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martedì, 4 Novembre, 2025
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A Trentinara c’è l’obbligo di baciarsi

A Trentinara il panorama ha ispirato molti baci e sulla scia di questo una cittadina ha fatto una bizzarra proposta al Comune, guidato da Rosario Carione: installare un cartello con l’obbligo di baciarsi dinanzi a cotanta bellezza.

Il Comune ha accolto l’idea di Michela Daniele e montato il cartello che raffigura Isabella e Saul, due giovani amanti protagonisti di una storia leggendaria locale, una sorta di Romeo e Giulietta in salsa cilentana.

“La mia idea di un invito a baciarsi nel punto più panoramico di Trentinara – spiega Michela Daniele a Infocilento – è un inno all’amore in tutte le sue forme, anche quello verso la natura e il bellissimo paesaggio che si ammira dal belvedere. Qui del resto c’è già Via dell’Amore: potremmo candidarci a diventare ufficialmente il paese dei baci”.

Anticitera cerca abitanti e offre 500€ al mese

Non è necessario essere greci ma bisogna avere almeno tre figli e prendere la residenza, e quindi vivere fisicamente, sull’isola deserta.

L’Isola è conosciuta dai più per la macchina di Anticitera , nota anche come meccanismo di Antikythera, che è il più antico calcolatore meccanico conosciuto, datato tra il 150 e il 100 a.C. o, secondo ipotesi più recenti, al 250 a.C.

Ad Anticitera, però, nonostante i trascorsi storici, al momento sono rimasti solo 20 abitanti, ridotti praticamente a eremiti. Dal 2018 la diocesi locale sta disperatamente cercando di ripopolarla, insieme al Comune, arrivando a promettere terra e un assegno di 500 euro mensili per 3 anni alle famiglie numerose pronte a trasferirsi.

Al momento dopo l’appello lanciato sul Los Angeles Times 4 famiglie con bambini hanno optato per il trasferimento in loco.

 

Il Bambino Gesù nella rete IRCCS per la ricerca e la cura delle patologie ortopediche

È nata la Rete Nazionale per la ricerca e la cura delle patologie ortopediche. Si chiama RAMSRete Apparato Muscolo-Scheletrico, e nasce dalla volontà di unire le competenze dei più grandi ospedali di ricerca italiani che operano in ambito ortopedico.

I fondatori sono i due Istituti di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) monospecialistici per l’ortopedia Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna e Istituto Ortopedico  Galeazzi di Milano e altri cinque  IRCCS, l’Ospedale Pediatrico  Bambino Gesù di Roma, l’Istituto  Giannina Gaslini di Genova, l’Humanitas Research Hospital  di Milano, il Policlinico San Matteo di Pavia e l’Istituto Regina Elena e San Gallicano di Roma.

L’atto costitutivo e lo statuto dell’associazione sono stati firmati il 29 maggio al Rizzoli, alla

«La costituzione di questa nuova task force nazionale è motivo di orgoglio – commenta la Prof. Landini. – Oggi più che mai c’è la necessità di fare rete, di mettere insieme le eccellenze sanitarie nazionali per sfruttare al meglio le specificità di ognuno e il Ministero della Salute ci sprona a lavorare in questa direzione tanto è vero che in questi ultimi anni sono nate diverse reti, come quella chiamata Alleanza contro il Cancro di cui anche Rizzoli fa parte. La nascita di RAMS è legata alla volontà di portare contributi ai nuovi e grandi temi di patologia ortopedica che l’aumento della vita media ha generato».

Vice Presidente della rete sarà il Direttore Scientifico dell’IRCCS Galeazzi prof. Banfi, Segretario il Prof. Benazzo, ortopedico dell’IRCCS Policlinico S. Matteo.

E’ ora che la Raggi si dimetta

L’attacco ad alzo zero contro la Raggi, sulla prima pagina del Messaggero di ieri, segna la rottura della “città che conta” con l’amministrazione capitolina. La replica del Sindaco – qui allegata nella versione integrale di Facebook – parla di insulto e ipocrisia, come se l’editore del principale giornale della capitale avesse sferrato un colpo così duro per una ragione inconfessabile, essendo il capofila di quel sistema di potere che l’opera moralizzatrice dei grillini avrebbe finalmente aggredito nei suoi gangli vitali. Una tesi, questa, che stride addirittura con un esempio citato a mo’ di controprova, laddove si rivendica il merito di aver combattuto il “re della monnezza”: dove sarebbe il contrasto, se proprio Caltagirone ha manovrato in questi anni, complice il confuso ambientalismo dei Cinque Stelle, per abbattere (e sostituire) il monopolio di Manlio Cerroni?

Letta e riletta, la difesa della Prima cittadina di Roma appare fragile. Pone cioè allo scoperto l’inconsistenza politico-amministrativa dell’avventura grillina. Si fa presto ad azionare la leva della dietrologia, puntando l’indice sulle trame di Caltagirone. In realtà, l’editore non è in condizione di manipolare a piacimento la linea editoriale del giornale, né questa può prescindere – per interesse di parte – dal sentimento diffuso della pubblica opinione. Ridurre il de profundis stilato dal direttore, Virman Cusenza, all’esercizio crudele di un sicario, equivale al tentativo del clown di recitare una tragedia di Shakespeare. Non è credibile!

Che succede, ora? Quanto manca al lancio della spugna, dopo che l’inclemenza dei fatti ha mandato al tappeto la Raggi? Sì può andare avanti per molto o si è vicini alla fine? Certo, la maggioranza formalmente tiene. Tuttavia, al di là dei numeri, questo Consiglio comunale è oramai sfibrato, senza quel collante morale e politico che il voto del 2016 aveva regalato al baldanzoso drappello della Casaleggio Associati. Stando sotto assedio, la Raggi potrebbe scegliere di dimettersi. Onestamente farebbe bene, visto il degrado della città, il suo stato di abbandono, l’aggravarsi della sua crisi. Il rischio è che s’insedi, da qui all’anno prossimo, un’amministrazione di destra, facendo cadere i romani dalla padella alla brace. Ma voltare pagina è necessario, quale che sia il pericolo futuro, perché il prolungamento di questa agonia affossa ogni speranza di possibile riscatto.

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LA DIFESA DI VIRGINIA RAGGI

Incapace. L’insulto ripetuto migliaia di volte per offendere, per colpire personalmente l’avversario.

Me lo hanno ripetuto i politici di professione che, codardamente, di fronte ad una querela poi usano lo scudo dell’immunità parlamentare; me lo hanno urlato i Casamonica quando ho abbattuto le loro villette abusive dopo 30 anni di silenzio e collusione del vecchio sistema; me lo dice normalmente chi non ha argomentazioni.

Questa mattina al coro si è unito anche il giornale di Caltagirone: non una critica ma il solito insulto personale: fiumi di parole inutili, coperte da un titolone a effetto. Perché la cosa importante sono i titoli….

Proprio tre anni fa, il giornale di una parte dei romani titolò a tutta pagina su una presunta inchiesta nei miei confronti a Civitavecchia. Era il giorno del voto per le elezioni comunali: in questi giorni, i giornali festeggiano tre anni da quel titolo a orologeria.

La notizia era ovviamente destituita di fondamento ma non ci fu lo stesso titolo a tutta pagina per chiedere scusa ai lettori e alla sottoscritta.

Le critiche sono sempre giuste e servono a migliorarsi ma se fatte in buona fede. E, permettetemi, il dubbio c’è. I problemi a Roma hanno radici profonde. Io affronto le difficoltà e provo a superarle. La mia colpa, e ne vado fiera, è non essermi mai seduta nei vecchi salotti impolverati del potere.

Io preferisco le periferie delle persone come me, quelle degradate e abbandonate dove l’amministrazione finora non era mai stata presente.

Non sono scesa a patti con i potenti ma difendo la mia città sempre e comunque.

Altro che incapace. Io sono determinata.

Determinata a cambiare la mia città, a dare voce a chi non l’ha mai avuta e a lottare per chi è sempre stato abbandonato e disprezzato da quei “capaci” che hanno azzannato Roma e l’hanno messa in ginocchio.

Nessuno ha detto che sarebbe stato facile. Ma che avremmo invertito la rotta. E lo stiamo facendo.

Lentamente stiamo abbattendo quel muro di ipocrisia che per anni ha coperto il malaffare e la corruzione della capitale d’Italia.

Ma perché nessuno mai ha abbattuto le villette dei Casamonica chiudendo gli occhi di fronte all’illegalità?

Perché nessuno si è indignato quando hanno dato alle fiamme uno dei quattro impianti che gestiva il 25% dei rifiuti di Roma?

Perché fino all’arrivo di questa amministrazione non è mai stato imposto un contratto a Cerroni per la raccolta dei rifiuti?

Perché tutti hanno taciuto quando Atac con “parentopoli” assumeva gli “amici degli amici” indebitandosi per oltre un miliardo di euro?

 

Perché nessuno ha mai mostrato le strade nuove che abbiamo rifatto in questi tre anni?

Perché nessuno ha mai parlato della nostra lotta agli ‘scrocconi’, quelli che occupano abusivamente e senza titolo le case popolari impedendo alle persone che ne hanno bisogno di usufruire di un proprio diritto?

Perché nessuno ha mai fatto riferimento alle oltre 1.200 case popolari che questa Amministrazione ha assegnato ai più fragili?

Perché nessuno ha mai voluto raccontare le centinaia di milioni di euro stanziati per le politiche sociali e per le attività rivolte alle persone con disabilità (come il trasporto a loro dedicato il cui stanziamento annuale è stato raddoppiato), cosa mai fatta prima?

Perché nessuno ha mai detto qualcosa quando per decenni non è stata fatta la manutenzione alle linee della metropolitana o non sono stati acquistati gli autobus?

Perché hanno aperto i campi rom e lucrato sulla pelle degli abitanti degli stessi campi e dei quartieri vicini?

Forse tutto questo faceva comodo a qualcuno. Io mi oppongo e mi sono opposta a questo sistema.

Altro che incapace. Sono determinata, ancora più determinata di prima. Roma la difenderò a spada tratta perché la amo.

[Dal profilo Fb dell’autrice]

 

Qualche ricetta per intervenire sul gap salariale di genere

Articolo a firma di Liliana Ocmin (edizione odierna di Conquiste del lavoro) 

Due mesi circa di lavoro gratis. Questo resta il parametro che misura la differenza salariale tra lavoratrici e lavoratori. Una discriminazione lungi dall’essere avviata a soluzione e che riguarda non solo il nostro Paese ma, chi più chi meno, pure il resto d’Europa, come dimostra anche la recente manifestazione delle donne in Svizzera, perché la povertà femminile è diventata insostenibile.

Il sindacato ha più volte smentito anche l’apparente virtuosismo dell’Italia a riguardo, che collocherebbe il gap salariale al 5,5% rispetto alla media europea del 17%. Ciò non corrisponde alla realtà, in quanto il dato italiano prende in considerazione solo il lavoro pubblico, non tiene conto del settore privato ne delle condizioni che vivono quotidianamente le donne nel mercato del lavoro, peggiorate nell’ultimo decennio a causa della crisi e soprattutto al Sud. Anche per questo saremo in piazza il prossimo 22 giugno a Reggio Calabria per la grande manifestazione unitaria “Ripartiamo dal Sud per unire il Paese”.

Il lavoro delle donne, dunque, é ancora marcatamente segmentato e la segregazione lavorativa permane sia a livello orizzontale che verticale. Da tempo si discute di come porre argine a questa situazione stagnante, dove tutti sanno, tutti conoscono, tutti denunciano, eppure ancora troppo poco si fa per risolvere il problema in tempi accettabili. Secondo alcuni, continuando di questo passo, bisognerà attendere addirittura 70 anni per modificare il quadro esistente. Certo, parlarne, discuterne, sensibilizzare l’opinione pubblica e soprattutto quella politica, nel tentativo di smuovere le coscienze e indurle, più che a dire, a fare qualcosa, rimane una strategia vincente. Anche il Coordinamento donne Cisl di Pisa, ha provato ieri ad andare in questa direzione organizzando un interessante momento di riflessione sull’argomento presso la biblioteca del Centro “I Cappuccini” a S. Giusto, che ha registrato numerose presenze ed il contributo di testimoni ed esperti che hanno aiutato a capire meglio dove si annida il virus del gender pay gap per elaborare soluzioni più puntuali ed efficaci.

Se la busta paga tenesse conto solo della cosiddetta “parte spiegabile”, come ad esempio il titolo di studio, le donne sarebbero in vantaggio rispetto agli uomini, guadagnerebbero circa il 6% in più. Ma siccome il differenziale salariale si compone anche di una “parte inspiegabile”, quella discriminatoria per intenderci, la situazione si capovolge immediatamente annullando il vantaggio precedente e scivolando nello svantaggio per 5,5 punti percentuali, che rappresentano in buona sostanza il livello di gender pay gap misurato da Eurostat. Se prendiamo poi anche il nuovo indicatore Eurostat, il cosiddetto “gender overall earnings gap”, che misura l’impatto di tre fattori – guadagni orari, ore retribuite e tasso di occupazione – combinandoli tra loro sul reddito medio sia di uomini che donne in età lavorativa, ebbene, il risultato fa lievitare la disparità di retribuzione complessiva in Italia fino a raggiungere il 43,7%. Non è una novità, poi, che le interruzioni di carriera per la cura familiare incidano per il 56% nella differenza di salario, mentre le ore retribuite per il 32% e il gender pay gap vero e proprio per appena l’11%.

Eravamo presenti all’incontro anche noi del Coordinamento nazionale donne, per portare idee e proposte quale contributo in questo cammino verso la parità di trattamento uomo-donna nel mondo del lavoro. Intanto, bisogna dire che ad oggi mancano ancora dati pubblici certi sulla situazione generale all’interno delle nostre imprese per renderci conto dell’entità del fenomeno e delle possibili cause specifiche oltre quelle già evidenziate. Esiste, come sappiamo, l’obbligo per le aziende con più di 100 dipendenti di comunicare i dati sulla situazione del proprio personale, ma si conoscono solo i dati di alcune. Adesso pare che il Ministero del Lavoro, insieme all’Ufficio della Consigliera nazionale di Parità, abbia quasi completata la messa a punto di una piattaforma informatica per facilitare alle aziende questa incombenza e quindi fornire un quadro più completo delle condizioni dei propri dipendenti.

Come Coordinamento nazionale, abbiamo avanzato in merito due proposte concrete per dare un’accelerazione a questo processo di conoscenza dei livelli salariali, e cioè rendere più stringente ed esigibile questo obbligo ed estenderlo anche alle aziende con meno di 100 dipendenti, così da avere uno spaccato molto più rappresentativo, alla luce anche della realtà imprenditoriale italiana, composta in maggioranza da piccole e medie imprese. Un altro suggerimento, infine, che abbiamo condiviso con i presenti, frutto anche della collaborazione con il Gruppo di lavoro Asvis sull’Obiettivo 5 dell’Agenda ONU 2030, è la richiesta avanzata al Governo di istituzione di una nuova Commissione per la realizzazione dell’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile presso la Presidenza del Consiglio ma indipendente dall’Esecutivo. Ciò permetterebbe di avere una visione più coordinata e complessiva e quindi più incisiva delle politiche e delle strategie di genere.

Parma: la più grande mostra italiana dedicata all’arte cecoslovacca

A Palazzo del Governatore si possono ammirare oltre 200 opere tra dipinti, disegni, acquerelli, lavori di grafica e di stampa, fotografie, oggetti di design e proiezioni cinematografiche.
Promossa da Fondazione Eleutheria, Collezione Ferrarini-Nicoli e Comune di Parma, in collaborazione con il Museo di Arte Decorative di Praga, la mostra è curata da Gloria Bianchino, FrancescoAugusto Razetto (Presidente Fondazione Eleutheria) e Ottaviano Maria Razetto. Il catalogo, che contiene i testi dei curatori, è arricchito da approfondimenti sul tema anche dei critici Vittorio Sgarbi e Genny Di Bert, che focalizza la sua analisi sul “vetro”.
L’esposizione, allestita su entrambi i piani del Palazzo, propone al pubblico un percorso temporale, a partire dagli anni ’20 del Novecento fino agli anni ’80, in cui viene approfondita l’atmosfera culturale di Praga e dell’intera nazione cecoslovacca, altamente influenzata dalle vicende storico-politiche, che portò a una particolarissima produzione artistica, parte della quale trovò espressione nella pittura realista di artisti di primo piano come Josef Štolovský (1879-1936), Josef Brož (1904-1980), Adolf Žábranský (1909-1981), Jaromír Schoř (1912-1987), Sauro Ballardini (1925-2010) ed Alena Čermáková (1926-2009). 
Dalla pittura alla scultura, dalla fotografia al cinema fino al design, l’arte di quel periodo è declinata nelle sue variegate sfaccettature sottolineando, in particolare, l’impatto che ebbe lo “stato di regime”, dal ’48 in poi, sulla cultura della città e dell’intera nazione.
Tra gli Enti patrocinanti l’iniziativa: Ambasciata della Repubblica Ceca a Roma, Ambasciata d’Italia a Praga, Ministero per i Beni e le Attività Culturali della Repubblica Italiana, Ministero della Cultura della Repubblica Ceca, Regione Emilia-Romagna, Praga Città Capitale, Provincia di Parma, Municipio di Praga 1, Istituto Italiano di Cultura di Praga, Centro Ceco di Roma, Archivio di Stato di Parma, Museo delle Arti Decorative di Praga, Camera di Commercio e dell’Industria italo-ceca.

 

L’ANIMA DEL VETRO / “attraversamenti” (tratto dal catalogo)

di Genny Di Bert (curatrice Fondazione Eleutheria)

 

L’industria del vetro fu introdotta in Boemia da Venezia nel XIII secolo, ottenendo subito un grande successo. Già un secolo dopo si iniziava a far uso del cobalto per colorare il vetro. Le fabbriche erano situate in prossimità delle montagne dove i vari minerali, specialmente il silicio, si trovavano in abbondanza.

Il cristallo di Boemia, diventato ben presto famoso in tutta Europa, era chiaro e con forme artistiche molto simili al vetro veneziano che, in gran parte, aveva copiato. L’apice di questo splendido manufatto fu raggiunto nel XVII secolo quando, su impulso dell’Imperatore Ferdinando III, il maestro vetraio Schwanhardt di Norimberga creò autentici capolavori. L’arte dell’intaglio era stata importata in Italia nel 1456, dopo la conquista di Costantinopoli, e trasferita prima a Norimberga (intorno al 1550) e subito dopo a Praga.

Rodolfo II, come noto grande mecenate delle arti, incoraggiò l’industria del vetro, invitando nel castello di Praga i maggiori artisti dell’epoca, tra cui i fratelli Gasparo e Girolamo Miseroni. Costoro arrivarono da Milano ed a loro fu affidato il laboratorio del vetro, fondato dallo stesso Rodolfo. Le splendide creazioni in vetro realizzate a Praga ed a Norimberga in quegli anni mostravano ancora l’influenza di Albrecht Dürer (morto nel 1528).

L’uso del cobalto veniva dai laboratori della Sassonia e si rifaceva alla produzione olandese detta “alla veneziana”. Sotto l’influenza dei vetri cechi anche in Sassonia, di converso, l’industria si sviluppò considerevolmente. Con l’affinarsi della tecnica il cristallo andò migliorando in qualità e trasparenza, soprattutto attraverso l’uso di carbonato di potassio al posto del carbonato di sodio. L’incisione era effettuata con la stessa accuratezza del cristallo di rocca. Quella più profonda era operata con un frammento di cristallo naturale, mentre l’incisione più chiara richiedeva l’uso di un frammento di diamante.

La fabbricazione di oggetti in vetro colorato restò sempre legata a conoscenze molto antiche anche se, nel Seicento, gli alchimisti scoprirono il vetro rosso rubino colorato per mezzo dell’oro. Secondo alcuni documenti cechi, nel 1690 il vetro rubino era prodotto a Freising e Michal Müller fu il primo a produrlo in Boemia.

La “Guerra dei Trenta Anni” spopolò la Boemia e Schwanhardt ritornò a Norimberga, da dove egli era andato a Praga per diventare direttore delle fornaci imperiali. Da Norimberga uscirono poi la più parte dei capolavori in cristallo, che i potenti dell’epoca ordinavano in gran quantità. Il suo ritorno a Praga avvenne nel 1652 e, con il figlio Heinrich, continuò a realizzare meravigliosi manufatti quali bicchieri, bottiglie e vasi. Spesso questi lavori continuavano ad essere impreziositi da eleganti incisioni e decorazioni in oro.

Durante la seconda metà del XVII secolo cominciò ad apparire il famoso cristallo rosso rubino, portato poi alla perfezione intorno al 1679 da Johann Kunckel a Potsdam. Costui, nato nel 1638, era un chimico e le sue ricerche lo avevano portato ad investigare il modo di colorare il vetro. Egli scoprì che, per ottenere questa bellissima forma colorata di rubino, il materiale doveva essere scaldato due volte e l’oro utilizzato per il colore essere impiegato solo in piccolissime quantità. Frattanto, nel 1612 Antonio Neri pubblicava il libro “L’arte vetraria”, che ebbe notevole influenza sugli artigiani del vetro e sugli scrittori di questa materia. Il volume ebbe quattro traduzioni: inglese, latino, tedesco e francese. Quest’ultima, effettuata dal barone D’Hollack a Parigi nel 1752, fu sempre considerata la migliore.

Molti dei cristalli della Boemia, sia antichi che moderni, sono pesanti anche per lo stile di decorazione che li caratterizza: ossia l’incisione profonda. Durante la prima metà del XVIII secolo fu molto ammirata un decorazione chiamata “kalligraphen ornamente”: era chiara ed elegante con disegni convenzionali, che ricoprivano quasi per intero la superficie del manufatto. Questo prodotto ottenne in Europa una crescente richiesta. Maria Teresa, contessa delle Fiandre visitò all’epoca Gand, città nota come grande mercato per il vetro veneziano. Ma, in quell’occasione, i cristalli creati per celebrare la visita furono eseguiti in puro stile di Boemia, arricchito da stemmi nobiliari. Di conseguenza, la crescente domanda di cristalli in stile boemo comportò effetti disastrosi per le manifatture veneziane. Infatti, i laboratori di Murano furono ridotti quasi alla rovina al punto che il Senato veneziano proibì la produzione di cristallo in stile boemo. Più tardi, sempre nel Settecento, un nuovo stile fu introdotto in Boemia chiamato “doppelwandglas”, praticamente un revival dell’arte antica. Esso consisteva in due strati di vetro contenenti, al loro interno, una decorazione incisa in foglie d’oro od argento. Ma come il cristallo della Boemia aveva finito per mettere in ginocchio quello veneziano così il sorgente vetro inglese fece con quello praghese. Infatti, alla fine di quel secolo, l’industria vetraia ceca entrava in una crisi che toccò il suo apice nel momento del blocco napoleonico.

Agli inizi del 1800 ebbe luogo la ripresa e, per rivitalizzare l’industria vetraia, fu prodotta in Boemia gran quantità di cristallo rubino. A quei tempi nella regione c’erano ben sei principali centri di manifattura del vetro, di cui il primo era a Nový Bor, ritornata agli antichi fasti del XIII secolo.

Il metodo di realizzazione del cristallo boemo fino al 1880 può definirsi semplice. Tutte le fornaci erano di piccole dimensioni, installate in mezzo alle foreste, e quando il legno attorno a loro si esauriva era considerato più economico spostare le fornaci stesse piuttosto che portare il legno da loro. La lavorazione aveva luogo in due aree separate, una dove il vetro veniva abbozzato e l’altra dove veniva rifinito ed ornato con incisioni e decorazioni. Questo sistema fece nascere un gran numero di artigiani specializzati, eccellenti incisori e decoratori, sostenuti dal locale museo statale. Esistevano, inoltre, varie scuole collegate all’industria del vetro nella quale si insegnava l’arte della creazione. Nel 1880, soltanto in Boemia, 179 fornaci lavoravano vetro, gran parte delle quali realizzavano cristalli colorati, tavoli, vasellame e bottiglie. L’esportazione dei manufatti si dirigeva, in particolare, verso gli Stati Uniti che, dal 1876 al 1880, acquistarono per la somma considerevole di 3 milioni di dollari. Tra i vari produttori boemi di vetro una nota di rilievo va alla vetreria Moser, fondata a Karlovy Vary nel 1857, come laboratorio di lucidatura, incisione e molatura.

Tra la fine del XIX secolo ed i primi anni del Novecento, l’Europa fu teatro di eventi importanti nella storia del design. Infatti, tra concorsi, esposizioni, poetiche individuali o collettive, intuizioni produttive o tecnologiche l’arte iniziò a relazionarsi sempre più alla produzione seriale. Il vetro, in quel periodo, arrivò ad essere una ossessione per alcuni artisti, basti pensare, tra tutti, a Gustav Klimt. Erano gli anni in cui la rifrazione speculare, il gioco prismatico di sfaccettature luminose e l’attraversamento ottico di visioni dell’insieme, esigevano l’uso di un materiale apparentemente impalpabile. Ovvero, proprio il vetro.

Dopo la Prima Guerra Mondiale, la Boemia produce magnifici cristalli colorati, dalle antiche forme, di altissima qualità e di conseguenza molto cari. I cromatismi vanno dall’ambra al rosso chiaro sui quali viene applicata l’etichetta “made in Czecho-Slovakia”: un vezzo ampiamente giustificato dall’indipendenza conquistata dal Paese per la prima volta nella storia. In quegli anni, Moser focalizzava l’interesse verso colori originali come l’alexandrite (viola, rosa, azzurro) e il royalite (rosso porpora, rosso corallo), che avevano la caratteristica di infrangere la luce, creando sfumature e sfaccettature ottiche.

Durante la prima metà del XX secolo continuano a persistere solidi legami tra produzione dei cristalli e correnti artistiche. Alcuni vetri sono pezzi unici, altri seriali. L’artista che lavora per l’industria fa coincidere la sua ricerca estetica con la metodologia progettuale. La produzione diventa strumentale e collettiva. Supera cioè l’aspetto creativo dell’autore per aspirare non soltanto ad una finalità artistica ma anche ad una utilitaristica.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale la produzione del vetro, in particolare colorato, si concentra nel nord della Boemia. Le richieste maggiori arrivano dai Paesi comunisti e da alcuni Paesi arabi. Oltre ai vetri rosso rubino, verdi, blu e opali, va di moda la pittura a smalto in spessore e smalto in rilievo. Le raffigurazioni e decorazioni riprendono iconografie tipiche dell’Art Nouveau: ghirlande, figure femminili, fiori. Queste iconografie vengono realizzate direttamente sul cristallo oppure collocate all’interno delle incisioni (spesso, in questo caso, la decorazione è realizzata con sali d’oro allo stato colloidale).

Dal 1948 con l’avvento del comunismo si assiste ad un notevole cambiamento della società civile anche nell’ambito artistico. Tuttavia, la fabbrica del vetro è particolarmente sostenuta dal governo: il comunismo non la considera “pericolosa”. Nella lavorazione del cristallo il talento degli artigiani rimane, anche se l’innovazione estetica non è particolarmente presente. Molti pezzi sono “citazioni” di periodi passati, soprattutto i primi decenni del XX secolo; altri propongono invece immagini dettate da tematiche del realismo socialista, come del resto si rileva negli altri settori artistici.

