigioniere di se stesse, quando nella loro genesi storica sono state un fattore d’integrazione del paesaggio e dell’economia rurale, si profilano come entità politiche avvolte in un manto di autosufficienza improduttiva, specie se ad esse si lega (come avviene da decenni) la rappresentanza del sistema autonomistico. Perciò, in un quadro d’insieme, la formazione delle leggi risente della disarticolazione corporativa del mondo associativo degli enti locali. C’è la necessità, per altro, di correggere la distorsione provocata dalla cosiddetta razionalizzazione delle aziende a partecipazione comunale, per non precipitare nel ritorno ad uno schema pre-giolittiano, non distinguendo il “grano” (funzione economica attiva degli enti locali) dal “loglio” (cattiva gestione e pratiche clientelari). Più in generale, il grande comparto del welfare locale richiede una formidabile rivisitazione sul piano organizzativo e finanziario, onde si possa scongiurare la drastica contrazione dei servizi alla persona. Sull’ambiente urge un pensiero organico, un punto di vista complessivo, una strategia di fondo, afferrando la consapevolezza di un unicum che  passa dalla innovazione tecnologica, innervante le tematiche delle Smart Cities, alla tutela del territorio, specie nelle aree a rischio di desertificazione abitativa. 

Il dibattito tra gli amministratori esige massimamente la ristrutturazione di un modello politico di presenza e di collaborazione. Non solo nel quadro interno. Infatti, la stessa dialettica con il governo mette a nudo il ripiegamento avvenuto in questi anni nella contrattazione episodica e disorganica, fatalmente a vantaggio di pochi attori. L’Anci non è e non può diventare un segmento dell’apparato pubblico amministrativo.È un’associazione nata libera e che libera deve restare, anche rinunciando a qualche piccola convenienza. Chi vi opera, a nome delle migliaia di sindaci e amministratori locali, deve avvertire lo scrupolo di un servizio che si nutre di profondo senso di abnegazione. Gli organi vanno snelliti perché oggi non permettono di esaltare la democrazia interna. La figura del Presidente, a rigore, non può che essere quella del “primus inter pares”. Le Anci regionali hanno il diritto e il dovere di contribuire a un riordino della funzione rappresentativa, per incidere di più e meglio nella costruzione dei programmi associativi. Sulla struttura operativa occorre agire con oculatezza, valorizzando a pieno le diverse professionalità e correggendo alcune palesi distorsioni. L’Associazione ha bisogno al tempo stesso di coraggio e umiltà: l’uno per cambiare, l’altra per allargare il consenso attorno allo sforzo di innovazione. E dunque, con una rinnovata azione di tipo collegiale, occorre impegnarsi a fondo, nel tradizionale spirito unitario, per poter corrispondere adeguatamente alla domanda di un rinnovato protagonismo da parte di tutti gli amministratori locali: Sindaci, assessori, consiglieri comunali, Presidenti di Municipio.

Vogliamo un congresso di rifondazione, perché l’Anci  è un libro che accresce, con il variare delle circostanze, le sue pagine. Oggi spetta a noi, insieme, scrivere una pagina nuova per mettere al centro le autonomie e renderle ancora più forti nel contesto della società italiana.

 

Trent’anni fa moriva Georges Simenon. Quell’infaticabile labor limae.

Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Gabriele Nicolò

Non riuscì a farsene una ragione, Georges Simenon, di non essere stato insignito del premio Nobel per la letteratura. Era convinto, infatti, di meritarlo. Non solo per il suo talento e per la sua tracimante prolificità (scriveva di media ottanta pagine al giorno tra romanzi, racconti, lettere e articoli giornalistici sotto lo pseudonimo di Georges Sim), ma anche per gli «strenui sacrifici» — come egli stesso usava dire — sostenuti per raggiungere uno stile perfetto. Sacrifici ancor più rimarchevoli perché fatti in un’epoca in cui, al contrario, gli scrittori tendevano a privilegiare un linguaggio poco disciplinato e poco sorvegliato. A trent’anni dalla morte (avvenuta il 4 settembre 1989) è ancora vibrante l’afflato di quel suo infaticabile labor limae, diretto a forgiare, nel segno di una rigorosa metodicità, la frase che doveva ispirarsi a una semplicità spartana e a un’essenzialità spoglia ma mai banale. Ecco allora che il suo certosino lavoro di revisione, sollecitato dall’illuminante intuizione del suo primo editore, si concentrò sulla graduale quanto inesorabile eliminazione degli aggettivi, rei — se usati con smodata prodigalità — di contaminare e ostruire la fluidità di espressione.

Quando il creatore dell’immarcescibile commissario Maigret (che poi sarebbe stato interpretato sullo schermo dal magistrale Gino Cervi) portò le sue prime opere all’editore, questi, con profetica chiaroveggenza, capì che chi gli aveva sottoposto quei fogli sarebbe diventato un grande scrittore. Ma alcune cose andavano cambiate, e subito. Altrimenti a quel giovane occhialuto non avrebbe mai arriso la fama. Quindi lo convocò e quando l’aspirante scrittore si presentò e gli fu davanti, l’editore — sventolando i fogli — gli disse con severo cipiglio: «Simenon, quando dalle sue pagine toglierà gli aggettivi, diventerà Simenon». E così fu. Per poi confessare, in tarda età — richiamando quella lezione — che quando leggeva i testi di altri scrittori, lo faceva sempre con la sua inseparabile matita, usata per cancellare «tutti quegli aggettivi che indeboliscono la frase invece che rafforzarla».

Simenon cominciò a scrivere a sedici anni firmando articoli di cronaca nera per la gazzetta della città natale, Liegi. Venne subito apprezzato, ma il salto di qualità lo fece trasferendosi a Parigi. Nella capitale francese avrebbe conseguito infatti quella maturità letteraria alla quale si sarebbe accompagnata l’acquisizione di una cifra narrativa ben definita, la quale si identifica nella realizzazione di un giallo che non si esaurisce nell’individuazione del colpevole, ma che assurge ad analisi paziente e approfondita dell’animo umano. «Più indago le brutture dei bassifondi di Parigi, più penetro nei recessi del cuore umano» soleva dire, pipa in bocca, Simenon.

Suo grande ammiratore, Alberto Savinio lo definì «un Dostoevskij mancato». Solo in apparenza una critica. In sostanza, un elogio che mostrava di comprendere perfettamente l’arte di Simenon, capace di mettere a nudo le debolezze dei suoi personaggi, di costruirne i sogni per poi smontarli, di raccontarne le ambizioni per poi mortificarle: il tutto descritto in un’atmosfera pervasa di malinconia, di dolore represso, di struggente nostalgia. La grandezza delle opere di Simenon sta in una sorta di ossimoro: più sembrano scritte con il freno a mano tirato, più risultano scorrere veloci. La lentezza della corrosiva indagine psicologica dei soggetti è in realtà il viatico per una struttura narrativa che — coniugando in felice sintesi indagine poliziesca e indagine introspettiva — spicca per complessità e dinamicità. E il paragone con lo scrittore russo non è certo azzardato: in Simenon, infatti, la capacità di descrivere, con poche e sapienti pennellate, le profondità abissali dei sentimenti, le sfumature delle emozioni e i capricci portati all’eccesso, raggiunge vette eccelse. Romanzi come Una testa in gioco. Il pazzo di Bergerac, La casa dei fiamminghi, sono esemplari testimonianze di tale capacità.

Si dice che ogni volta che finiva di scrivere una storia, Simenon si sentiva stremato. Aveva dovuto infatti sottostare all’incalzante e perentoria richiesta dei personaggi, da lui ideati, di avere, il prima possibile, vita piena sulla pagina. Scenario, questo, che non può non richiamare il processo creativo di Luigi Pirandello, anch’egli assediato, per lo stesso motivo, dai “suoi personaggi in cerca d’autore”. E a proposito di Pirandello, Andrea Camilleri usava fare una pregnante distinzione tra i due. Per lo scrittore siciliano «la vita o la si scrive o la si vive»; Simenon, diceva Camilleri, «la vita l’ha vissuta scrivendola e l’ha scritta vivendola».

Caos vaccini: il 10% degli alunni non sarà in regola

La riapertura delle scuole è ormai imminente. E da quest’anno per entrare a scuola gli alunni da zero a sedici anni devono essere in regola con le dieci vaccinazioni obbligatorie previste dalla legge Lorenzin del 2017.

Chi ha meno di sei anni e non ha seguito la profilassi non entra all’asilo, per i genitori di tutti gli altri scatterà una multa da 100 a 500 euro.

Ma come sono collocati in Italia i maggiori ritrosi ai vaccini?

A Venezia portone sbarrato per 1.800 bambini che, a settembre, non potranno andare all’asilo e in tutto il Veneto sono pronti verbali da 180 euro per le famiglie di 50 mila studenti.

In Lombardia sono 20 mila i bambini che non potranno andare alla materna, 700 nell’area di Firenze, 400 a Bologna.

Regione d’eccellenza il Lazio, dove la copertura ha superato il 98% per il vaccino contro polio, difterite, tetano, epatite B e pertosse e oltre il 97% per il morbillo, la parotite e la rosolia.

 

L’Argentina rafforza il controllo sui cambi di valuta

Mauricio Macri ha dovuto rinunciare e applicare una delle misure che aveva maggiormente criticato. Di fronte al peggioramento della crisi e al timore di un nuovo deprezzamento del peso, domenica il presidente ha firmato un decreto che limita la libertà delle società e delle banche di acquistare dollari.

La misura impone inoltre agli esportatori di liquidare le proprie entrate in valuta estera nel paese e limita l’acquisto mensile di valuta estera dei risparmiatori a $ 10.000.

Le restrizioni non incidono il prelievo di dollari che gli argentini hanno nei loro conti né impongono restrizioni sull’invio di denaro all’estero.

La scorsa settimana, il governo aveva già costretto le banche a richiedere l’autorizzazione per inviare i guadagni in dollari generati nel paese verso le società estere. Il decreto ora estende tale richiesta di autorizzazione anche alle società. Un limite mensile di acquisto in valuta si applicherà alle persone fisiche.

