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venerdì, 9 Maggio, 2025
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“Il Giardino delle Meraviglie. Opere dell’artista Garth Speigh” alla Casina delle Civette Musei di Villa Torlonia

Non è ovvio dipingere la natura. Se poi si tratta di materializzare lo spirito del Giardino della Casina delle Civette, l’impresa si fa molto interessante e complessa. Ci ha provato con successo l’artista Garth Speight con la mostra “Il Giardino delle Meraviglie. Opere dell’artista Garth Speight”, mirabile sintesi delle due anime, la sua e quella romana di Villa Torlonia.

“Il Giardino delle Meraviglie”, ospitata alla Casina delle Civette di Villa Torlonia fino al 19 gennaio 2020, ha l’obiettivo di far conoscere l’universo artistico del Maestro, da sempre abituato ai paesaggi verdi della sua terra di origine, il Canada, attraverso 50 dipinti in acrilico nei quali campeggia la Natura tra uccelli acquatici, ninfee, iris bianchi e blu, fiori di campo, boschi di betulle, crisantemi.

La mostra è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, e dal Museo Parigino a Roma si avvale del Patrocinio dell’Ambasciata del Canada in Italia, della collaborazione dell’Associazione Respiro Verde Legalberi.

Ori, argenti, colori dei fiori, del cielo, del cuore sono alla base della sua pittura. Ma non solo. La sua arte non è riproduzione ma interpretazione, è un prodotto della mente, della memoria, della sua sbrigliata creatività. Le superfici incise a dare un effetto di rilievo e il colore che avviluppa le linee quasi geometriche sono gli ingredienti dei suoi quadri, che con la luce possono apparire come delle vetrate multicolori o intricati mosaici.
L’artista non propone solo dipinti ma anche ciò che li racchiude, le cornici che lui crea ad hoc per ogni quadro col quale divengono un tutt’uno. È lui stesso ad affermare di voler pensare ai suoi quadri come a “finestre” attraverso cui guardare e non solo vedere.

Garth Speight è nato e cresciuto a Toronto (Canada) dove si è laureato in Belle Arti presso la York University. Da oltre 40 anni vive e lavora tra il Canada e l’Italia, ma ha anche viaggiato estesamente in vari paesi Europei. Nei primi tempi in Italia si è dedicato allo studio delle tecniche della pittura medioevale, realizzando una serie di opere dedicate alle storie della Bibbia. A questa serie appartiene il quadro “Il sacrificio di Isacco”, che è entrato a far parte della collezione d’Arte Moderna dei Musei Vaticani. Successivamente, l’artista ha lavorato a nuove esperienze: dai boschi russi e canadesi ai piccoli paesi in Italia e nel sud della Francia, dai canali e ponti di Venezia alle rovine di Roma antica, dagli edifici di una Toronto ormai sparita ai tetti e scorci di Parigi e infine alle nature morte. L’artista, inoltre, lavora personalmente alle cornici in modo che ciascuna sia parte integrante del quadro.
Garth Speight ha fatto numerose mostre sia personali sia di gruppo in varie città in Italia e in America: Roma, Assisi, Salerno, Toronto, New York, Miami, Los Angeles, Montreal. I suoi quadri sono in collezioni private e pubbliche in Canada, Australia, Africa, Cina, USA e in Europa.

Torino: trapianto combinato di 4 organi su un solo paziente

Per la prima volta in Europa è stato effettuato un trapianto combinato di ben quattro organi (polmoni, fegato e pancreas).

L’intervento è stato eseguito all’ospedale Molinette di Torino su un uomo di 47 anni, affetto da una grave forma di fibrosi cistica. L’operazione, durata oltre 15 ore, è tecnicamente riuscita: la funzione degli organi trapiantati è ripresa regolarmente.

Il paziente si trova ora in rianimazione.

I 40 anni della Caritas di Roma e il ricordo di Don Luigi Di Liegro

Nella basilica di San Giovanni in Laterano con una Santa Messa è stato festeggiato il 40° anniversario della fondazione della Caritas diocesana di Roma. Il Cardinale Vicario Angelo De Donatis ha presieduto la celebrazione nella chiesa lateranense, gremita dalle persone ospiti delle strutture Caritas, oltre a autorità istituzionali, personalità della politica, dell’associazionismo, dell’imprenditoria, del sindacato, operatori e volontari, e tanti amici della Caritas. Nel corso dell’omelia, commentando il brano del Vangelo secondo Luca, De Donatis, tra l’altro, ha detto: “Sogno che nelle nostre comunità i poveri diventino sempre più, materialmente, il centro delle nostre assemblee liturgiche, siano messi nelle condizioni non solo di essere assistiti ma ascoltati, accolti, riconosciuti nella loro piena dignità di persona” e rivolgendosi agli operatori e ai volontari: “La vostra vocazione è quella di essere fermento e lievito nelle nostre comunità. Non c’è delega per nutrire gli altri, non c’è delega per la carità.”