Negli anni Cinquanta molti vetri sono intagliati con motivi geometrici, che a volte riempiono tutta la superficie, essendo spesso applicata una seghettatura del bordo superiore. Anche in questo caso si riscontra una seppur velata e sottile ispirazione ad alcune correnti del passato: Decò, Cubismo ceco, Costruttivismo russo.

Nel 1958 si svolge l’Esposizione universale e Internazionale EXPO a Bruxelles (la prima organizzata dopo la Seconda Guerra Mondiale): un avvenimento che ha influenzato il design degli anni ’60 e ’70 della Cecoslovacchia. In quell’occasione il Paese viene premiato con la Stella d´Oro per l´architettura e l´organizzazione del proprio padiglione, che presentava in anteprima mondiale la Lanterna Magica di Alfred Radok e Jiří Svoboda.
Anche negli anni Sessanta il cristallo cecoslovacco contribuisce alla ricerca ed innovazione europea del design del vetro. Tra gli esponenti di maggiore spicco troviamo Pavel Hlava (1924-2003). Famosi sono i suoi vasi in vetro molato, come l’opera Goccia (in esposizione), nella quale i colori, tendenti allo scuro, sono stratificati ed alternano sfumature in verticale anche all’interno del lavoro. Sotto luci diverse le opere presentano un bellissimo gioco cromatico cangiante. Spesso la geometria si congiunge con modularità concentriche, che sembrano voler “disperdere” l’anima del vetro, dissolvendo la materia. Nello stesso periodo, sono originali le bottiglie create dal praghese René Roubiček (1922-2018) ed i suoi vetri variegati viola, blu e giallo ambra.

Tutte le opere in mostra rappresentano vari aspetti socio culturali della Praga di quegli anni, un periodo in cui i vetri sono vere e proprie creazione di design sia nel significato inglese (ogni sorta di progettazione applicabile ad ogni attività) che in quello italiano (esclusivamente «industrial o artigianale design», ovvero progetto delle cose, prodotto della cultura materiale). Anche se riprodotti in serie ed inseriti in un circuito prevalentemente commerciale, essi restano comunque molto particolari. Infatti, sono creazioni nelle quali l’equilibrio tra aspirazione artistica e finalità economica ha un senso, riportando alla mente l’importante evoluzione socio-culturale dell’Europa di quel tempo. In fondo, sono multipli creati per diffondere un messaggio estetico relazionato al livello culturale del fruitore.

Alcuni dei vetri esposti sono stati realizzati per commemorare importanti eventi. Si veda, ad esempio, il vaso in “vetro formato” con la scritta “Marathon de la Route 1966” oppure il “vetro stampato” Helsinky 1975, realizzato in occasione della stipulazione dell’atto finale della “Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa”. Il primo rende giochi chiaroscurali in forme morbide, che ricordano fiori o conchiglie, dai bordi ingrossati, pesante nella realtà ed estremamente leggero alla vista. Pura trasparenza che sembra diffondersi tutt’intorno. Il secondo, pur mantenendo lo stesso cromatismo, appare progettato come “sfondo” dell’iconografia principale: una colomba stilizzata quale simbolo di pace.

Nel “vetro a stampo” di Adolf Matura (1921-1979) Composizione n. 3484, realizzato nel 1972 per la Sklo Union Teplice – Vetreria Libochovice, si riconoscono giochi di geometrie e figurazioni tipiche di questo artista, che ha iniziato la sua carriera a Železny Brod. Egli sperimentò diverse discipline vetrarie con particolare attenzione ai vetri intagliati e tagliati ed a quelli pressati, che elaborò con particolare attenzione dalla metà degli anni ’60, anni in cui lavorò anche con Moser (proprio nel ’60 Matura, con un set di bicchieri con caraffa vinse la medaglia d’ora alla Triennale di Milano). All’inizio della sua attività egli realizza soprattutto vasellami ed accessori in vetro formati sia da soffiatura che da taglio. In questo lavoro si percepiscono spinte moderniste che, come manifattura e gioco formale, lo relazionano ad altre opere esposte (di autori anonimi).

In quello stesso periodo, Pavel Hlava modifica i suoi vetri rendendoli più “morbidi” (si veda, ad esempio, il vetro molato realizzato per Crystalex di Nový Bor). Da spinte verticali ascendenti egli passa ad una forma più articolata, spiraliforme. Pur mantenendo sfumature cromatiche e giochi ottici di luce interna ed esterna, il movimento si attua intorno ad una sorta di perno centrale, che ricorda la tecnica manuale delle ceramiche, l’alternarsi tra vuoti e pieni, il rapporto materia-spazio.

Presenti in mostra anche opere di František Vízner (1936-2011).  Questi, dopo aver studiato a Nový Bor e Železný Brod concluse i suoi studi all’Academia di Arte Applicata a Praga e collaborò con centri d’arte ed industrie (Teplice, Škrdlovice). Il vetro soffiato in mostra è del 1974. L’anno seguente Vízner intraprese esclusivamente la carriera di artista indipendente, cessando la produzione seriale industriale. I suoi lavori propongono semplici volumi, in cui la funzionalità non è, comunque, prioritaria. I colori sono luminosi, le proporzioni sono articolate.

Anche l’opera di Petr Hora, nato nel 1949, è caratterizzata da spinte scultoree. I suoi vasi, di cui un esemplare degli anni ’70 è presente nell’esposizione, sono essenziali e dinamici allo stesso tempo. Nel suo lavoro sono già presenti i tratti che l’artista ripeterà anche negli anni successivi, caratterizzati dalla ricerca della luce e della forma attraverso una elegante manipolazione di colori e strutture. Volumetrie di vetro che lasciano i ricordi minimali per evolversi in design postmoderno.

 

Il prodotto interno lordo pro capite misurato da Eurostat.

’istituto statistico europeo ha diffuso oggi i dati del Pil per abitante e quelli relativi al “Consumo individuale effettivo”, ovvero un indicatore del livello di benessere materiale delle famiglie.

In entrambe le classifiche il Lussemburgo si piazza al primo posto e, nell’Ue, la Bulgaria è ultima. Venendo al Pil pro capite, fatto 100 quello medio dei 28 Paesi Ue, il Lussemburgo è a quota 254; in seconda posizione, ma fortemente distaccata, l’Irlanda (187), poi i Paesi Bassi (129) e, a ruota, Austria, Danimarca, Germania (123), Svezia.

Sopra la media Ue anche Belgio, Finlandia, Regno Unito e Francia (questi due appaiati a 104).

Tra gli ultimi Ungheria, Grecia, Croazia, Bulgaria (50). I Paesi candidati si collocano, per Pil pro capite, sotto il 50.

Circa l’indice del Consumo individuale effettivo (espresso in standard di potere d’acquisto) si va da 132 del Lussemburgo ai 56 della Bulgaria; Germania 121, Francia 107, Italia 98, Spagna 90, Polonia 77, Grecia 76.

Il numero di persone in fuga nel mondo supera i 70 milioni

Nel 2018, Il numero di persone in fuga da guerre, persecuzioni e conflitti ha superato i 70 milioni. Si tratta del livello più alto registrato dall’UNHCR, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, in quasi 70 anni di attività.

I dati raccolti nel rapporto annuale dell’UNHCR Global Trends, mostrano come attualmente siano quasi 70,8 milioni le persone in fuga. Per coglierne la portata, tale cifra corrisponde al doppio di quella di 20 anni fa, con 2,3 milioni di persone in più rispetto a un anno fa, e a una popolazione di dimensione compresa fra quelle di Thailandia e Turchia.

La cifra di 70,8 milioni è stimata per difetto, considerato che la crisi in Venezuela in particolare è attualmente riflessa da questo dato solo parzialmente. In tutto, circa 4 milioni di venezuelani, secondo i dati dei paesi che li hanno accolti, hanno lasciato il Paese, rendendo la crisi in atto uno degli esodi forzati recenti di più vasta portata a livello mondiale. Sebbene la maggior parte delle persone in fuga necessiti di protezione internazionale, ad oggi solo circa mezzo milione di queste ha presentato formalmente domanda di asilo.

“Quanto osserviamo in questi dati costituisce l’ulteriore conferma di come vi sia una tendenza nel lungo periodo all’aumento del numero di persone che fuggono in cerca di sicurezza da guerre, conflitti e persecuzioni. Se da un lato il linguaggio utilizzato per parlare di rifugiati e migranti tende spesso a dividere, dall’altro, allo stesso tempo, stiamo assistendo a manifestazioni di generosità e solidarietà, specialmente da parte di quelle stesse comunità che accolgono un numero elevato di rifugiati. Stiamo inoltre assistendo a un coinvolgimento senza precedenti di nuovi attori, fra cui quelli impegnati per lo sviluppo, le aziende private e i singoli individui, che non soltanto riflette ma mette anche in pratica lo spirito del Global Compact sui Rifugiati”, ha dichiarato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. “Dobbiamo ripartire da questi esempi positivi ed esprimere solidarietà ancora maggiore nei confronti delle diverse migliaia di persone innocenti costrette ogni giorno ad abbandonare le proprie case”.

La cifra di 70,8 milioni registrata dal rapporto Global Trends è composta da tre gruppi principali. Il primo è quello dei rifugiati, ovvero persone costrette a fuggire dal proprio Paese a causa di conflitti, guerre o persecuzioni. Nel 2018 il numero di rifugiati ha raggiunto 25,9 milioni su scala mondiale, 500.000 in più del 2017. Inclusi in tale dato sono i 5,5 milioni di rifugiati palestinesi che ricadono sotto il mandato dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (United Nations Relief and Works Agency/UNRWA).

Il secondo gruppo è composto dai richiedenti asilo, persone che si trovano al di fuori del proprio Paese di origine e che ricevono protezione internazionale, in attesa dell’esito della domanda di asilo. Alla fine del 2018 il numero di richiedenti asilo nel mondo era di 3,5 milioni.

Infine, il gruppo più numeroso, con 41,3 milioni di persone, è quello che include gli sfollati in aree interne al proprio Paese di origine, una categoria alla quale normalmente si fa riferimento con la dicitura sfollati interni (Internally Displaced People/IDP).

La crescita complessiva del numero di persone costrette alla fuga è continuata a una rapidità maggiore di quella con cui si trovano soluzioni in loro favore. La soluzione migliore per qualunque rifugiato è rappresentata dalla possibilità di fare ritorno nel proprio Paese volontariamente, in condizioni sicure e dignitose. Altre soluzioni prevedono l’integrazione nella comunità di accoglienza o il reinsediamento in un Paese terzo. Tuttavia, nel 2018 solo 92.400 rifugiati sono stati reinsediati, meno del 7 per cento di quanti sono in attesa. Circa 593.800 rifugiati hanno potuto fare ritorno nel proprio Paese, mentre 62.600 hanno acquisito una nuova cittadinanza per naturalizzazione.

“Ad ogni crisi di rifugiati, ovunque essa si manifesti e indipendentemente da quanto tempo si stia protraendo, si deve accompagnare la necessità permanente di trovare soluzioni e di rimuovere gli ostacoli che impediscono alle persone di fare ritorno a casa”, ha dichiarato l’Alto Commissario Filippo Grandi. “Si tratta di un lavoro complesso che vede l’impegno costante dell’UNHCR, ma che richiede che anche tutti i Paesi collaborino per un obiettivo comune. Rappresenta una delle grandi sfide dei nostri tempi”.

Il report in inglese ed ulteriori materiali sono disponibili al seguente link: https://www.unhcr.org/global-trends-2018-media.html

Alle aree protette 85 milioni per ridurre le emissioni di CO2

Al via #ParchixilClima e la biodiversità, la campagna del Ministero dell’Ambiente rivolta ai 23  parchi nazionali d’Italia. Il Mattm, con le due direzioni Clima ed energia e Protezione natura, mette a disposizione di tutti i parchi nazionali italiani, 85 milioni di euro  per interventi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica e di adattamento ai cambiamenti climatici. Le aree nazionali protette potranno aderire entro il 2 agosto presentando progetti per interventi di efficienza energetica degli immobili propri e dei comuni inseriti nel perimetro del parco, impianti di piccola dimensione di produzione di energia da fonti rinnovabili, infrastrutture e servizi di mobilità sostenibile, riforestazione e rimboschimento.

Tra gli interventi: opere per il contenimento del rischio di esondazione, rinaturazione delle aree costiere attraverso il ripristino delle dune, interventi per la ricostituzione di habitat, ecosistemi e biodiversità soprattutto nelle zone più fragili, conversione degli immobili con efficientamento energetico, acquisto di auto e motoveicoli ibridi ed elettrici per spostamenti di servizio, biciclette a pedalata assistita per gli enti parco, realizzazione di nuove piste ciclabili e aree di sosta di sharing mobility e ancora: potenziamento dei serbatoi forestali, interventi di incremento delle piantagioni e selvicolturali finalizzati alla conservazione e valorizzazione degli habitat forestali della rete Natura 2000.

“E’ un programma ambizioso che si inserisce nella mia visione, e non più soltanto sogno, di avere l’Italia Paese parco – ha detto sottolinea il titolare dell’Ambiente, Sergio Costa -. Da oggi con questo progetto i parchi nazionali contribuiranno attivamente alla strategia per mitigare i cambiamenti climatici. Ecco che gli impegni internazionali dell’Italia diventano progetti concreti e proprio a partire dai polmoni verdi del Paese. Sarà sempre più vantaggioso vivere in un parco, sarà sempre più piacevole farlo e più sostenibile. E’ un altro mattoncino del nostro grande progetto green”.

Attenzione alla falsa “moneta scritturale”

Scrivere una moneta di proprio pugno oppure utilizzando moduli che si trovano su diversi siti web per creare “euro scritturali” non ha alcun valore legale.

L’avvertimento della Banca d’Italia è chiaro

La Banca d’Italia continua a ricevere comunicazioni di privati che pretendono di utilizzare “euro scritturali” autonomamente creati, o che riguardano piattaforme e sedicenti “organismi monetari” con funzioni bancarie che creerebbero “moneta scritturale” garantita dalla Banca d’Italia.

: “L’unica forma di moneta legale – ossia dotata del potere di estinguere le obbligazioni in denaro – è la moneta emessa dalla Bce, in quanto la sua creazione si basa su rigorose procedure che garantiscono la fiducia generale nella moneta e la stabilità del suo valore nel tempo”.

Maturità 2019: Ieri il tema d’italiano

Alle 8:30, di ieri con l’apertura del plico telematico, è scattata la prima prova scritta, ovvero il tema di italiano. Gli studenti hanno potuto scegliere tra tre tipologie di tema: tipologia A “Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano”; tipologia B “Analisi e produzione di un testo argomentativo”; tipologia C “Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità”.

Le Tracce

Traccia A1 – Giuseppe Ungaretti da L’allegria. Il Porto Sepolto

Traccia A2 – Leonardo Sciascia, ‘Il Giorno della Civetta’
Nel romanzo di Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, pubblicato nel 1961, il capitano Bellodi indaga sull’omicidio di Salvatore Colasberna, un piccolo imprenditore edile che non si era piegato alla protezione della mafia. Al candidato, oltre all’analisi del testo, si chiede come commento: “Nel brano si contrappongono due culture: da un lato quella della giustizia, della ragione e dell’onestà, rappresentata dal capitano dei Carabinieri Bellodi e dall’altro quello dell’omertà e dell’illegalità; è un tema al centro di tante narrazioni letterarie, dall’ottocento fino ai nostri giorni, e anche cinematografiche, che parlano in modo esplicito di organizzazioni criminali, o più in generale dei rapporti di potere, soprusi e ingiustizie all’interno della società. Esponi le tue considerazioni su questo tema, utilizzando le tue letture, conoscenze ed esperienze”.

Tipologia B – Analisi e produzione di un testo argomentativo
Traccia B1 – Il patrimonio culturale e il futuro, testo tratto da Tomaso Montanari
Agli studenti della maturità 2019 è proposto un lungo testo dal libro dell’esperto d’arte Tomaso Montanari, ‘Istruzioni per l’uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà’. Oltre alla comprensione e all’analisi del testo, il commento richiesto è come segue:
“Condividi le considerazioni di Montanari in merito all’importanza del patrimonio storico e artistico quale indispensabile legame tra passato, presente e futuro? Alla luce delle tue conoscenze e delle tue esperienze dirette ritieni che “la bellezza salverà il mondo” o al contrario pensi che “la bellezza non salverà proprio nulla se noi non salveremo la bellezza”? Argoment i tuoi giudizi con riferimenti alla tua esperienza e alle tue conoscenze e scrivi un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso”.

Traccia B2 – ‘L’illusione della conoscenza, testo tratto da Steven Sloman e Philip Fernbach
Una parte del testo messo a disposizione degli utenti è come segue.
“Questa storia illustra un paradosso fondamentale del genere umano: la mente umana è allo stesso tempo geniale e patetica, brillante e stolta. Le persone sono capaci delle imprese più notevoli, di conquiste che sfidano gli dei. Siamo passati dalla scoperta del nucleo atomico nel 1911 ad armi nucleari da megatoni in poco più di 40 anni. Abbiamo imparato a dominare il fuoco, creato istituzioni democratiche, camminato sulla luna (…). E tuttavia siamo capaci altresì delle più impressionanti dimostrazioni di arroganza e dissennatezza. Ognuno di noi va soggetto a errori, qualche volta a causa dell’irrazionalità, spesso per ignoranza. È incredibile che gli esseri umani siano in grado di costruire bombe termonucleari; altrettanto incredibile è che gli esseri umani costruiscano effettivamente bombe termonucleari (e le facciano poi esplodere anche se non sono del tutto consapevoli del loro funzionamento). È incredibile che abbiamo sviluppato sistemi di governo ed economie che garantiscono il comfort della vita moderna benché la maggior parte di noi abbia solo una vaga idea di come questi sistemi funzionino. E malgrado ciò la società umana funziona incredibilmente bene almeno quando non colpiamo con radiazioni le popolazioni indigene. Com’è possibile che le persone riescano impressionarci per la loro ingegnosità e contemporaneamente a deluderci per la loro ignoranza? Come siamo riusciti a padroneggiare così tante cose nonostante la nostra comprensione sia spesso limitata?”

Oltre alle domande sulla comprensione e l’analisi, agli studenti viene chiesto il seguente commento: “Gli autori illustrano un paradosso dell’età contemporanea che riguarda il rapporto tra la ricerca scientifica, le innovazioni tecnologiche e le concrete applicazione di tali innovazioni. Elabora le tue opinioni a riguardo sviluppandole in un testo argomentativo in cui tesi ed argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso. Puoi confrontarti con le tesi espresse del testo sulla base delle tue conoscenze delle tue letture e delle tue esperienze personali”.

Traccia B3 – ‘L’eredità del Novecento’, di Corrado Stajano
Il brano di Stajano proposto come traccia nella prima prova della maturità 2019 è l’introduzione alla raccolta di saggi “La cultura italiano del Novecento” raccolta del 1996. Un’introduzione in cui il giornalista e scrittore commenta le affermazioni di alcuni protagonisti del XX secolo e si conclude così: “Nasce di qui l’insicurezza, lo sconcerto. I nuovi problemi sembrano ancora più nuovi, caduti in un mondo vergine. Anche per questo è difficile capire oggi quale sarà il destino umano dopo il lungo arco attraversato dagli uomini in questo secolo”. Il commento chiesto agli studenti (in aggiunta a quattro domande sulla comprensione del testo) è formulato come segue: “Dopo aver analizzato i principali temi storico-sociali del XX secolo Corrado Stajano fa riferimento all’insicurezza e allo sconcerto che dominano la vita delle donne e degli uomini e che non lasciano presagire ‘quale sarà il destino umano dopo il lungo arco attraversato dagli uomini di questo secolo’. Ritieni di poter condividere tale analisi che descrive una pesante eredità lasciata alle nuove generazioni? A distanza di oltre 20 anni dalla pubblicazione del saggio di Stajano pensi che i nodi da risolvere nell’Europa di oggi siano mutati? Illustra i tuoi giudizi con riferimenti alle tue conoscenze, alle tue letture, alla tua esperienza personale e scrivi un testo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso”.

Tipologia C – Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità
Traccia C1 – L’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa
In occasione del trentennale dall’uccisione del generale Dalla Chiesa, il prefetto Luigi Viana tenne un discorso al cimitero della Villetta Parma, che viene fornito agli studenti.

La traccia chiede: “Sono trascorsi quasi 40 anni dall’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ma i valori richiamati nel discorso di commemorazione sopra riportato rimangono di straordinaria attualità. Rifletti sulle tematiche che si evincono dal brano, traendo spunto dalle vicende narrate, dalle considerazioni in esso contenute e dalle tue letture, dalle tue conoscenze, dalle tue esperienze personali. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto”.

Traccia C2 – Gino Bartali e il rapporto tra sport, storia e società
La traccia su Gino Bartali riporta un articolo di Cristiano Gatti su Il Giornale del 24 settembre 2013 in cui racconta la storia del campione. Il commento richiesto è come segue: “Il giornalista Cristiano Gatti racconta di Gino Bartali, grande campione di ciclismo, la cui storia personale e sportiva si è incrociata, almeno due volte, con eventi storici importanti e drammatici. Il campione ha ottenuto il titolo di Giusto delle Nazioni grazie al suo coraggio che consenti, nel 1943, di salvare moltissimi ebrei con la collaborazione del cardinale di Firenze. Inoltre una sua ‘mitica’ vittoria al Tour de France nel 1948 fu considerata da molti come uno dei fattori che contribuì a ‘calmare gli animi’ dopo l’attentato a Togliatti. Quest’ultima affermazione è probabilmente non del tutto fondata ma testimonia come lo sport abbia coinvolto in modo forte e profondo il popolo italiano, così come tutti i popoli del mondo. A conferma di ciò molti regimi autoritari hanno spesso cercato di strumentalizzare le epiche imprese dei campioni per stimolare non solo il senso della patria ma anche i nazionalismi. A partire dal contenuto dell’articolo di Gatti e traendo spunto dalle tue conoscenze, letture ed esperienze rifletti sul rapporto tra sport, storia e società. Puoi arricchire la tua riflessione con riferimenti a episodi significativi e personaggi di oggi e/o del passato. Puoi articolare il tuo elaborato in paragrafi opportunamente titolati e presentarlo con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto”.

Nel 2018 torna a crescere il numero dei donatori, quasi 1,7 milioni

Dopo anni con il segno meno, torna a salire il numero dei donatori di sangue, che nel 2018 sono stati 1.682.724, con un aumento dello 0,2% rispetto all’anno precedente.

I nuovi donatori sono poco più di 371mila, in calo del 3,7%, mentre il 91,7% del totale è rappresentato da donatori iscritti alle associazioni di volontari. Sono in leggero calo anche i pazienti trasfusi, che nel 2018 sono stati circa 630mila contro i 637mila dell’anno precedente. In totale le trasfusioni effettuate durante l’anno sono state quasi 3 milioni. L’inversione di tendenza non riguarda i donatori in aferesi, la procedura che permette di donare soltanto alcune parti del sangue intero come il plasma e le piastrine, che sono stati 202mila, con un calo dell’1,6%. Nel 2018 sono stati comunque raccolti 840mila chilogrammi di plasma, 4mila in più rispetto all’anno precedente, pienamente in linea con gli obiettivi del Programma Nazionale Plasma. Per il sangue è stata garantita anche lo scorso anno l’autosufficienza totale, che per i derivati del plasma è circa al 70%.

L’opposizione al trumpismo gialloverde esige la formazione di un nuovo soggetto politico.

Il pellegrinaggio di Matteo Salvini a Washington conferma ciò che era già evidente: l’Italia si prepara a diventare il principale “cavallo di Troia” di quanti, nel mondo, non vogliono una Europa unita e forte.
Era evidente (e preoccupante), appunto. Ma non per la larga maggioranza dei cittadini italiani che hanno oggi un’altra priorità: sperano che la svolta rappresentata dalla destra e dai populisti interrompa il processo di impoverimento e di precarietà materiale e psicologica che la globalizzazione non governata degli ultimi vent’anni ha comportato per la vita loro e delle loro famiglie. Una speranza destinata a trasformarsi in incubo, come sappiamo, ma loro ancora non ne sono affatto persuasi.
L’alternativa alla destra a trazione leghista, anziché avvicinarsi, si allontana.

È passato più di un anno dal disastro marzo 2018 e non pare francamente che ci sia una chiara idea del che fare.
Le ragioni strutturali che hanno portato a questa situazione non sono state indagate a sufficienza e men che meno è stata elaborata l’unica risposta adeguata: un nuovo “compromesso” tra democrazia e capitalismo. Perché è di questo che si tratta.
Il campo di gioco è quasi unicamente presidiato dalla Lega e dal suo debole alleato di Governo. L’agenda politica è definita da loro e scandita sulle note del loro costante conflitto (non si sa quanto autentico e quanto costruito). E – tuttalpiù – dalla Magistratura, dalla Commissione Europea o da mobilitazioni spontanee e auto promosse di significative minoranze civili e sociali: nobili e preziose, ma sempre più in distonia con la parte prevalente del popolo.

Quanto alla Politica, le cose non vanno certo per il verso giusto.
Nascono iniziative tutte autoreferenziali e tese, per lo più, a spartirsi il bottino dei consensi già orientati verso il campo alternativo alla destra leghista. Con un gioco, dunque, a somma zero. Ci sono importanti fermenti positivi nel campo “popolare” di ispirazione cristiana. Ma sono ancora dispersi, pieni di reciproche gelosie e poco propensi, fino ad ora, a mettere generosamente a fattor comune i propri singoli percorsi. Ognuno vorrebbe “federare” gli altri, ma non condividere una nuova forte esperienza comune (della quale invece ci sarebbe estremo bisogno).

E il PD – dopo aver rilanciato negli ultimi tempi l’idea di una coalizione plurale e ampia contro la destra – ritrova la propria apparente unità in Direzione Nazionale riproponendo invece la sua “vocazione maggioritaria”. Ma come può convivere la vocazione maggioritaria di un partito con l’opzione di una coalizione plurale e ampia? In in solo, inutile, modo: con la costruzione “in vitro” di semplici “satelliti”, alla maniera tolemaica.

Così, l’opposizione è sempre più isolata e la Lega deborda.
Di fronte alla “rivoluzione trumpiana” in salsa nostrana che Salvini rappresenta, è illusorio e miope contrapporre una tattica passatista e un po’ nostalgica. Nulla tornerà semplicemente come era. Prima di congetturare coalizioni elettorali, serve dunque mettere in campo significative novità sul piano dei “soggetti politici” che si propongano di interpretare i mutamenti sociali e di corrispondervi con progetti dotati di radicalitá programmatica, chiarezza di visione, leadership all’altezza e linguaggi aggiornati.

E questo vale in modo particolare per chi ha la giusta (ma temeraria) ambizione di definirsi “popolare”.
Altro che “satellite moderato”: l’alternativa può decollare solo se i popolari (nella loro accezione cristiana e laica, non ideologica) torneranno a dare il loro contributo visibile per una “rivoluzione” di segno opposto a quella trumpiana, ma non meno incisiva e radicale: rafforzare il “polo” della Comunità accanto a quelli dello Stato e del Mercato e ricostruire una idea “sociale e comunitaria” delle Istituzioni. Di fronte alla crisi delle forme rappresentative ed alla perdita di “carisma” della democrazia, non può esserci in campo solo l’alternativa del modello populista e tendenzialmente autoritario che oggi sta prevalendo.