Il provvedimento si è reso necessario perché la Banca Centrale ha perso $ 13,8 miliardi nel mese di agosto per difendere la valuta locale. Gli sforzi sono stati insufficienti e il mese si è chiuso con il segno rosso per tutti gli indicatori. La borsa è scesa del 72%, il peso si è deprezzato del 38%, il valore del debito obbligazionario è stato ridotto del 55% e l’inflazione è fuori controllo.

Non ci sono ancora dati ufficiali, ma si stima che i prezzi saranno aumentati di almeno il 5% in un mese. Ciò porta l’inflazione annuale a circa il 60%. Il governo sta ora cercando di anticipare una settimana che dovrebbe essere complessa nel mercato dei cambi e di calmare le acque quando mancano ancora due mesi alle elezioni presidenziali.

Boris Johnson senza freni

Non ci sono mezze misure o trattative nel nuovo partito conservatore di Boris Johnson. Il primo ministro, che ha visto trapelare alcuni documenti dai quali si deduce che la Gran Bretagna no ha una valida alternativa al confine irlandese, ha minacciato i ribelli del suo partito di espulsione.

La mossa del premier, alla vigilia della breve riapertura di Westminster prima della contestata sospensione del Parlamento fino al 14 ottobre, mira a forzare la mano della disciplina di partito anche a costo di far saltare la maggioranza. Secondo la Bbc dimostra come Johnson – in caso di sconfitta – sia deciso a convocare subito nuove elezioni, lasciando fuori tutti i conservatori moderati dissidenti apertamente contrari alla sua linea in favore di un’uscita dall’Ue costi quel che costi.

Intanto il negoziatore europeo ha dichiarato che: “Il primo ministro inglese Boris Johnson ha detto che la Gran Bretagna lascerà l’Unione Europea entro il 31 ottobre. In qualsiasi caso, l’Ue continuerà a proteggere gli interessi dei suoi cittadini e delle sue aziende, così come le condizioni che garantiscano pace e stabilità nell’isola di Irlanda”. Così il negoziatore europeo sulla Brexit, Michel Barnier, in un tweet. “Questo è un nostro dovere e una nostra responsabilità”

 

Tokyo è la città più sicura al mondo

Per la terza volta consecutiva Tokyo si piazza al primo posto nella classifica delle città più sicure al mondo. Secondo l’Economist, la capitale giapponese è al vertice nel settore della prevenzione dei disastri naturali, nel basso livello di attacchi informatici, e ha tassi di criminalità estremamente ridotti.

Al secondo posto Singapore e al terzo un’altra città giapponese, Osaka.

La prima città europea è Amsterdam, al quarto posto, mentre per l’Italia Milano e Roma si piazzano rispettivamente alla 29esima e 30esima posizione. In coda alla classifica si posizionano Caracas, al 59esimo posto, e la capitale nigeriana Lagos, al sessantesimo.

Quale contributo ci attendiamo dalla filosofia

Osservando il mondo intorno a noi, per quello che ci è dato di percepire e – soprattutto- di conoscere, capire e distinguere nei limiti delle nostre facoltà – siamo da qualche anno partecipi di una sensazione di sfaldamento e intorbidimento che interessa la dimensione esistenziale e i suoi contesti: l’ambiente, la politica, l’economia, il lavoro, le relazioni familiari e i generale il rapporto con gli altri.

Ricordo le parole di Umberto Galimberti: “Come posso applicare il principio evangelico ama il prossimo tuo come te stesso, se il mio prossimo non esiste più?” Di questo sentimento di incertezza cosmica rispetto al senso stesso dell’esistere, ai rapporti sociali , all’invadenza delle nuove tecnologie e del pensiero calcolante, ci restano le piste analitiche tracciate da Zygmunt Bauman, impareggiabile nel cogliere lo spaesamento dell’uomo contemporaneo in una società dove sono venuti meno- ad uno ad uno – i punti di riferimento rassicuranti che costituivano la base dell’idea di progresso e di miglioramento della condizione antropologica ed esistenziale.

Al centro di tutto il conflitto tra natura e cultura, tra essere e divenire, tra tradizione e innovazione, conservazione e progettualità.
Un mondo indefinito, incompiuto, imperfetto, incerto dove ci si perde nel pantano della compresenza simultanea della totalità della realtà e della indecifrabile lettura di questa tessitura di opposti e di contrari.

Ragionamento ripreso e sviluppato dentro un autonomo percorso di riflessione dal filosofo – o come amava definirsi “storico delle idee”- Tullio Gregory al quale siamo debitori di un’intuizione fondamentale: il gap che separa la teoria dalla pratica e la conseguente necessità di uno studio semantico e lessicale dell’uso delle parole: “chi invita alla ragione, chi pretende venga messa al centro dei problemi e delle riflessioni dovrebbe sentirsi poi in dovere di impegnarsi usandola nei confronti degli altri e con gli altri”.
Soprattutto se applicato alla politica (e di questo accostamento siamo oggi più che mai consapevoli): “L’eloquio dei politici in Parlamento rivela la scarsa familiarità con i libri e la cultura”.

Questo breve incipit può indurci a ricrederci su un assioma finora indimostrabile ma sul quale pare molti siano disposti a cambiare idea: l’esistenza e l’incidenza dei conflitti generazionali in un mondo in cui si coglie l’abisso che separa le idee dalle azioni. Mi piace qui ricordare la documentata ricerca socio-economica di Sgritta e Raitano della Sapienza sul tema dei rapporti generazionali tra conflitti e sostenibilità, che può utilmente essere collocata sullo sfondo di approfondimenti e ricadute socio-culturali e perché no di valutazioni filosofiche che possono utilmente declinarne le prospettive esistenziali ed antropologiche.

L’improvvisa accelerazione imposta in modo pervasivo dall’ingresso della tecnica nella nostra vita può spiegare quella sorta di mutazione ontologica e generazione di cui avvertiamo una impalpabile presenza e che si esprime in una congerie di esplosione simultanea di problemi nuovi che l’uomo del primo secolo del terzo millennio dovrà affrontare: l’incremento demografico, le migrazioni bibliche, la prevalenza della geoeconomia sulla geopolitica, l’imminente skow down ambientale, l’estinzione delle biodiversità, le aspettative sulla vita, la salute, il lavoro, il ricambio generazionale, i problemi specifici dei giovani e degli anziani in un mondo dove si vive più a lungo ma in un modo sempre più interfacciato e complicato.

Ne’ Bauman, ne’Gregory saranno presenti al Festival della filosofia che i svolgerà a Modena/Carpi/Sassuolo il 13-14 e 15 settembre p.v. ma il calendario dei lavori, i temi affidati ad approfondimenti monografici e la qualità dei relatori , creano ragionevoli aspettative sul contributo che il pensiero filosofico potrà offrire al dibattito culturale che investe e riassume tutti i temi correlati alla collocazione dell’uomo nell’universo simbolico e materiale del nostro tempo, anche in memoria e onore di questi grandi maestri recentemente scomparsi.

Non sarà una nicchia di riflessione e confronto per soli iniziati, ci si attende un contributo di idee e di analisi capaci di traghettare l’uomo e il pensiero verso prospettive guidate dalla ragione, dal sentimento e dall’uso del pensiero critico. Che sono poi tre convitati di pietra nel desolante panorama di semplificazione culturale del nostro tempo, nel quale si vive di luoghi comuni e si fa un uso commerciale del linguaggio e della comunicazione, dove la ricerca socratica e platonica della verità viene dissimulata e alterata dal virtuale che sostituisce il reale, dalle fake news che rimpiazzano ed enfatizzano le notizie, dove paradossalmente la precarietà in tutte le sue caleidoscopiche sfaccettature esistenziali ridimensiona le coordinate spazio-temporali alle quali volentieri affideremmo una concezione più rassicurante della nostra vita.

Dal Festival della Filosofia ci si attendono idee e percorsi praticabili per la loro realizzazione.
Ci si aspetta un impegno di saldatura e continuità tra riflessione teoretica e applicazioni partiche, immaginando che la filosofia possa entrare – mater magistra – nella nostra quotidianità, illuminandola.

Dopo il fallimento conclamato dell’economia e della politica – orfane di tassonomie etiche – come guide allo sviluppo dell’umanità, capaci di generare aspettative immaginifiche ma in realtà deludenti e conflittuali, serve qualcuno che ci prenda per mano e ci guidi a capire i valori importanti della vita, il senso dell’esistere, la dignità dell’essere umano.
Non a caso due relazioni che attendiamo con curiosità intellettuale e con speranza riguardano “l’individuo” e la “persona”: saranno affidate rispettivamente ad Emanuele Severino e Umberto Galimberti.

Che insieme ad altri illustri relatori (da Cacciari a Recalcati, da Nancy a Panebianco, da Zagrebelsky a Massini a Mons. Paglia ecc.) pur non avendo l’ambizione di presentarsi come depositari di verità rivelate, possono accendere molte fiaccole affinchè questa ricerca si allarghi e si estenda, in modo che ciascuno sia stimolato a trovarne una in cui credere.

L’incentivo “Resto al Sud” si apre a liberi professionisti e under 46

In questa settimana è attesa la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale del decreto che darà il via alla rimodulazione dell’incentivo “Resto al Sud”. Il provvedimento è stato approvato nel 2017 per sostenere la nascita di nuove imprese che abbia come titolari giovani in età compresa tra i 18 ed i 35 anni avviate in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna.

Inizialmente le modalità operative sono state definite dal DM 174/2017, poi la Legge di Bilancio 2019 ha esteso agli under 46 e ai liberi professionisti che nell’anno precedente alla richiesta di agevolazione, non siano stati titolari di partita Iva per un’attività analoga a quella proposta per il finanziamento e che abbiano la sede operativa nelle regioni interessate.

Il finanziamento coprirà il 100 per cento delle spese ammissibili, comprendendo
un contributo a fondo perduto pari al 35 per cento dell’investimento complessivo ed un finanziamento bancario pari al 65 per cento dell’intero investimento, assicurato dal Fondo di Garanzia per le Pmi. Gli interessi del finanziamento verranno interamente coperti da un apposito contributo. L’importo massimo del finanziamento erogabile è di 50.000 euro per ciascun socio, fino ad un ammontare massimo complessivo di 200.000 euro. Le domande, comprensive di progetto, andranno inviate ad Invitalia attraverso il sito dedicato.