Verso la conclusione dell’omelia, il Cardinal Vicario ha ricordato Don Luigi Di Liegro, un grande e convinto applauso si è levato in basilica, fondatore e primo direttore della Caritas Diocesana, scomparso il 12 ottobre 1997. “Lo ricordiamo sempre con tanto affetto e riconoscenza – ha detto – e voi operatori e volontari, sulla scia profetica del nostro carissimo don Luigi, credete che il regno di Dio si edifichi oggi, qui, nel presente. Non smettete di costruire sentieri e cammini di giustizia sociale ed equità chiedendo e cercando di restituire la dignità alle persone”

E’ sempre utile ricordare come è nata la Caritas italiana. Fondata nel 1971, per volere di Paolo VI, per opera di di mons. Giovanni Nervo, nello spirito del rinnovamento avviato dal Concilio Vaticano II, ha prevalentemente una funzione pedagogica per far crescere nelle persone, nelle famiglie, nelle comunità, il senso cristiano di solidarietà.

Che cosa è la Caritas di Roma? Oltre lo spirito conciliare, nella Città Eterna, sono stati dirimenti anche le conclusioni del Convegno diocesano del febbraio 1974, definito impropriamente sui “ Mali di Roma”, che ha favorito la nascita dell’organismo pastorale. Oggi, facendo riferimento solo all’attività del 2018, attraverso le 337 parrocchie e nei luoghi dove la comunità cristiana può incontrare e farsi carico delle persone in difficoltà, è sintetizzata in questi “piccoli grandi numeri”: più di 4000 volontari per accogliere nelle mense oltre 11 mila persone; ospitare 2 mila senza dimora, famiglie, vittime di tratta e violenza; curare 4mila malati indigenti, incontrare e sostenere 15 mila detenuti. Ancora, grande impegno delle parrocchie per dare”ascolto” a 21 mila famiglie. Solo nello scorso anno sono stati oltre 385 mila i pasti distribuiti, 210 mila i pernottamenti offerti, 13 mila le prestazioni sanitarie effettuate e 52 mila le visite domiciliari a malati e anziani. Questo l’insieme della presenza Caritas di Roma, attraverso 52 opere – segno – dagli ostelli alle comunità, dalle case famiglia alle mense sociali – che operano con i 146 centri di ascolto parrocchiali.

Inoltre va ricordato che la Celebrazione Eucaristica è stata concelebrata dal Cardinal Agostino Vallini, vicario emerito del Papa e dai Vescovi Ausiliari della Chiesa di Roma. Erano presenti, tra gli altri, il Presidente della Regione Lazio, gli ex sindaci Rutelli e Alemanno e la Presidente del 1° Municipio Alfonsi. Infine Don Benoni Ambarus, direttore della Caritas di Roma, ha ringraziato gli operatori “ a nome dei tanti bisognosi che hanno bussato alle porte dell’organismo pastorale”.

Nel ricordare i cardinali Poletti, Ruini e Vallini che hanno accompagnato la Caritas durante il loro mandato, Don Benoni, ha ringraziato i suoi predecessori monsignor Guerino Di Tora e monsignor Enrico Feroci, che “hanno tramandato con grande passione e grande fede” l’azione profetica di don Luigi. “Solo il Signore conosce le miriadi di gesti, segni e azioni concrete di carità vissute in questi 40 anni”, e ha concluso: “ Solo Lui ha visto le lacrime asciugate e i sorrisi dati da Caritas, che è sempre al servizio della Chiesa e della città di Roma”.

Nell’ultima pagina del libretto, predisposto per seguire la celebrazione della Santa Messa per il 40° anniversario della Caritas, è riportato un pensiero di don Luigi Di Liegro, che ancora oggi fa riflettere: “ Quando la città produce emarginazione non è più una comunità. Troppe volte parliamo della città come comunità, ma possiamo parlare di comunità quando non si esclude nessuno, quando non ci sono categorie forti e categorie deboli.” Un pensiero che conferma l’attualità delle intuizioni del fondatore della Caritas di Roma.

L’identità di Gesù

Da oggi tutti sappiamo – credenti e non – le generalità di Gesù. Ce le ha rivelate, con una buona dose di azzardo, Radio Maria. L’emittente ha pubblicato sulla propria pagina Facebook la carta d’identità di Nostro Signore: Cognome: Il Nazareno; Nome: Gesù; Nato a: Betlemme (Palestina) il 25 dicembre; Residenza: Cielo, Terra e ogni luogo; figlio di Maria e Fratello del mondo. Trovata originale?