Quante occasioni ancora, perderà il nostro paese? e quanto dovranno ancora, pagare i lavoratori di Alitalia?

Con una società di trasporto aereo di bandiera funzionante e ben gestita, si rimette in moto il lavoro, si torna a dare sicurezza e diritti ai lavoratori e aumentano le connessioni e le possibilità di sviluppo. A cominciare dalla Capitale, Roma, e tutta la Regione Lazio, che con l’aeroporto di Fiumicino – migliore hub di Europa nel 2018 – potrebbe sviluppare ancor di più tutto il lavoro fatto in questi anni sul turismo e contribuire in modo consistente al rilancio delle imprese del territorio e del Paese intero.

Alitalia, quale compagnia di bandiera, nasce come noto il 21 ottobre 1957 dalla fusione disposta dall’IRI, che era proprietaria delle due compagnie di trasporto aereo: Alitalia e LAI (linee aere italiane).
In quegli anni la gestione pubblica “imprenditoriale” ha dato uno sviluppo alla Compagnia, che negli anni novanta è arrivata a trasportare mediamente 28 milioni di passeggeri per anno, mentre nel 2018 sono stati poco più di 21 milioni. La gestione di Alitalia ha addirittura conseguito utili nel 1997, cosa inconsueta fino ad allora, che vedeva una miope gestione negli anni 80/90, con una pressoché nulla gestione industriale e imprenditoriale.

Poi è iniziata una crisi lenta e progressiva, determinata da diverse cause: prepotente avanzata delle compagnie low-cost, riduzione delle tratte intercontinentali, messa in esercizio di treni veloci, etc.

L’assenza di una strategia lungimirante del trasporto aereo, in un mondo in costante e veloce evoluzione, è sicuramente una delle ragioni per le quali la compagnia olandese KML ha preferito alla fine di quegli anni rompere l’accordo con Alitalia,arrivando persino a pagare una pesante penale pur di liberarsi e poter successivamente sposare Air France.

Basta pensare alla ottusa riduzione delle tratte intercontinentali – di sicuro rendimento – e alla ostinata corsa alla cattura degli slots per voli nazionali, che hanno in pratica trasformato Alitalia in una compagnia domestica, per comprendere di cosa stiamo parlando.

La situazione economica di Alitalia non migliora neanche quando il management è affidato a nomi altisonanti, che procedono anche a drastiche riduzioni del personale (oltre tremila unità), garantendo una cassa integrazione straordinaria addirittura di sette anni.

Non è andata meglio nemmeno con i tentativi di privatizzazione e commissariamento.

Ricordiamo tutti la cattiva gestione dell’ingresso nell’azionariato di Alitalia da parte di Ethiad, che si è accaparrata gli slot più interessanti a prezzo di saldo (es. i diritti su alcuni voli Roma-Londra) e poi ci ha lasciati senza niente, abbandonando anche il personale, che ha subito tagli numerici e stipendiali, e ad oggi sono circa 2.000 le persone che rischiano il posto di lavoro.

Quante occasioni perderà, ancora, il nostro paese? e quanto dovranno pagare, ancora, i lavoratori di Alitalia?

Oggi è singolare assistere ad un incremento dei voli, e quindi dei passeggeri sull’aeroporto di Fiumicino e constatare che, purtroppo, gli incrementi non derivino anche dalla nostra compagnia di bandiera.

E’ finito il tempo degli annunci, Il Governo in carica deve dotarsi di una strategia del trasporto aereo e non vivere alla giornata con rimedi temporanei.

Oltre la ricerca dei soci per iniettare capitale, occorre una vera visione strategica per la società, che la porti a diventare motore di sviluppo strategico del paese e possibile esempio di buona gestione e controllo di un settore fondamentale come quello del trasporto aereo.

Augusto Gregori, Segreteria Partito Democratico del Lazio

Città fratturate

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di  Aldo Carera 

Il tema delle periferie, urbane o meno, è talmente complesso, drammatico e urgente nei suoi tratti sostanziali da sfuggire alle semplificazioni concettuali o culturali. La variabile concretezza delle casistiche rende particolarmente significative le indagini di lungo periodo e le analisi interdisciplinari comparate. Accostamenti necessariamente rigorosi, ma non estranei a quella “libertà di cuore” che Papa Francesco chiede a chi opera sul campo a sollievo della sofferenza, e che non meno vale per mettere a frutto l’intera gamma esplorativa delle scienze dell’uomo.

Non altrimenti è possibile cogliere la sostanza profonda dell’attitudine della società contemporanea a produrre periferie esistenziali e a ridurre esseri umani alla stregua di “scarti” dei processi socioeconomici. Quell’umanità richiede uno sforzo unitario di studio e di comprensione non fine a sé stesso, ma intellettualmente nudo nell’aprirsi al confronto con la realtà per quel che è, riconoscendo in essa quel che gli alti disegni della provvidenza esigono da azioni incisive in grado di ricomporre le logiche parziali del “rammendo”, pur necessarie e meritevoli. È questa la strada tracciata dalla dottrina sociale della Chiesa sin dall’incipit (De conditione opificum) dell’enciclica leoniana del 1891. Quei capannoni d’allora, così ben definiti negli spazi e nelle gerarchie d’impresa, erano luogo di elaborazione di una invasiva cultura del lavoro che aggregava a sé chi in fabbrica e in città cercava, o era costretto a cercare, sopravvivenza e futuro.

Quelle periferie urbane in formazione erano comunità dolenti, talvolta future coree disperate, ma in esse erano rintracciabili trame di vitalità comunitarie e il solido ordito intessuto da ben riconoscibili presenze pastorali, sociali e politiche. Lì ove, in qualche modo regolati dall’azione pubblica, con le fabbriche, crescevano i quartieri popolari e prendevano forma le possibili intersezioni sociali con le abitazioni del ceto medio. In età repubblicana partiti di massa, associazionismo sindacale, welfare privato e sociale, corrispondente a vari livelli di bisogno, integravano le tutele pubbliche. Nella progressiva estensione della cittadinanza si potevano leggere antichi profili di socialità, sovente sotto traccia e diversamente incidenti. Patrimoni che negli ultimi tre decenni del Novecento sono stati progressivamente dispersi o sono semplicemente diventati invisibili ai più. Le stesse potenti attitudini aggreganti del lavoro si sono frantumate sul mercato competitivo delle individualità e dei corporativismi.

Nell’agosto del 1946 un futuro ministro del Mezzogiorno e delle aree arretrate, Giulio Pastore, nel promuovere il primo Consiglio di valle italiano per generare sviluppo e rimuovere povertà, abbandono e isolamento, anche fisico, dei comuni della sua Valsesia, identificò due fattori decisivi: rigenerare la fiducia collettiva contro gli egoismi, il pessimismo, le paure; ottenere la collaborazione di tutti gli attori presenti, o potenzialmente presenti, sul territorio: pubbliche amministrazioni, parrocchie, organizzazioni sociali, classi dirigenti, imprese private e pubbliche. Al direttore di una piccola biblioteca di valle che in quei propositi ritrovava l’antica sostanza comunitaria della medioevale Universitas Vallis Sicidae, Pastore replicò che, evidentemente, «ne sapevano più gli antichi che i moderni». Fecero seguito strade costruite, scuole e biblioteche inaugurate, funivie innalzate sulle cime del Monte Rosa, edificazioni materiali e immateriali certamente perfettibili. La tendenziale perfezione di quel disegno era l’aver affidato alle mani di quelle genti il proprio destino nell’ambito del possibile, confidando su socialità, non solo locali, in grado di specchiarsi in un’economia di mercato carica di contraddizioni ma realisticamente non rinunciabile.

Da simili riflessioni, rielaborate in un programma di indagine scientifica, ha preso spunto l’iniziativa dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia e del Dipartimento di storia economica e sociale e di Scienze del territorio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, intitolati a Mario Romani, per riprendere e reinterpretare in un convegno di studi la questione urbana rigenerata, negli ultimi decenni del Novecento, dallo sfaldamento individualistico e da rinnovate forme di esclusione sociale. Ci si è chiesti sino a qual punto, in un breve giro d’anni, potenti cesure — crisi economica, tecnologie aggressive, precarizzazione materiale e culturale del lavoro, diffusa incuria morale, pressione della globalizzazione sulle gerarchie territoriali e sulle grandi aree urbane, declino delle classi dirigenti… — abbiano reso profonda e irrimediabile la frattura che isola le periferie di oggi dal tracciato urbano di lungo periodo che le ha viste prendere forma, a partire dai processi europei di inurbamento sette-ottocenteschi. Per chiedersi infine quanto di quel passato, e delle esperienze vissute che lo hanno segnato, sia inscrivibile nelle risposte oggi possibili, per quanto parziali, tempestive o agite sui tempi lunghi, in termini di sostenibilità materiale, economica, civile e umana.

Il filo conduttore del convegno internazionale «Periferie delle città europee: istituzioni sociali, politiche e luoghi» (Milano, 6-7 giugno) e di quel che ne seguirà come impegno dei centri di ricerca proponenti, è stata l’identificazione di una rinnovata questione urbana segnata da fenomeni di segregazione spaziale che hanno eroso i margini della giustizia sociale. Come ha evidenziato la relazione introduttiva di Pierciro Galeone (Ifel – Fondazione Anci), mentre l’urbs, intesa come ambiente fisico, si è dilatata sfrangiando i confini tra urbano e non urbano, chi viveva in periferia non è stato più in grado di riconoscersi in una comunità di cittadini organizzati attraverso il diritto (civitas). L’unica condivisione possibile è diventato il consumo dello spazio urbano, mitigato in alcune realtà dall’egida efficiente di qualche tecnocrazia amministrativa.

La configurazione delle diseguaglianze, che in termini esistenziali si disloca senza distinzione di quartieri e di ceti, descrive una mappa differenziata, da città a città. Lì dove ha particolarmente infierito concentra in segmenti territoriali i molteplici volti della marginalità: degrado edilizio, cedimento delle istanze educative e formative pubbliche, carenza o scarsa qualità infrastrutturale dei servizi di mobilità, sociali e sanitari, aggravati dal decadimento o dall’assenza di spazi pubblici socialmente condivisi. Sulla faglia di diseguaglianze così strutturate, affondano le speranze di emancipazione sociale delle giovani generazioni e scivolano gli antichi ceti medi. Ben poco possono fare gli interventi ridistributivi del potere centrale anche per mancanza di risorse pubbliche e per pervicaci sopravvivenze neoliberiste talvolta inconsapevoli. L’affievolirsi degli spazi di intermediazione culturale e sociale ha lasciato mano libera alle narrazioni divisive e alle polarizzazioni politiche che rileggono a proprio esclusivo vantaggio i fondamenti della democrazia pluralista e ignorano l’etimologia morale del bene comune.

Fra i tanti casi considerati, la sessione dedicata alla Milano del secondo dopoguerra ha evidenziato il ruolo dell’iniziativa pubblica, consapevole dei problemi, efficace nei suoi interventi dirigisti sul tema della casa lungo buona parte del Novecento prima di lasciar campo ai grandi operatori immobiliari. Né è stata trascurata, ad esempio, la costante supplenza da parte del mondo cattolico e della stessa curia ambrosiana negli anni in cui Giovanni Battista Montini colse la peculiare “modernità” dell’evangelizzazione nelle periferie più povere e depresse. Lì ove la tutela dei lavoratori in quanto cittadini era affidata più a patronati sindacali e sociali che agli interventi nelle dotazioni materiali e di servizio faticosamente compendiati a livello locale e, ancor meno, a livello nazionale. Manifestazioni di quanto era consentito, anche in termini di contenimento dei problemi, dalla tenuta della convivenza democratica, cosa impossibile — ha spiegato una relazione comparata — nella Spagna franchista.

Nelle sessioni di loro competenza, geografi e urbanisti hanno identificato le nuove forme e i nuovi linguaggi della riconfigurazione virtuosa delle periferie: coworking, spazi makers, laboratori artigianali digitali, social housing, interventi di rigenerazione urbana e abitativa, esperienze pilota (per esempio community hub, ecomusei, festival).

A uno sguardo di lungo periodo, la questione delle periferie materiali ed esistenziali, così come le altre grandi “questioni” che angustiano il nostro paese (meridionale, educativa, sociale…), risulta gravata da sofferenze strutturali e da fragilità nel tessuto sociale esasperate dalla contrazione e dal cattivo uso delle risorse. Una situazione che rende ancor più decisive le azioni concrete in grado di ricreare fiducia e di favorire la cooperazione tra tutti gli attori.

 

L’attacco di Trump a Draghi? Inaccettabile. La versione di Alan Friedman

Tratto da formiche.net

Washington chiama Francoforte, e alza la voce. Non sono andate giù al presidente degli Stati Uniti Donald Trump le parole di Mario Draghi. Dal Sintra, in Portogallo, il governatore uscente della Bce ha promesso che il programma di acquisto di asset, il Quantitative Easing (Qe), avrà ancora “spazio considerevole”, specie se, come sembra, l’inflazione Ue rimarrà al di sotto degli obiettivi. La reazione di Pennsylvania Avenue non si è fatta attendere. Su twitter Trump ha messo Cina e Ue sullo stesso piano, perché con un nuovo stimolo per Bruxelles sarà “scorrettamente più facile competere con gli Usa”. “È un attacco senza precedenti – commenta sdegnato ai microfoni di Formiche.net Alan Friedman, giornalista e saggista – Trump vuole indebolire l’Ue, qualcuno dovrebbe dirlo a Matteo Salvini”.

Le parole di Draghi hanno già fatto discutere. Va preso sul serio?

Capisco che qualcuno ponga giustamente il problema dei limiti al potere della Banca centrale e dubiti dell’efficacia di questi strumenti. Io credo però che Draghi faccia sul serio. Vuole tagliare i tassi di interesse, usare il quantitative easing e addirittura assicurare una politica monetaria che sopravviva alla scadenza del suo mandato il 31 ottobre.

Un regalo all’Italia?

Senz’altro diventa un regalo anche per il governo gialloverde, anche se non è questo il suo intento. Dovremmo tutti essergli grati. Con poche parole ha messo ko lo spread regalando un po’ di ossigeno all’Italia. Chiamiamolo bazooka o bazookino, poco importa. Conta solo sapere che la Bce ha ancora strumenti per sostenere la crescita e non lasciare ferma l’inflazione all’1.2%.

Per Trump l’annuncio di Draghi è “scorretto”.

L’attacco di Trump contro Draghi non solo è feroce e immeritato, ma è anche senza precedenti. Non era mai successo nella storia moderna che un presidente americano attaccasse il presidente della Bce accusandolo di manipolare la valuta e fare concorrenza sleale come i cinesi.

Perché esporsi così?

Teme che l’euro si indebolisca contro il dollaro. Domani il comitato monetario della Federal Reserve deve decidere se tagliare i tassi o meno. Trump sta cercando di metterlo sotto pressione con un’ingerenza inaccettabile che va contro tutte le regole e indebolisce i mercati. Il suo fine ultimo è indebolire l’Europa. Qualcuno dovrebbe dirlo a Matteo Salvini.

Che è appena tornato da Washington. E sembra sicuro di avere il supporto degli americani nelle negoziazioni con Bruxelles.

Non ha alcun senso pensarlo. Come ho detto, Trump si interessa di Europa solo per indebolirla. Lui attacca Draghi, Salvini attacca la Commissione Europea, Vladimir Putin attacca l’Ue appena ne ha occasione. Mi sembra che su questo si sia creato un fronte comune.

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Cercando un’Italia migliore

In Italia molti parlano di cosa farà la politica o di come sarà il tempo. Se al mare è meglio mangiare una fetta di anguria o bere un thé freddo (ma non troppo). Intanto, c’è gente che non esce più di casa. Ci sono persone che finiscono la loro giornata, spesso ancora prima di averla iniziata. Come esistono (da sempre) i lavori usuranti, esistono anche i riposi usuranti. Abbiamo migliaia di pensionati in buona salute, a cui nessuno sa più cosa chiedere. Milioni di giovani senza lavoro e senza speranze. La sfiducia di molti italiani naturalmente non preoccupa nessuno perché gli sfiduciati, di solito, non danno fastidio. Anzi, forse uno dei motivi dell’assenza di conflitto sociale nel nostro Paese è dato dalla sfiducia e dalla paura. La Rete sta creando un mondo di solitari, che aspettano ogni giorno una parola che non arriva, come tanti Godot davanti allo schermo. Pensiamoci: qual è il primo e l’ultimo gesto della nostra giornata? Semplice, controllare le notifiche sul cellulare. E quello che una volta si chiamava mondo “reale”, oggi è un deserto. Uno dei pochi luoghi dove oggi si fa ancora vita sociale, sono i ristoranti. Che visti da fuori sembrano tanti acquari, dove ogni cliente è un pesciolino.

In realtà nessuno sembra preoccuparsi, seriamente, di una situazione del genere. Il Governo è impegnato da mesi in esercizi di ragioneria finanziaria, perché per l’Europa di oggi sembra che la vita di una nazione passi tutta attraverso il pareggio di bilancio. Due persone intelligenti, come Mario Monti e Matteo Renzi, hanno scritto due lettere al “Corriere della Sera”, rivendicando ciascuno il primato del proprio Governo, essendo riusciti a fare brillantemente “i compiti a casa”.

Forse in una situazione del genere, almeno gli intellettuali dovrebbero lanciare un segnale d’allarme. In realtà, prevale l’antica abitudine alla viltà e alla furbizia. Si preferisce non prendere posizione. Non mi riferisco al fatto di scrivere un editoriale o un articolo di commento su un grande quotidiano ma anche alla semplice discussione al bar. Oggi la parola è passata a chi ha ben poco da dire. E il segreto sta nel fatto che questi si rivolgono a un pubblico che ha poca voglia di starli a sentire. Perché, ad esempio, il filosofo Massimo Cacciari ripete in televisione, quasi ogni sera, le stesse cose? In questo modo, ogni fesseria è sempre viva e vegeta, mentre l’uso del “pensiero lungo” (come direbbe Ciriaco de Mita) sembra quasi un esercizio per presuntuosi.

Forse quello che una volta si chiamava impegno politico dei cattolici, oggi dovrebbe partire dalla reale condizione (fisica e spirituale) degli italiani. Da questo punto di vista, il Governo giallo-verde sembra assai lontano dal poter svolgere un qualunque lavoro di politica culturale, orientato al “bene comune”. E’ in corso una sorta di “rottamazione della cultura” di cui nessuno si sta occupando seriamente. La prevalenza di termini inglesi nel linguaggio corrente (rispetto all’uso dei sinonimi italiani) è imbarazzante. Conta solo lo “spread”, dato dal “sentiment” del “contest”. Solo Papa Francesco cerca, per quello che può, di riattaccare i fili della luce, delle nostre coscienze.

Oggi la contesa non è più tra destra e sinistra, tra l’una e l’altra cultura politica, ma tra tirchi e generosi, tra cinici e appassionati. Nessuno sa come andrà a finire, certamente l’esito non dipenderà dall’attuale Governo. Dipenderà da ognuno di noi e dai progetti che sapremo realizzare insieme.

Il videocatechismo della Chiesa cattolica

Sarà presentato lunedì prossimo, 24 giugno, alle ore 17 presso la Filmoteca Vaticana, il videocatechismo della Chiesa cattolica. Ne danno notizia oggi il Dicastero per la comunicazione della Santa Sede e il Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, organizzatori dell’evento.

Dopo il saluto iniziale del prefetto del Dicastero per la comunicazione, Paolo Ruffini, interverranno mons. Rino Fisicchella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, e fra’ Giulio Cesareo, responsabile editoriale della Libreria Editrice Vaticana. A moderare l’incontro sarà Andrea Tornielli, direttore editoriale del Dicastero per la comunicazione.

Andare a sbattere (e farsi male)

Tratto dalla rivista il Mulino a firma di Bruno Simili

Il 26 maggio, alle europee e alle amministrative, e domenica 9 giugno per il secondo turno delle comunali, gli elettori che hanno deciso di andare a votare – il 56% alle europee, il 60% in media alle amministrative – hanno in larga parte premiato la Lega di Salvini.

Ma, a livello europeo, il successo dei sovranisti che molti temevano non c’è stato, o almeno non è stato tale da alterare profondamente i rapporti di forza all’interno del nuovo Parlamento europeo. Anche nella prossima Commissione gli equilibri non saranno drasticamente diversi da quelli dell’attuale, come invece avevano sperato dalle parti del governo italiano. Cambierà la maggioranza, dovrà necessariamente ampliarsi. E questo rischia di complicare ulteriormente i meccanismi già non perfettamente oliati di una Unione certamente affaticata. Ma se nelle istituzioni europee qualcosa cambierà per l’Italia sarà molto probabilmente che il nostro Paese non avrà posti rilevanti come quelli che ha attualmente, dove occupa la casella del presidente del Parlamento, quella del “ministro degli Esteri” europeo in Commissione, quella – sopra tutte – del capo della Banca centrale. Anche la prossima Commissione europea, dunque, manterrà molto probabilmente posizioni ortodosse rispetto alla tenuta dei conti pubblici e ai limiti fissati dal patto di stabilità e crescita stipulato nel 1997 dai Paesi membri: un deficit pubblico non superiore al 3% del Pil e un debito pubblico al di sotto del 60% del Pil (o, comunque, un debito pubblico tendente al rientro). Ed è con questa realtà che oggi ancora una volta, piaccia o meno, dobbiamo e dovremo confrontarci, mentre le stime di crescita continuano ad essere sconfortanti e si fatica a tenere il rapporto debito/Pil sotto al 133%.

Già nel novembre scorso, dopo l’approvazione da parte del governo italiano del Documento programmatico di bilancio per il 2019, la Commissione europea ci aveva presentato una relazione per inosservanza grave delle raccomandazioni del Consiglio, sostenendo che fosse giustificata una procedura per disavanzo eccessivo per mancato rispetto delle regole europee sul debito. Ci fu una trattativa, nella quale emerse la linea della ragionevolezza rappresentata dal “tecnico” Tria, che tentò, con successo, di riportare il dibattito all’interno dell’esecutivo dentro i confini dei numeri e non delle ipotesi; il governo approvò modifiche alla legge di bilancio e venne così scongiurata una prima volta una procedura di infrazione.

A distanza di sei mesi siamo punto e a capo. Da un lato l’azionista di maggioranza del governo, più forte che mai, spinge per estremizzare lo scontro con la Commissione: dall’altro l’alleato pentastallato, barcollante dopo la batosta elettorale, non sembra voler tenere una linea diversa. Mentre il premier Conte, che fin qui non ha certo brillato per autorevolezza e decisionismo, tenta di apparire come l’uomo delle istituzioni, affiancando l’azione del solito ministro dell’Economia.

 

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Politiche familiari, nuovo studio UNICEF sul congedo parentale nei paesi ad alto reddito

Secondo un nuovo rapporto dell’UNICEF, Svezia, Norvegia, Islanda, Estonia e Portogallo sono i paesi, fra i 31 ad alto reddito con dati disponibili analizzati, che offrono le politiche familiari più favorevoli. Svizzera, Grecia, Cipro, Regno Unito e Irlanda sono quelli con le politiche meno favorevoli.

Realizzato dal Centro di Ricerca Innocenti dell’UNICEF (IRC), il rapporto presenta una classifica dei paesi OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e dell’Unione Europeabasata sulle loro politiche familiari nazionali, fra cui la durata del congedo parentale retribuito e i servizi per l’infanzia dai 0 ai 6 anni.

Guardando da vicino i dati sul congedo parentale interamente retribuito in 41 Stati, il rapporto “I paesi più ricchi del mondo sostengono le famiglie? Le politiche nell’OCSE e nell’UE” (Are the world’s richest countries family-friendly? Policy in the OECD and EU), indica che solo metà di essi prevedono almeno 6 mesi di congedo di maternità interamente retribuito.

L’Estonia offre alle madri la più lunga durata di congedo interamente pagato (85 settimane), seguita da Ungheria (72 settimane) e Bulgaria (61 settimane).

Gli Stati Uniti sono il solo paese incluso nell’analisi – e uno fra i soli 8 paesi al mondo – che non ha politiche nazionali per il congedo di maternità, né per quello di paternità (non ci sono norme che ne stabiliscano l’obbligatorietà).

L’Italia è al 19° posto della classifica (dati 2016), con 25 settimane di congedo di maternità interamente retribuito, solamente il 34% dei bambini sotto i 3 anni iscritti a servizi per l’infanzia e il 93% dei bambini fra i 3 e i 6 anni iscritti a istruzione pre-scolare.

Il rapporto evidenzia inoltre che, anche quando ai padri è permesso un congedo retribuito, molti non ne usufruiscono.

In Giappone, il solo Stato che offre almeno 6 mesi di paternità interamente retribuita per i padri, solo 1 su 20 ha chiesto un congedo retribuito nel 2017.

La Corea del Sud ha il secondo periodo più lungo di congedo per i neo-papà (17,5 settimane), ma i padri sono soltanto 1/6 dei genitori che richiedono il congedo.

L’Italia risulta essere al 29° posto su 41 Stati presi in esame, con 0,4 settimane di congedo per paternità interamente retribuito

Come si evidenzia nel rapporto, il congedo di paternità retribuito aiuta i padri a creare un legame con i figli, contribuisce allo sviluppo infantile, abbassa i livelli di depressione post-partum e aumenta l’uguaglianza di genere.

Il rapporto chiede politiche nazionali che assicurino congedi di paternità retribuiti e incoraggino i padri a richiederli.

Istat: 1,8 milioni di famiglie in povertà assoluta nel 2018, picco al Sud

Nel 2018, si stimano oltre 1,8 milioni di famiglie in povertà assoluta (con un’incidenza pari al 7,0%), per un totale di 5 milioni di individui (incidenza pari all’8,4%). Non si rilevano variazioni significative rispetto al 2017 nonostante il quadro di diminuzione della spesa complessiva delle famiglie in termini reali. In gran parte questo si deve al fatto che soltanto le famiglie con minore capacità di spesa (a maggiore rischio di povertà) mostrano una tenuta dei propri livelli di spesa, con un conseguente miglioramento in termini relativi rispetto alle altre. Al netto dell’inflazione registrata nel 2018 (in media nazionale pari a +1,2%), utilizzando, quindi, gli indici 2017 di prezzo nel calcolo delle soglie, l’incidenza complessiva in termini di famiglie sarebbe stata pari a 6,8%. L’intensità della povertà, cioè quanto la spesa mensile delle famiglie povere è mediamente sotto la linea di povertà in termini percentuali, ovvero “quanto poveri sono i poveri”, si attesta nel 2018 al 19,4% (era il 20,4% nel 2017), da un minimo del 18,0% nel Centro a un massimo del 20,8% al Sud.

L’incidenza delle famiglie in povertà assoluta si conferma notevolmente superiore nel Mezzogiorno (9,6% nel Sud e 10,8% nelle Isole) rispetto alle altre ripartizioni (6,1% nel Nord-Ovest e 5,3% nel Nord-est e del Centro). Analogamente agli anni passati, questo fa sì che, sebbene la quota di famiglie che risiede nel Nord sia maggiore di quella del Mezzogiorno (47,7% rispetto a 31,7%), anche nel 2018 il maggior numero di famiglie povere è presente in quest’ultima ripartizione (45,1% contro 39,3% del Nord). Nel Centro si trova il restante 15,6% di famiglie povere.