Nuova forma di democrazia, nuova forma di partito.

Nella rappresentazione teatrale di questa inaudita crisi di Governo, tutto può essere spacciato per vero e messo in scena.

Anche l’accusa all’ipotizzato (se nascerà) nuovo governo PD-M5S di essere il frutto di una banale intesa per le “poltrone”, costruita nelle stanze del Parlamento e non di fronte agli elettori.

Accusa prevedibile e scontata, ovviamente, resa ancor più facile dalla circostanza che i due partiti si sono dichiarati culturalmente e politicamente alternativi fino a pochi giorni fa.

Detto per inciso, anche per questa ragione, era preferibile che il PD e il centro sinistra provassero a dare vita ad un Governo di “tregua operosa”, espresso dal M5S quale partito di maggioranza relativa in Parlamento, assicurando un appoggio esterno condizionato ad alcuni pochi punti programmatici e alla presenza di ministri tecnici di garanzia nei posti chiave.

E tuttavia, con quale credibilità può lanciare questa accusa un partito come la Lega che – dopo le ultime elezioni del marzo 2018 – ha fatto esattamente ciò che oggi condanna, rompendo la coalizione di centro destra con la quale si era presentato agli elettori, per dare vita un governo con i Grillini (pomposamente chiamato “del cambiamento”) e camuffando la semplice compilazione di un elenco di obbiettivi tra loro incompatibili come “contratto di governo”?

Diciamo la verità: se vogliamo recuperare un qualche nesso tra voto degli elettori e assetto del potere occorre (tra l’altro) cambiare il sistema elettorale.
Dovrebbe essere questo uno degli obbiettivi del nuovo eventuale Governo.
Nella fase precedente si è pensato che la nostra democrazia potesse trovare nuova linfa nella dialettica tra coalizioni alternative.

Per questo si riteneva che – la vera competizione essendo “al centro” – destra e sinistra, per conquistare i consensi della prevalente parte centrale e mediana dell’elettorato, avessero la necessità di competere sul terreno della proposta “di governo”, cercando nel contempo di “tirarsi dietro” – da una parte e dall’altra, in ragione del primario obbiettivo di sconfiggere la coalizione avversaria – le posizioni più radicali ed estreme dei rispettivi campi.

Qualcuno ha tradotto tutto ciò nella suggestione del “bipartitismo”, altri nella logica delle coalizioni organiche pur se rispettose della pluralità dei partiti che le componevano.

La prima suggestione ha dimostrato tutti i suoi limiti.
La seconda logica (coalizionale) funziona in realtà solo dove esiste l’elezione diretta del vertice di governo accompagnata dal sistema proporzionale per l’elezione delle Assemblee (Comuni e Regioni).

Rispetto a questi ragionamenti, cosa ci dice la realtà attuale del Paese?
Due cose.

Primo: la competizione non è più “al centro” nel senso tradizionale del termine. La domanda sociale (o quanto meno quella che si esprime nelle urne) si è radicalizzata e molti elettori rifiutano di comporre le proprie singole aspettative in un disegno comune e mediato.

L’impoverimento del ceto medio, la crisi di carisma del sistema democratico rappresentativo e la predominanza dei nuovi strumenti di comunicazione producono una oggettiva rendita di posizione a favore delle proposte più eclatanti, demagogiche e populiste. Prevale una politica basata su offerte “a là carte” (illusorie, come si dimostra, ma efficaci nella conquista del consenso).

Secondo: in tutti i campi, conseguentemente, sono le posizioni radicali ed estreme che “si tirano dietro” quelle più equilibrate e responsabili, non il contrario.

Dobbiamo perciò prendere atto che la realtà esige un sistema elettorale più adatto per custodire i valori democratici, favorire quadri di governo stabili, dare forza alle posizioni più responsabili.

Del resto, i sistemi elettorali non sono “ideologie”, ma strumenti di regolazione della democrazia, rapportati alle condizioni date.

Nel secondo dopoguerra, il sistema proporzionale ha assicurato efficienza democratica e sviluppo, in forza delle contingenze storiche e della presenza di un sistema dei partiti strutturato, solido, inclusivo e di una compagine sociale aggregata attorno a forti interessi collettivi.

La politica suppliva ai potenziali limiti del sistema elettorale.

Nel periodo storico successivo, il proporzionale ha provocato instabilità e deficit di governo: la politica aveva cambiato consistenza e perduto una parte del suo ruolo.
Poi, dopo Tangentopoli, col maggioritario si è cercato di supplire alla crisi della politica e dei partiti. Con luci ed ombre, per un po’ ha funzionato.

Oggi siamo in una sorta di limbo indefinito.

La domanda politica è sempre più “individualizzata”; la risposta politica sempre più semplificata sul paradigma dei populismi; i riferimenti ideali e culturali sempre più flebili, se non confinati in una romantica nostalgia.

Chi dice che oggi “destra, sinistra, centro non contano più”, ha insieme ragione e torto.
Torto, perché le grandi discriminati ideali non possono non avere ancora un senso e non è vero che tutto è uguale.

Ragione, perché l’articolazione delle proposte è ormai molto più plurale di qualche anno fa e le vecchie culture politiche sono in gran parte spiazzate difronte ai nuovi scenari antropologici, culturali, tecnologici e sociali.

Una via di uscita da questo limbo è quella della “post democrazia”: meno libertà in cambio della promessa – da parte dell’uomo solo al comando – di ordine, sviluppo, sicurezza, rapidità delle decisioni ed efficienza.

Se si vuole contrastare questa deriva autoritaria, occorre lavorare per soluzioni alternative: lo stallo non aiuta.

Dobbiamo dunque considerare in primo luogo che, oggi, un sistema “proporzionale” per l’elezione del Parlamento sarebbe quello più consono, se vogliamo rigenerare la politica, la democrazia, la ricomposizione virtuosa del circuito “popolo-potere”.
Ogni cultura politica, veccia e nuova, ha bisogno di un “bagno salutare” che possa far ritrovare la bussola, stimolare nuove idee, riallacciare nuovi rapporti con la comunità delle persone e delle formazioni sociali.

Naturalmente ciò non basta.

Servono meccanismi adeguati per aiutare la stabilità dei governi e la trasparenza delle alleanze politiche in Parlamento, ad esempio con l’istituto della sfiducia costruttiva.
E, soprattutto, occorre che le aree culturali e politiche (vecchie e nuove) si rigenerino e si riorganizzino in base ai nuovi scenari anche con “forme partito” innovative e sperimentali.

Penso al rapporto tra “politica” e “società civile”: fino a quando potrà andare avanti una sorta di sostanziale separazione – anche, per esempio, nel mondo cattolico e popolare – tra chi si occupa di “comunità” e chi di “politica”?

Penso poi alla rappresentanza dei territori così diversi che compongono il nostro Paese. Vogliamo ancora riproporre un idea di partito nella quale il giusto “respiro” nazionale (ed europeo, auspico) tradisca in realtà una concezione omologante, verticistica e “romano centrica”?

Mi riferisco al territorio che conosco di più: il Nord. Volgiamo lasciare che dopo il fallimento della “via sovranista nazionalista” la Lega torni impunemente a diventare il “Partito del Nord”?

Oppure pensiamo che – per stare al nostro campo – le radici autonomistiche di matrice cattolico democratica e popolare possano ridiventare punto di riferimento per le aspirazioni di quel Nord operoso, solidale ed europeo che ancora, sotto sotto, resiste ma che richiede soluzioni nuove e coraggiose, magari rilanciando il concetto (molto nostro) di “Repubblica delle Autonomie” e di una Autonomia concepita come responsabilità?

Non è forse il caso di immaginare una nuova “forma partito” fortemente federativa, che ricomponga dal basso, tra l’altro, l’istanza “civica” con la necessità di una visione politica generale?

Lavoriamoci, almeno per quanto sta in noi, visto che siamo oggi fuori dalle stanze del Potere (anche se non rinunciamo al dovere della responsabilità) e, forse, possiamo parlare ed agire con maggiore libertà e sincerità.

Intervista a Paolo Pombeni: “Più contenuti, meno slogan”

Articolo già apparso il 31 Agosto sulle pagine di Città Nuova a firma di Carlo Cefaloni

Sulla crisi del governo Conte e la formazione di una nuova maggioranza tra M5S e PD, abbiamo chiesto il parere di alcuni esperti portatori di visione culturali diverse. Questa l’opinione del professor Paolo Pombeni, tra i maggiori politologi italiani
Cosa significa, a suo giudizio, il riferimento al nuovo umanesimo fatto da Conte nei suoi recenti interventi?
Il riferimento di Conte al “nuovo umanesimo” fa parte del suo tentativo di accreditare la sua figura come diversa da quella del politico di professione. Così recupera uno slogan che ha trovato autorevoli interpreti (papa Francesco, per esempio) per sottolineare che vorrebbe affrancarsi da una cultura che mescola contrapposizioni violente (per non dire odio) e scarso interesse per interventi che accrescano il patrimonio di umanità che una società deve avere.
Esiste una possibile visione comune tra Pd e M5S, oltre una convergenza di interessi, per un programma di legislatura?
La convergenza di M5S e PD su una visione comune è possibile solo se saranno capaci di riempire di contenuti condivisi quelli che sono per ora slogan generici su cui tutti in astratto possono concordare (tipico esempio: le politiche in difesa dell’ambiente). Il problema è che in politica le convergenze tra forze diverse non nascono dal convergere delle posizioni dei partiti, che per natura loro sono “settari”, ma dalla spinta che deve venire dalla società civile perché si vada in una certa direzione. Quella spinta è ovviamente un compito prevalentemente dei ceti dirigenti delle formazioni sociali e di chi promuove un autentico rinascimento culturale. Oggi queste sono risorse limitate e poco disponibili, così siamo nelle mani dei produttori di propaganda politica, per non dire di demagogia, che lavorano per i partiti.
Vede anche lei necessaria una riforma della legge elettorale per evitare meccanismi maggioritari in grado di consegnare troppo potere ad una forza politica?
L’approdo di una nuova ragionevole legge elettorale è prioritario, ma bisogna che non sia pensata come fu per le ultime nell’ottica di favorire un po’ di interessi dei partiti. Se può anche essere ragionevole rivedere il numero dei nostri parlamentari (ma sarebbe meglio essere in grado di differenziare composizione e compiti fra Camera e Senato), è altrettanto importante evitare per il momento sia meccanismi decisamente maggioritari che meccanismi sbracatamente proporzionalisti. Il maggioritario funziona se c’è una almeno discreta omogeneità di intendere l’interesse comune, altrimenti il rischio di favorire tirannie delle minoranze organizzate è troppo forte. Un proporzionalismo esasperato ci riporterebbe alla frammentazione politica senza limiti con la tentazione alla proliferazione di piccoli partiti che poi renderebbero difficile qualsiasi sintesi politica.