Può darsi. E invece, è il caso di dirlo, apriti cielo! Le polemiche in rete si sono fatte furibonde, tra picchi di ironia e critiche durissime per quella che potrebbe configurarsi come ridicolizzazione della figura di Gesù Cristo. Il quale, da Lassù, starà certamente sorridendo delle nostre misere discussioni su iniziative che sanno più di ossessionata ricerca dell’originalità, piuttosto che di consapevole irriverenza.

(Fonte MyPegaso)

Manovra: Italiani, 1 su 2 è con Greta

Il 90% degli italiani è d’accordo sul fatto che ognuno di noi possa fare molto per proteggere l’ambiente ma il Paese si divide a metà (51%) sul sostegno della giovane attivista svedese Greta Thunberg e delle sue battaglie per l’ambiente. E’ quanto emerge dalla prima indagine Coldiretti/Ixè su “La svolta green degli italiani” nel 2019 presentata al Forum internazionale dell’agricoltura a Cernobbio dove è stato aperto il primo “Salone dell’Economia Circolare” con le dimostrazioni pratiche delle esperienze piu’ innovative delle imprese legate al Green New Deal della manovra economica del Governo con gli interventi salva clima.

Il 44% degli italiani si impegna nella lotta al cambiamento climatico anche riducendo gli acquisti di prodotti con imballaggi eccessivi contro i quali la finanziaria prevede un bonus per i negozianti che attrezzano spazi dedicati alla vendita di prodotti sfusi o alla spina, alimentari e per l’igiene personale Oltre la metà dello spazio della pattumiera nelle case – sottolinea la  Coldiretti – è occupato da scatole, bottiglie, pacchi con i quali sono confezionati i prodotti della spesa con l’agroalimentare che è il maggior responsabile della produzione di rifiuti da imballaggio che oltre all’impatto ambientale ha una incidenza notevole sui prezzi.

Spesso gli imballaggi costano infatti più del prodotto sia in quanto componente ma anche per il fatto che – riferisce la Coldiretti – aumentano il peso da trasportare. La sensibilità ambientale è in crescita, ma esiste anche la consapevolezza che non tutti hanno lo stesso livello di preoccupazione per la salute del pianeta. Infatti – spiega la Coldiretti – più di 1 italiano su 3 (36%) ritiene che in genere le persone si comportino male o siano poco attente all’ambiente con un 8% ancora più pessimista che le giudica per niente attente.

Il 44% degli intervistati tende poi ad avere una visione né troppo pessimista e neppure totalmente ottimista, ma prevale il pragmatismo con la considerazione che l’italiano medio agisca a volte bene e a volte con maggiore trascuratezza nei confronti dell’ambiente. Se poi si guarda alle scelte che ognuno è disposto a fare per tutelare l’ambiente – evidenzia la Coldiretti – esiste una schiacciante maggioranza del 72% che sarebbe disposta a ridurre gli spostamenti in auto, scooter e motocicletta mentre più di 6 su 10 (64%) potrebbero rinunciare all’aria condizionata., mentre sul fronte della gestione dei territori per il 52% ritiene urgente potenziare la raccolta differenziata che sarebbe la scelta preferita da 8 italiani su 10 (80%) rispetto alla presenza di un termovalorizzatore. Per migliorare la situazione ambientale il 59% degli italiani ritiene che siano necessari interventi radicali e urgentissimi sullo stile di vita. Tra le produzioni energetiche sulle quali dovrebbe puntare il nostro Paese 7 italiani su 10 (71%) si schierano per quella solare, 1/3 (32%) punterebbe sull’idroelettrico e un altro 10% sulle biomasse.

Mentre il 61% si dice molto o abbastanza favorevole a sovvenzionare le rinnovabili: dal fotovoltaico al biogas. Gli incentivi del biometano – sottolinea la Coldiretti – dovrebbero prevedere bonus o meccanismi in grado di premiare l’origine agro-zootecnica della materia prima e tenere in debito conto le differenze, in termini di costi di gestione, rispetto all’impiego dei rifiuti. Anche l’applicazione delle tecnologie in grado di facilitare il trasporto del biocarburante dal luogo di produzione al luogo di distribuzione (liquefazione), da parte delle imprese agro-zootecniche che operano distanti dalla rete o dagli impianti di distribuzione, dovrebbe essere opportunamente oggetto di sostegno.

“Sfruttando gli scarti agricoli delle coltivazioni e degli allevamenti – spiega il Presidente di Coldiretti Ettore Prandini – i mini impianti per il biometano possono arrivare a coprire fino al 12% del consumo di gas in Italia. È necessario passare da un sistema che produce rifiuti e inquinamento – conclude Prandini – verso un nuovo modello economico circolare in cui si produce valorizzando anche gli scarti con una evoluzione che rappresenta una parte significativa degli sforzi per modernizzare e trasformare l’economia italiana ed europea, orientandola verso una direzione più sostenibile in grado di combinare sviluppo economico, inclusione sociale e ambiente”.