Le famiglie in condizioni di povertà relativa nel 2018 sono stimate pari a poco più di 3 milioni (11,8%), per un totale di individui di quasi 9 milioni (15,0%). Rispetto al 2017, il fenomeno si aggrava nel Nord (da 5,9% al 6,6%), in particolare nel Nord-est dove l’incidenza passa da 5,5% a 6,6%. Il Mezzogiorno, invece, presenta una dinamica opposta (24,7% nel 2017, 22,1% nel 2018), con una riduzione dell’incidenza sia nel Sud (da 24,1% a 22,3%) sia nelle Isole (da 25,9% a 21,6%).

A livello individuale, il lieve calo in media nazionale (da 15,6% a 15,0%) è sintesi di dinamiche contrastanti nelle ripartizioni (da 7,4% a 8,6% nel Nord-est; da 30,8% a 25,7% nelle Isole). Su scala territoriale, Calabria (30,6%), Campania (24,9%) e Sicilia (22,5%) si confermano le regioni con la maggiore incidenza.

In mille a Udine per capire come ‘Uscire dalla solitudine e costruire relazioni’

Si tratta di un disagio che tocca tutti, giovani e anziani, uomini e donne, in qualunque fascia d’età e per i motivi più vari. Un tema che in alcuni Paesi europei è considerato una priorità: basta guardare cosa avviene in Gran Bretagna, dove esiste addirittura un ministero dedicato.

Da qui l’intenzione di ARTESS e IFOTES di portare il tema all’attenzione di cittadini e istituzioni e farlo diventare l’argomento del congresso che IFOTES organizza ogni tre anni in una diversa città europea. È così grazie alla collaborazione con il Comune di Udine – progetto O.M.S. ‘Città Sane’ il capoluogo friulano è diventato la sede del congresso internazionale IFOTES e città di riferimento per le buone pratiche di contrasto alla solitudine. Per farlo l’anno scorso è stato lanciato un biennio di eventi (2018-2020), riflessioni, approfondimenti dal titolo ‘Solitudini e no.

Insieme per il benessere emozionale e sociale’, che culminerà proprio con il convegno internazionale di luglio 2019 ‘Leaving loneliness – Building relationships’ (‘Uscire dalla solitudine-costruire relazioni’) ospitato nella città friulana, in collaborazione con Regione Fvg, Università di Udine e PromoturismoFvg.

Agroalimentare, un settore che si presta a contraffazione

Guardia di Finanza e Agenzia delle Dogane hanno effettuato 258 sequestri di merce contraffatta nella provincia di Salerno e confiscato 89.152 articoli falsi. Complessivamente, nell’ultimo decennio sono stati effettuati 1.984 sequestri, che hanno portato al rinvenimento di oltre un milione di pezzi falsi. La domanda di fake si concentra su prodotti tradizionali e low cost: giocattoli (31.247 articoli sequestrati nel 2018), accessori (6.165), abbigliamento, calzature, articoli di cartoleria e per la scuola. E’ quanto emerge da una ricerca del Censis realizzata per il Ministero dello Sviluppo economico.

Il mercato del falso vale a livello nazionale 7,2 miliardi di euro e sottrae più di 100.000 posti di lavoro all’economia legale. L’emersione della contraffazione comporterebbe anche un aumento del gettito fiscale, tra imposte dirette (su impresa e lavoro) e indirette (Iva), pari a quasi 1,8 miliardi di euro. La vendita al dettaglio dei prodotti contraffatti è la manifestazione più evidente del fenomeno nel salernitano. Si concentra nei mercati ambulanti rionali, nelle vie dello shopping, nei lungomare e nei luoghi di maggiore frequentazione turistica. I protagonisti della vendita sono principalmente i cittadini africani, soprattutto senegalesi e marocchini, e i bangladesi. Stretto è il legame con la vicina provincia di Napoli, da dove viene acquistata la maggior parte della merce falsa.

A Salerno si registra la presenza isolata di attività di produzione, come testimoniano le operazioni che hanno portato alla scoperta di opifici attivi nella riproduzione di articoli e gadget sportivi. Anche l’attività di stoccaggio è per lo più limitata a piccoli magazzini, dove può avvenire anche l’assemblaggio finale della merce, spesso situati presso le stesse abitazioni dei venditori.

Accanto al mercato del falso si è sviluppato un significativo mercato di prodotti non sicuri, in prevalenza di provenienza cinese. Nel 2018 ne sono stati rinvenuti più di 1,2 milioni, soprattutto giocattoli (687.000 pezzi). La presenza di numerosi prodotti tipici di qualità e certificati rende l’agroalimentare un settore a rischio di imitazione e falsificazione. Il rischio più grande viene dall’estero, dove emerge l’elevata esposizione all’Italian sounding per prodotti come i pomodori San Marzano o il limoncello della Costa d’Amalfi, con ricadute negative sulla produzione locale.

Nelle azioni di contrasto, è costante il coordinamento interforze attraverso la cabina di regia istituita presso la Prefettura. Elevata è l’attenzione al fenomeno da parte delle Forze dell’ordine, come testimonia la crescita del numero dei sequestri effettuati dalla Guardia di Finanza (+37,2% negli ultimi dieci anni) e dai risultati raggiunti nell’ambito dell’operazione “Spiagge sicure” dell’estate 2018, che ha coinvolto i due comuni di Camerota e Capaccio-Paestum, dove sono stati sequestrati 11.847 articoli per un valore complessivo di 85.000 euro. Nel 2019 “Spiagge Sicure” interesserà i comuni di Amalfi, Ascea, Centola, Maiori, Pisciotta, Positano e Ravello.

Questi sono i principali risultati della ricerca realizzata dal Censis per il Ministero dello Sviluppo economico, presentati ieri a Salerno da Amedeo Teti, direttore generale della Dg Lotta alla Contraffazione-Uibm del Ministero dello Sviluppo economico, e Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis, e discussi da Andrea Prete, presidente della Camera di Commercio di Salerno, Vincenzo Napoli, Sindaco di Salerno, Fabrizio Curcio, Unità di coordinamento del Protocollo roghi della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e Francesco Russo, Prefetto di Salerno.

I docenti in prima linea per prevenire il consumo di droga

Seimila docenti saranno formati con “Cuora il futuro” il progetto realizzato dal Dipartimento delle Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione del Ministero dell’Istruzione Università e della Ricerca che vede il supporto scientifico anche dell’Istituto Superiore di Sanità. L’obiettivo è quello di formare i docenti per la prevenzione del consumo di droga tra gli scolari: dai danni per la salute, al rischio di incidentalità per abuso di sostanze, dai corretti stili di vita, agli strumenti di supporto.

Il corso di formazione online è già disponibile  per i docenti iscritti alla piattaforma web dedicata dove troveranno, oltre alle lezioni a distanza, anche materiali relativi alla prevenzione. Sarà così presente in ogni scuola un docente di riferimento sul tema delle dipendenze.

Il corso di formazione si inserisce nel piano di azioni per la prevenzione dell’uso di droga in età scolare. Il programma prevede anche la realizzazione di  una campagna di comunicazione e informazione destinata agli alunni delle scuole di ogni ordine e grado, ai docenti e alle famiglie, con l’obiettivo di approfondire la conoscenza sulle tipologie di sostanze e ai relativi effetti nocivi per la salute con un focus anche sui nuovi sistemi di diffusione degli stupefacenti e sul ruolo svolto dai servizi di prevenzione e di assistenza.

Infine è prevista la realizzazione di attività di rafforzamento della rete territoriale tra le scuole, le istituzioni del territorio, gli enti del volontariato sociale e le famiglie, soprattutto nelle aree territoriali a rischio.

Fioroni: “Si guardi al futuro, Evitiamo che il Pd imploda”.

Caro Segretario, cari amici,

dall’ultima direzione ci separa un tempo che appare più lungo di quello reale. Avevamo pensato di aggiornare la nostra riflessione alla luce dei risultati del ballottaggio nei comuni. C’era fiducia sulla buona tenuta del partito. Possiamo essere soddisfatti? Fino a un certo punto. Si è chiusa definitivamente una fase, quella che dal 1994 ad oggi si basava sulla certezza che il radicamento della sinistra italiana a livello locale fosse l’elemento caratterizzante e garantisse l’equilibrio tra le opposte coalizioni.

I dati evidenziano con chiarezza che questa garanzia di stabilità non c’è più. Direi che abbiamo di fronte un quadro poco rassicurante. Fatichiamo, non negando la ripartenza, ovunque a tenere il passo, quasi a riprova di un inciampo, che mette in discussione le radici del nostro progetto politico.

Individuo pertanto nelle scelte del segretario, a partire dalla composizione del gruppo dirigente a lui collegato, una premura di carattere difensivo. È normale che all’incertezza proveniente dall’esterno si cerchi di contrapporre un elemento di stabilità al proprio interno. Purtroppo, anche se in apparenza comprensibile, questa risposta funziona sempre poco.

Questa mattina Nicola ha tracciato un percorso che apre una prospettiva, speriamo.

A mio avviso, affidarsi a una qualche “rassicurazione domestica”, per avere conforto tra di noi, non è la prospettiva più adeguata. Dobbiamo guardare in faccia la realtà. Se il Pd esce dai suoi elementi caratterizzanti, l’elettorato reagisce in vario modo, perlopiù astenendosi.

Il ritorno, al proporzionale, richiedeva – e quindi richiede a maggior ragione oggi – uno sforzo di aggiornamento in termini di linea politica. Il centrosinistra non è più un presupposto, insito a priori nella dialettica del maggioritario, ma un processo necessariamente articolato da costruire ogni giorno, dove l‘incontro tra sinistra e centro deve  maturare nella condivisione di scelte concrete, anche in ordine alle alleanze. In tale ottica svanisce il nesso di automaticità – direi così – che finora ha presieduto alla formazione del Partito Democratico e delle sue alleanze.

Trovo allora imprecisa la riflessione fin qui operata sul tema del “centro”. Imprecisa soprattutto perché riflette l’idea di un soggetto – il centro, appunto – pronto ad essere manipolato, senza una vera autonomia. Non è così. Sì colgono spinte di segno contrario, in gran parte animate dal desiderio di mettere tra parentesi la collaborazione con il Pd. Ciò che ha portato il PPI e la Margherita a fissare l’accordo con la sinistra appare sotto un’altra luce, in altri termini per molti, oggi nel paese e ciò mi preoccupa, viene visto come un gesto di pura sudditanza e di rinuncia ai propri valori fondanti. Più ancora, dunque, si connota problematicamente l’esperienza del Pd. Nonostante i nostri sforzi, una parte dell’elettorato intermedio ci vede attratti dal passato, dove pesa un certo connotato ideologico di vecchia sinistra. Questo vero, non vero o verosimile richiede un forte impegno per rimuoverlo.

Non è facile riaprire il dialogo con il mondo usualmente definito moderato. Sappiamo bene, per altro, che l’aggettivo suona male. È un mondo che mescola esigenze diverse, anche contrapposte, tutte legate da un rifiuto del radicalismo, dell’improvvisazione, dell’intolleranza. Un mondo, ad esempio, che recepisce con fastidio l’apertura o la chiusura alla Chiesa – penso all’abolizione dell’ora di religione – a seconda degli interessi contingenti, per puro calcolo di convenienza. Vorrei far notare che alla Conferenza internazionale, celebrata in questi giorni a Caltagirone, per i 100 anni dell’Appello ai Liberi e Forti era presente tutto il mondo cattolico, dell’associazionismo, come non si vedeva da decenni. Tajani e Musumeci hanno fatto del loro meglio per appropriarsi della figura di Sturzo. Noi non siamo stati considerati come soggetto politico ad eccezione di presenze individuali. Noi, possiamo considerare una delle più alte personalità dell’antifascismo, esule per vent’anni a motivo dell’ostilità di Mussolini, distante ed estranea alla nostra sensibilità democratica? Possiamo ignorare che per molti di noi, dirigenti e quadri del Pd sul territorio nazionale, il popolarismo sturziano costituisce – forse per utilità di tutti – una fonte primaria d’ispirazione?.

Tutto questo non è un richiamo che interessa il tessuto identitario di qualcuno, e basta; semmai è il cemento di un nuovo confronto politico sul futuro dell’Italia e per l’elaborazione del nostro piano per l’Italia. Il cattolicesimo democratico ha avuto a cuore – e lo ha ancora oggi – il destino dell’Italia. Uomini come Ezio Vanoni ed Enrico Mattei hanno illuminato e diretto, nei rispettivi campi di azione, la ripresa economica del dopoguerra. Oggi abbiamo bisogno di tornare a quelle straordinarie testimonianze di  rigore e creatività. Ma possiamo farlo se il partito che abbiamo voluto e che abbiamo costruito preserva nel suo seno il senso di appartenenza a un “riformismo autentico”, non prigioniero di inutili revanscismi a sfondo ideologico.

Il tempo stringe. Se non cogliamo i segni dei tempi, l’alternativa a questa maggioranza giallo-verde prenderà altre strade, al di là delle nostre dichiarazioni, sceglierà nuovi interlocutori, potrà forse fare anche a meno di noi, se non saremo veramente uniti. Aggrapparci ad effimere certezze vuol dire rinnegare noi stessi. Il Pd è nato da un atto di coraggio e lealtà, non può scivolare nella palude della opacità di fiducia, intraprendenza e coraggio. Non c’è un altro Pd, a portata di mano, ma solo il rischio di un pericoloso reset del nostro dna, perdendo il senso perciò di una preziosa esperienza di rinnovamento democratico, condotta con spirito di generosità e al servizio del Paese.

Quando mutano le condizioni politiche, un partito deve fare in modo che ogni sua energia aiuti a compiere le scelte più giuste. Non ci possono essere dispersioni o peggio ancora divisioni. Altrimenti incomberebbe su di noi il rischio di una fatale estromissione dai processi politici più imminenti. Qualcuno paventa una scissione, invece, per parte mia, temo l’implosione. Temo cioè che le novità ci sopravanzino, mentre restiamo attanagliati alle nostre angustie. Sapete come finisce “Il giovane Holden”? Quali sono le sue ultime parole? Quello straordinario autore che è J.D. Sallinger sembra dirle a noi con ironia e mestizia : “Dio, peccato che non c’eravate”. Questo è il nostro pericolo maggiore, che di fronte alle novità che incombono altri facciano quanto spetterebbe a noi fare. Sarebbe amaro scoprire domani, guardando indietro, che noi non c’eravamo.

E il rischio è veramente alto.

Le parole del segretario di questa mattina se si tramuteranno in fatti potrebbero rappresentare un concreto passo in avanti.

Vedremo, noi faremo la nostra parte.

Direzione Pd: stesso film, stessa trama, stesso epilogo.

Ormai non c’è neanche più la notizia come diceva quel tale. Quando si parla della Direzione Nazionale del Partito democratico, a prescindere da chi guida il partito pro tempore, la trama e’ sempre la stessa. Ovvero, botte da orbi alla vigilia tra le molteplici correnti o bande cha costellano il partito; puntuale tregua nel dibattito in Direzione Nazionale con il consueto richiamo ai contenuti, al programma, alle attese della base, richiamo all’unità contro il pericolo mortale sferrato alla democrazia dai nemici esterni – ieri il dittatore Berlusconi e oggi il dittatore, se non peggio Salvini – ; e poi dopo poche ore si ritorna puntualmente a ciò che si diceva alla vigilia. E cioè, minacce di scissione, insulti interni, delegittimazione della minoranza e accuse violenti a chi guida il partito.

Con tanti saluti ai programmi, ai contenuti, alla base, al pericolo del fascismo alle porte, alla perdita della democrazia e bla bla bla. Con le infinite correnti che ritornano protagoniste. Ah, dimenticavo. Ogni esponente o capo corrente, come da copione, si scaglia contro il correntismo esasperato e fa appelli, sempre secondo copione, per l’unità del partito perché si è “una grande famiglia e una vera comunità”. Vabbe’, ci sta.

Ora, però, al di là del solito e collaudatissimo rituale della Direzione Nazionale, resta aperto il punto di fondo. Tutto politico. E cioè, al netto del fascismo, della dittatura, della destra illiberale e autoritaria, la sinistra italiana – sempre per nobilitare “questo” Pd – ha la forza politica, culturale, programmatica e morale per ricostruire una vera, e non virtuale, alternativa politica al centro destra in questo paese? Ha la forza, “questo” Pd, per essere realmente il perno di una alleanza che non sia una banale e grottesca coalizione dove a tavolino viene deciso chi copre il fianco sinistro, chi il fianco destro e chi il fianco centrista/ cattolico come pensano Calenda e Zingaretti?

E, in ultimo, crede “questo” Pd in una alleanza che nasce dalla società, e quindi dalla lotta politica nella società, che vuole almeno tentare di mettere in discussione il granitico “blocco sociale” che oggi ruota attorno alla Lega di Salvini, al di là delle pagliacciate sul fascismo, la dittatura e la destra illiberale? Sono questi, crediamo, i temi decisivi che andrebbero affrontati una volta per tutte. Al di là delle simpatiche e divertenti riunioni della Direzione Nazionale dove tutti i capi corrente si scagliano contro le correnti o bande invocando l’unità interna e poi, uscendo dalla Direzione, tutti commentano l’incontro a nome della propria corrente.

Eterno doroteismo? No, solo noia.

EPP Summit, Meise. Oct, 2013

In risposta a un intelligente e sapido commento di Cristian Coriolano su di un possibile “coagulo” di vecchi e nuovi centristi occorre avvertire che progetti di questo tipo non sono ormai più politica, ma noia. Bisogna aggiungere che il coagulo non fa del “doroteismo una categoria eterna dello spirito” ma semplicemente un prurito che può passare grattandosi. Il doroteismo è stato, quando c’è stato, un’idea che è piaciuta ad Aldo Moro, a Mariano Rumor e a tanti altri, donne e uomini della Dc affatto banali. All’epoca si poteva anche non condividerne il moderatismo, condannarne il diuturno lavorìo per il potere (largamente condiviso dagli accusatori). Tutto, si poteva dire del doroteismo, meno che fosse un espediente di politici affaticati per sopravvivere a sé stessi.

L’aforisma di Longanesi, o forse di Missiroli secondo cui: “in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti” è superato. Agiscono sulla nostra scena politica personaggi e comparse dei quali poco si sa, niente si conosce. Il nostro autore, l’esiliato Coriolano, converrà tuttavia che a noi è dato in sorte di conoscere bene alcuni di coloro che, sfidando il ridicolo, si volgono ogni giorno e ogni ora alla disperata riscoperta di un qualunque centro, per nuovi centrismi e moderatismi. Gli “ismi” ovviamente compresi nel prezzo.

La nostra conoscenza basta e avanza per diffidare di questi ricercatori e stare lontani dalle loro imprese. In questo caso non si tratta di doroteismo ma di buon costume. E sembra proprio che le parole di un cólto uomo di chiesa, Gianfranco Ravasi, ci invitino a farlo. All’amara constatazione di Aldo Cazzullo, Corriere della Sera di domenica scorsa, che i cattolici in politica oggi “contano poco”, Ravasi è andato al sodo. Ha detto che “è difficile ricostruire una struttura , un’esplicita presenza cattolica. È però possibile e necessario- ha aggiunto-essere una spina nel fianco della società: non avere paura di andare controcorrente.”

Ve l’immaginate Tabacci, Casini e compagnie che vanno controcorrente? Di Casini disse una volta Gianni Baget Bozzo : “ mi viene difficile imparentare Casini alla chiesa, è più parente di Caltagirone.” Gianni Baget Bozzo lo diceva ai tempi di Benedetto XVI, dei Teodem del Pd ,delle tante assenze di cattolici professionali dal dibattito pubblico suscitato da Ratzinger. Un dibattito che scandalizzava i Casini, quelli non vanno controcorrente. Oggi, con papa Francesco la responsabilità di cattolici è addirittura più forte di allora. La consapevolezza di essere minoranza è un dato acquisito, le sfide più dure e andare controcorrente una premessa per la rinascita.

Gli Stati attuino la transizione ecologica prima che sia troppo tardi

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Tornielli

Gaël Giraud, 49 anni, prete gesuita di origini svizzere, capo economista dell’Agence Française de Développement e Direttore di ricerche al Cnrs (Centre national de la recherche scientifique) è autore del libro «Transizione ecologica» (pubblicato in Italia da emi). Conosce dall’interno il mondo finanziario per averlo frequentato ai più alti livelli prima di decidere di seguire la vocazione sacerdotale ed è oggi una delle voci che più lucidamente si leva nell’indicare l’urgenza della transizione “verde” come ha proposto l’enciclica Laudato si’. «La nostra generazione parla ma non agisce» ci dice nel corso di questo colloquio avvenuto a Roma.

Padre Giraud, quattro anni fa Papa Francesco pubblicava l’enciclica «Laudato si’». Come giudica la ricezione di quel documento?

È stata ambivalente, a mio avviso. Da una parte la ricezione è apparsa molto entusiastica: Laudato si’ è fino a questo momento, a livello mondiale, l’unico documento spirituale e anche politico che offre un orizzonte escatologico del cammino ecologico, dell’alleanza con la creazione. E che allo stesso tempo propone un’analisi scientifica accurata, con raccomandazioni improntate al realismo. Non conosco alcun documento equivalente da parte degli Stati laici. Nel primo periodo c’è stata dunque una ricezione molto positiva. Purtroppo però gli Stati d’Europa non hanno fatto niente. In Francia, ad esempio, le emissioni di co2 sono aumentate del 3,2 per cento nel periodo che va dal 2010 al 2017. Dunque si parla molto di ecologia ma si agisce poco o niente. I giovani, almeno in Francia, stanno lottando e scioperando per imporre una politica ecologica. Il partito ecologista è oggi il terzo partito francese. Secondo me i giovani lotteranno sempre di più per l’ecologia e dunque potrebbe accadere che la prossima generazione metta in pratica ciò che il Papa dice nell’enciclica. Ma la mia generazione, e quella precedente alla mia, parlano senza agire.

In quali settori rileva la resistenza maggiore?

La resistenza è innanzitutto nel settore bancario. Ai banchieri la transizione ecologica appare molto pericolosa, in quanto i bilanci sono ancora colpiti dalla crisi economico-finanziaria del 2008. Per loro la priorità è salvare le banche, e la situazione è molto rischiosa anche senza il problema climatico. Molti di loro pensano che se devono rispondere anche all’emergenza climatica, la vita diventerebbe davvero difficile per loro. È per questo motivo che i banchieri dicono: per noi salvare le banche è la priorità, tutto il resto non vale la pena. Ho parlato con finanzieri di Londra lo scorso dicembre, abbiamo discusso un giorno intero sulla crisi ecologica e alla fine hanno capito perfettamente che la situazione è gravissima.

Qual è stata la loro risposta di fronte a questa constatazione?

Mi hanno detto: noi non faremo nulla perché abbiamo lottato per quarant’anni per prendere il potere con i mercati finanziari, e adesso non lasceremo tutto solo a motivo del cambio climatico. Allora ho domandato loro come si sarebbero comportati per garantire un futuro ai loro figli, e mi hanno risposto che li avrebbero trasferiti in Svezia, perché grazie al cambio climatico quello sarà un Paese dove vivere. Nel frattempo i cinesi stanno mettendo in atto quelle politiche ecologiche che noi vorremmo vedere applicate in Europa: stanno facendo la transizione energetica a favore delle energie rinnovabili. Quando ho fatto osservare questo, mi hanno risposto citando la superiorità tecnologica europea. Ma si tratta di una pura illusione: è chiaro infatti che nel giro di dieci anni anche la tecnologia militare cinese sarà allo stesso livello di quella europea. Mi spiace di aver dovuto riscontrare questo cinismo da parte di molti banchieri. Certo, non di tutti, perché ce ne sono alcuni che hanno capito perfettamente il rischio climatico e i rischi che esso comporta per la stabilità finanziaria. Posso citare ad esempio il Governatore della Banca Centrale di Londra, Marc Carney, che dopo la pubblicazione dell’enciclica Laudato si’, nel 2015, ha affermato in modo chiaro che il rischio più importante per la stabilità finanziaria è proprio quello climatico. Ma anche il Governatore della Banca centrale francese l’anno scorso ha riconosciuto questo rischio.

E la politica? Non sarebbe necessario un sussulto di responsabilità in questo senso?

Nel 2015 tutti i politici europei hanno citato positivamente la Laudato si’. Hanno detto di aver letto l’enciclica, hanno detto che è meravigliosa, hanno detto che bisogna metterla in pratica. Ma poi non hanno fatto niente, forse per colpa della mancanza di tempo per pensare. La maggioranza dei politici europei oggi ha dei ritmi di lavoro pazzeschi: hanno cinque minuti alla settimana per pensare, per riflettere, su un tema del quale loro sanno poco o nulla. Perché quando erano studenti, il cambio climatico non era uno dei temi importanti oggetto di studio e di ricerca. Dunque, gli attuali politici europei non hanno il tempo per riflettere e non prendono sul serio l’emergenza climatica. Certo, parlano con i loro consiglieri. Ma anche questi consiglieri hanno poco tempo per riflettere. Me ne rendo conto, perché sto lavorando molto con il governo francese e con i governi dei Paesi del Sud: è la stessa tragedia in ogni Paese, un ritmo di lavoro pazzesco che ha come conseguenza il fatto che questa generazione non ha tempo per riflettere e pianificare.

Manca una politica di ampio respiro, che sappia pianificare, pensare al futuro, farsi carico delle prossime generazioni, pensare innanzitutto al bene comune?

Sì, di questo si avverte la mancanza, è purtroppo un dato di fatto. Allo stesso tempo, per lo meno nell’Europa occidentale, funzionari di alto livello hanno l’idea che lo Stato abbia fallito, che lo Stato sia ormai una piccola cosa e che ogni possibilità sia nelle imprese private. C’è un incredibile neo-liberalismo nei funzionari della Commissione Europea, dei ministeri delle Finanze, in Francia, in Germania, eccetera… Ho tenuto corsi nella Scuola dell’Amministrazione francese e mi sono reso conto di ciò che i giovani funzionari pensano, sapendo che lavorare per una banca può moltiplicare in modo esponenziale il loro salario. E allora si fabbricano un’immagine del mondo nella quale le banche sono il paradigma della razionalità capitalistica. Questa è una sciocchezza. Bisogna dunque lavorare per cambiare anche la visione dei funzionari, perché i funzionari lavorano per il governo e non aiutano i ministri a pensare in modo diverso. Chi dice che lo Stato non può fare nulla pensa che unici attori in grado di fare qualcosa siano le imprese.

Dunque dobbiamo sperare nelle grandi imprese e nei privati?

Quando parlo con i capi delle imprese francesi, mi dicono: sì, abbiamo compreso perfettamente il rischio climatico, ma c’è la pressione dei mercati e del valore dei titoli, delle azioni. E dunque i grandi manager spiegano di non poter fare una politica “verde” perché in questo caso rischierebbero di perdere la loro posizione in seguito alla caduta del valore delle azioni. C’è una schizofrenia notevole da parte delle imprese. Quando parliamo con i grandi proprietari delle azioni, che sono per una parte le compagnie di assicurazioni, e per altra parte i fondi pensionistici nordamericani, ci dicono esattamente lo stesso: stanno nel mercato finanziario e devono proteggere il valore delle loro azioni. Stessa storia. Manca solo il singolo proprietario delle azioni, il quale però dice: sono l’unico tra milioni di proprietari, perché dovrei essere un eroe e investire nel verde quando ci sono milioni di persone che guadagnano molto investendo in altro?