Che giudizio sente di dare sui 10 punti esposti dai 5 stelle? Quali scelte considera necessarie per affrontare la nuova crisi da molti annunciata?

I 10 punti, poi divenuti 20 annunciati dai 5 Stelle sono mantra pseudo-ideologici su cui è difficile costruire: alcuni sono vuota retorica (no agli inceneritori, ritorno delle autostrade allo Stato, ecc.), altri sono generici buoni propositi che non si dice come verranno declinati (lotta alla corruzione, tempi limitati per svolgere i processi, ecc.). E’ comprensibile che per raggiungere un accordo di coalizione che è necessario per evitare al Paese lo choc di elezioni combattute a suon di demagogia, alla fine si prendano per buone delle declinazione condivise di alcuni “titoli”, ma il lavoro da fare sarà dopo, quando si dovranno riempire di contenuti. Per questo molto più del programma conterà la squadra di governo che si riuscirà a formare: senza persone di competenza e di autorevolezza non si combinerà nulla di buono.

Come valuta i punti programmatici presentati dal PD?
I punti che ha presentato il PD sono anch’essi abbastanza generici. Sono espressi con più stile di quelli di M5S e alcuni toccano problemi importanti, ma non riescono ad andare oltre una ampia affermazione di principio. Prendiamo quello in difesa della democrazia rappresentativa e del rilancio della centralità parlamentare.Va benissimo in astratto, ma in concreto cosa si vuol dire? Democrazia rappresentativa e parlamentarismo sono in crisi in tutti i sistemi politici occidentali e non si dice come in concreto sia possibile rilanciarli e cosa faccia il PD per contribuire a raggiungere quell’obiettivo. Temo che non sia con queste “petizioni di principio” che si riattiva un contatto con la gente.

 

Bankitalia: partono i controlli sull’uso dei contanti

Partono, da oggi, i controlli sull’uso anomalo di contanti da parte della Uif, l’unità di informazione finanziaria incardinata presso la Banca d’Italia. La misura, prevista dalla riforma del 2017, prevede l’invio delle comunicazioni su prelievi e versamenti presso banche, Poste, istituti di pagamento. Si potrà sapere il nome di chi ritira o versa banconote per oltre 10mila euro complessivi in un mese. Non sarà una segnalazione automatica di operazione sospetta ma accenderà un faro da parte delle autorità.

La comunicazione dovrà essere inviata, ha chiarito la stessa Uif, anche se si supera il tetto dei 10mila euro attraverso più operazioni singolarmente pari o superiori a 1.000 euro. Il primo invio dovrà essere effettuato entro il 15 settembre 2019 e riguarderà i dati riferiti ai mesi di aprile, maggio, giugno e luglio.

La procedura è stata necessaria perché, i contanti in Italia restano ancora molto usati, rispetto agli altri paesi europei.

E come rilevava di recente uno studio della stessa Uif, sono usati maggiormente al Sud per una questione di arretratezza finanziaria e tecnologica ma gli usi anomali sono concentrati al Centro Nord, laddove guarda caso l’economia muove risorse maggiori.

Venezia76: il 5 settembre la presentazione del concorso di cortometraggi

Si svolgerà, giovedì 5 settembre, alle 16, in occasione della 76esima Mostra internazionale d’Arte cinematografica, la presentazione della terza edizione del concorso internazionale di cortometraggi “Corti di lunga vita” (www.cortidilungavita.it). A presentare il concorso, nello spazio della Fondazione Ente dello Spettacolo, in Sala Tropicana 1, all’Hotel Excelsior – Lungomare Guglielmo Marconi, Lido di Venezia, sarà l’Associazione 50&Più, in collaborazione con la Fondazione Ente dello Spettacolo.

L’iniziativa della 50&Più promuove la realizzazione di audiovisivi riguardanti l’anzianità nelle sue molteplici sfaccettature, sviluppando ogni anno un aspetto specifico. Il titolo dato all’edizione 2019 è “Tutta la vita”, un richiamo esplicito a uno dei brani di Lucio Dalla.

I corti dovranno essere inviati entro il 10 novembre, la premiazione si terrà invece nel mese di dicembre a Roma, alla presenza della giuria tecnica presieduta dal regista Paolo Virzì. Intanto, a moderare la presentazione del concorso a Venezia sarà Federico Pontiggia, critico cinematografico e giornalista per la Rivista del Cinematografo. Interverranno: Sebastiano Casu, vice presidente vicario 50&Più, don Davide Milani, presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo, Gabriele Sampaolo, segretario generale 50&Più, e Anna Maria Melloni, direttore del Centro Studi 50&Più.

Parto in ipnosi

Dal prossimo autunno arriva il parto in ipnosi presso l’Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale Mauriziano di Torino. A conclusione di un percorso formativo aziendale presso la scuola Ipnomed, alcune ostetriche offriranno nell’ambito dei corsi di accompagnamento alla nascita la possibilità di apprendere la tecnica dell’autoipnosi per il controllo del dolore in travaglio di parto.

“Il parto in ipnosi – riferisce la Città della Salute- è salito all’onore delle cronache dopo i lieti eventi nella Casa reale inglese, perché pare che Kate e Meghan apprezzino molto l’approccio dolce al parto con ipnosi. Si tratta di una metodica basata su respiro e rilassamento, che dà autocontrollo e riduce il dolore in sala parto. Può essere un’alternativa all’epidurale. In ipnosi é addirittura possibile dimezzare la durata del travaglio rispetto alla media. Alcuni studi hanno rivelato che ne beneficia anche il nascituro, perché durante il rilassamento profondo dell’ipnosi sono maggiori l’afflusso di sangue alla placenta e l’ossigenazione fetale. Insomma una tecnica per aiutare la donna a gestire il parto ed il travaglio in serenità ed autonomia”.

Il Napoleone di Pomigliano

Nei palazzi istituzionali dove si lavora per trovare una soluzione alla crisi di governo si aggira un soggetto che ha improvvisamente iniziato a parlare con piglio da imperatore, dettando delle irrinunciabili condizioni di accordo, che poi modifica il giorno successivo o avvolte anche qualche ora dopo; l’unica condizione che non subisce modifiche è quella relativa al suo personale posizionamento all’interno del nuovo governo con almeno due postazioni di rilevante peso politico.

Il protagonismo di Di Maio preso da un’improvvisa “sindrome napoleone” sta trasformando la trattativa da politica a personalistica, mettendo in assoluto secondo piano i temi relativi alla svolta rispetto alla deriva estremistica che Salvini stava dando a tutta l’azione governativa. Ma Di Maio sbaglia perché così facendo sta stressando i rapporti all’interno del Movimento e rischia un progressivo isolamento personale. In questo senso è molto eloquente l’uscita di Beppe Grillo che si è detto stanco di assistere a trattative su posti di potere e punti programmatici che cambiano di giorno in giorno in modo strumentale; il messaggio ha ovviamente una valenza tutta interna al Movimento ed alle divisioni che lo attraversano.

Se Di Maio ha nostalgia del rapporto che vedeva lui e il M5S sottomessi alle quotidiane prevaricazioni leghiste lo dica con chiarezza. Sarebbe un gesto di trasparenza politica che dovrebbe però essere seguito dalla coerente decisione di tenersi fuori dal nuovo esecutivo, anche perché è difficile essere l’uomo dell’accordo sia con la destra che con la sinistra.
Ma questo momento di chiarezza non ci sarà perché ciò significherebbe per lui iniziare a fare dei ragionamenti politici, oltre che perdere il ruolo e la postazione di potere; non so quale tra le due circostanze lo preoccupi maggiormente, ma so che Di Maio questo gesto non lo farà.

Il revamping politico del centro

Se il Pd risponderà positivamente all’approccio seduttivo di Grillo, diretto a creare un nuovo sentimento popolare attorno all’ibridismo visionario di un mondo fatto d’innovazione e decrescita, il quadro politico andrà incontro fatalmente a un processo di riorganizzazione molto accentuato.

Con la sortita di ieri, avvenuta a sorpresa nella tarda serata, il fondatore del M5S ha sbrogliato la matassa delle trattative archiviando le pregiudiziali di Di Maio. Ora è spianata la via per la formazione del Conte bis. Nell’immediato guadagna punti perciò la stabilizzazione del quadro politico, ma sul medio periodo s’allunga l’ombra di un formidabile revamping della “macchina politica” dell’Italia.

Grillo mette in campo una nuova ipotesi di configurazione della sinistra, magari espungendo termini antichi ed archiviando formule consunte. Non è detto neppure che voglia parlare della sinistra in quanto tale, preferendo un linguaggio esoterico-rivoluzionario. Non a caso Zingaretti ha subito evocato l’esigenza del rispetto reciproco: con Grillo si sa come si comincia, ma non come si finisce.

Questo scenario sconta l’esistenza di una destra aggressiva, ancorata al mito del sovranismo e capace, anche per questo, di occupare uno spazio elettorale consistente. È perciò evidente che nel medesimo tempo debba riemergere, dopo averne decretato la scomparsa in omnia saecula secolorum, il continente sommerso dell’elettorato di centro. Quali saranno le sue caratteristiche, chi avrà la forza di animarlo, dove spingerà il suo progetto, non è ancora facilmente definibile.