 

 

LE SCELTE SALVA AMBIENTE DEGLI ITALIANI

Mangiare solo prodotti km zero e di stagione 85%
Ridurre utilizzo auto, scooter e moto 72%
Spegnere l’aria condizionata 64%
Spendere di più per prodotti bio 59%
Evitare vacanze con viaggi in aereo 54%
Rinunciare a pannolini per bambini e assorbenti 40%

Fino a che punto servono schiaffi e sculacciate ai figli?

Il deputato verde John Finnie del Parlamento scozzese di Edimburgo sarebbe forse stato un politico destinato all’oblio o all’ordinaria amministrazione della cosa pubblica se non avesse dato la stura ad una campagna di sensibilizzazione contro le punizioni corporali dei genitori sui figli, coinvolgendo larghi settori dell’opinione pubblica come lo Scottish National Party (Snp) di Sturgeon e alcune ong per la tutela dell’infanzia, oltre a godere del consenso politico dei laburisti e dei socialdemocratici. Poiché il governo scozzese può contare su una solida maggioranza parlamentare è assai probabile che la proposta di mettere al bando schiaffi, sberle e buffetti – sinora ammessi dalla normativa attuale che negli Stati del Regno Unito autorizza un uso “ragionevole” della forza in famiglia per educare e punire i figli – possa diventare legge e cambiare quindi una lunga tradizione di moderato autoritarismo domestico tipico della mentalità anglosassone. D’altra parte risulta che già in altri Paesi il ricorso alle punizioni corporali per “raddrizzare” comportamenti poco consoni o inclini all’obbedienza da parte dei figli minori sia stato stigmatizzato e rimosso.

Tra i sostenitori della “non violenza” fisica c’è una lista di 51 paesi già da tempo contrari a qualsiasi forma di punizioni corporali considerate inutili o peggio dannose. La prima a schierarsi contro le sculacciate domestiche, era stata la Svezia nel 1979. Seguita nel 1983 dalla Finlandia. Quindi negli anni sono arrivati la Tunisia, la Polonia, il Lussemburgo, l’Irlanda, l’Austria e molti altri Stati in tutto il mondo. Ultimi della lista, nel 2016, Mongolia, Paraguay e Slovenia. Nel 2014 è toccato alla nostra vicina di casa, la Repubblica di San Marino, mentre nel 2017 si è aggiunta la Francia.

Pare tuttavia che le tradizioni nel Regno di Sua Maestà la Regina resistano ai tentativi di innovazione e cambiamento: da alcuni sondaggi emerge infatti che la maggioranza della popolazione della Scozia non vedrebbe di buon occhio una sanzione nei confronti dei genitori che infliggono pur lievi punizioni corporali, nei limiti delle abitudini di crescita ed educazione familiare finora consolidate e tollerate come esercizio di una potestà genitoriale legittimata.

E’ di tutta evidenza che una legge che ne interrompesse la consuetudine comporterebbe una valutazione sotto il profilo penalistico e civilistico: nel primo caso in quanto il fatto costituirebbe un reato, nel secondo potrebbe formalizzare un motivo di controllo dell’esercizio della responsabilità genitoriale.

Finora da noi il problema – in questi termini di iniziativa legislativa – non si è posto: ma la fantasia dei governanti di turno, che oscilla tra sentimenti di buonismo e integrazione fino a prevedere la rimozione dei crocifissi dalle aule o di mettere nel ripieno dei tortellini la carne di pollo per non urtare la suscettibilità di chi professa altre fedi (senza contare l’abolizione di presepi e canti natalizi) , al disegno di legge che ingloba nello stato di famiglia gli animali domestici o che prevede la tassazione di merendine e chinotti per pagare lavagne e scuole pericolanti, per induzione comparativa potrebbe presto portare il problema di schiaffi e sculacciate sui tavoli sontuosi delle trattative sindacali o nelle aule parlamentari, prima che la loro riduzione numerica non ne smorzi l’iniziativa politica.