Padre Giraud, oggi però tutti parlano di investimenti sostenibili, tutti dicono di volere una finanza sostenibile. E allora?

Purtroppo gli investimenti verdi e sostenibili sono diventati un marchio pubblicitario. Tutti dicono di voler andare in quella direzione, è la politica del “green washing” per far credere di essere ecologici e conquistare consensi. Ma in verità non è possibile per il settore privato in Europa pagare gli investimenti per la transizione ecologica. Il settore privato ha infatti molti debiti, ben più alti di quelli degli Stati. Il debito privato in zona euro rappresenta mediamente il 130 per cento del Pil, mentre il debito pubblico medio è del 100 per cento. Dunque c’è molto più debito privato. Il settore privato non è pertanto in grado di pagare una vera transizione ecologica, che costa molto: migliaia di miliardi. Solo per la Francia, avremmo bisogno di una cifra tra 60 e 80 miliardi di euro all’anno per almeno dieci anni. Non è tanto se pensiamo che si tratta del 3-4 per cento del Pil, ma ogni anno bisognerebbe pagarlo: il settore privato, le banche, non possono farlo, perché le banche sono deboli dopo l’ultima crisi economico-finanziaria, anche se sostengono il contrario. Basta vedere ciò che è accaduto al Monte dei Paschi di Siena.

Bisogna trovare chi paga la transizione ecologica. Chi dovrebbe farsene carico?

Gli Stati dovrebbero farsene carico. Ora bisogna comprendere che gli Stati investono meno di ciò che sarebbe necessario per preservare il capitale pubblico, come dimostrano il caso triste del ponte crollato a Genova un anno fa o le stazioni chiuse della metropolitana a Roma. Sono esempi del fatto che il capitale pubblico si rovina quando non si investe il necessario per proteggerlo. A livello di contabilità europea ogni anno siamo più poveri per ciò che riguarda il patrimonio pubblico. Bisogna investire di più per proteggere il patrimonio pubblico e bisogna investire nelle infrastrutture “verdi”, ecologiche.

Com’è possibile che ciò avvenga con il vincolo europeo, il Patto di bilancio che pone limiti al deficit entro un massimale del tre per cento?

La soluzione consiste nell’interpretare in un modo diverso i trattati europei. Questo è possibile. Ho lavorato con giuristi specializzati in diritto comunitario e mi hanno spiegato che i trattati europei permettono di interpretare in modo diverso la regola del tre per cento del deficit pubblico. Per esempio, è perfettamente possibile e perfettamente legale dire che uno Stato intende escludere dal calcolo i costi degli investimenti pubblici per la transizione ecologica. È possibile. E la Commissione europea non può fare nulla. Può discutere, può non dirsi d’accordo con questa interpretazione, ma non può affermare che sia illegale. Una prova di questo l’abbiamo avuta lo scorso dicembre, quando i francesi avevano paura dei “gilet gialli” e delle loro proteste: il commissario europeo francese Pierre Moscovici ha tenuto a Bruxelles una conferenza stampa dicendo: non bisogna distruggere tutto a Parigi perché sappiate che noi possiamo interpretare i trattati europei in modo completamente diverso, e che l’austerità dei bilanci non è una necessità. Ora, dopo che il fenomeno dei gilet gialli si è calmato, Moscovici sembra aver dimenticato quanto aveva detto.

Che cosa dovrebbe fare dunque la politica di fronte all’emergenza climatica?

La politica deve riscoprire il suo compito, la necessità di una strategia che prenda in considerazione il bene comune e l’orizzonte di trent’anni per investire nella conversione ecologica e la re-industrializzazione “verde” dell’Europa. Questo è il piano. Ho lavorato con ingegneri ed economisti in Francia per studiare lo scenario della transizione energetica: è possibile, possiamo farlo. Non necessitiamo di una rivoluzione tecnologica, possiamo già farlo. E le tappe sono ben conosciute: il primo passo è il rinnovamento termico degli edifici, di tutti gli edifici. Il secondo la mobilità “verde”, vale a dire puntare sui treni e sulle automobili alimentate a idrogeno, non su quelle elettriche perché anche queste nel loro ciclo di vita producono co2. Infine la terza tappa è l’industrializzazione verde. Ho lavorato con gli ingegneri per valutare fattibilità e costi della prima tappa in Francia: abbiamo fatto tutti i calcoli e li ho presentati al presidente Emmanuel Macron, con l’accordo delle imprese costruttrici. In questo modo si creerebbe molto lavoro e un lavoro che non si può delocalizzare. Bisogna farlo, per non continuare a inquinare con l’aria condizionata e il riscaldamento. Mi è stato detto che avevo ragione. Ma non accade nulla.

Lettera a Michele Serra

Consapevole – per aver preso parte – del serrato dibattito sul “Centro Politico ” da parte de “il Domani” e  in parte anche da C3Dem,  allego una lettera inviata a Michele Serra  dopo aver letto una sua risposta al lettore sign. Fiumara sul “Venerdì” di Repubblica del 7 giugno.  Un lettore convinto che “…l’elettorato italiano è in maggioranza  assoluta di destra”. E  che, per provare la sua tesi, metteva insieme Mussolini, De Gasperi, Fanfani  e “…ora  Salvini”, definendoli tutti di destra(!), ma concedendo alla fine  che “…la  sinistra può governare solo quando riesce ad allearsi con un centro ragionevolmente aperto” .

Una tesi condivisa in pieno da Michele Serra che per chiarire meglio aggiungeva che La sinistra, largamente intesa, avrebbe un compito di contrasto ( a questa destra italiana ) quando…ovviamente) in alleanza con forze più “moderate” senza le quali ci si parla addosso”.   Opinioni  ragionevoli che possono  anche essere condivise. Ma che, come da qualche anno chiariscono le mie divagazioni, quando adoperano categorie politiche e sociali che appartengono alla storia, gli autori dovrebbero avere la pazienza di definire e chiarire meglio ciò che si vuol dire. Con una lettura cioè  più adeguata ai tempi che viviamo : Sinistra,Centro, Destra; Moderati e Radicali; Progressisti e Conservatori; Riformisti e Tradizionalisti; Ceto medio, Borghesia e Classe operaia; Comunisti e Fascisti, ecc. e , non per ultimo, Cattolicesimo politico e Cattolicesimo democratico hanno la stessa valenza sociale , politica e antropologica, del Novecento ?
Se sono categorie che appartengono legittimamente ad un passato e che ci hanno permesso di interpretare e vivere la storia, non è per niente detto che continuando ad usarle nel 2019 dandole per scontate, siano ancora esplicative dei profondi cambiamenti sopraggiunti e ci fanno capire qualcosa. Rimango, sulla Destra e sulla Sinistra, con gli stessi interrogativi di Giorgio Gaber. Fino a prova contraria.

Caro Serra, non perdo il vizio di leggerla.                                                                                  Questa volta però con il desiderio di dialogare. Mi riferisco al titolo della sua ultima “Posta” de il Venerdì di Repubblica del 7 giugno scorso : “La sinistra che odia i compagni” . Dove “sinistra”  e “compagni” si danno per scontati. E ho sott’occhi la risposta  che dà alla lettera del Sign. Fiumara. Il suo acume politico, che io stimo molto, non deve però  prescindere dalla storia che avanza. E non deve arrendersi ad alcune categorie politiche che puzzano di passato. E che vanno – almeno – ridefinite.                                                                                                                              La prendo alla larga . E’ vero che lo storicismo è stato anche interpretato e venduto come relativismo assoluto. Ma essere consapevoli della storia che cammina, e della società che cambia nelle sue strutture economiche e sociali , con relative “sovrastrutture” come sostiene un certo marxismo,  ponendo nuovi bisogni, nuove attese e nuove domande politiche e sociali, non significa cedere allo storicismo deterministico marxista: con i ragazzi che nella Londra ottocentesca lavoravano 12 ore al giorno, e che tornavano a casa distrutti è stato utile. E non significa neanche mettersi nelle mani del luogo comune che siccome tutto è in movimento, alcuni valori di fondo e categorie politiche e sociali non servano più: libertà ed uguaglianza – per citare Bobbio –  nuovo liberismo e nuove povertà, individualismo e solidarismo, capitalismo industriale e capitalismo finanziario, cattolicesimo clericomoderato e cattolicesimo democratico, sono coppie dialettiche che sarebbe bene non perdere mai di vista. Distinguendole tuttavia sempre, e declinandole nella storia. In questo senso sarebbe altrettanto giusto precisare e chiarire sempre cosa sono – oggi – la destra e la sinistra. Cosa è il nostro Paese “…sostanzialmente di destra”. E cosa è soprattutto “…il Centro ragionevolmente aperto” come scrive il sign Fiumara. Per me  un non luogo sociale e, oggi, luogo solo geometrico  in via di disfacimento concettuale: ceto moderato, borghesia  scomparsa come dicono De Rita , Cacciari e Bonomi ? ; ceto medio  salito sul discensore? ; middle classe senza coscienza di classe?; voto dei cattolici clericali e conservatori antibergogliani?

Lei sa bene che il capitalismo che la sinistra dovrebbe oggi mettere sotto accusa è solo quello finanziario. E’ lui che crea disuguaglianze e mette in crisi il welfare e la democrazia liberale degli Stati. Mentre il pressapochismo della destra oggi sovranista, altra cosa dalla destra fascista, non si rende conto che spingere l’individuo, come fa un certo neoliberismo,  a guardarsi il proprio ombelico con lo Stato e ‘Europa il più lontano possibili, significa giocare contro la Nazione da loro tanta amata. Insomma non dare per scontate alcune categorie politiche, sempre da ricordare ma oggi poco utili a farci leggere “i segni dei tempi”.

“…Tutto vero” dunque che,  come lei dice, “… il nostro è un Paese  sostanzialmente di destra” ? E cosa vuol dire ? E tutto vero che  De Gasperi e Fanfani vicini a Berlusconi e Salvini sono tutti di destra? E , forse,  Berlinguer e Napolitano di sinistra? Immergersi un poco nello storicismo significa confrontarsi con la realtà. Ma anche ridefinire categorie non più esplicative  come Destra, Sinistra e Centro. Se ancora ci teniamo a rivolgerci alla geometria politica orizzontale e non vogliamo invece trasferirci urgentemente su una politica sociale verticale per parlare dei primi e degli ultimi , degli alti e dei bassi, dei pochi  ricchi e dei tanti poveri . E significa radicare la politica nella storia che viviamo. I principi e i valori servono. Eccome ! Ma essi rappresentano i pilastri e le travi portanti di un edificio le cui pareti si sono fatte “liquide”. Trasparenti, leggere, sottili, intercambiabili e mutevoli. Molto ma molto diverse dai mattoni e dalle pietre “solide” di una volta. Dai muri che separavano e che, inutilmente, si vogliono alzare oggi per difendersi  e distinguersi . E Destra, Sinistra, Centro non sono più i mattoni e le pietre di una volta. Bisognerebbe solo avere la pazienza di ricordarlo. Rivisitandole – se proprio ci teniamo – alla luce della storia che ci è dato di vivere.

Accetti i miei più cari saluti. Buon lavoro.                                                                                                                           Nino Labate – Roma

Trump vuole distruggere l’Obamacare

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è pronto ad un nuovo tentativo di riscrittura della riforma sanitaria varata dal suo predecessore, Barack Obama

Una riforma che prevedeva tra l’altro il divieto per le compagnie di assicurazione di negare la stipula di assicurazioni e l’assistenza per determinate patologie o sulla base di preesistenti condizioni di salute.

Quindi una riforma necessaria per molti cittadini ma che in vista dell’annuncio ufficiale della sua candidatura per un secondo mandato presidenziale, l’inquilino della Casa Bianca punta ad abbattere.

Infatti non vuole lasciare che i Democratici monopolizzino il tema dell’assistenza sanitaria, che figura tra le priorità degli elettori Usa ed è uno dei principali asset a disposizione degli avversari di Trump per far presa sull’elettorato moderato.

Una campagna che sembra farsi sempre più calda a discapito della salute americana.

Anche se Trump ha rinnovato la promessa, sinora mancata, di sostituire l’Obamacare con “qualcosa di incredibile”, che riduca gli oneri per lo Stato federale ed estenda la copertura.

Obiettivo inverosimile anche per le tante divisioni interne al Partito repubblicano.

Oggi grazie all’Obamacare sono circa 23,5 milioni in più, rispetto al 2010, gli americani ad avere la copertura sanitaria.

Quindi sarà sufficiente illustrare ai cittadini Usa un piano sanitario nuovo, che inoltre non potrà essere votato dal Congresso federale sino al 2021, per negare il vantaggio dei Democratici sul tema dell’accessibilità alla salute pubblica?

Edo Ronchi: lo Sblocca cantieri blocca il riciclo dei rifiuti

Il decreto sblocca-cantieri rischia di diventare un decreto “blocca riciclo”. Le disposizioni contenute nel decreto, approvato ieri in via definitiva, non consentono di riciclare molte tipologie di rifiuti, né di ottenere nuovi prodotti riciclati, né avviare nuove attività di riciclo. Hanno “ingessato”, infatti, la situazione a 20 anni fa ( DM 5 Febbraio 1998), senza tener conto che da allora si sono aggiunti nuovi rifiuti,  nuove tecniche e nuovi prodotti. L’ allarme viene da Edo Ronchi, Presidente della Fondazione Sviluppo Sostenibile e “padre”, quali ministro dell’ambiente, della riforma dei rifiuti.

Ci sono voluti – sottoliena Ronchi- quasi sedici mesi per intervenire con nuove norme dopo la Sentenza del Consiglio di Stato del 28 febbraio 2018 che, riscontrando una carenza legislativa in materia, aveva bloccato sia i rinnovi sia le nuove autorizzazioni, da parte delle Regioni, per il riciclo di rifiuti non regolato da regolamenti europei o  da decreti nazionali: un blocco che ha recato gravi danni al settore coinvolgendo quasi tutte le attività innovative di riciclo  e le nuove norme in materia, inserite nel decreto  sblocca cantieri non risolvono un bel niente”.

Ronchi ricorda che, in attesa dei decreti ministeriali (ne sono stati pubblicati solo due e altri sono attesi da anni)- la nuova norma approvata stabilisce, infatti, che continuano ad essere utilizzati come decreti per la cessazione della qualifica di rifiuto(End of waste) il DM 5 febbraio 1998  e successivi, compresi  i loro allegati che  non consentono di riciclare molte  tipologie di rifiuti  con provenienze o con caratteristiche non previste dal DM stesso.

Le nuove disposizioni  -osserva Ronchi- hanno quindi ingessato il riciclo dei rifiuti, fermandolo alle tipologie, tecnologie e prodotti del 1998, ignorando il grande progresso che c’è stato e che continua con grande rapidità e numerose innovazioni  che non possono aspettare i tempi lunghi- di anni- dei decreti nazionali.  Colpisce come in un decreto che punta a sbloccare i cantieri, si sia dimostrata una così scarsa conoscenza di un settore strategico come quello del riciclo dei rifiuti, approvando norme che bloccano lo sviluppo di nuovi impianti e nuove attività industriali che  sono pronte a partire e che porterebbero vantaggi ambientali, occupazionali ed economici”.

Ronchi elenca anche alcune tipologie di rifiuto, attività di recupero o prodotti che non sono contemplati dal DM del 1998. Tra le tipologie di rifiuti che non possono essere riciclati ci sono i rifiuti da spazzamento stradale che oggi potrebbero essere recuperati con produzione di ghiaia e sabbia; i rifiuti in vetroresina da demolizione delle barche e pale eoliche  ecc..Tra le  attività di recupero non previste ci sono attività di produzione di biometano  da rifiuti organici;  attività di trattamento di rifiuti di plastiche miste per ottenere prodotti non conformi ai prodotti in plastica usualmente commercializzati , alcuni trattamenti innovativi dei RAEE (Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche). Tra i prodotti, la produzione di aggregati riciclati,  con il riciclo dei rifiuti inerti da costruzione e demolizione  o il granulo per i campi da calcio ottenuto dai PFU (pneumatici fuori uso).

Sicurezza dell’informazione, fattore critico per enti pubblici e imprese

L’infrastruttura consentirà ai cittadini europei di comunicare in assoluta sicurezza e allo stesso tempo, permetterà di stimolare e sviluppare l’ecosistema industriale come quello tecnologico nel settore della tutela delle comunicazioni e della conservazione-protezione dei dati rilevanti (ad esempio quelli di ambito bancario, sanitario e governativo). La sicurezza dell’informazione è un elemento sempre più critico per enti pubblici ed imprese, che devono necessariamente intervenire su più aspetti: tecnologici, organizzativi e di formazione.

La messa in sicurezza del patrimonio informativo deve occuparsi non solo di approntare misure adeguate a fronteggiare le minacce, ma anche di costruire un tessuto organizzativo capace di governare adeguatamente i processi di trattamento dell’informazione, compatibilmente con i vincoli normativi. L’accordo appena sottoscritto dal Miur guarda in questa direzione.

Opera Don Orione: Si è spento don Michał Łos.

Don Łos aveva ricevuto lo scorso 22 maggio da Papa Francesco le dispense necessarie per la professione perpetua come Figlio della Divina Provvidenza e, il giorno dopo, era stato ordinato diacono e sacerdote nel reparto di oncologia dell’ospedale militare di Varsavia da Mons. Marek Solarczyk, vescovo ausiliare di Varsavia-Praga.

Il suo gesto e la determinazione a celebrare la Messa “per essere ancora più unito a Cristo”, si sono trasformati in una testimonianza di fede che ha raggiunto ogni parte del mondo, e che ha unito in preghiera migliaia di persone che hanno conosciuto la sua storia.

“La notizia – dichiara Padre Tarcisio Vieira, Direttore Generale dell’Opera Don Orione – sapevamo sarebbe arrivata, ma ci lascia ugualmente profondamente tristi. Sappiamo, però, che non è stata la morte a togliergli la vita, ma è stato lui che ha voluto donarla per amore a Cristo e ai poveri. Questo suo messaggio e la sua testimonianza hanno insegnato qualcosa a tutti noi e faremo in modo che non andranno perduti. Ringraziamo il Signore per avercelo donato come testimone di grande fede e di amore”.

L’Arte Ritrovata

La mostra, che nasce dalla lunga e consolidata collaborazione (28 anni) fra il Nucleo TPC e il Centro Europeo per il Turismo e la Cultura, intende promuovere i tanti anni di condivisione di eventi culturali divenuti ormai “storici”: da questa sinergica collaborazione hanno infatti preso avvio le prime mostre di opere recuperate, che hanno contribuito a migliorare la conoscenza verso il grande pubblico del lavoro di salvaguardia svolto dal Comando Carabinieri TPC.

L’ARTE RITROVATA si caratterizza come un mosaico di testimonianze archeologiche e artistiche che rappresentano simbolicamente le moltissime opere restituite alla comunità ed esposte nelle mostre promosse dal TPC con il Centro Europeo per il Turismo e la Cultura.

Un viaggio quindi alla scoperta dell’archeologia e dell’arte italiana attraverso una scelta di opere di estrema qualità, messe insieme per la prima volta in un’eccezionale sintesi sulla pluridecennale azione di salvaguardia, una vera testimonianza di riconoscimento al prezioso lavoro dell’Arma dei Carabinieri.

Il focus della mostra è concentrato sull’attività di contrasto alla razzia subita dal patrimonio nell’ultimo trentennio: una lunga stagione di saccheggio archeologico e di furti nei complessi sacri a cui il TPC ha cercato di porre un freno mediante un deciso monitoraggio del territorio, arrivando a sequestrare migliaia di reperti, una quantità che dobbiamo comunque immaginare limitata rispetto al numero complessivo di opere depredate.

La mostra ospita una selezione di opere sequestrate e ora custodite presso i depositi di importanti musei italiani o restituiti alle proprie sedi originarie: si tratta di una rappresentazione ideale del lungo e faticoso lavoro di studio e di azione degli investigatori. Le opere provengono da sequestri a grandi ricettatori o collezionisti, inseriti nella ramificata trama del commercio internazionale che ha alimentato anche prestigiose collezioni di musei stranieri. Una sezione speciale è dedicata a una delle più importanti operazioni condotte dal TPC negli ultimi anni, “l’operazione Andromeda”, grazie alla quale straordinarie opere, qui esposte per la prima volta, sono state restituite alla comunità.

Si potranno ammirare anche tre dei cinque dipinti rubati nel 1999 proprio dalle collezioni dei Musei Capitolini e recuperati nello stesso anno a Latina, il San Giovanni Battista del Guercino, la Sacra Famiglia con i Santi Francesco e Caterina d’Alessandria di Ludovico Carracci e l’Adorazione dei Magi di Benvenuto Tisi, detto il Garofalo. Di notevole pregio anche la preziosa scultura raffigurante Artemide marciante di età augustea, oggetto di scavo clandestino nell’area di Caserta e recuperata al termine di complesse indagini nel 2001, quando stava per essere trasportata all’estero per essere venduta a un noto museo; in un confronto all’americana, si contrappongono all’Artemide marciante le anti-Artemide moderne, ossia tre copie in marmo e gesso dell’originale realizzate dai trafficanti per sviare le indagini dei Carabinieri. Seguono importanti affreschi indebitamente strappati da una villa romana rimasta ancora sconosciuta presso Pompei, dallo stile affine alle stanze dipinte della Villa imperiale di Poppea a Oplontis, alcuni esportati in Svizzera e altri negli Stati Uniti (al J. Paul Getty Museum e al Metropolitan Museum of Art di New York); completano la rassegna vasi e bronzi di grande prestigio e bellezza trovati in occasione di scavi clandestini in Puglia, Sicilia ed Etruria, e successivamente recuperati dall’Arma dei Carabinieri.

Oggetti tutti destinati a soddisfare il solo gusto estetico dei collezionisti privati ma che oggi tornano a essere patrimonio di ogni cittadino. E con essi ritornano i racconti che capolavori o piccoli oggetti della quotidianità ci tramandano. L’esposizione raccoglie opere databili in un lunghissimo arco di tempo compreso fra l’VIII secolo a.C. (reperti di età greca, etrusca e romana) e l’età moderna (pitture rinascimentali e barocche).

Che cos’è il Licopene

Il licopene (da solanum lycopersicum o pomodoro) è un idrocarburo isomero aciclico del beta-carotene, contenente 11 doppi legami coniugati e 2 non coniugati, appartenente al gruppo dei carotenoidi. È un additivo alimentare usato come colorante e identificato dalla sigla E160d. È sintetizzato dalle piante e dai microrganismi, ma non dagli animali.

L’interesse scientifico verso il licopene è dovuto alle sue spiccate proprietà antiossidanti. Tale caratteristica lo rende particolarmente utile nel combattere l’invecchiamento, le malattie cardiovascolari e persino alcune forme tumorali.

La maggiore fonte dietetica di licopene è rappresentata dal pomodoro, da cui prende anche il nome, e dai suoi derivati in cui rappresenta il 60% del contenuto totale in carotenoidi.

Il contenuto in licopene è influenzato dal livello di maturazione del pomodoro, infatti è stato calcolato che in pomodori rossi e maturi sono presenti 50 mg/kg di licopene, mentre la concentrazione scende a 5 mg/kg nelle varietà gialle.

Altre fonti naturali di licopene sono meloni, guava e pompelmi rosa. La concentrazione di licopene nel siero umano è strettamente correlata all’assunzione prolungata di queste materie prime.

Inoltre la biodisponibilità del composto sembra essere più elevata nei prodotti trattati termicamente (ad esempio salse di pomodoro) rispetto ai prodotti crudi. È particolarmente elevato in una specie di pomodori denominati “pomodori siccagni di Corleone”.

Questa particolare varietà è caratterizzata dal fatto che viene coltivata in ambiente arido per cui la concentrazione di licopene può arrivare fino a 75 mg/kg.

Essendo il licopene una sostanza lipofila, il suo assorbimento è correlato alla presenza di grassi nella dieta. La cottura dei cibi può aumentarne la biodisponibilità grazie alla dissociazione dei complessi proteici in cui è incorporato o per la dispersione degli aggregati cristallini di carotenoidi. Nell’intestino, in presenza degli acidi biliari, il licopene è solubilizzato, incorporato in micelle e assorbito dalla mucosa per trasporto passivo. La molecola intatta può essere incorporata in chilomicroni e trasportata all’interno del sistema linfatico. Sembra che non esistano proteine di trasporto specifiche per questo composto, ma che venga trasportato dalle lipoproteine, in particolare quelle a bassa densità (LDL).

Nonostante non possieda attività di precursore della vitamina A, esso appare eccezionalmente antiossidante, in virtù della sua struttura achilica, del numero di doppi legami coniugati e della sua elevata idrofobicità

Nel Pd torna la maretta. Calenda si “vergogna di aver chiesto voti”

Articolo già apparso sulle pagine dell’Agenzia AGI

Acque agitate in casa dem. Gli affondi piovuti da più parti contro Luca Lotti non sono piaciuti ai renziani. L’ex ministro Maria Elena Boschi parla di “interviste che sparano addosso ai compagni”. “Sono arrivati più attacchi dall’interno del Pd che dagli avversari politici”, ha spiegato l’ex responsabile delle Riforme, difendendo la scelta da parte di Lotti di autosospendersi per il sul caso procure, “non era scontata e dovuta, di grande generosità verso la comunità del Pd e va quindi rispettato”.

Martedì si prevede una direzione molto agitata dopo il varo della segreteria da parte di Nicola Zingaretti. Anche l’offerta di guidare alcuni dipartimenti potrebbe essere rifiutata. Base Riformista nello stesso giorno farà il punto per preparare anche l’appuntamento di Montecatini che si terrà dal 5 al 7 luglio.

I renziani parlano di “bullismo correntizio”

“Il nuovo Pd è malato di propaganda: Salvini la fa sulla balla dei porti chiusi, loro su quella del partito aperto e plurale – la critica di Alessia Morani alla gestione del Pd -. La segreteria varata da Zingaretti ne è la prova più palese: è l’esercizio di bullismo correntizio più potente mai visto dalla nascita del Partito Democratico”. “Zingaretti non ceda alla tentazione di provare a vedere quanti voti prende un Pd senza Renzi e tutti noi”, rincara la dose Luciano Nobili.

“Vogliamo prendere atto che un pezzo di quel 40% che ci ha votato alle europee o alle politiche, non si sente più rappresentato”, osserva Ettore Rosato. L’esclusione degli esponenti Pd vicini all’ex segretario Renzi è frutto di “una scelta consapevole”, frena Roberto Giachetti.

Il più duro sulle divisioni in casa dem è Carlo Calenda. “Facciamola finita. Io mi sono rotto di passare le giornate a fare opposizione mentre altri (molti) si dilettano in questo quotidiano cazzeggio. Basta, Zingaretti senta Renzi, Giachetti, Martina etc e troviamo soluzione”. Infine: “”Mi vergogno di essere andato in giro a chiedere voti per un partito che è incapace di stare insieme anche mentre il paese va a ramengo”.

 

Merlo: La questione morale riguarda tutti, sinistra compresa.