Il problema è che il nuovo centro può nascere a condizione di trasfondere il suo amore per l’equilibrio e la responsabilità in un progetto di ardente passione democratica, per dare al cambiamento le basi della solidarietà e della libertà. C’è da lavorare molto, senza cadere nell’errore di prendere dal passato ciò che la storia ha riposto in archivio. Il rischio è che la post-politica – potremmo anche parlare di moralismo esigenziale – ottunda questo sforzo di ricostruzione. Tuttavia, pur con qualche ingenuità di troppo, l’impegno è partito e non sembra arrestarsi. Il centro ha bisogno di una cultura politica che ne assicuri, in ogni caso, la sintonia con le attese di rinnovamento, senza integralismi e senza tatticismi.

Risposta alla crisi della politica. Ripensare e rilanciare l’azione dei cattolici

Articolo già apparso ieri sulle pagine di Avvenire a firma di Nicola Graziani e Giancarlo Infante.

Caro direttore,

in poche settimane, molto è cambiato nello scenario politico italiano. Grandi novità sono emerse pure nel mondo cattolico interessato alla cosa pubblica. Parliamo di quello intenzionato a riproporre una specifica e originale partecipazione espressa sulla base del patrimonio popolare e democratico cristiano. Nel riferimento esclusivo al Pensiero sociale della Chiesa e alla Costituzione italiana vi sono le ragioni di una tradizione e di una forza che si ripropongono, nonostante la scomparsa dalla dialettica parlamentare.

Politica Insieme ha posto da qualche tempo la questione di dare vita a una presenza autonoma organizzata. Fatta di elaborazione politico-programmatica e di facce nuove. Due fondamentali questioni attorno cui la variegata presenza di politici che si dicono cattolici non è riuscita a segnare significative novità. L’attitudine alla cosiddetta ‘diaspora’ in altre formazioni politiche, infatti, sembra continuare a essere fissata nel Dna di una parte del nostro mondo. In realtà, nessuna forza politica ci rappresenta. Nessuna di essa affronta adeguatamente il problema dei mutamenti in atto. Essi vanno ben al di là di ciò che riguarda i ritardi e le disfunzioni delle istituzioni e della Giustizia, le difficoltà dell’economia reale, del lavoro e dell’occupazione, i conseguenti e crescenti divari geografici e il degrado della vita politica.

Non siamo di fronte a criticità di sola natura economica. È investita la qualità delle persone, delle famiglie, delle relazioni pubbliche e private; soprattutto, continuamente si propongono ‘questioni etiche’ che riguardano la collettività, oltre che i singoli e, quindi, capaci di assumere un forte rilievo sociale, di incidere sulla vita civile, sui costumi, le sensibilità e i rapporti interpersonali.

Ecco perché riteniamo che si debba puntare a una trasformazione radicale dell’Italia. Viviamo una situazione straordinaria e non si può pensare che il tradizionale ‘riformismo’, parola d’ordine d’obbligo degli ultimi decenni, sia in grado di contrastare e superare l’esteso degrado da cui l’Italia e gli italiani possano pensare di uscire limitandosi a un’assunzione di responsabilità ordinaria. Sono dunque le necessità del Paese a richiedere un’iniziativa da parte dei cattolici democratici e popolari. Persino dal mondo della cultura, della comunicazione e dell’economia – una parte del quale, un tempo, avremmo chiamato ‘laicista’ – viene una chiara e aperta sollecitazione in tal senso.

I movimenti e i politici d’ispirazione cristiana si sono sempre caratterizzati, infatti, per un ‘metodo’ fatto di mediazione, inclusione, coesione e convergenza. Doti che sembrano aver abbandonato una buona parte del mondo politico italiano. Queste doti dobbiamo far riemergere. L’obiettivo è quello di ricomporre il tessuto sociale; rivitalizzare le istituzioni; ridare alle amministrazioni locali quella ‘prossimità’ richiesta dai cittadini; ricongiungere attorno a una rinnovata politica industriale gli imprenditori, le Pmi e l’intero mondo del lavoro; restituire l’adeguato ruolo alle rappresentanze sociali; inserire il Paese nell’energia vitale dell’innovazione scientifica e tecnologica, che pone sì problemi, anche complessi e difficili per le conseguenze sulla persona e sulle sue relazioni, ma che l’Italia ha bisogno di fare pienamente propria per non finire ai margini dell’attuale fase del cammino umano.

Siamo consapevoli che nessuna seria politica per la natalità, per il sostegno a quel nucleo vitale costituito dalla famiglia, per i giovani, per gli anziani ancora disponibili a spendersi, per l’immigrazione è mai stata neppure avviata nel corso degli ultimi anni. Molto è dovuto anche all’incapacità di politici di estrazione cristiana di convergere su proposte valide ed efficaci. Eppure, in molte occasioni delle possibilità ci furono, ma non vennero colte. Si è preferito accettare la logica del bipolarismo e far sì che quella del partito altrui di riferimento si imponesse nonostante tutto. Da qui la progressiva irrilevanza. Da qui l’indifferenza tradottasi nel rifluire di moltissimi elettori ispirati cristianamente nel partito del ‘non voto’.

L’anno in corso si è ovviamente aperto nel segno del ricordo del centenario della nascita del Partito popolare italiano e dell’appello a tutti i ‘liberi e forti’; non solo a quanti sceglievano di essere tali sulla base di un riferimento religioso. Non sembrano sopiti, in ogni caso, i dubbi, le reticenze e la contrarietà all’idea di dare vita a una presenza autonoma e libera, tutta dispiegata all’insegna della laicità e nel rispetto dei diversi piani in cui i cristiani, parte viva della Chiesa e della società, devono operare.

La successione del voto del 4 marzo 2018 e di quello europeo dello scorso maggio, secondo molti di noi, non lasciano invece dubbi sulla necessità che nella chiarezza, nella distinzione rispetto alle forze di sinistra, nell’opposizione a una destra sovranista ed egoista, sia necessario richiamarci a un nuovo senso di dedizione al prossimo.

Politica Insieme è nata per ricercare tutte le occasioni possibili di convergenza perché il mondo cattolico, con la massima apertura e collaborazione con quello dei laici altrettanto intenzionati a trasformare l’Italia, ritrovi un impeto di coinvolgimento e di responsabilità. Non si può pensare a un partito creato dall’alto. Bisogna che il tempo lavori affinché sempre più numerosi si giunga a convincimenti comuni. Intanto, però, cronaca e storia incalzano. Siamo consapevoli, in ogni caso, che la via maestra sia quella di impegnarsi soprattutto nelle realtà locali. Là è possibile riprendere ragionamenti interrotti, riannodare fili spezzati e, così facendo, stimolare la riemersione di talenti, capacità, professionalità disponibili a mettersi al servizio dei territori e della intera comunità nazionale.

Prossime elezioni interesseranno numerose e importanti regioni. Possono costituire la prima occasione importante per mettere insieme le tante esperienze che si diffondono spontaneamente da tempo nelle realtà locali. Già si sono manifestate attraverso la presentazione di liste autonome e indipendenti nei comuni, con la creazione di gruppi e circoli di gente appassionati dalla partecipazione alla vita pubblica. Dobbiamo partire dall’impegno civico sulla base di un progetto più ampio e assumere una responsabilità di carattere e prospettiva nazionale ed europea.

In questo modo crediamo di poter costruire davvero sul piano dell’impegno politico quella ‘rete’ di cui – a livello pre-politico – ha spesso parlato il cardinal Gualtiero Bassetti. Una rete che non si limiti a collegare il solo livello di vertice di gruppi e associazioni frutto dell’esistente. Bensì a dare corso a nuove passioni, da arricchire con contenuti programmatico-politici da affidare in particolar modo a quanti sapranno dimostrare di rappresentare un’autentica novità.

Chi vincerebbe le elezioni se si andasse a votare oggi

Fonte AGI

Dopo la crisi di Governo il 42,8% degli italiani sarebbe andato a elezioni subito, per il 30,4% si sarebbe dovuto fare un Governo per approvare la finanziaria, per poi andare al voto nel 2020, per il 20,6% si sarebbe dovuto fare un Governo di legislatura appoggiato da Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, mentre per il 6,2% si sarebbe dovuto fare un nuovo Governo sostenuto sempre da Lega e Movimento 5 Stelle.  Sono i risultati emersi dal sondaggio realizzato dall’istituto di ricerca Quorum/YouTrend per Sky TG24 diffuso dalla testata.

Secondo il 58,8% degli intervistati, qualora ci fosse una differenza radicale tra i rapporti di forza tra i partiti in Parlamento rispetto a quelli che ci sono nel Paese, sarebbe giusto andare a elezioni anticipate, al contrario il 41,2% ritiene che non si debba andare a elezioni anticipate.

Per questo il sondaggio ha rilevato anche le intenzioni di voto se domani ci fossero le Elezioni Politiche: Il 53,5% saprebbe chi votare mentre il 46,5% è indeciso o astenuto. Tra chi esprime una preferenza la Lega è il primo partito in Italia, con il 31,9% seguito dal Pd con il 22,3%. Il M5S si attesta nelle intenzioni di voto al 18,6%, poi Fratelli D’Italia, che secondo il sondaggio arriverebbe al 8,8%, e Forza Italia che al 6,8%. Seguono +Europa al 4,1% e La Sinistra al 2,9%. Il 4,6% degli intervistati si orienterebbe invece verso altri partiti.

Gli intervistati si sono espressi sull’operato del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nella gestione della crisi di Governo: il 72,7% giudica positivamente l’operato del Presidente, mentre il 23,7% dà un giudizio negativo.

La ricerca ha sondato anche la fiducia degli italiani verso i principali esponenti della politica italiana protagonisti della crisi di governo delle ultime settimane: il 66% esprime fiducia nel Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il 53,4% si esprime positivamente sul Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il 31,9% esprime fiducia in Matteo Salvini, il 25,7% in Luigi Di Maio. Per quanto riguarda i politici del Partito Democratico il 24,4% degli intervistati si fida di Nicola Zingaretti e il 14,6% esprime fiducia in Matteo Renzi.