In un periodo in cui tutti si stanno sforzando di lasciare un segno del proprio passaggio politico, a cominciare dall’ipotesi di anticipare il diritto di voto (elettorato attivo) ai sedicenni (senza motivarne una sostanziale ragione visto che – come mi scrive una docente di diritto- “i nostri adolescenti non hanno alcuna conoscenza della Costituzione.  Non conoscono le funzioni, i poteri, i modi di elezione, la composizione degli organi costituzionali,  in particolare del Parlamento e del Governo e del Presidente della Repubblica.  E tantomeno conoscono i programmi dei partiti politici. Non sanno niente di Economia e di teorie economiche, dell’importanza della legge di Bilancio e delle proposte alternative dei partiti per risolvere i problemi di politica interna ed internazionale”) è altamente probabile un largo schieramento parlamentare anti-sculacciate.
Si aspetta dunque l’incipit di qualche deputato o senatore che si alzi nell’emiciclo per richiamare i principi pedagogici della Montessori, di Maria Boschetti Alberti, Pestalozzi e- perché no – dello stesso Rousseau che stavolta godrebbe di un consenso pressochè unanime senza far ricorso alle consultazioni on line della democrazia virtuale.
Al bando dunque schiaffi, sberle, sculacciate per non andare oltre, d’altra parte lo suggerisce il comune buonsenso. Se si predica la non violenza è bene cominciare da casa, a condizione che non accada l’inverso: che siano i ragazzi a pestare i genitori per poi estendere questa crociata di emancipazione libertaria agli insegnanti e ai presidi, espressione di un potere autoritario da abbattere.

Nonostante la presenza di un Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, dei garanti regionali e persino comunali nessuno finora ci aveva pensato. Ma di cosa si occupano i Garanti mentre i bambini vengono sculacciati e gli adolescenti presi a scappellotti?
Se pensiamo alla nostra giovinezza qualche sberlone ce lo ricordiamo ma onestamente non possiamo attribuirgli disagi emotivi tali da provocare distonie comportamentali o una vita infelice.

Al bando i metodi forti ma tra quelli (quasi tutti) che uno schiaffo l’hanno preso per essere rientrati a casa alle 4 del mattino – se uno ha preso in mano le redini della propria vita ed è maturato diventando adulto – la maggior parte serba in cuor suo gratitudine per qualche brusco richiamo della mamma o del papà Soprattutto del padre, una figura in via di estinzione sul piano educativo familiare.
Finora, dicevo, esiste solo una Sentenza di Cassazione che mette al bando le punizioni corporali come metodo correttivo.

Facciamoci bastare quella e usiamo il buon senso: le botte non servono a nulla, spesso la mano è pesante e lascia il segno se non si passa – purtroppo – anche alle violenze fisiche vere e proprie.
Soffriamo di “bulimia legislativa”, non mi pare necessario un articolato normativo di una ventina di commi che escluda schiaffi, sberle, calci e quant’altro c’è nell’armamentario educativo dei genitori autoritari ma non autorevoli.

Riprendiamo piuttosto una sana abitudine in disuso: il dialogo. Parlare ai nostri figli, ascoltarli, perdonarli, correggerli senza mettere loro le mani addosso, vivere la famiglia come un luogo di affetti e relazioni non di conflitti palesi o latenti. Dare il buon esempio.
Anche il pedagogista Jean Jacques Rousseau sarebbe d’accordo.

Oggi a Roma la marcia per ricordare la deportazione degli ebrei.

Sono passati 76 anni dal 16 ottobre 1943, quando, durante l’occupazione nazista di Roma, oltre 1.000 ebrei romani furono presi e deportati nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Solo un esiguo numero, 16 persone, tra cui una sola donna, tornarono alle loro case. La Comunità di Sant’Egidio e la Comunità Ebraica di Roma, come ogni anno dal 1994, ricordano questo tragico momento della vita della città con un “pellegrinaggio della memoria”.

La marcia silenziosa per le vie di Trastevere e del quartiere ebraico sarà accompagnata dai cartelli con i nomi dei campi di concentramento nazisti e si concluderà presso il Portico d’Ottavia (Largo 16 ottobre 1943) con gli interventi di rappresentanti delle Comunità e delle istituzioni.

La partenza della marcia è a Piazza Santa Maria in Trastevere, alle ore 19:30.

Una proteina contro i tumori del polmone

Una proteina che sembra avere un ruolo fondamentale nell’attivazione del sistema immunitario contro i tumori del polmone. Lo hanno dimostrato i ricercatori dell’Università di Brescia e dell’Istituto Humanitas con uno studio che è stato pubblicato su Cancer Immunology Research, rivista dell’American Association for Cancer Research (AACR) che al lavoro, tutto italiano, dedicherà la copertina di novembre.

Questa proteina – spiegano i ricercatori – si chiama CCRL2 ed è presente sulla superficie di svariati tipi di cellule. In particolare nel polmone, è espressa dall’endotelio vascolare (cioè il tessuto che riveste l’interno dei vasi sanguigni) sulla cui superficie lega un particolare fattore essenziale per il richiamo di alcune cellule (chiamate Natural Killer) in grado uccidere le cellule tumorali.

Guerra Siriana: Espressioni barbariche

Una nota dolente, una pagina mesta. Quando si deve trattare di un conflitto umano si cade, inevitabilmente, nella tristezza. Siamo alle porte del mondo occidentale, lì, dove il varco vorrebbe essere accettato dal continente europeo: nella Turchia che ha un piccolo piede sulle terre Occidentali e l’intero corpo disteso nel Medio Oriente.