Diceva in tempi non sospetti Carlo Donat-Cattin che la “questione morale si può affrontare in due modi: o con i moralisti o con i moralizzatori”. La battuta, come sempre, era di rara intelligenza e di grande coraggio. Soprattutto perchè è stata pronunciata all’inizio degli anni ’80 quando era di dominio pubblico che solo e soltanto la sinistra aveva il monopolio esclusivo della moralità in politica e, di conseguenza, nella società. Il resto, tutto il testo, era inesorabilmente e fatalisticamente esposto al vento della corruzione, del malcostume italiano e del del decadimento etico.

Per fermarsi alle parole dello statista piemontese, il moralista è colui che individua il male, si scaglia contro con parole veementi e denunce implacabili e, alla fine, individua se stesso e la sua parte politica come la soluzione ottimale per risolvere il problema. Il moralizzatore, al contrario, una volta centrato il problema, individua nella politica – cioè nella normativa e nella legge – lo strumento più adatto per risolvere la questione. Ben sapendo che il comportamento umano lo puoi sempre e solo disciplinare e correggere attraverso le leggi della tua coscienza .

Cioè attraverso i valori, i principi e l’etica che ti accompagnano. Ora, lo scandalo che ha investito recentemente la magistratura italiana – nello specifico il suo organo supremo, il CSM, – ci conferma, per l’ennesima volta, almeno 3 cose. Innanzitutto nessuno in Italia può rivendicare di avere il monopolio esclusivo della moralità, della correttezza e della trasparenza. E quindi neanche la sinistra o chi sventola, sempre più goffamente, la bandiera del moralismo, della verginità e della purezza a prescindere. Non c’è alcuna superiorità morale da parte di chicchessia. Anzi, come ricordava anni fa proprio Donat- Cattin, chi se ne impossessa di norma e ‘ peggio degli altri. Perché si comporta come con tutti gli altri ma pretende, al contempo, di essere superiore agli altri. O meglio, di essere più corretto e più trasparente degli altri. In secondo luogo non c’è attività umana dove si possa tranquillamente sostenere che si è immuni da qualsiasi tentazione. Anche quando la magistratura, o alcuni suoi settori, viene coinvolta da questa tentazione, emerge la sensazione se non la certezza, che la cosiddetta “questione morale” attraversa orizzontalmente la società italiana.

Perché, appunto, tocca orizzontalmente la società italiana. Certo, pur senza fare di tutta l’erba un fascio e senza mai generalizzare. Ma le cosiddette “mele marce” sono presenti, purtroppo, dappertutto. In terzo luogo, l’unico antidoto che può contrastare questa ricorrente e latente tentazione, resta quello di saper unire in modo armonico e fecondo la “cultura del progetto”, cioè la propria attività – qualunque essa sia – con la “cultura del comportamento”, cioè con una rettitudine morale ed etica. Secondo l’antico insegnamento cattolico democratico e popolare.

Il che, come ovvio, non deve essere sbandierato, descritto o raccontato ma solo e soltanto vissuto e praticato. Frutto della propria etica, dei propri convincimenti e dei propri valori di riferimento. Ecco perché la celebre distinzione tra “moralisti” e “moralizzatori” continua ad essere feconda, e conserva una bruciante attualità. Per la semplice ragione che la questione morale la si affronta ogni giorno. Senza arroganza politica, senza superiorità morale e, soprattutto, senza esclusivismi etici. Ma solo e soltanto con l’esempio, la testimonianza e la fedeltà coraggiosa e coerente ai principi e ai valori che ci ispirano. Laici o cattolici poco importa.

Rosario Livatino: Il ruolo del giudice nella società che cambia

In questo clima di bufera che da qualche settimana sconvolge il Consiglio superiore della Magistratura ci sembra doveroso riproporre la relazione che, durante la conferenza 7 aprile 1984 presso il Rotary Club di Canicattì, tenne il giudice Rosario Livatino ucciso dalla Mafia il 21 settembre del 1990.

L’argomento proposto vuole offrire materia di riflessione su due temi, che possono anche porsi in perfetta antitesi fra loro: la società che cambia e il magistrato.

Da un lato viene considerata la società intesa come unione ordinata e regolamentata di persone che vivono in un ambito territoriale (e, quindi, per noi la società italiana), la quale è per sua stessa natura una entità in continua evoluzione: essa si trasforma, a volte sensibilmente e a volte insensibilmente, in modo quotidiano, dando luogo a ciò che, nel termine più comprensivo, viene definito come l’evoluzione perenne del costume.

Dall’altro abbiamo la figura del magistrato: egli altro non è che un dipendente dello Stato, al quale è affidato lo specialissimo compito di applicare le leggi, che quella società si dà attraverso le proprie istituzioni, in un momento di squisita delicatezza del loro operare: il momento contenzioso. Per ciò stesso, il magistrato non dovrebbe essere una realtà sul cui mutamento ci si debba interrogare: egli è un semplice riflesso della legge che è chiamato ad applicare. Se questa cambia, anch’egli dovrebbe cambiare; se questa rimane immutata, anch’egli dovrebbe mantenersi uguale a se stesso, quali che siano le metamorfosi della società che lo avvolge.

In questa accezione, il tema proposto potrebbe anche apparire una contraddizione in termini. Esso però trae le mosse da una diversa chiave di lettura del ruolo del magistrato, che si è venuta sempre più affermando a partire dalla metà degli anni ’60 e che vuole, esaltando il potere di interpretazione della legge, tracciare un nuovo rapporto tra tale ruolo ed il divenire della società.

Partendo dalle premesse, cioè, che non sempre la legge è in sintonia coll’evolversi del costume ma spesso, troppo spesso, si attarda e si sclerotizza, si è sostenuto che il magistrato può – pur rimanendo identica la lettera della norma – utilizzare quello fra i suoi significati che meglio si attaglia al momento contingente.

Una diversità di ruolo che non può non rifrangersi nel suo stesso protagonista: il nuovo rapporto cercato fra magistrato e norma legislativa comporta infatti di necessità che anche il primo esca dalla propria torre eburnea di immutabilità, di ibernazione sociale, divenendo attento, sensibile a quanto accanto a lui si crea, si trasforma, si perde.

Ecco, dunque, che i termini del tema propostoci non sono più in inconciliabile antitesi: le due realtà, società e magistrato, sono su un identico piano evolutivo e bene si comprende e si giustifica l’interrogativo sugli effetti che tale parallelismo può avere prodotto, sulla positività o negatività di questa esperienza che si è voluta vivere e, conseguentemente, sulla persistente conducenza del mezzo che si è scelto rispetto al fine che si voleva originariamente conseguire.

Il tema è di amplissimo respiro e di difficile risolubilità, soprattutto perché il fenomeno al quale implicitamente si riallaccia è tuttora in atto. Assolutamente pretenzioso sarebbe quindi credere di poterne affrontare la disamina da parte di chi parla; anche perché la disamina stessa implica conoscenze, soprattutto sul piano della macro e microsociologia, che esulano del tutto dalla sua esperienza culturale.

Poiché, però, il dibattito sul ridetto tema è ogni giorno riproposto dai mezzi di comunicazione di massa ed innumerevoli sono gli episodi reali che lo impongono all’attenzione della pubblica opinione, è facile presumere che ciascuno di coloro che hanno la bontà di ascoltarlo rechi con sé dei quesiti che gradirebbe poter rivolgere ad un addetto ai lavori.

R questo il taglio che sembra ideale per questo incontro e quanto adesso brevemente sarà detto avrà il solo scopo di richiamare alla memoria quelle tematiche che più di altre hanno costituito motivo di pubbliche polemiche e di fungere quindi da stimolo per le domande, le contestazioni che si vorranno porre.

Le tematiche sulle quali ci intratterrerno sono le seguenti:

– i rapporti tra il magistrato ed il mondo dell’economia e del lavoro;

– i rapporti tra il magistrato e la sfera del “politico”;

– l’aspetto della c.d. “immagine esterna” del magistrato;

– il problema della responsabilità del magistrato.

1. – I RAPPORTI TRA IL MAGISTRATO E IL MONDO DELL’ECONOMIA E DEL LAVORO

La situazione economica italiana dell’ultimo decennio ha risentito in maniera notevole delle due crisi dei prodotti petroliferi (1973/1974 -1979/80) e della persistenza dei fenomeni terroristici e di instabilità politica. Ad essi si è aggiunta nello scorcio del 1980 una calamità naturale, quale il disastroso terremoto che ha colpito le regioni meridionali del paese ed in particolare la Campania, la quale ha creato particolari problematiche socio-economiche, con gravi riflessi anche sul piano della repressione penale e dell’ordine pubblico.

Il mercato del lavoro e l’economia monetaria sono stati settori nei quali le perturbazioni economiche hanno prodotto i loro maggiori effetti. Il tasso di disoccupazione è andato man mano crescendo, soprattutto a partire dal 1973-74, giungendo a sfiorare nel 1981 il tetto dei due milioni di disoccupati (8,4% delle forze di lavoro), con progressione continua a partire soprattutto dal 1976 (tasso di disoccupazione 6% delle forze di lavoro).

In questo quadro, indubbiamente difficile, si è inserito prepotente il dilemma fra la figura del giudice-garante degli interessi forti (per i quali vengono assunti a base i valori industriali dominanti) ed il giudice-garante degli interessi deboli (cioè degli interessi individuali contro l’eccessiva concentrazione del potere economico).

Dilemma che nasce dalla convinzione che la presenza giudiziaria possa esplicarsi in modo incisivo in contrasto colla congiuntura economica e al fine di sanarne in tutto o in parte gli effetti perversi.

Nell’ansimare dell’apparato esecutivo alla ricerca di politiche economiche idonee a sciogliere quel nodo congiunturale ormai sospetto di cronicità, v’è stato chi ha ritenuto che il magistrato possa far buon uso del suo potere interpretativo delle leggi, accogliendo di esse quell’accezione che privilegiasse gli interessi delle classi economiche dominanti, così consentendo alle stesse, svincolate da quei “lacci e lacciuoli”, come ebbe a definirli Guido Carli, di riprendere quella padronanza nel campo dell’iniziativa privata e quella sicurezza nel settore degli investimenti produttivi, che avevano consentito all’imprenditoria italiana di creare il c.d. “miracolo economico” degli anni ’50. Una linea, quindi, rivendicativa per il magistrato di un ruolo di protagonista occulto, indiretto della macroeconomia nazionale. Una tesi che relegherebbe il Montesquieu ed il suo principio sulla separazione dei poteri davvero in una polverosa soffitta e che farebbe inorridire economisti classici come Ricardo o Keynes.

Per contro, v’è stato chi, rigettando il ruolo di “canalizzatore” dei processi economici, ha caldeggiato quella presenza giudiziaria come elemento correttivo delle conseguenze nefaste che la congiuntura ha sui piccoli soggetti economici.

È la tesi di chi ha voluto il magistrato come difensore delle categorie più povere e, come tali, più esposte ai capricci dell’inflazione e della stagflazione, proponendo l’aula giudiziaria come luogo di necessario, di dovuto riequilibrio fra parte sociale forte e parte sociale debole ed individuando il processo del lavoro come l’arena più allettante per tale tenzone.

Per esemplificare quanto si dice, basterà citare il noto caso del pretore Paone, che, per ovviare ad una crisi di alloggi, ricorse al sequestro di immobili.

Sul punto quello che si può osservare è:

1° – che entrambe le prospettazioni sono senz’altro da rifiutare in quanto il ruolo che vogliono prefigurare è tale che il magistrato, che dovrebbe assumerlo, non sarebbe più tale in quanto imprimerebbe a se stesso ed ai propri compiti dei caratteri e delle finalità totalmente estranei a quello che ancora oggi è il prototipo dell’interprete giudiziario nel comune sentire sociale come figura super partes e tali da far seriamente pensare ad un vero e proprio tradimento nei riguardi di quei valori la cui tutela la nostra Carta costituzionale affida al giudice ben diverso che essa implicitamente teorizza;

2° – che è peraltro da fugare il timore, purtroppo diffuso, che queste spinte innovatrici siano largamente radicate nei giudici civili e, soprattutto, nella magistratura del lavoro; timore al quale si accompagna l’altrettanto diffusa sgradevole sensazione che l’esito di una controversia individuale o collettiva di lavoro non trovi la propria fonte nella legge ma nelle simpatie del magistrato per questa o quella parte sociale. Vi sono stati e vi sono casi che, col complice aiuto, a volte, di un distorto uso dei mezzi di informazione, inducono a comprendere come possano essersi formati quel timore e quella sensazione; ma va rigettata recisamente la tendenza ad una generalizzazione indiscriminata e va soprattutto con calore affermato che la maggioranza degli interpreti del diritto nel nostro paese piega ancora le proprie convinzioni alla legge e non questa a quelle.

Troppo si è esagerato sulla giurisprudenza del lavoro, giudicata come decisamente di una sola parte del rapporto. Una recente ricerca effettuata per conto del Ministero di grazia e giustizia, a cura del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, alla quale hanno preso parte docenti di diversa estrazione ideologica, ha clamorosamente smentito simili affermazioni.

L’indice di vittoria su cause decise con sentenza in primo grado nell’intero territorio italiano è risultato pari al 64,5%. Tale indice nei giudizi di appello scende al 29,7% quando appellante è il lavoratore ed al 43,1% quando appellante è il datore di lavoro.

La ricerca dimostra, nel complesso, un atteggiamento della magistratura del lavoro, anche in sede di legittimità, tutt’altro che “squilibrato” o “destabilizzante”. Del resto, già una precedente ricerca, condotta nel 1976 dal prof. Mengoni presso l’Istituto giuridico dell’Università Cattolica di Milano, dimostrò l’infondatezza dell’immagine del giudice del lavoro come giudice di assalto velleitariamente affetto da protagonismo o comunque di giudice prevenuto nei confronti di una sola delle parti del conflitto industriale.

D’altronde, va anche rammentato che, a giustificazione di talune decisioni, di taluni indirizzi “sorprendenti” o comunque tali da suscitare perplessità, stanno dei motivi alla cui ricorrenza è del tutto estraneo il magistrato, venendo essi in essere in un momento precedente a quello in cui egli è chiamato a svolgere la sua funzione.

Ci si intende riferire:

a) in primo luogo a leggi che di per sé sono chiaramente alteratrici di un equilibrio nella posizione delle controparti rispetto all’organo giudiziario: favor del lavoratore, tutela differenziata in sede processuale e spinte assistenzialistiche non sono invenzioni della giurisprudenza, ma precise scelte di politica legislativa. Che tali scelte siano giuste od ingiuste è problema che in questa sede non rileva: ciò che preme è il sottolineare che molto spesso si fa carico ai magistrati di “scelte di campo” alle quali egli si trova vincolato proprio per quell’ossequio alla legge che da lui si pretende;

b) in secondo luogo alle difficoltà interpretative del linguaggio oscuro delle norme che il patrio legislatore oggi emana nella materia con notevole fecondità e, soprattutto, dello strumento principe, oggi, nella regolamentazione dei rapporti di lavoro: il contratto collettivo.

La magistratura, per restare ancora fedele al dovere costituzionale di fedeltà alla legge, altro non cerca, anche per evitare ondeggiamenti, incertezze ed ulteriori ingiusti rimproveri, che di poter disporre di dettati normativi coerenti, chiari, sicuramente intelligibili, nonché di testi negoziali nei quali la posizione di diritto e di obbligo delle parti non sia offuscata da una trama tormentata di sottili e complicate espressioni verbali, che nascondono premesse politiche tutt’altro che chiare anziché una precisa volontà che sostenga il precetto. Fin quando tutto questo non sarà assicurato dal nostro legislatore e dalle parti sociali in sede di contrattazione, sarà ineliminabile che il giudice di Pordenone ed il giudice di Ragusa, con gli abissi di cultura e dei substrati territoriali, sociali ed economici nei quali si trovano ad operare, cerchino di districarsi nella perigliosa giungla di queste regolamentazioni adoperando dei machete interpretativi tra loro dissimili o addirittura contraddittori.

2. – I RAPPORTI TRA IL MAGISTRATO E LA SFERA DEL “POLITICO”

È forse questo il settore più dolente, nel quale più si impuntano le critiche e dal quale provengono i maggiori allarmi.

Il tema della politicizzazione dei giudici si inserisce a pieno titolo nel dibattito sui problemi della giustizia e nell’analisi del rinnovato rapporto tra il magistrato ed il tessuto sociale nella cui trama egli si colloca. Tanto con riferimento all’atteggiamento che, talvolta, i giudici avrebbero assunto, o potrebbero assumere, presentando all’opinione pubblica l’immagine di una giustizia parziale, fiancheggiatrice del potere politico, di un partito politico o di un gruppo di potere, pubblico o privato.

L’ipotesi concretizza evidentemente una violazione del criterio costituzionale che, proprio per evitare ogni forma di strumentalizzazione della giustizia, garantisce l’indipendenza personale dei singoli giudici, soggetti esclusivamente alla legge (art. 101), nonché quella della magistratura nel suo complesso, descrivendola come “ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere” (art. 104).

Dal combinato disposto delle norme citate, si desume quindi che il costituente ha voluto escludere ogni pericolo o sospetto di faziosità e di settarismo dei giudici, sia nell’aspettativa di vantaggi personali o per il timore di pregiudizio, sia in forza dell’interferenza di altri poteri dello Stato nella funzione giudiziaria.

È alla luce di questi principi che deve essere valutata la compatibilità tra la funzione del giudicare e l’adesione a partiti politici, gruppi, associazioni.

La trasformazione del partito politico da centro di diffusione ideologica a struttura associativa caratterizzata da sempre più rigidi vincoli burocratici e gerarchici, sovente finalizzata alla gestione del potere, rende oggi assai più difficile di quanto non fosse all’epoca della Costituente ammettere la possibilità che un giudice possa conservarsi libero iscrivendosi ad un partito politico.

Si dovrebbe ammettere che il giudice, nel momento in cui si iscrive, fosse non solo affatto risoluto a non concedere assolutamente nulla al partito come tale, nei casi in cui il partito ha un interesse, ma che anche i suoi compagni di fede non si aspettassero assolutamente nulla da lui nel momento in cui egli dovesse occuparsi di quei casi.

Parrebbe che, sul piano umano, ciò sarebbe troppo pretendere. Che dire poi della possibilità per il giudice di entrare a far parte di sette od associazioni che, se non sono segrete, mantengono tuttavia il più stretto riserbo sui nomi degli aderenti ed avvolgono nelle nebbie di una indistinta filantropia. le proprie finalità e i propri obiettivi?

Se sono già serie le ragioni di perplessità sulla adesione del giudice ad un partito politico, queste ragioni appaiono centuplicate nella partecipazione ad organizzazioni di fatto più o meno riservate o, comunque, non facilmente accessibili al controllo dell’opinione pubblica, i cui aderenti risultano fra loro legati da vincoli della cui intensità e natura nessuno è in grado di giudicare e valutare.

Qui bisognerà proclamare, con assoluta chiarezza, che la norma dell’art. 212 T.U.L.P.S., che sancisce l’immediata destituzione per tutti gli impiegati pubblici che appartengano ad associazioni i cui soci sono vincolati dal segreto, si applica anche ai magistrati, che ne sono anzi, logicamente, insieme ai militari, i destinatari più diretti.

Ciò non significa certo sopprimere nell’uomo-giudice la possibilità di formarsi una propria coscienza politica, di avere un proprio convincimento su quelli che sono i temi fondamentali della nostra convivenza sociale: nessuno può difatti contestare al giudice il diritto di ispirarsi, nella valutazione dei fatti e nell’interpretazione di norme giuridiche, a determinati modelli ideologici, che possono anche esattamente coincidere con quelli professati da gruppi od associazioni politiche.

Essenziale è però che la decisione nasca da un processo motivazionale autonomo e completo, come frutto di una propria personale elaborazione, dettata dalla meditazione del caso concreto; non come il portato della autocollocazione nell’area di questo o di quel gruppo politico o sindacale, così da apparire come in tutto od in parte dipendente da quella collocazione.

Piace qui riportare il VII canone del codice di condotta adottato negli Stati Uniti per la disciplina professionale dell’ordine giudiziario e forense e che testualmente sancisce il dovere del giudice di “sottrarsi all’attività politica, inadatta al suo ruolo”, astenendosi in particolare dall’ “assumere mansioni di leader o dal rivestire qualunque altra carica in una organizzazione politica”, nonché dal “tenere pubblicamente discorsi per un’organizzazione politica o per un suo esponente o dall’appoggiare un candidato ad una carica pubblica”.

Una previsione deontologica fatta propria da una società storicamente, economicamente, tecnologicamente più progredita della nostra, che costituisce, per ciò, un conforto alla validità di quanto prima si è detto e che dà l’ispirazione per trattare subito di un altro delicato aspetto: quello del magistrato che, ad un certo punto della propria carriera, si candida ad una elezione politica ed ottiene la carica.

Si potrebbe osservare che su questo non v’è nulla da eccepire: egli è un cittadino come tutti gli altri ed in questo non farebbe che esercitare un suo diritto costituzionalmente garantito. L’ordinamento, peraltro, prevede che durante il periodo del mandato egli non svolga le sue funzioni giudiziarie. Ma gravissimo è il problema che si pone allorquando tale mandato, per una causa od un’altra, viene a cessare: infatti, un parlamentare, anche quando si tenga rigorosamente nei limiti della legalità, assume inevitabilmente un complesso di vincoli e di obblighi verso gli organi del partito, contrae legami ed amicizie che raramente prescindono (non per cattiva volontà o desiderio di collusione, ma per necessità delle cose) dallo scambio di reciproche e sia pur consentite cortesie, dall’assunzione di impegni e obblighi che, appunto perché galantuomini, si è tenuti ad onorare, si assoggetta infine ad un’abitudine di disciplina (nei confronti delle varie gerarchie del partito e del gruppo parlamentare) in contrasto con la libertà di giudizio e l’indipendenza di decisione proprie del giudice, abitudine difficile da lasciare, anche perché, tranne casi eccezionali, l’abbandono del seggio parlamentare non rompe i vincoli di gratitudine e non distrugge il legame fiduciario fra il singolo e la struttura.

D’altronde, anche ammesso che il magistrato-parlamentare sappia riacquisire per intero la propria indipendenza dal partito, che ha rappresentato al più alto livello, e spogliarsi di ogni animosità contro avversari politici che possono averlo attaccato anche duramente, è inevitabile che l’opinione pubblica, incline al sospetto e tutt’altro che propensa a credere alla rescissione di simili vincoli, continui a considerarlo adepto di quel partito, consorte o nemico di quegli uomini politici e di quanto rappresentano.

Per inevitabile conseguenza, l’utente della giustizia di uguale militanza politica riterrà, poco importa se erroneamente, di avere valide aspettative ad una decisione favorevole e ad un trattamento di riguardo, mentre chi lo contrasta si crederà battuto in partenza ed addebiterà l’eventuale sentenza sfavorevole non a propria responsabilità, ma agli obblighi politici ed alla conseguente preordinata malafede del giudice, costretto a dare comunque partita vinta al suo commilitone e partitante.

Sarebbe quindi sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza l’ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall’ordine giudiziario.

Nel trattare quanto appena detto, si è fatto un rapido accenno a quella che è l’importanza del modo col quale l’utente della giustizia guarda colui che gestisce tale servizio; ciò ci dà il destro per trattare…

3. – L’ASPETTO DELLA C.D. “IMMAGINE ESTERNA” DEL MAGISTRATO

Si è bene detto che il giudice, oltre che essere deve anche apparire indipendente, per significare che accanto ad un problema di sostanza, certo preminente, ve n’è un altro, ineliminabile, di forma.

L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della stia condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività.

Inevitabilmente, pertanto, è da rigettare l’affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato e secondo la quale, quindi, il giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole.

Una tesi del genere è, nella sua assolutezza, insostenibile.

Bisogna riconoscere che, quando l’art. 18 della legge sulle guarentigie dice “che il magistrato non deve tenere in ufficio e fuori una condotta che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere”, esprime un’esigenza reale.

La credibilità esterna della magistratura nel suo insieme ed in ciascuno dei suoi componenti è un valore essenziale in uno Stato democratico, oggi più di ieri. “Un giudice”, dice il canone II del già richiamato codice professionale degli U.S.A. “deve in ogni circostanza comportarsi in modo tale da promuovere la fiducia del pubblico nell’integrità e nell’imparzialità dell’ordine giudiziario”.

Occorre allora fare un’altra distinzione tra ciò che attiene alla vita strettamente personale e privata e ciò che riguarda la sua vita di relazione, i rapporti coll’ambiente sociale nel quale egli vive.

Qui è importante che egli offra di se stesso l’immagine non di una persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona equilibrata, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire.

Solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare che gli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha. Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà ricevere ed assumere come se fossero sue e difendere davanti a chiunque. Solo se offre questo tipo di disponibilità personale il cittadino potrà vincere la naturale avversione a dover raccontare le cose proprie ad uno sconosciuto; potrà cioè fidarsi del giudice e della giustizia dello Stato, accettando anche il rischio di una risposta sfavorevole.

Un giudice siffatto è quello voluto dalla umanità di sempre, configurato in ogni ordinamento dello Stato di diritto, esaltato nella Carta costituzionale. Sotto questo aspetto, pertanto, può ben concludersi che non vi può essere relazione alcuna fra l’immagine del magistrato e la società che cambia, nel senso che la prima non dovrà subire modificazione alcuna, quali che siano i capricci di costume della seconda: il giudice di ogni tempo deve essere ed apparire libero ed indipendente, e tanto può essere ed apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato.

4. – IL PROBLEMA DELLA RESPONSABILITÀ DEL MAGISTRATO

Quanto si è fin qui detto conduce a porre come argomento di chiusura l’interrogativo se il mutato sentire sociale, se le trasformazioni intervenute nel costume del nostro paese siano tali da imporre una nuova struttura della responsabilità del magistrato, delle conseguenze cioè alle quali quest’ultimo è suscettibile di andare incontro ove bene non eserciti la sua funzione.

Il ventaglio dei problemi è vastissimo, ma pare cosa più opportuna limitare il suggerimento, quale argomento di discussione per chi ascolta, alla proposta di introdurre la responsabilità civile per danni arrecati a terzi nell’esercizio di attività giudiziaria per colpa grave.

Sul punto si può osservare come contributo a tale discussione, che l’introduzione del principio della responsabilità civile pare assolutamente inaccettabile per molte ragioni, tutte difficilmente superabili.

Ogni atto giurisdizionale, anzi ogni manifestazione di potestà giudiziaria, incide necessariamente su diritti soggettivi; è per sua stessa natura idonea a produrre danno. E ciò vale non solo per le manifestazioni tipiche di potestà decisionale, ma anche per tutti quei provvedimenti che hanno funzione preparatoria ed ordinatoria rispetto alla decisione finale (concedere o non concedere un sequestro; ammettere o non ammettere una prova; concedere o no la provvisoria esecuzione).

Non esiste, si può dire, atto del giudice e più ancora del pubblico ministero che possa dirsi indolore. Ogni giudice, quindi, nell’atto stesso in cui si accingesse alla stipula di un qualsiasi provvedimento, non potrebbe non domandarsi se per caso dal suo contenuto non gliene possa derivare una causa per danni.

E sarebbe quindi inevitabile ch’egli si studiasse, più che di fare un provvedimento giusto, di fare un provvedimento innocuo.