Inoltre il sondaggio ha chiesto se la  crisi di Governo ha migliorato o peggiorato l’opinione sugli esponenti politici: per il 53,5% la fiducia in Sergio Mattarella è rimasta invariata (per il 29,4% è migliorata e per il 17,1% è peggiorata), quella di Giuseppe Conte è invariata per il 43,9% (migliorata per il 32,8% e peggiorata per il 23,3%), mentre la crisi ha peggiorato l’opinione del 53,7% degli intervistati su Matteo Salvini (migliorata per il 9,9% e invariata per 36,3%), quella su Luigi Di Maio è invariata per il 48,9% (peggiorata per il 41,5% e migliorata per il 9,6%). Infine per il 52,1% l’opinione su Nicola Zingaretti è rimasta invariata (per il 33,1% è peggiorata e per 14,8% è migliorata) anche quella su Matteo Renzi è rimasta invariata per il 52,3% (peggiorata per il 40,5% e migliorata per il 7,3%)

Il sondaggio ha anche chiesto chi sono i leader politici sconfitti e vincitori in questa crisi politica: per il 31,3% il vincitore è Nicola Zingaretti, per il 28,2% Luigi Di Maio, per il 20,9% è Matteo Salvini e per il 19,6% Matteo Renzi. Al contrario per il 61,9% il vero sconfitto in questa crisi è Matteo Salvini, per il 26,3% è Luigi Di Maio, per il 2,7% Nicola Zingaretti, mentre il 9,1% considera sconfitto Matteo Renzi. Sempre sul gradimento dei politici il 41,3% degli intervistati ha dichiarato che preferisce la capacità di rappresentare la gente rispetto alla competenza, non è d’accordo, invece, il 35,7%.

Il 71,3% degli intervistati non è d’accordo con l’affermazione di Matteo Salvini secondo cui il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle avessero progettato da tempo di fare un ribaltone per andare al Governo assieme, mentre il 28,7% ritiene sia vero. Per il 51,5% degli Italiani il Movimento 5 Stelle è più vicino politicamente al Partito Democratico, mentre per il 16,3% è più affine alla Lega e per il 32,2% è equidistante da entrambi i partiti.

Per quanto riguarda il giudizio sull’operato del Governo uscente con Lega e Movimento 5 Stelle, Il 61,2% degli italiani dà un giudizio negativo contro il 38,8% che dà, invece, un parere positivo.

La rilevazione ha sondato anche quali sono i temi su cui il nuovo Governo dovrebbe intervenire: per il 51,8% è fondamentale il tema del lavoro, per il 19,6% le tasse, per il 15,3% scuola e università, per il 15,2% il taglio agli sprechidella politica, per il 15% la sanità, per il 13% la giustizia, per il 12,9% l’immigrazione, per il 12,5% l’ambiente, per il 10,5% la sicurezza e per il 9,4% le politiche per la famiglia e per l’infanzia.

Inoltre il 69,2% ritiene che il Governo debba prendere provvedimenti per ridurre le differenze nei livelli di reddito. Per il 43,1% l’immigrazione non ha avuto un impatto positivo sull’economia italiana, mentre il 30,9% considera abbia avuto un impatto positivo. Per quanto riguarda i rapporti con l’Unione Europea il 42,8% considera che l’appartenenza dell’Italia alla UE abbia portato più svantaggi che vantaggi, di opinione opposta il 39,3%.

Nota metodologica: Sondaggio svolto tra il 29 e il 30 agosto 2019 con metodologia mista CATI/CAMI/CAWI su un campione di 1000 intervistati rappresentativi della popolazione maggiorenne residente in Italia, indagata per quote di genere ed età, stratificate per area macroregionale di residenza e titolo di studio. L’errore campionario è pari a +/- 3,1%, con un intervallo di confidenza del 95%.

Crisi del governo, l’emergenza e l’uomo nuovo.

Facciamo finta di trovarci nell’Antica Roma, in un periodo di grande transizione politica. La sua ascesa inizia nell’80 a.C. L’ “uomo nuovo” si prepara alla propria scalata politica e militare: parlo di Marco Licinio Crasso, nato nel 114 a.C. Nel 72 fu pretore, dunque responsabile dell’alta sicurezza della Repubblica. La sua carica prevedeva non soltanto l’uso dell’actio (imperium), ma anche della iurisdictio; cosa molto gradita nell’antichità in cui le persone erano emotive e amavano fidarsi soltanto di persone che avessero pieni poteri nel loro ruolo istituzionale. Verrà reso celebre dalla sua appartenenza ad un triunvirato, ovvero un governo diviso da tre uomini eminenti, tra i quali lui aspirava ad emergere in qualunque modo.

Grande accumulatore di beni, anche grazie alla sua attività politica, Crasso vide che gli argomenti oratori erano inutili se il popolo romano poteva essere “manipolato” attraverso l’individuazione di un nemico ben riconoscibile. Per questo motivo approfittò della rivolta spartachista, che provocò un’emergenza senza precedenti nella Penisola. Gli schiavi immigrarono nel Meridione, superando Metaponto e minacciando di invadere tutta l’Italia. Per controllare il flusso della gente servile, che agognava a uno stile di vita libero e di certo migliore del precedente, il Senato aveva varato una serie di misure che tuttavia si erano rivelate insufficienti. Fu a quel punto che Crasso seguì la scia dell’odio contro i servi, alimentandola con discorsi inerenti il “ritorno alle origini religiose dell’Impero”, in particolare al culto degli antenati e al rispetto delle divinità nazionali, da lungo tempo dimenticate dai Romani, inclini alla distrazione e all’ozio. Oltre ogni previsione tutto questo funzionò: ma soltanto teoricamente. Nonostante Crasso e i suoi luogotenenti si prendessero il merito di alcune imprese contro gli schiavi che, in effetti, avevano smesso di compiere le loro scorribande, la ripresa economica di una Repubblica falcidiata dal deficit (in parte dovuto alle spese della politica) non arrivava.

Crasso si fece sempre più nemici; ma era protetto dal suo status, dal suo denaro e dalle sue guardie. Il partito di opposizione, composto dai Senatori meno conservatori, minava continuamente il suo operato. I senatori cercavano ogni pretesto buono per screditarlo agli occhi della plebe. I “partito della plebe” apparteneva alla vecchia classe egemone. Sebbene non fossero tutti figli di uomini ricchi, si erano arricchiti con l’attività politica, mascherandola sempre attraverso una farsesca vicinanza con il popolo. Per questo motivo la maggioranza dei Romani aveva preso col seguire le parole e le imprese di Crasso. Eppure, alla fine di un’estate del 70 a.C., Crasso fece qualcosa che destò la sorpresa di tutti: proprio mentre si preparava a concludere le sue imprese, con un pretesto banalissimo e improvviso (si pensa alla brutta figura che fece un suo parente, ufficiale dell’esercito) si dimise da ogni carica, ritirandosi a vita privata. In questo modo Crasso aveva revocato la sua fiducia nei confronti del Senato e, allo stesso tempo, in molti cedettero ad un atto di coraggiosa responsabilità.

Tutti in principio non compresero il suo gesto, tanto che, pensarono, fosse stato mal consigliato. Invece, come si vide soltanto in seguito, quello di Crasso fu uno stratagemma sopraffino. Il suo coraggio era quello del giocatore d’azzardo. Entro la fine dell’estate Crasso non fu più al governo. Nel mese di settembre-ottobre Roma dovette trovare miliardi di sesterzi che Crasso aveva lasciato nel buco che aveva creato per finanziare le sue imprese. In particolare: milioni di sesterzi per il finanziamento delle spese contro gli schiavi, milioni per finanziare la ripresa economica (la vita media dei romani era piuttosto alta e in molti auspicavano di ritirarsi a vita privata prima della vecchiaia), milioni destinati alle spese di cittadinanza, imposte dai suoi alleati più “moderati”, e milioni per coprire il buco causato dalla mancata crescita economica e per gli sgravi fiscali promessi. In tutta questa enormità di denaro da trovare, la Repubblica non centrava nulla e nemmeno il Senato, nemmeno gli schiavi ribelli: era stato tutto causato dal costo delle politiche del governo, che aveva in Crasso il suo miglior capitano.

Anche la questione degli schiavi era stata trattata con leggerezza, appositamente per far crescere l’emergenza: essi avevano smesso di creare disordini ma soltanto perché avevano costruito un grande centro di accoglienza, rivolto ai loro simili, anch’essi fuggiaschi, sulle coste Brindisine. Non erano certo scomparsi. Crasso lo sapeva. Sapeva che il Senato avrebbe dovuto coprire tali spese, chiedendo al tesoro un nuovo aumento della tasse, magari una patrimoniale. Il governo sarebbe caduto comunque. Che fare? Semplice, fare quello che fece: adducendo a ragioni d’onore fece in modo da levarsi di torno anzitempo, ma soltanto per tornare più forte di prima, forte di un nuovo e rinnovato consenso. Quando la Repubblica si trovò a constatare il buco economico e il problema della rivolta schiavista, fu il panico. Crasso e i suoi, non più membri attivi di governo, poterono dare la colpa di tutto a chi li aveva costretti al ritiro, alla rottura della governabilità, alla crisi politica che li aveva costretti a defilarsi anzitempo. I “poteri forti”, i politicanti, i buonisti, i falsi benefattori del popolo, avevano congiurato contro Crasso ed avevano vinto. Ma non tutto era perduto. Una volta all’opposizione, Crasso attese il momento giusto, la crisi nera, la rabbia generale. Fu a quel punto che fece finta di ingoiare il rospo, di dover “sacrificarsi” per la nazione e scendere di nuovo in campo, questa volta da numero uno.

Quando il Senato, in extremis, fece la patrimoniale sui conti dei cittadini romani, Crasso ebbe il pretesto per dire che lo avevano mandato via proprio per derubarli. Il bello fu che i Romani ci cedettero. Stettero dalla sua parte, inferociti, senza sapere che lo sfascio dei conti era stato causato dai suoi. Crasso, il banchiere di Roma, il capitano delle armate, venne “eletto” Primo Console della Repubblica, ovverosia dittatore. Sterminò Spartaco e la rivolta degli schiavi e la gente applaudì. Non applaudì più quando le sue guardie cominciarono a tagliare le mani a molti. Ma a quel punto  aveva pieni poteri e non gli si poteva dire più niente.

Monsignor Dario E. Viganò è stato nominato Vice Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze

Con la nomina del Papa monsignor Dario Eodardo Vigarò già Prefetto del Dicastero per la Comunicazione, lascia il suo ultimo incarico come assessore dello stesso dicastero per divenire Vice Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, con specifica competenza per il settore della comunicazione.