Una Turchia a tutti gli effetti strettamente imparentata con le potenze Atlantiche. Un esercito tra i più equipaggiati, dotato di aerei e di mezzi corazzati come fosse una Nazione europea. Questo gigante se la prende da ieri con un popolo disperso che, assieme agli americani, aveva eroicamente combattuto e vinto l’Isis.

Val la pena ricordare che il paese di Erdogan sulla vicenda del conflitto con gli estremisti islamici ha sempre mantenuto un atteggiamento ambiguo. Non così i Curdi. E val ancora ricordare che nei territori Siriani abitati dal popolo Curdo è tutt’ora presente una prigione con centinaia e centinaia di miliziani dell’Isis che, come sappiamo, avevano in mente di distruggere l’Occidente.

Il nostro sguardo non ha certo scordato quelle terribili immagini di coltelli che barbaramente assassinavano inermi prigionieri europei caduti sotto la loro volontà. L’Europa non può starsene in silenzio di fronte a questo. A maggior ragione se ricattata.

Questo mio piccolo contributo vuole solo significare che, per quanto non possa incidere granché, deve avere quanto meno il merito di ricordare qual è lo spirito che anima tutti i popoli europei: contro qualsiasi conflitto che sia un conflitto di espansione.

L’Europa accetta solo il conflitto per difesa, non per offendere altri popoli. Adesso, sollecitiamo, ciascuno per la propria piccola parte, la nostra coscienza a fare tutto il possibile, non solo perché non cadano vittime innocenti, i civili, ma perché non si veda il massacro di bombe, di cannonate, di mitragliate rivolte comunque verso altri uomini.

I Curdi hanno un’unica colpa, quella di essere dispersi in diversi territori ed essere pertanto deboli ed indifesi. Verso gli indifesi bisogna sempre levare un grido di aiuto e soprattutto azioni concrete perché non subiscano il maltrattamento dei più forti.

Rete Bianca sul documento di Stefano Zamagni

Rete Bianca, Politica Insieme e Costruire insieme hanno firmato prima di ferragosto un documento comune. Alcuni ne hanno tratto motivo per enunciare l’avvenuta costituzione di un soggetto politico. Sappiamo che il percorso richiede un supplemento di prudenza, per non cadere nel velleitarismo. Intanto, sotto la regia di Stefano Zamagni, è stato redatto in questi giorni un nuovo documento. Vedrà la luce a breve. Da parte sua, Rete Bianca ha voluto predisporre una nota con la quale si articola, per fare chiarezza, il motivo di adesione al suddetto documento. Anche se anticipa la divulgazione del testo principale, la nota di Rete Bianca merita di trovare spazio già ora sul sito del “Domani d’Italia”.

Da tempo la nostra cultura, nella dimensione politico-istituzionale, è circoscritta alla testimonianza dei singoli: vive in forma collettiva solo nel prezioso ambito della società civile.

Ma l’emergenza posta dalla crisi della democrazia – nella sua dimensione comunitaria e nella sua vocazione alla giustizia sociale –  ci interpella con domande profonde e richiede una rinascita della Politica in tutte le sue ispirazioni ideali.

Senza questo risveglio delle culture e delle idealità, i messaggi del populismo e della destra – verso i quali “degasperianamente” manteniamo una insuperabile alternativitá – non si sconfiggono.

Sappiamo tuttavia che i paradigmi sono cambiati e non ha senso alcuno riproporre formule del passato. Anche la forma della rappresentanza e dei partiti deve essere oggi ripensata e rigenerata.

Per questo, oggi non intendiamo ricercare affiliazioni di sorta o soluzioni improvvisate e di fragile costrutto.

Vogliamo invece avviare un percorso nuovo, tutto da costruire, nelle proposte e nelle forme.

Vogliamo prima di tutto dare voce politica autonoma ad una Comunità di ideali e di pensiero.

E, attorno ad essa, a partire dalle dimensioni locali e dalle reti già attive, organizzare una proposta politica orientata al futuro.

Guardiamo all’azione del nuovo Governo e osserviamo le evoluzioni del quadro politico avendo a cuore la salvaguardia di un argine ai diversi populismi, con il ripudio della destra anti europeista e xenofoba. Dentro questo perimetro di solidarietà ideale e politica coltiviamo l’ambizione di nuove “sintesi popolari”, partendo dalla formazione di un movimento aperto al futuro.

Pensiamo che il nostro Paese è ancora alla ricerca di un nuovo equilibrio, capace di dare vera rappresentanza alla società e autentica risposta nel segno del servizio al Bene Comune.

Il nostro percorso intende porsi in questa prospettiva, con autonomia e disponibilità alla cooperazione politica.

Il sovranismo del due di coppe!