Come possa dirsi ancora indipendente un giudice che lavora soprattutto per uscire indenne dalla propria attività, non è facile intendere. Né si dica che le parti raramente ricorrerebbero a questa possibilità. La facilità con cui, specialmente in certe regioni, si ricorre all’esposto contro il giudice, anche per i più ingiustificati motivi, autorizza la previsione che una riforma del genere aprirebbe subito un ampio contenzioso.

Se qualcuno volesse obiettare che, in fondo, la responsabilità è prevista solo per le ipotesi di colpa grave, sarebbe facile rispondere che questa limitazione introduce un elemento di aleatorietà in più, davvero insufficiente ad offrire un criterio d’orientamento obiettivo. t difficile trovare dei casi di colpa giudiziaria che non possano considerarsi gravi: la motivazione stereotipa; l’omessa convalida della perquisizione in flagranza; l’omesso esame di prove risultanti dagli atti; la mancata motivazione su specifici capi delle domande ecc., sono tutte mancanze gravi. La colpa del giudice, se c’è, è sempre grave per definizione, data dall’importanza degli interessi sui quali egli dispone.

L’altro effetto perverso, che potrebbe essere indotto dalla riforma, sarebbe quello di indurre il giudice al più rigido conformismo interpretativo: per cautelarsi contro il pericolo di seccature, è semplice prevedere che il giudice si guarderebbe bene dal tentare vie interpretative inesplorate e percorrerebbe sempre la strada maestra fornita dalla giurisprudenza maggioritaria della Cassazione; l’autorità del precedente, che è vincolo professionale per il magistrato anglosassone, diventerebbe per quello italiano fatto d’interesse personale e l’art. 101 della Costituzione potrebbe essere riscritto nel senso che i giudici sono soggetti soltanto alla Corte di Cassazione.

Quando poi la controversia toccasse affari od interessi di dimensioni eccezionali, ogni scelta diverrebbe veramente paralizzante: si pensi alla decisione di un tribunale fallimentare se far fallire o no un grosso complesso industriale od una catena di società legata magari a centri di potere politico.

Il giudice veramente verrebbe consegnato nelle mani delle forze che si scontrano fra loro e sarebbe difficile ch’egli non fosse tentato, se non è riuscito a fuggire prima di dover scegliere, di secondare il più forte.

Ma gli effetti più devastanti di una proposta del genere si avrebbero in materia penale, specialmente nel momento dell’inizio dell’azione penale.

Se l’organo dell’accusa sa che le sue iniziative investigative possono costargli, quando non ne seguisse una condanna, una causa per danni, ci si può chiedere se sarà mai più possibile trovare un pretore od un pubblico ministero che di sua iniziativa intraprenda la persecuzione di quei reati che per tradizione o per costume o per altro nel passato erano raramente perseguiti. Dai reati societari all’urbanistica, all’inquinamento ed in genere a tutti i reati che offendono interessi diffusi.

Ci si può chiedere ancora se si troverà un giudice che, in presenza di un reato che consente ma non impone la cattura, avrà l’ardire di imprigionare, ad esempio, un bancarottiere per qualche miliardo, quando rifletta alle conseguenze che gliene potrebbero derivare se, per caso, costui venisse assolto.

Questo è l’effetto perverso fondamentale che può annidarsi nella proposta di responsabilizzare civilmente il giudice: essa punisce l’azione e premia l’inazione, l’inerzia, l’indifferenza professionale. Chi ne trarrebbe beneficio sono proprio quelle categorie sociali che, avendo fino a pochi anni or sono goduto dell’omertà di un sistema di ricerca e di denuncia del reato che assicurava loro posizioni di netto privilegio, recupererebbero attraverso questa indiretta ma ancor più pesante forma di intimidazione del giudice la sostanziale garanzia della propria impunità.

Tutto ciò che si è riusciti a conquistare sul terreno di una più effettiva valenza del principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, verrebbe vanificato di colpo e le condizioni della nostra giustizia penale sarebbero retrocesse in un istante all’epoca dello Statuto Albertino.

* * * *

Nel concludere, desidererei formulare solo un’ultima considerazione. È certo che, tranne alcuni aspetti immutabili, il ruolo del giudice non può sfuggire al cammino della storia: tanto egli che il servizio da lui reso devono essere partecipi di un processo di adeguamento. Ma di ciò non può farsi carico solo ai giudici: non si può cioè chiedere che essi traggano soltanto da se stessi la forza per questo adeguamento.

Tutto è più complesso in una società moderna in materia di definizione e difesa dei bisogni, degli interessi, dei diritti.

Nelle società primitive e, comunque, semplici, tutto era relativamente chiaro in termini di “cosa era giusto e cosa era ingiusto” e tutto era facile, relativamente, in termini di accesso a chi amministrava giustizia (il capo tribù, il capo villaggio, il capo religioso); oggi, nelle società a crescente complessità e soggettività, come sono tutte le società occidentali mature, è sempre più difficile sapere e far accettare i concetti di giusto ed ingiusto ed è sempre più difficile individuare e rendere più accessibili gli strumenti per ottenere giusta protezione.

In questa prospettiva, riformare la giustizia, in senso soggettivo ed oggettivo, è compito non di pochi magistrati, ma di tanti: dello Stato, dei soggetti collettivi, della stessa opinione pubblica.

Recuperare infatti il diritto come riferimento unitario della convivenza collettiva non può essere, in una democrazia moderna, compito di una minoranza.

Rosario Livatino

L’India vara i suoi dazi

L’India vara i dazi su 28 prodotti statunitensi, tra cui mandorle e mele.

Le misure, alcune addirittura del 70%, sono una risposta al rifiuto di Washington di esentare il Paese da tariffe più alte sulle importazioni di acciaio e alluminio.

Nel giugno del 2018 erano state annunciate dall’India tariffe fino al 120%, ma i negoziati commerciali avevano poi ritardato la loro attuazione. Mentre all’inizio di questo mese, Donald Trump aveva annunciato che gli Stati Uniti si stavano ritirando dal trattato commerciale preferenziale con l’India.

Il commercio bilaterale USA-India valeva 142 miliardi di dollari nel 2018, un aumento di sette volte dal 2001, secondo i dati americani. Ma il valore di 5,6 milioni di dollari di esportazioni indiane – precedentemente esenti da dazi doganali negli Stati Uniti – sarà colpito ora che il Paese ha perso proprio il trattamento preferenziale secondo il Sistema di preferenze generalizzate (Gsp) americano.

 

Sviluppo sostenibile, economia circolare infrastrutture e tutela del territorio

Sviluppo sostenibile, economia circolare infrastrutture e tutela del territorio Genova, martedì 18 Giugno 2019, ore 9.30  Sala Quadrivium dell’Arcidiocesi – Piazza Santa Marta 2.

Intervengono: S.E. ANGELO BAGNASCO, Cardinale Arcivescovo di Genova – GIOVANNI TOTI, Presidente Regione Liguria – MARCO BUCCI, Sindaco di Genova – PIETRO SALINI, CEO Salini Impregilo – ALBERTO MAESTRINI, Direttore Generale Fincantieri e Presidente PerGenova – PATRIZIA LOMBARDI, Prorettrice Politecnico di Torino – EDOARDO CROCI, Osservatorio Green Economy Università Bocconi Green – ROBERTO LEONI, Presidente Fondazione Sorella Natura – LUCA UBALDESCHI, Direttore Secolo XIX.

Martedì 18 Giugno 2019, alle ore 09.30, a Genova nella Sala Quadrivium dell’Arcidiocesi in Piazza Santa Marta si terrà il simposio “Sviluppo sostenibile, economia circolare, infrastrutture e tutela del territorio” organizzato dalla Fondazione Sorella Natura (FSN), impegnata da oltre venticinque anni a diffondere una corretta cultura ambientale.

In apertura dei lavori, la presentazione dell’evento curata dal segretario generale della Fondazione Umberto Laurenti, per il quale << Il convegno intende promuovere un confronto tra Istituzioni, accademici e imprese sui processi di sviluppo orientati alla sostenibilità e capaci di favorire, attraverso le buone pratiche e le migliori tecnologie disponibili, l’integrazione tra aspetti economici e ambientali>>.

Seguiranno i saluti del Presidente della Regione Giovanni Toti, del Sindaco Marco Bucci e l’intervento dell’Arcivescovo di Genova, Cardinale Angelo Bagnasco.

Le infrastrutture che interessano la Liguria sono un bene comune da cui passa il benessere non solo di Genova e della regione ma dell’intero Paese visto che Genova è lo sbocco e l’ingresso per Europa.

A questo tema è dedicata la tavola rotonda coordinata dal direttore del Secolo XIX Luca Ubaldeschi a cui parteciperanno Pietro Salini, CEO di Salini Impregilo, Alberto Maestrini, Direttore Generale di Fincantieri e Presidente di PerGenova, Edoardo Croci dell’Osservatorio Green Economy dell’Università Bocconi Green di Milano e Patrizia Lombardi Prorettrice del Politecnico di Torino.

Al centro del dibattito l’esigenza di realizzare infrastrutture efficienti e sicure, indispensabili per supportare lo sviluppo economico di Genova e creare nuova occupazione, che secondo i dati INPS del terzo trimestre 2018 – quelli concomitanti e immediatamente successivi al crollo del ponte Morandi – registrò una perdita in Liguria di 5.000 posti di lavoro rispetto all’anno precedente.

Ma le grandi opere possono invertire questa tendenza. Come il nuovo ponte sul Polcevera, nel cui cantiere sono già impegnate centinaia di persone. Una grande infrastruttura per impatto e funzionalità che ripristinerà i collegamenti di Genova con la Francia, con il porto e in generale con le aree limitrofe, permettendo di far recuperare alla città il ruolo di grande hub portuale e commerciale in cui transitano 1,7 milioni di croceristi l’anno, ai quali si aggiunge una movimentazione di container pari a 2,6 milioni di teu e 69 milioni di tonnellate di merci.

Stesso impatto che avrà per Genova il Terzo Valico dei Giovi, uno dei progetti di mobilità sostenibile prioritari per il completamento della rete ferroviaria ad alta velocità che collegherà alcune rotte strategiche all’interno dell’Unione Europea e di cui fa parte il corridoio Reno-Alpi che unirà Rotterdam con Genova, quindi dal Mare del Nord al Mar Mediterraneo, in cui rientra il Terzo Valico.

L’opera creerà inoltre un collegamento tra il sistema portuale genovese e la vasta area che comprende Piemonte, Lombardia e Veneto dentro la quale viene movimentato il 50% delle merci nazionali. Come tutte le infrastrutture complesse, il Terzo Valico dei Giovi rappresenta anche una grande opportunità occupazionale: il numero dei lavoratori impegnato nel cantiere raggiunge infatti nei momenti di picco le 2500 persone, destinate a crescere fino a 4500 quando saranno aperti tutti i cantieri.

Riflessioni conclusive affidate al presidente della Fondazione Sorella Natura Roberto Leoni, per il quale << L’impegno per lo sviluppo sostenibile resta il più importante elemento strategico per migliorare la qualità della vita delle persone, generare occupazione e coesione sociale>>.

Un medico catanese studia come fermare le metastasi

Fibroblasti si sono trasformati in metastasi di un tumore al colon dopo essere stati colpiti da vescicole extracellulari derivanti dallo stesso cancro. E’ quanto è riuscito ad ottenere in laboratorio il ricercatore catanese Goffredo Arena, professore associato di chirurgia e patologia all’università McGill di Montreal (Canada).

Uno studio che apre nuovi orizzonti nella lotta ai tumori che potrebbero essere sconfitti intercettando o bloccando l’attività delle “vescicole extracellulari” che fungono da “untrici” nei confronti di cellule sane che vengono “contagiate” e trasformate in cellule tumorali.

 

Il centro di Casini come eterno ritorno del doroteismo.

Non ci siamo. L’idea di Casini, quella di mettere insieme un po’ di ceto politico, da Bruno Tabacci a Mara Carfagna, passando per Carlo Calenda, riporta il dibattito sul “centro” al vecchio gioco degli organigrammi. È un’idea che fa del doroteismo una categoria eterna dello spirito. Non contano i programmi, né la cultura politica di riferimento. Essi appaiono superflui, inutilmente onerosi, al più decorativi. Lo schema di Casini è semplice: i moderati non sono rappresentati, dunque serve un coagulo di vecchi e nuovi “centristi” per attirare il loro consenso.

A seguire questa traccia, la medesima che condusse al fallimento nel 2013 (Scelta Civica) e ancor più nel 2018 (Civica Popolare), si mette in piedi un’operazione che può ambire, nel miglior dei casi, al salvataggio dei profughi del renzismo e del berlusconismo. Il suo valore strategico sarebbe infimo, se non addirittura inesistente. Dove andrebbe, questo “centro” raffazzonato, è presto detto: a stento, smozzicando poche parole d’ordine, si allocherebbe nei piani bassi della politica. Alla resa dei conti, sarebbe la fureria di qualche reparto militare, perciò lontano dallo stato maggiore dell’esercito.

Ora, mentre cresce nel mondo cattolico la riflessione attorno ai grandi temi del presente, l’ombra misera dell’eredità democristiana si restringe a vista d’occhio. Di tale squilibrio si coglie l’effetto negativo. Da un lato si ragiona e si discute, mettendo tanta carne a fuoco, dall’altro ci si limita a balbettare la lezioncina sul ruolo dei moderati. In questo modo, però, resta ingabbiata l’aspirazione a una possibile rinascita del cattolicesimo politico. L’impasse è sotto gli occhi di tutti.

Come uscirne? La domanda corre veloce, fa parte del confronto quotidiano, lascia in sospeso dubbi ed incertezze. Certo, non se ne esce alla maniera di Casini. Anche quando si individua l’esistenza di uno spazio politico, non è la sua occupazione a legittimare di per sé la nascita di un partito. Anzi, di un nuovo partito. Prima vengono le motivazioni politiche, anche capaci di suscitare attese e inquietudini, poi le movenze tattiche e le preoccupazioni contingenti. Il nuovo “centro” non può essere pensato come la sottile cartilagine tra le giunture di uno scheletro politico artificiale. In esso deve operare, per essere un vero “centro”, il lievito della speranza, altrimenti è inutile vagheggiarne il ritorno sulla scena.

I colori di Zeffirelli

È stato un maestro del colore, Franco Zeffirelli. La forma ha avuto il ruolo principale in tutta la sua enorme produzione di regìe teatrali, cinematografiche, operistiche, televisive. È il colore che lo ha fatto ben presto riconoscere universalmente come Grande Artista. E, come moltissimi grandi artisti, Grande Artigiano. Lui, come i maestri del Rinascimento.

La sua estetica, la sua vita – viene prima l’una dell’altra negli artisti – venivano direttamente dalla sua città. Erano la sua città, Firenze. La sua dolcezza di Guelfo gli ha reso facile l’incontro con Gesù di Nazareth e con Francesco d’Assisisi. La sua fede lo ha guidato nella regìa televisiva dell’apertura della Porta Santa, la notte di Natale del 1974. Ultime immagini di un rito che dopo di allora non c’è più stato.

La forza con la quale ha messo in scena, in qualunque scena, le storie che aveva scelto di raccontare era tale che è impossibile dimenticare quel colpo al cuore. Il colore, dunque la passione, erano per lui sfacciatamente padroni del campo, non temendo le mode.  

Ho ancora negli occhi il terzo atto di “Un Ballo in maschera” alla Scala, nel 1972. Ancora sento i brividi e lo spasimo per quei bagliori, quei costumi, quelle figure. Era l’arte di Zeffirelli. Ricerca insaziabile della forma, poetica che non distingue tra classico e moderno, ma vuole trascenderli.

Una volta da lui, sull’Appia Antica, villa elegantissima nonché reggia per poveri, vidi dovunque giovani felici. Nessuno di loro si sentiva un ospite. “Bravi ragazzi, chi ha talento e chi no, chi ha studiato e chi fa il barbiere. Mi dà gioia farli star bene.”

Nel 1994 si candidò con Berlusconi e non a Firenze: in Toscana c’era ancora il senso unico a sinistra, ma a Catania dove la destra vinceva facile. Allora fu chiaro che il vecchio anticomunismo del cattolico Zeffirelli non era stato intaccato e messo in crisi dalle ragioni della storia e dalla caduta del muro di Berlino.

L’antico allievo di Giorgio la Pira era rimasto a San Marco, quel bianco e quel nero accecanti dei domenicani di là. Perché dunque, ci si chiese, scuoterlo dal suo sogno, lui che aveva incantato con i suoi colori milioni di donne e di uomini e chissà quanti vecchi comunisti?

Nella politica l’amore del prossimo è di casa

ari fratelli e sorelle,

saluto cordialmente tutti voi, partecipanti al Convegno Internazionale che si terrà a Caltagirone, città natale del servo di Dio Don Luigi Sturzo, in occasione del Centenario dell’Appello “A tutti gli uomini liberi e forti”. Ringrazio il Comitato Promotore-Scientifico e il Comitato Organizzatore per aver dato vita a questa pregevole iniziativa, unitamente a tutte le Organizzazioni, i Movimenti, le Associazioni, le Istituzioni accademiche e culturali che sono presenti in spirito di collaborazione.

È una felice intuizione onorare “uniti e insieme” un anniversario così importante per la storia d’Italia e d’Europa, rileggendo con un largo e qualificato contributo di idee, di esperienze e di buone prassi i dodici Punti che costituivano il Programma dell’Appello, per risentirne il valore e l’attualità e riaffermare la sua praticabilità tra la gente, attraverso un nuovo dialogo culturale e sociale che sia ispirato, oggi come ieri, “ai saldi principi del cristianesimo”.

In occasione del V Convegno nazionale della Chiesa Italiana, ho sottolineato l’importanza di questo metodo, che sta alla base del grande impegno profuso da Don Luigi Sturzo e dai laici cristiani dell’epoca, prima della formulazione dell’“appello”: «La società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media. […] Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà» (Firenze, 10 novembre 2015). Mi pare di poter cogliere nella vostra iniziativa un esaudimento di queste parole e, pertanto, vi incoraggio a proseguire su questa strada in nome della cultura dell’incontro e del dialogo che tanto mi sta a cuore.

Questo centenario ci dà l’occasione di riflettere sulla concezione cristiana della vita sociale e sulla carità nella vita pubblica secondo il pensiero, la vita e le opere del servo di Dio Don Luigi Sturzo. Per il sacerdote di Caltagirone, il compito di informare cristianamente la vita sociale e politica appartiene soprattutto ai laici cristiani che, attraverso il proprio impegno e nella libertà che loro compete in tale ambito, attuano gli insegnamenti sociali della Chiesa, elaborando una sintesi creativa tra fede e storia che trova il suo fulcro nell’amore naturale vivificato dalla grazia divina.

In polemica con quanti sostenevano un dualismo tra etica e politica, tra Vangelo e società umana e limitavano la legge dell’amore alla vita privata, Don Sturzo affermava: «La legge dell’amore non è una legge politica; sta bene in chiesa, sta bene nelle famiglie, sta bene nei rapporti privati. È vero che molti oggi, anche cristianelli annacquati, posano a fieri censori di coloro che si occupano di vita pubblica; e definiscono la politica una sentina di mali, un elemento di corruzione, uno scatenamento di passioni; e quindi da starne lontani; costoro confondono il metodo cattivo con quella che è invece doverosa partecipazione del cittadino alla vita del proprio Paese. Il fare una buona o cattiva politica, dal punto di vista soggettivo di colui che la fa, dipende dalla rettitudine dell’intenzione, dalla bontà dei fini da raggiungere e dai mezzi onesti che si impiegano all’uopo. Così ragionano i cristiani di ogni tempo e di ogni Paese. E con questo spirito, l’amore del prossimo in politica deve stare di casa e non deve essere escluso come un estraneo: né mandato via facendolo saltare dalla finestra, come un intruso. E l’amore del prossimo non consiste nelle parole, né nelle moine: ma nelle opere e nella verità» (da “Il Cittadino di Brescia”, 30 agosto 1925: La vera vita. Sociologia del soprannaturale, Bologna 1943).

La moralizzazione della vita pubblica è legata per Don Sturzo soprattutto a una concezione religiosa della vita, da cui deriva il senso della responsabilità morale e della solidarietà sociale. L’amore è per lui il vero vincolo sociale, il motivo ispiratore di tutta la sua attività. Egli, in modo assai originale, cercò di realizzare una “ortoprassi” cristiana della politica, basata su un corretto rapporto fra etica e vita teologale, tra dimensione spirituale e dimensione sociale.

In questa prospettiva si comprende come Don Luigi Sturzo sia stato definito da San Giovanni Paolo II «infaticabile promotore del messaggio sociale cristiano e appassionato difensore delle libertà civili» (Discorso nell’Università di Palermo, 20 novembre 1982Insegnamenti V, 3 [1982], 1355). Il mio venerato predecessore ebbe a indicarlo come modello ai seminaristi e ai sacerdoti: « La vita, l’insegnamento e l’esempio di Don Luigi Sturzo – il quale nella piena fedeltà al suo carisma sacerdotale seppe infondere non solo nei siciliani ma nei cattolici italiani il senso del diritto-dovere della partecipazione alla vita politica e sociale, alla luce dell’insegnamento della Chiesa – siano presenti e ispirino il loro apostolato di evangelizzazione e di promozione umana» (Discorso ai Vescovi di Sicilia in Visita “ad Limina Apostolorum”, 11 dicembre 1981Insegnamenti IV, 2 [1981], 907).

Luigi Sturzo, prima che statista, politico, sociologo e poliedrico letterato, era un sacerdote obbediente alla Chiesa, un uomo di Dio che ha lottato strenuamente per difendere e incarnare gli insegnamenti evangelici, nella sua terra di Sicilia, nei lunghi anni di esilio in Inghilterra e negli Stati Uniti e negli anni ultimi della sua vita a Roma.

Nel suo testamento spirituale, redatto il 7 ottobre del 1958, egli scriveva: «A coloro che mi hanno criticato per la mia attività politica, per il mio amore alla libertà, il mio attaccamento alla democrazia, debbo aggiungere, che a questa vita di battaglie e di tribolazioni non venni di mia volontà, né per desiderio di scopi terreni né di soddisfazioni umane: vi sono arrivato portato dagli eventi». E aggiungeva: «Riconosco le difficoltà di mantenere intatta da passioni umane la vita sacerdotale e Dio sa quanto mi sono state amare le esperienze pratiche di 60 anni di tale vita; ma ho offerto a Dio e tutto indirizzato alla sua gloria e in tutto ho cercato di adempiere al servizio della verità».

Il suo insegnamento e la sua testimonianza di fede non devono essere dimenticati, soprattutto in un tempo in cui è richiesto alla politica di essere lungimirante per affrontare la grave crisi antropologica. Vanno dunque richiamati i punti-cardine dell’antropologia sociale sturziana: il primato della persona sulla società, della società sullo Stato e della morale sulla politica; la centralità della famiglia; la difesa della proprietà con la sua funzione sociale come esigenza di libertà; l’importanza del lavoro come diritto e dovere di ogni uomo; la costruzione di una pace giusta attraverso la creazione di una vera comunità internazionale. Questi valori si basano sul presupposto che il cristianesimo è un messaggio di salvezza che si incarna nella storia, che si rivolge a tutto l’uomo e deve influire positivamente sulla vita morale sia privata che pubblica.

A distanza di cento anni dall’Appello “A tutti gli uomini liberi e forti”, il Convegno che si svolge a Caltagirone rimanda a un impegno creativo e responsabile dei cristiani, chiamati a interpretare i segni dei tempi alla luce del Vangelo, per realizzare una prassi sociale e politica animata dalla fede e vissuta come esigenza intrinseca della carità. Penso soprattutto ai giovani, che vanno adeguatamente coinvolti, perché possano portare nuova passione, nuova competenza, nuovo slancio all’impegno sociale e politico. Con questa speranza, auguro che le vostre giornate di lavoro e di riflessione siano proficue e portino frutti abbondanti e duraturi. A tutti imparto di cuore la mia benedizione, chiedendovi di continuare a pregare per me.

Dal Vaticano, 13 giugno 2019

Gli orizzonti selvaggi della società globale

Fonte http://www.associazionepopolari.it a firma di Giuseppe Ladetto

Ho già fatto riferimento al recente volume di Carlo Calenda Orizzonti selvaggi limitatamente alla sua trattazione delle politiche di immigrazione. Credo sia utile prendere in considerazione, sia pure brevemente per ragioni di spazio, il tema centrale del libro riguardante il bilancio della globalizzazione e le insufficienze con cui la classe dirigente di impronta liberal-progressista ha affrontato il fenomeno. Il libro può essere considerato un’efficace sintesi di quel pensiero che cerca di coniugare tecnocrazia e valori liberal-progressisti.

Dopo 30 anni dall’avvento di quella globalizzazione che avrebbe dovuto condurre a un mondo migliore per tutti, si constata che per noi occidentali molto è andato storto. L’Occidente si è indebolito, il suo peso politico ed economico si è ridotto, i suoi valori sono messi in discussione nel mondo intero, mentre è venuto meno il senso di appartenenza ad un’unica civiltà. L’Europa ne ha seguito la parabola discendente con effetti amplificati: priva di identità, morbida, lenta, consensuale, è l’anello debole dell’Occidente.

Il bilancio economico della globalizzazione vede il successo dei Paesi emergenti che hanno realizzato rilevanti incrementi di reddito, quando invece, nei Paesi “ricchi”, la classe media non ha avuto vantaggi e una sua significativa parte ha visto ridursi il proprio reddito, mentre per i ceti popolari sono aumentate le difficoltà e la precarietà. I Paesi occidentali non hanno saputo rappresentare e proteggere quei cittadini (la maggioranza) che hanno sperimentato un peggioramento delle condizioni di vita.

La responsabilità di quanto è accaduto risale a quella classe dirigente di impronta liberal-progressista che ha dominato la scena della prima fase della globalizzazione. Essa infatti ha raccontato i fatti in modo semplificato e unilaterale: la società della conoscenza e della tecnologia è stata presentata come un secondo avvento; la globalizzazione e il progresso tecnologico sono stati descritti come fatti inevitabili che la politica deve solo assecondare; alla politica è stato richiesto di cedere il passo alla tecnica, mentre la competenza doveva restare l’unico requisito del buon politico. Pertanto, agli esseri umani non resterebbe altro che sottomettersi a leggi considerate oggettive (economiche, scientifiche, tecnologiche, psicologiche ed emotive). Ma, osserva Calenda, tutti costoro non hanno capito che, come la storia dimostra, l’uomo è disposto ad arretrare solo fino ad un certo punto, oltre al quale si ribella.

Mentre i leader progressisti si sono assoggettati alla retorica dell’inevitabile e all’ideologia del futuro, i movimenti populisti si sono affermati perché rivendicano il ruolo della politica nel proteggere i cittadini da quanto viene presentato come un cammino obbligato, e il loro messaggio vince perché è rassicurante e fonte di identità. Tuttavia, rileva Calenda, le loro proposte sono un mix di fuga dalla realtà e di ritorno al passato, tali da non essere realizzabili: i rifugi degli sconfitti (nazione, confini, barriere, dazi) sono trincee fragili ancorché, al momento, offrano una protezione almeno psicologica.