Chi è Mosignor Dario Eodardo Vigarò?

Studia filosofia presso l’Università degli Studi di Milano. Durante i suoi studi di dottorato in Storia del cinema (pubblicati nel 1997 da Edizioni Castoro), lavora presso l’ufficio per le comunicazioni sociali dell’arcidiocesi di Milano, dove è responsabile delle sale della comunità. Consegue licenza e dottorato in Scienze della comunicazione presso l’Università Pontificia Salesiana.

Il 13 giugno 1987 è ordinato sacerdote dal cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, e inizia a collaborare con la Conferenza Episcopale Italiana. Dopo essere stato per un breve periodo coadiutore a Garbagnate Milanese e poi a Milano nella Parrocchia di San Pio V, diviene docente incaricato di etica e deontologia dei media presso l’Alta Scuola di Specializzazione in Comunicazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e docente di Semiotica del cinema e degli audiovisivi e Semiotica e comunicazione d’impresa presso la Facoltà di Scienze della comunicazione dell’università LUMSA (Libera Università Maria Santissima Assunta) di Roma.

È professore ordinario di Teologia della comunicazione e preside dell’Istituto pastorale Redemptor hominis presso la Pontificia Università Lateranense di Roma, dove viene nominato, inoltre, direttore del Centro Interdisciplinare Lateranense.

È docente incaricato di Semiotica del cinema e degli audiovisivi, Linguaggi e mercati dell’audiovisivo e Teoria e tecniche del cinema presso la facoltà di Scienze Politiche della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali LUISS “Guido Carli” di Roma, dove nel 2008 è nominato membro del Comitato direttivo del centro di ricerca Centre for Media and Communication Studies (CMCS) “Massimo Baldini” (centro di ricerca diretto da Michele Sorice e dedicato alla memoria di Massimo Baldini) nonché membro del comitato scientifico della serie editoriale CMCS-LUISS Working Papers.

Nel 2011 è nominato “socio corrispondente” della Pontificia accademia di teologia.

 

 

Vacanze, 10,1 mln di italiani in partenza per settembre

Non solo rientri con il maltempo, sono 10,1 milioni gli italiani che hanno scelto di trascorrere almeno parte delle vacanze nel mese di settembre con una positiva tendenza all’allungamento della stagione turistica. E’ quanto emerge da una indagine Coldiretti/Ixe’ divulgata in occasione dell’ultimo grande controesodo che segna il ritorno della maggioranza degli italiani al lavoro ma anche un inedito turnover nei luoghi di villeggiatura.

Per molti si tratta in realtà di un bis della vacanza con il mese di settembre che – sottolinea la Coldiretti – è particolarmente apprezzato da quanti cercano il relax e la tranquillità ma vogliono anche approfittare dei risparmi possibili con l’arrivo della bassa stagione. Si verifica infatti una riduzione dei listini che – precisa Coldiretti – puo’ superare il 30% per i viaggi, i soggiorni ed anche gli svaghi e che risulta particolarmente appetibile in un momento di difficoltà economica.

La ricerca del risparmio – continua Coldiretti – non è però la sola ragione poiché ad apprezzare il mese di settembre sono soprattutto coloro che vogliono cogliere l’ultimo scampolo dell’estate per riposarsi e tornare in forma alla routine quotidiana. Anche se il mare resta protagonista, a settembre si registra infatti un deciso aumento in percentuale – precisa la Coldiretti – del turismo legato alla natura in montagna, nei parchi e nelle campagne rispetto alle mete tradizionali.

Per settembre si stimano secondo Coldiretti quasi un milione di pernottamenti in agriturismo. Una vacanza a contatto con la natura con lunghe passeggiate nei boschi è l’ideale per tanti turisti e buongustai che possono oltretutto anche approfittare delle numerose sagre che proprio in questo mese abbondano per far scoprire tradizioni gastronomiche locali attraverso piatti tipici e specialità prima di arrendersi ai classici sandwich consumati in fretta nelle città durante la pausa pranzo, una volta tornati al lavoro. A far scegliere una delle 23mila strutture agrituristiche è certamente secondo www.campagnamica.it l’opportunità di conciliare la buona tavola con la possibilità di stare all’aria aperta avvalendosi anche delle comodità e dei servizi offerti. Nelle aziende agricole sono sempre più spesso offerti programmi ricreativi come l’equitazione, il tiro con l’arco, il trekking ma non mancano – continua la Coldiretti – attività culturali come la visita di percorsi archeologici o naturalistici ma anche corsi di cucina o di orticoltura.

Senza dimenticare – conclude la Coldiretti – la possibilità di assistere alle tradizionali attività di settembre come la raccolta della frutta o il rito della vendemmia o avventurarsi nei boschi alla ricerca alla ricerca dei porcini, finferli e trombette.

Il Lavoro intelligente

Lo smartworking come nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità ed autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati e della focalizzazione degli obbiettivi professionali, come definito dall’Osservatorio del Politecnico di Milano.

A parlarne il nuovo saggio “Il lavoro intelligente” di Ugo Serena, in uscita ai primi di settembre.

Saggio che è strutturato in tre parti.

La prima è dedicata ai vantaggi ambientali, economici e sociali che questa modalità di lavoro ci sta offrendo e di come essa consentirà di allocare al meglio le proprie risorse economiche e umane, abbattendo i costi e incrementando la produttività.

Ma poiché il benessere delle persone e dell’ambiente va di pari passo con l’efficienza delle aziende si illustrano i vantaggi dello smartworking per la nostra qualità della vita, come questo sia un’occasione per promuovere le pari opportunità in termini reali, consentire a uomini e donne di gestire meglio lavoro e famiglia, permettere a persone disabili di essere considerate alla pari degli altri, lavorare pragmaticamente in modo più efficace conciliando lavoro e vita.

Meritiamo di vivere dove vogliamo e di avere tempo per coltivare i nostri interessi, le nostre relazioni, la nostra creatività e metterli in relazione con il nostro lavoro.

La seconda parte del libro è dedicata al diverso modello di management necessario a promuovere questa visione.

Un modello fondato su parametri qualitativi anziché quantitativi, un modello in cui da un sistema fondato sulla gerarchia e le procedure standardizzate si passa a una struttura costruita sulla crescita delle competenze e delle responsabilità individuali.

Infine il libro si rivolge direttamente ai lavoratori fornendo suggerimenti pratici per sfruttare nel modo migliore questa opportunità, che richiede responsabilità, organizzazione, disciplina e impegno.

Particolare attenzione è rivolta ad un modello di comunicazione costruttivo e pragmatico volto a trovare convergenze e ad evitare conflitti, finalizzato alla realizzazione degli obiettivi professionali e del benessere personale.

 

Alla fine sarà un ghiacciolo

La stabilità sembra una vocazione in via di totale smarrimento. Molti ondeggiano come fosse l’esercizio più adatto per presentarsi in vestito di festa dentro questo mondo. Luigi Di Maio, ieri, ha rappresentato in un modo principesco la moda che furoreggia in questi strani tempi.

Non dovete fermarvi alle parole. Se leggete il resoconto da lui fatto all’uscita dell’incontro con il Presidente designato, non cogliereste la sostanza del fenomeno. Bisogna guardare le riprese televisive. Perché ciò che viene detto può essere capito solo se accompagnato dall’immagine offerta.

È proprio l’espressione del volto, quella tensione, gli sguardi secchi, ritmati da una nevrosi fuori posto. Totale mancanza di serenità. Questo è l’alveo in cui vanno collocate quelle parole.

Luigi Di Maio rappresenta l’equilibrio instabile di una volontà. Non può essere questo un capo politico. Vien da pensare che all’interno del Movimento 5Stelle stia capitando qualcosa di grosso. Un partito pluricefalo; parla Beppe Grillo; viene incoronato Giuseppe Conte; dietro le quinte c’è la macchina risolutrice, proprietà di Casaleggio e, in ultimo, la bandierina svolazzante di Luigi Di Maio. Quest’ultimo, fino a qualche giorno fa, era l’indiscusso capo politico, oggi, sta ruzzolando in una preoccupante instabilità.

Che pensi a se stesso? Che rivolga la sua attenzione al suo destino?

Non è da escludere. Del resto, a trentun anni e mezzo, non possiamo pretendere che sia animato dalla saggezza di un Ciriaco De Mita (novantun anni), o di Sergio Mattarella che è la vera saggezza di questa nostra Repubblica.

Vi pare possibile che l’intero Paese registri la sua condizione sulla scorta di una volontà affidata a una persona come Luigi Di Mao?

Sembra quasi un libro paradossale. Ma è così.

Lo sottoporranno a intense docce scozzesi. Vedremo se almeno il freddo, gli darà un’ossatura che per adesso è del tutto mancante.

Zanda bacchetta Conte, l’antagonista più insidioso del Pd.

A caldo, dietro l‘impennata d‘orgoglio di Di Maio, s‘è voluto scorgere l‘animosità di un personaggio politico in caduta libera, noncurante persino dei riflessi che questa sua posizione arcigna e polemica, ai limiti della provocazione nei riguardi del Pd, può avere sull‘accorta navigazione del Presidente incaricato. Più che l’orgoglio peserebbe dunque la paura: nessuno è disponibile a scommettere sul futuro di Si Maio. Troppi segnali ne descrivono l‘isolamento in perfetta coincidenza con il ritorno in scena del fondatore del Movimento. Il vero leader, in barba alle ambizioni del giovane super-ministro, torna ad essere il comico genovese.

Da qui i commenti sull‘imbarazzo di Conte, chiamato a ricucire lo strappo dell‘avventuroso Di Maio e a ristabilire la fiducia nei rapporti tra i due partiti della nascente compagine di governo. Tutto farebbe pensare, insomma, che l‘oggetto nascosto del contendere sia la questione della vice-presidenza: Zingaretti ne rivendica la titolarità esclusiva per un esponente targato Pd. Nell’ottica del secondo partito della coalizione, la discontinuità si dovrebbe applicare anche al vertice politico dell‘esecutivo, dal momento che Conte non è più definibile “neutro” come nel 2018 si stabilì tra Salvini e Di Maio.