Silvio Berlusconi ha affermato qualche giorno fa che il ‘sovranismo’ è una ideologia stupida. Una dichiarazione simile, è chiaro che oltre a rispecchiare le sue idee, probabilmente è stato anche un modo di dare una stilettata ai suoi ‘fratelli coltelli’, Meloni e Salvini, che notoriamente rappresentano quella posizione politica.

Ma Berlusconi secondo me ha ragione a metà sulla stupidità del sovranismo. Ad esempio, combattere la battaglia sovranista per l’Italia, o per qualsiasi altro piccolo paese, non ha senso. Infatti la sovranità popolare, intesa come potere della democrazia sulle decisioni che riguardano la propria comunità nazionale, ma da lungo tempo svilita dalla espansione a dismisura del potere su scala mondiale della finanza, ha un significato preciso altamente politico. Tant’è che questa situazione inedita nella storia delle democrazie, le uniche nazioni che hanno in qualche modo qualche possibilità di salvaguardarsi, sono quelle più grandi: USA, Repubblica Cinese, Repubblica Indiana, Russia ed altre ancora di dimensioni demografiche e territoriali importanti. Dunque la sovranità popolare, gli italiani, come gli altri popoli del vecchio continente, riusciranno salvaguardarla solo se dovessero davvero dotarsi di uno Stato a dimensione continentale: gli Stati Uniti d’Europa.

In questo caso, noi italiani che nei nuovi equilibri mondiali, non abbiamo voce, riusciremmo a riconquistarla. Ecco, in questo senso, il sovranismo riferito a piccole entità statuali, è una stupidità: conterebbero quanto il due di coppe quando la briscola è a denari. E però significativo che proprio i cosiddetti sovranisti non fanno mistero della loro opposizione alla costruzione definitiva della Unione Europea, e magari coltivano sodalizi con potenze straniere avverse all’Europa per la sola ragione che se dovesse progredire politicamente e militarmente, i loro sodali perderebbero gran parte della loro influenza sulle vicende mondiali.

Generazioni: tra conflitto e sostenibilità

In un recente saggio di Giovanni B. Sgritta e Michele Raitano dal titolo “Generazioni: tra conflitto e sostenibilità”, pubblicato su “La rivista delle politiche sociali” – gli autori prendendo atto della ciclicità del tema – ne sottolineano la specificità inedita correlata alle dinamiche del presente, rapportandole ai temi che le caratterizzano nel secondo dopoguerra: la rivoluzione demografica, l’indebolimento dei sistemi di welfare, il declassamento dei titoli di studio, l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro e le sue tutele, i cambiamenti in atto nella famiglia. L’assenza di politiche giovanili e il convogliamento degli investimenti nella terza e quarta età hanno di fatto creato le condizioni per una divaricazione in termini di diritti e di fruibilità, sofferta come precipua condizione di disagio e di difficoltà di accesso al mondo del lavoro da parte dei giovani. Un gap che ha reso la precarietà il correlato speculare antropologico del nostro tempo.

Se nel 1951 (primo censimento del dopoguerra) i giovani fino ai 19 anni erano il 26,5 % del totale, nella proiezione del 2020 arrivano appena al 17%; viceversa gli ultra65enni che allora erano l’8,25 si preannunciano triplicati al 23%, così che l’indice di vecchiaia risulta in tendenza parimenti triplicato e quello giovanile dimezzato, mentre l’incidenza della povertà assoluta tra gli under 34 anni è del 9,6% (del 16,3 quella relativa) contro rispettivamente il 4,6% e il 10% degli over 65. L’analisi delle cause di queste divergenze induce gli autori della ricerca a soffermarsi sulla svolta iniziata nella prima metà degli anni 70, in coincidenza con il venir meno dei presupposti che avevano costruito lo stato sociale nella fase di crescita economica: l’equilibrio demografico, la piena occupazione e la stabilità familiare.

Ciò che avrebbe determinato lentamente un riorientamento delle scelte della politica in rapporto ai pesi demografici di giovani e anziani: a motivo del calo delle nascite e dell’allungamento della vita la popolazione era infatti destinata ad invecchiare. Iniziava una lenta deriva di trasferimento delle risorse dalla popolazione lavorativa a quella inattiva che avrebbe portato ad una riduzione della produttività e della crescita economica (possiamo aggiungere fino all’attuale stagnazione e all’incipiente recessione). Significativo l’esempio del sistema previdenziale che si basa sul trasferimento di risorse tra chi le produce- perché lavora – e chi le riceve in modo differito in quanto inattivo. Questo implica una sorta di “patto intergenerazionale” che prevede che questo travaso di risorse sia rispettato anche per le generazioni future, ipotizzando un equilibrio tra produzione e stabilità della composizione dei rispettivi ambiti demografici.