La filosofia liberista ripone le sue speranze per il futuro nella crescita economica senza fine prodotta dalla liberazione delle forze di mercato. Ma il progetto universalistico non ha messo in conto l’importanza per l’uomo della tradizione e della cultura, di cui ha progettato lo sradicamento come premessa allo sviluppo e alla pace. Inoltre ha postulato che, all’aumento della libertà individuale, dovesse corrispondere un progresso culturale e sociale di pari valore, senza fornire agli individui gli strumenti culturali per superare l’alienazione che scaturisce da una tale società.

Grave errore della classe dirigente occidentale è stato il non aver compreso che la transizione verso l’economia globale non poteva essere lasciata ai meccanismi automatici del mercato e alle logiche con cui agiscono il capitale e la finanza. Al contrario, Cina, India, Giappone, Corea e Taiwan hanno ottenuto successi accompagnando con una forte presenza dello Stato una apertura condizionata al mercato globale.

Oggi, anche in Occidente, per correggere la rotta della globalizzazione diventa necessario mutare le politiche interne dei Paesi cambiando il rapporto tra Stato e mercato, tra crescita economica e crescita sociale. Ciò richiede che lo Stato ritorni ad essere forte per proteggere chi perde e per allargare il numero dei vincenti. Qui nasce un primo interrogativo. La critica ai percorsi che caratterizzano il cammino della globalizzazione riguarda solo la gestione della fase di transizione o investe anche lo scenario seguente e la natura stessa dei contenuti e degli obiettivi posti sul lungo termine? La risposta sembrerebbe che la critica vada oltre la fase di transizione, ma non è sufficientemente netta e chiara.

L’analisi della situazione fatta dall’autore è ampiamente condivisibile, mentre si fa più complicata la valutazione dei passi successivi da lui proposti. È facile dire che la sfida da parte dei progressisti non sta nel negare l’evidenza, né le ragioni di chi soffre della condizione in cui si trova a vivere, e di chi ha una giustificata paura, ma consiste nel mettere in campo un progetto per una democrazia liberale in grado di proteggere gli sconfitti e gestire le trasformazioni, restituendo allo Stato la capacità di agire. Bisogna definire una strada percorribile.

Calenda fa molte proposte in tal senso, ma non mancano le lacune e le contraddizioni.

1) Questa seconda fase della globalizzazione, secondo l’autore, va giocata insieme da tutto l’Occidente, realizzando un’alleanza tra i Paesi che coniugano le regole di un mercato equo con alti standard sociali e ambientali, sotto la direzione degli Stati Uniti, la cui leadership è vitale per la liberaldemocrazia. Calenda sembra ignorare la geopolitica. Secondo Lucio Caracciolo, fra gli Stati ci possono essere solo alleanze temporanee dettate da motivazioni geopolitiche: mai da affinità ideologica o dei valori sostenuti. Soprattutto non si può ignorare che, da un secolo, gli USA sono ostili a che in Europa si affermi una qualunque potenza (compreso uno Stato unitario) in grado di limitare la loro leadership planetaria, mentre Calenda auspica la creazione di un’unione politica europea per quanto limitata a un nucleo “carolingio” allargato.

2) Fra il neoliberismo e il sovranismo, viene proposta una terza via che contempla la possibilità di gestire la globalizzazione in modo che porti benefici a tutti, non essendo la globalizzazione una forza naturale impossibile da governare. A tal fine, ci vuole un ruolo attivo dello Stato come investitore sociale per superare le categorie di individualismo e collettivismo, mentre deve diventare un monito per tutti che non c’è nessun diritto senza responsabilità. Per ricreare solidarietà sociale, dopo il declino della tradizione, bisogna tenere ben saldi alcuni “pilastri” alla base di una democrazia liberale vincente: a) avere fiducia nel futuro, ma le aspettative devono trovare riscontro nel presente; b) commisurare la velocità dei cambiamenti alla capacità dei cittadini di comprenderli e di adattarsi ad essi; c) salvaguardare e implementare il capitale sociale che rappresenta il patrimonio più importante; d) bilanciare il rapporto tra l’efficienza (delle soluzioni tecniche) e i principi di equità, giustizia e rappresentanza; e) riconoscere il valore del binomio Stato-Nazione, e ciò anche nel sostegno ai valori culturali.

Rilevo che, malgrado le buone intenzioni, si resta sempre nelle logiche di un riformismo che non va al cuore dei problemi. Anche per Calenda, il turbocapitalismo resta il sistema più efficiente nel produrre ricchezza. Pertanto il suo ruolo resta centrale nel tracciare il cammino dello sviluppo, mentre alla politica rimane il compito, mediante lo strumento dello Stato, di riparare i guasti sociali e ambientali che il cambiamento produce e nel contempo di cercare di redistribuire equamente la ricchezza prodotta. Ma le criticità che connotano il nostro tempo (modificazioni climatiche, esaurimento delle risorse, degrado ambientale, disoccupazione strutturale, divario fra Sud e Nord del pianeta che produce migrazioni incontrollate, ecc.) nascono dalle logiche e dalle modalità produttive del turbocapitalismo, dalla tipologia dei consumi e dei modi di vita da esso determinati e non solo dall’ineguale distribuzione della ricchezza prodotta o dall’insufficienza del welfare nel proteggere i perdenti.

3) La democrazia progressista che viene proposta ha alla base la tutela dei diritti individuali, la libertà economica, e lo Stato di diritto. Deve tuttavia ricercare il punto di equilibrio tra Stato e privato, diritti e doveri, comunità e individuo, efficienza e giustizia, democrazia e governance. Osservo, tuttavia, che il punto di equilibrio ricercato deriva anche dal peso delle spinte diversificate dei vari gruppi di interesse, dei ceti o categorie o classi in cui si articola la società. Calenda dovrebbe dirci su quali componenti della società confida per realizzare l’equilibrio desiderato. Come protagonista, pare guardare alla classe media, a suo dire liberale e progressista per natura, ma, oggi, questa è in crisi, cerca protezione ed è particolarmente arrabbiata contro quell’élite liberale da cui si è sentita abbandonata.

4) Chi vive nel Sud del mondo aspira a raggiungere gli standard di consumi e i modi di vita dei Paesi occidentali, e, a tal fine, chi ne ha i mezzi emigra (o cerca di emigrare) verso di essi. Calenda si rende conto che l’estensione delle modalità di vita degli occidentali al Sud del mondo avrebbe un impatto drammatico sull’ambiente, difficilmente sostenibile; ma poi, nelle proposte che fa, se ne dimentica invocando l’inserimento dei Paesi africani in una sorta di mercato comune che inevitabilmente li condurrebbe a ricercare uno sviluppo sul modello europeo (non più sostenibile già in casa nostra).

5) Secondo Emanuele Severino, il dominio della tecnica comporta il tramonto del capitalismo, della morale, dell’umanesimo, della politica e della democrazia. Calenda non si nasconde tale pericolo, ne discute ampiamente, ma finisce per rimuovere la questione affermando che “il compito della politica è governare l’oggi e preparare il domani e non agire sulla base di costruzioni utopistiche o apocalittiche di un futuro lontanissimo e inconoscibile”. Tuttavia i pericoli insiti in una tecnologia sempre meno sotto controllo non riguardano un futuro lontano, ma (come le modificazioni climatiche) sono già presenti.

6) Calenda riconosce l’importanza della questione ambientale e sottolinea la necessità di uno sviluppo sostenibile, ma, come ho già detto in altro articolo, sembra dare per risolto nel medio periodo il problema delle modificazioni climatiche delle quali sottovaluta la portata. Forse, inconsciamente rifiuta di prendere atto di una realtà che, se affrontata seriamente, metterebbe in crisi quel modello di sviluppo che sta comunque alla base delle sue proposte.

I sovranisti e i populisti propongono soluzioni non realizzabili o comunque inefficaci. È un’affermazione ricorrente difficilmente contestabile Tuttavia è lecito chiedersi se sia realistico e percorribile anche il cammino tracciato nel progetto di Calenda, un progetto riconducibile a quanto pensano gli esponenti del mondo economico e tecnologico ancorché l’autore manifesti particolare attenzione alle problematiche sociali e alla tutela di chi resta indietro.

Prendersi cura della Repubblica

Ogni votazione è un grande esercizio di democrazia. Il 26 maggio scorso oltre 400.000.000 di cittadini in 28 Stati europei hanno eletto il Parlamento europeo. Ma in ogni Paese gli elettori si sono sorbiti una campagna elettorale più concentrata sulla politica interna che sui problemi importanti e urgenti della Unione.

Si è consentita una campagna elettorale di sfida fra i soci del contratto di governo invece di incalzarli sul “cambiamento“. In realtà tutte le forze politiche, anche le più europeiste, si sono dichiarate favorevoli ad una Europa diversa. Come? Tranne i candidati più esperti, i leader dei partiti non si sono espressi sui fondamenti del necessario rinnovamento dell’Unione Europea.

Siamo lontani dal Trattato di Roma del 1958, come dall’Europa pensata a Maastricht e da una concezione dei confini e dei dazi dopo Schengen. C’è Trump che vagheggia una Europa indebolita (leggi visita in Gran Bretagna) e Putin che non vorrebbe la potenza più grande economicamente ai suoi confini. Le merci – e le persone – sono globalizzate veramente e varcano ogni confine. Tocca perciò alle classi dirigenti europee – mi verrebbe da dire soprattutto alle ‘sovraniste’ – costruire un sovranità europea: un fisco uguale (perché non ci siano paradisi fiscali anche nel nostro continente), un esercito comune e quindi una politica estera e di difesa comuni, un sistema bancario veramente europeo. Il Trattato di Lisbona è attuale e utile? Perché non sono stati questi i temi della campagna elettorale europea? Forse i leader non conoscono i dossier. In realtà molti obiettivi di politica interna avrebbero trovato un quadro di riferimento e di potenziamento, per esempio, sul salario minimo, sull’energia, ecc.

Personalmente avevo suggerito candidati esperti e con una qualche legislatura alle spalle, perché voglio contare – sperare!- che mettano la loro competenza al servizio del cambiamento. Per questo sono contraria al limite dei mandati, perché alterano il rapporto con gli elettori. Trattandosi di scelte, in un sistema democratico, non si può sottrarre ai cittadini la volontà di valorizzare – come di censurare- gli eletti. Gli eletti devono far contare di più, a Bruxelles, il Parlamento e la Commissione (è, anch’essa, espressione degli eletti) e ridurre il potere del Consiglio dei capi di Stato e di Governo che fanno valere, coi loro veti incrociati, le politiche nazionalistiche invece che comunitarie. Perché non si è fatto sapere in campagna elettorale se si è favorevoli a far cadere la regola del veto? Comunque, occorre leggere attentamente i risultati registrati.

Mi sembra che, tranne i politologi e i sociologi dei dati, i partiti di opposizione stanno ancora dando sulla voce dei due vicepresidenti del consiglio, piuttosto di cambiare registro e ripetere, ripetere e ripetere la propria visione del futuro, quali le scelte, gli strumenti e i finanziamenti per realizzarle. Chi stava con la gente non aveva bisogno di sondaggi per sapere come sarebbe andata. E vale la pena notare che gli elettori sanno votare… si osservino le differenze dei risultati fra quelli delle elezioni amministrative rispetto a quelli delle europee (per imparare la lezione, il PD aveva già i precedenti di Ancona e di Brescia prima di Firenze e Bergamo). La campagna elettorale mi ha portato a riflettere su tre piani, di metodo, di contenuti e di strumenti. Abbiamo un sistema che ondeggia fra bipolarismo e tripolarismo a causa di una legge elettorale finalizzata alle coalizioni. Sono convinta che la architettura elettorale non sostituisce la politica ma certo può condizionarla. Se si vuole sapere a conclusione dello spoglio delle schede chi governerà serve una diversa legge elettorale, marcatamente maggioritaria.

Inoltre se i Partiti, come indica la Costituzione (art. 49), devono “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” devono mantenere una necessaria dialettica rispetto al Governo. La coincidenza del vertice di partito con quelli di governo appiattisce il lavoro di acculturazione ‘partitica’ dell’elettorato, e interrompe la dialettica necessaria con i corpi sociali intermedi. Altrimenti il Governo fa continuamene campagna elettorale e le opposizioni sono schiacciate sul governo. Un conto è il programma di partito, altro quello di governo, sul quale si forma la maggioranza. Diversamente, si altera anche l’ordinato funzionamento delle istituzioni. Si pensi al Primo Ministro che ha nel governo i capi partito: come potrebbe togliere deleghe a un Ministro che non rispetta competenze e funzioni, ed anzi si comporta in modo da sostituirlo? Si tende a copiare sistemi bipartitici anglosassoni lontani dalla nostra tradizione.

E la somma degli incarichi diminuisce la platea delle persone che diffondono e divulgano informazioni, competenza e testimonianze. Il rapporto e il raccordo coi cittadini prevede molta presenza tra e con gli elettori. La Rete amplia e arricchisce i contatti perché raggiunge i cittadini più attenti, ma non può supplire i contatti esperienziali. Gli elettori il 26 maggio hanno lanciato le loro grida di aiuto. Non si può nè governare il Paese nè guidare un partito senza conoscere i dati. L’ISTAT dal 2017 ha fatto conoscere una condizione di disagio generale francamente inaccettabile. La globalizzazione per gli incapienti ha portato esclusione dal lavoro; il 70% delle famiglie non riesce a risparmiare e circa il 42% non riesce ad affrontare una spesa imprevista.

Anche se non è vero che la immigrazione sottrae lavoro e aumenta la criminalità, il politico deve farsi carico di quale è il sentimento del popolo e, soprattutto, attuare scelte che leniscano un grave scontento, che non è ideologico. I dati statistici sono molto molto preoccupanti e invito a verificarli. Sono vuote le culle? Quali le proposte a favore delle famiglie? Asili nido generalizzati, a tariffe coerenti con gli stipendi e gli orari di lavoro dei genitori. La scuola aperta alla comunità, tempo pieno generalizzato per consentire il lavoro dei genitori, ecc. Urgono le risposte perché serve comunque tempo per vedere i primi risultati. Conosciamo l’angoscia delle famiglie in cui appare il drammatico dilemma “dove mettere” una persona avanti nell’età (genitore o parente) e bisognosa di assistenza continua che non ha nessuno cui affidarsi? Il lavoro: primo e fondamentale diritto. Sta cambiando radicalmente e non è del tutto vero che ogni posto liberato con quota 100 sia occupato da un giovane. Urge prepararli a nuovi lavori. E la quota 100? Approvata senza alcun criterio di gradualità ha consentito a decine di migliaia di medici di uscire dal sistema e saranno i più poveri a rimanere senza assistenza sanitaria… per preparare i medici ci vogliono oltre 10 anni!

Ma la riflessione riguarda tutti i dipendenti pubblici! Abbassare le tasse: a chi? I dati del Ministero delle Finanze combinati con quelli della Agenzia delle Entrate raccontano: su 60 milioni di Italiani pagano le tasse poco più di 5 milioni (con redditi da 30.000 euro in su, il 12,8%). Le pagano tutti i redditi fissi e i pensionati. Il 49% non paga tasse. La vera rivoluzione sociale è combattere evasione ed elusione. Si tratta di furto ai poveri e allo Stato. I contribuenti leali finanziano la sanità, la scuola, le infrastrutture, le pensioni, ecc. per coloro che ne usufruiscono e che lavorano in nero e danneggiano le imprese e i cittadini che sono obbligati a pagare di più. Evasione e lavoro nero andrebbero chiamati col loro nome, ‘peccati sociali’.

Ci attende un gravoso e affascinante compito – per tutti, politici e cittadini – di “prendersi cura della Repubblica” (Mattarella), che è anche prendersi cura dell’Europa. Deve essere rifondata e rinnovata con lo spirito e il sogno dei fondatori. Per ora valgono le regole vigenti; è come un condominio nel quale tutti i condomini, anche controvoglia, devono rispettare il regolamento condominiale.

La polemica eccessiva contro il controllo da parte della Commissione sul nostro bilancio e l’irrisione dello spread lanciano messaggi sbagliati ai cittadini perché sono loro a subire i danni di un condominio ‘disastrato’. Sia il politichese che il linguaggio da bar non aiutano le persone a comprendere, quindi a sapere, per poi giudicare. Lo spread in Francia è intorno al 40% e il debito è molto inferiore a quello italiano, per cui non possiamo paragonarci ai Francesi, mentre forse sarebbe vantaggioso allearci con loro, per cambiare le regole. Sarebbero i nostri alleati naturali, ma i governanti italiani contestano Macron e si alleano con i gilet gialli! Più conoscenza della nostra storia comune ci aiuterebbe a slanci di orgoglio e di attivo civismo.

Cambiamenti climatici: Entro il 2050 circa 143 milioni di persone saranno costrette a spostarsi

Una delle zone più colpite dagli effetti del cambiamento climatico è il Corno d’Africa, dove le persone rischiano di vedere la loro situazione aggravarsi ulteriormente. Paesi dove si stima che più del 40% della popolazione sia malnutrita.

In Somalia la lunga stagione di scarsa pioggia, già sotto la media, seguita da quella secca sta avendo un impatto devastante sulla popolazione. Quest’anno, almeno 1,2 milioni di bambini sotto i cinque anni rischiano gravi forme di malnutrizione. Attualmente 1,7 milioni di persone sono in gravi condizioni di malnutrizione.

In Etiopia, dove circa un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà, la situazione non è molto diversa. Le poche piogge cadute hanno provocato il dimezzamento del bestiame con un aumento dei costi dei cereali e di altri alimenti importanti per la sopravvivenza anche dei bambini. Il risultato è che attualmente 8,1 milioni di persone si trovano sull’orlo di una crisi alimentare, 610mila bambini hanno urgente bisogno di cure per combattere la malnutrizione e gli sfollati sono circa 1 milione.

In Kenya sono almeno 1,1 milioni le persone che non riescono a procurarsi il cibo. Ad oggi, più di 540mila bambini tra i 6 mesi e i 5 anni hanno avuto bisogno di cure contro la malnutrizione acuta grave.

“L’impatto dei cambiamenti climatici ha delle cause dirette sulla scarsità di cibo e acqua, ma ne può avere di devastanti a causa delle emergenze ambientali che ne scaturiscono, come le alluvioni come la recente che ha devastato intere zone del Mozambico. In tali situazioni, i bambini, sono ancora una volta i più vulnerabili, devono abbandonare le proprie case, viene loro spesso precluso l’accesso alla scuola, si ammalano perché costretti a vivere in ambienti insalubri, esposti al rischio di abusi e spesso separati dalle loro famiglie”, ha commentato Valerio Neri, Direttore Generale di Save the Children.

MedSeaLitter: plastiche sulla flora marina, un impatto devastante

I risultati del progetto MedSeaLitter sono stati appena illustrati a Roma, nel corso di una giornata dedicata al progetto finanziato con fondi Ue per oltre 2 milioni di euro, realizzato attraverso una rete di collaborazione tra Aree marine protette, supportate da istituti di ricerca, associazioni ambientaliste e università di quattro Paesi dell’Unione (Italia, Spagna, Francia e Grecia), che ha permesso di sviluppare per la prima volta un protocollo condiviso di monitoraggio sui rifiuti marini e i loro effetti nel Mar Mediterraneo. Le rilevazioni effettuate con un drone hanno permesso poi consentito di registrare sottocosta una densità di oggetti che varia da 34 a 40 elementi ogni chilometro quadrato. Questi dati emergono dall’analisi di oltre 4.700 immagini registrate ad una quota variabile che va da 20 a 65 metri sul livello del mare.

Gli oggetti galleggianti più frequenti provengono dal settore pesca e da quello legato al cibo: il 23% sono cassette di polistirolo, il 16% bottiglie di plastica, il 15 frammenti di oggetti non riconoscibili, il 13 % buste di plastica e l’11% frammenti di polistirolo. Il progetto ha messo a punto anche metodologie di analisi dei contenuti stomacali del biota per verificare la presenza di microframmenti di plastica grazie alle attività dei partner di MedSeaLitter in collaborazione con i centri di recupero tartarughe marine e le reti di monitoraggio degli spiaggiamenti. Anche questa metodologia viene messa ora a disposizione delle Aree marine protette.

Per le rilevazioni sono stati oltre 20.000 i chilometri di transetti di mare percorsi, di cui circa 1.600 con piccole e medie imbarcazioni e quasi 19.000 chilometri con grandi imbarcazioni (traghetto); 6.500 gli oggetti galleggianti registrati (tra il 13 e il 25%) e i rifiuti dovuti ad attività umane (tra il 75 e l’87%), di cui la maggior parte (tra l’80 e il 90%) composto da polimeri artificiali (plastica), mentre il restante è composto da carta (circa 3%), e poi vetro, metallo e tessuti. I monitoraggi per testare la metodologia di osservazione dei rifiuti sono stati effettuati nel periodo che va da febbraio 2017 a dicembre 2018 nel Mediterraneo (Costa spagnola, Golfo del Leone, Amp Capo Carbonara, lungo transetti transfrontalieri in Mar Ligure, Mar di Sardegna-Baleari, Mar Tirreno, Canale di Sardegna e Sicilia, Mar Adriatico e Ionio). Nello specifico, in alto mare tramite traghetto, sono stati percorsi oltre 23.500 chilometri (per un totale di 2.088 chilometri quadrati) su rotte che percorrono il Mediterraneo (Ancona-Patrasso, Civitavecchia-Barcellona, Livorno-Bastia, Palermo-Tunisi, Tolone-Ajaccio, Tolone-Ile Rouse, Cagliari-Palermo) e sono stati registrati 4.859 rifiuti con dimensioni maggiori di 20 cm, con una densità media variabile da 1 a 10 rifiuti ogni chilometro quadrato percorso.

Lungo la costa invece, i monitoraggi sono stati effettuati con piccole o medie imbarcazioni dalle quali è possibile avvistare anche i rifiuti di minori dimensioni. Sugli oltre 1.600 chilometri percorsi sono stati avvistati 1.415 rifiuti con dimensione maggiore di 2,5 cm, per una densità che, secondo le stime, può arrivare sino a 600 oggetti per chilometro quadro di mare. Il monitoraggio ha riguardato anche i rifiuti galleggianti alla foce del fiume Tevere. In questo caso, durante l’anno di osservazioni sono stati registrati 1.442 oggetti, con una media che varia da 76 a 95 oggetti all’ora, di cui l’85% con dimensione compresa tra 2,5 e 20 cm e il restante superiore a 20 centimetri. La comparazione tra i dati relativi agli oggetti maggiori di 20 centimetri in zone di alto mare, con quelli costieri e alla foce di un corso d’acqua come il Tevere conferma un gradiente che aumenta andando sottocosta fino alla foce dei fiumi, dimostrando che le foci sono gli input principali della dispersione dei rifiuti in mare e che le azioni di mitigazione devono considerare anche le aree dell’entroterra e non solo quelle costiere.

MedSeaLitter è un progetto europeo cofinanziato dal Programma Interreg Med, guidato dal Parco nazionale delle Cinque Terre, che vede collaborare Ispra (Italia), Università di Barcellona (Spagna), Università di Valencia (Spagna), Medasset (Grecia), Hellenic Centre for Marine Research (Grecia), Area marina protetta di Capo Carbonara (Italia), Ecole Pratique des Haute Etudes (Francia), EcoOcean (Francia) e Legambiente (Italia).

Nella sanità del Lazio si apre una grande stagione di concorsi

Nei primi sei mesi del 2019 la Regione Lazio ha avviato le procedure per reclutare 1.904 unità di personale che entrano in servizio nel Sistema sanitario regionale. Di queste 702 unità derivano dalla mobilità nazionale sono cioè medici ed infermieri che a causa del blocco del turn over erano andati in altre regioni e ora possono tornare nel Lazio e i restanti 996 da procedure concorsuali. Nello specifico si tratta di 851 unità tra medici e sanitari e di 1.053 unità del comparto.

 “Stiamo facendo fatti e non parole mettendo in campo uno sforzo straordinario per implementare gli organici e garantire l’assistenza sanitaria del territorio. Nel Lazio si è aperta una grande stagione caratterizzata da concorsi, stabilizzazioni e grandi investimenti infrastrutturali”- parole di Alessio D’Amato, assessore alla Sanità e l’Integrazione Sociosanitaria.

Mattarella, il garante di tutti.

Già pubblicato su Huffingtonpost

Ci sono fasi storiche dove la presenza di una figura istituzionale autorevole è semplicemente il riferimento di tutti gli italiani. Di norma, e nelle stagioni politiche più complesse, il punto di riferimento per moltissimi cittadini, a prescindere dalle loro appartenenze politiche e culturali, è stato il Presidente della Repubblica. Certo, molto dipendeva dalla personalità, dal profilo e dal contesto storico con cui si doveva convivere.

Ma, per fermarsi all’oggi, è indubbio che il magistero politico ed istituzionale di Sergio Mattarella in questi anni si è contraddistinto non solo per la sua fedeltà costituzionale ma si è caratterizzato anche e soprattutto per la sua autorevolezza morale ed istituzionale. La sua imparzialità non è mai stato un atto d’ufficio o un semplice atto protocollare ma una esperienza vissuta concretamente nell’esercizio del suo mandato. Del resto, e al di là degli indici di gradimento che vengono sfornati dai vari sondaggisti, è sufficientemente noto che Mattarella in questi anni ha saputo diventare, con il suo stile sobrio e con il suo rigore istituzionale, il punto di riferimento per la larghissima maggioranza degli italiani. E questo è un aspetto importante soprattutto nella fasi storiche che registrano – o auspicano – un profondo cambiamento politico e di costume.

Periodicamente si cerca, però, attraverso escamotage vari, di offuscare questo ruolo e questa funzione. Ma l’intransigenza morale e istituzionale del Presidente della Repubblica sono, al riguardo, semplicemente esemplari e qualunque polemica è del tutto fuori luogo. Soprattutto in questa fase politica turbolenta e confusa. È a tutti noto, del resto, che assistiamo ad una contrapposizione politica e ad una radicalizzazione che ha contribuito a riportare indietro di molti anni le lancette di una fisiologica e legittima dialettica democratica. Una contrapposizione che ricorda quella stagione antica degli “opposti estremismi” che aveva come unico obiettivo quello di annientare non l’avversario ma il nemico politico. Altroché la stagione del “confronto” e del “dialogo” tra i vari partiti che ha caratterizzato altre stagioni politiche. Comunque sia, è proprio in un contesto come quello che viviamo ormai da molti anni che si rende necessaria e preziosa la presenza di figure, o di una figura nel caso specifico, che sappia essere punto di riferimento per tutti. A prescindere, appunto, dalla stesse e radicali appartenenze politiche, ideologiche, culturali e territoriali. Certo, molti auspicano un quadro politico che sia meno esposto al vento dell’instabilità permanente e della crescente radicalizzazione tra i vari attori in campo. Ma questa speranza, seppur da molti auspicata, finisce per cozzare contro gli orientamenti elettorali degli italiani che premiano, per il momento, soluzioni che hanno come epilogo quello di destabilizzare ultimamente lo stesso quadro politico.

Tuttavia, un sistema politico-istituzionale regge nella misura in cui i nodi vengono sciolti anche attraverso l’autorevolezza e la statura di chi rappresenta la più alta carica istituzionale. E, sotto questo profilo, dalla sua elezione ad oggi, questo ruolo è stato assolto con sobrietà, equilibrio e senso delle istituzioni dal Presidente Sergio Mattarella.