Stamane, intervistato da “Repubblica”, ne parla con schiettezza mista a irritazione Luigi Zanda. Il monito però non risparmia lo stesso Conte, forse interessato nascostamente a preservare un ruolo di terzietà. “La storia – dice il tesoriere del Nazareno – del rapporto del professor Conte con la politica lo indica come un rappresentante dei 5 Stelle: è stato eletto al Consiglio di Stato su indicazione e con i voti dei 5 Stelle e indicato dai grillini per il Conte 1 e ora per il Conte 2 e Casalino è un suo stretto collaboratore”. Ecco allora che la vice-presidenza unica, nel quadro così delineato, spetta di diritto al Partito democratico.

Sta di fatto, però, che Conte propende a ricercare per sé uno spazio di manovra meno angusto di quello garantito dai grillini, oggi disorientati e indeboliti. Per questo tende a sfuggire alla logica dell‘incasellamento che Zingaretti immagina di apparecchiare in conformità con le proprie abitudini di capo operaio della fabbrica di partito. Se rimanesse lo schema adottato dai gialloverdi, sebbene con il rafforzamento della funzione direttiva del capo di governo, la nomina di due vice-presidenti corrisponderebbe alle superiori aspirazioni di Conte. In realtà, egli vuole andare oltre il M5S per andare oltre il morente bipolarismo, scomponendo le attuali formazioni politiche e mobilitando un elettorato riottoso, avvinghiato da troppo tempo al filo d’erba dell’astensionismo.

È l’antagonista più insidioso del Partito democratico.

Spiritualità e politica

Si è concluso ieri, 30 agosto, al monastero di Camaldoli la Settimana teologica organizzata dal Movimento ecclesiale di impegno culturale (Meic) sul tema «Fede e politica. Un dialogo da ricominciare». Pubblichiamo l’intervento – tratto dall‘Osservatore Romano –  del priore di Bose intitolato «Spiritualità e politica».

Luciano Manicardi

Papa Francesco, nel discorso all’Azione cattolica italiana del 30 aprile 2017, ha rivolto un invito all’attivo impegno politico: «Mettetevi in politica, ma per favore nella grande politica, nella Politica con la maiuscola». Penso che una “grande politica” debba essere costruita e debba seriamente confrontarsi con la dimensione della spiritualità. Provo a indicare alcuni aspetti che, a mio parere, sono parte essenziale del rapporto tra spiritualità e politica, e contribuirebbero a ridare grandezza e nobiltà alla politica. Ovviamente la spiritualità di cui parlo ha un’accezione ampia, laica, che può certamente supporre una fede religiosa, ma che concerne ogni uomo in quanto tale, ogni uomo abitato dalla questione del senso. Spiritualità ha dunque a che fare, in questa accezione larga, con la ricerca e la costruzione del senso del vivere, responsabilità, questa, che concerne ogni individuo colto nella sua unicità e originalità ma anche la collettività che gli umani costruiscono e pertanto costituiscono.

Coltivare l’interiorità è il primo passo per la costruzione e per la partecipazione feconda alla vita della polis, perché è il luogo dove si forgia la libertà, dove si elabora e si radica la convinzione che conduce a scelte e decisioni, dove matura la forza di dire di no, dove si pensa l’oggi e si immagina e progetta il futuro. In questo senso, nutrire una vita interiore è anche virtù del cittadino, virtù politica. Chiamato a divenire se stesso, ogni uomo ha anche il compito di costruirsi in relazione con gli altri, di costruire dunque un “noi”, e ha la responsabilità di costruire non solo “con”, ma anche “per” gli altri la casa comune. La responsabilità per gli altri è direttamente la responsabilità per il futuro e per le generazioni future, per l’umanità a venire.

Secondo Hannah Arendt, la pluralità e la diversità degli uomini sono i due elementi da cui scaturisce la politica. Il “tra”, lo spazio “infra” è l’elemento da cui nasce la politica che si configura così come relazione. Questo spazio, per la Arendt, è l’agorà, lo spazio pubblico, ed è lo spazio vuoto, la distanza tra le persone. Governare pluralità e diversità delle persone garantendone la libertà è il compito della politica, mentre il totalitarismo è l’annientamento della pluralità e lo spegnimento della diversità, l’eliminazione dell’infra e ovviamente della libertà. Così connessa alla pluralità e alla diversità umana, come pure alla libertà, la politica mostra la sua grandezza nel proporsi come luogo di realizzazione dell’esistenza umana autentica.

Una spiritualità che incontri la politica non può che ispirare una politica dei volti, una politica attenta prioritariamente ai più deboli e indifesi tra i cittadini, una politica sensibile alla sofferenza, che ascolta il grido «perché mi viene fatto del male?», grido che spesso resta inespresso perché chi più subisce violenza è spesso chi meno è capace di esprimersi. Una politica in cui il “noi” della collettività vuole articolarsi con il massimo rispetto per l’“io” di ciascuno, con il volto e con il corpo di ciascuno. Ovvero con quella unicità della persona in cui consiste, per Simone Weil, la sacralità della persona stessa. Quel volto, quegli occhi, quel corpo che mi sta davanti: ecco il sacro di quella persona, il sacro che lui è. Questa sacralità ha la sua scaturigine nel bene e non sopporta che le venga fatto del male. Scrive Simone Weil: «Ogni qualvolta sorge dal fondo di un cuore umano il lamento infantile che il Cristo stesso non ha potuto trattenere, “Perché mi viene fatto del male?”, vi è certamente ingiustizia». La politica non può non essere interpellata da quel volto e da quel grido. Non sarebbe certamente una grande politica quella che provoca un tale grido. Anzi sarebbe ben meschina.

«La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritenesse sempre l’impossibile. Ma colui il quale può accingersi a quest’impresa deve essere un capo, non solo, ma anche — in un senso molto sobrio della parola — un eroe. E anche chi non sia né l’uno né l’altro deve foggiarsi quella tempra d’animo tale da poter reggere anche al crollo di tutte le speranze, e fin da ora, altrimenti non sarà nemmeno in grado di portare a compimento quel poco che oggi è possibile. Solo chi è sicuro di non venire meno anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuole offrirgli, e di poter ancora dire di fronte a tutto ciò: “Non importa, continuiamo”, solo un uomo siffatto ha la “vocazione” (beruf) per la politica». Le parole di Max Weber circa l’uomo che fa politica fanno emergere una sua dimensione nascosta, profonda, che si sottrae all’apparire, che rifugge l’esibizione, che abita la profondità e la solitudine, che detesta la superficialità. Parlare di spiritualità e politica richiede anche di parlare della qualità umana della persona che si dedica alla politica, che ha la vocazione alla politica o ne fa una professione (beruf). In questo professare la politica egli unifica mestiere e credenza, professione e professione di fede, unifica le due dimensioni della responsabilità e della convinzione. E di entrambe ha bisogno il politico, in quanto ogni causa a cui egli si consacri, questa esige una fede. In particolare, la politica, che porta l’uomo a gestire forza e potere, porta con sé pericolose tentazioni, conduce al confronto con il male, a sentire seduzioni potenti e perciò richiede discernimento e saldezza, conoscenza di sé e lotta interiore, capacità di dominio di sé e di autolimitazione, capacità di volere e di dire di no. Max Weber sottolinea la tentazione della vanità come particolarmente insidiosa per il politico. E noi possiamo sottolineare la virtù della coerenza come particolarmente apprezzabile e auspicabile nei responsabili della cosa pubblica.

Un ultimo aspetto necessario a una politica degna di questo nome è l’etica della parola. Il “tra” in cui si realizza la politica è abitato anzitutto dalla parola, da quella realtà umana costitutiva che è anche al cuore di ogni realizzazione spirituale. L’uomo è un essere politico in quanto è un essere dotato di parola. La democrazia vive di parole scambiate, di dialogo, di confronto, di concertazione, di parole che diventano norme e leggi, di parole che stringono alleanze. La parola democratica è lo strumento che elabora spazi sostitutivi della violenza rendendo possibile la convivenza civile e creando possibilità di pacificazione dei conflitti. Come dunque la responsabilità della cosa pubblica è anche responsabilità della parola, così la corruzione della parola è anche corruzione della democrazia. Quando nello spazio pubblico e da parte di chi ha responsabilità della cosa pubblica e poi dalla stampa e dai mezzi di comunicazione la parola è abusata, manipolata, distorta, usata come arma, resa volgare, allora viene destabilizzato il terreno di intesa democratica. Ogni volontà dittatoriale inizia con l’uccisione della parola. Si pone qui un compito urgente per una politica con la p maiuscola, per riprendere le parole di Papa Francesco: ridare dignità alla politica riscoprendo e vivendo un’etica della parola.

Silvestrini, un vero sacerdote e una grande guida spirituale

Ho molto apprezzato il ricordo del card. Achille Silvestrini, che Il Domani d’Italia ha ripreso dall’Osservatore Romano.

Mi ha sempre accolto con amicizia e simpatia fin dalla mia giovinezza. Ho a lungo giocato da ragazzo a Villa Nazareth fin dai tempi dell’allora mons. Tardini. Mi ha spesso incoraggiato nei miei primi passi nello studio della storia.

Amico strettissimo di don Emilio Gandolfo, mia guida spirituale, ho conosciuto direttamente l’impegno che metteva nell’esercizio della sua paternità nel seguire gli studi dei suoi giovani amici ospiti di Villa Nazareth.

Amico assai vicino all’amb. Luigi Vittorio Ferraris, morto lo scorso anno, accettò il mio invito ad un incontro di entrambi all’allora università “Pro Deo” sul problema della sicurezza in Europa. Venne su mio invito a testimoniare su talune sue esperienze spirituali e diplomatiche anche alla Lumsa.

Un vero sacerdote, frutto della grande fucina di vocazioni della sua Faenza. Amico di molti intellettuali e uomini politici italiani, fra i quali ricordo particolarmente Pietro Scoppola, Gabriele De Rosa, Gennaro Acquaviva, Mario Pomilio e il poeta Mario Luzi.

È stato un vero sacerdote, guida spirituale e culturale di generazioni di giovani. Il Padre lo accoglierà con gioia nella vera pace eterna.