Ma – come abbiamo visto- l’allungamento della vita e l’invecchiamento della popolazione creano un surplus di percipienti rispetto all’area della produttività, ciò che determina a carico di quest’ultima un’erosione del reddito per compensare la copertura delle rendite differite degli inattivi. I decisori politici degli anni 50/70 puntando, per finalità di consenso elettorale, ad una riproducibilità per gli anni a venire del sistema di protezione sociale degli inattivi hanno di fatto cristallizzato quella generazione come beneficiaria di una condizione sociale irripetibile, creando le basi della crisi del sistema e delle sue distorsioni. Gli autori parlano di una sorta di “Weltanschauung” (visione del mondo) fondata sul sovraccarico delle famiglie e delle donne, che ha prodotto calo delle nascite, permanenza dei giovani in statu pupillari (cioè a carico dei genitori), ulteriore squilibrio demografico, freno della mobilità e ostacolo al lavoro femminile. Sostiene M.Ferrera che in quegli anni (50/70) la nostra politica sociale “era imbevuta di maschilismo, familismo e pensionismo”, a differenza di Francia, Germania e Olanda che realizzarono “opzioni universalistiche”, cioè assegni familiari a tutti specie a tutela dei minori (vedasi, oggi, i nostri REI e reddito di cittadinanza).

La difesa della famiglia come centro di imputazione dell’economia domestica, osservano gli autori, faceva leva sulla prevalente cultura cattolica, sulla concezione familistica della donna e sulla forza solidaristica delle reti parentali. A fronte di ciò la politica scelse una via generosa nella concessione delle pensioni di anzianità – si ricordi il fenomeno delle baby pensioni- con una visione miope della sostenibilità del sistema, ma con un ritorno cospicuo in termini di consenso elettorale. Come sostiene E. Fornero – nella citazione riportata dagli autori – «l’uso politico della previdenza sociale è particolarmente agevole nei sistemi a ripartizione», che celano il rischio di scelte «dettate più da ragioni di convenienza politica di breve periodo che non dal rispetto del contratto intergenerazionale implicito nel sistema» (E.Fornero “Chi ha paura delle riforme”, 2018).

Quella stagione di “euforia previdenziale”(abbandono precoce del lavoro, età pensionabili basse, base retributiva del calcolo…) avrebbe prodotto secondo Monti e Spaventa (“Quanto costerà entrare in Europa”,1992) maggiori tasse e contributi, minore occupazione, minori servizi e minore crescita, con condizioni più onerose per i nuovi entrati nel mondo del lavoro, spezzando il “patto intergenerazionale” che sta alla base di un sistema riproducibile e sostenibile. Ma – come evidenziano Sgritta e Raitano- la questione generazionale va oltre “l’ingegneria della stato sociale e le logiche previdenziali”. in quanto legata a fenomeni culturali, sociali e familiari, alla stagione dei “diritti”, alle rivendicazioni, alle identità, alle aspettative e agli stili di vita di giovani, donne e anziani. Contò molto il ’68, il mutamento percepito dai giovani per gli anni a venire, la contestazione al sistema, il travaglio di un’epoca che finiva e che faceva di essi le «vittime predestinate» delle sue contraddizioni” (Sgritta, 2000, in “Politiche demografiche e sociali, p. 749). Cambiava il metabolismo generazionale, colpendo le fasce deboli, poi la piccola e media borghesia, quel ceto medio il cui fallimento è consistito nel negarsi il presente, proiettando le speranze sulla prole, sul futuro, sul merito scolastico, sulla fiducia nel valore del capitalismo culturale (Bourdieu, 1983), sulla fiducia che “il sistema” dei benefici e del welfare si sarebbe perpetuato ai nuovi ingressi nel mondo del lavoro.

Ma lo stato sociale continuava l’opera di protezione della generazione dei padri, mentre il letto di Procuste del welfare andava restringendosi fino a diventare inospitale per quella dei figli, legati alle risorse dell’economia familiare, sconfiggendo la visione spontaneistica del “tutto andrà come prima”. E qui subentra la parte più pregevole della ricerca, quella che spiega che l’alternanza generazionale non è un fatto ciclico che si avvicenda secondo paradigmi ripetibili, poiché ciò avviene mentre mutano il contesto, la vita sociale, i diritti e i doveri, le aspettative, le logiche dei mercati e quelle della competizione e che quell’”una tantum” che si sperava ripetibile rischia di diventare “una semper”.

Le logiche autoreferenziali e solidaristiche di tipo familistico non sono più duplicabili in un contesto sociale aperto e mutato, le tutele non sono le stesse, poiché si può accentuare la disuguaglianza delle opportunità di partenza e di riuscita, aggiungere precarietà a precarietà fino al ‘familismo forzato’ (Morlicchio e Pugliese, 2015) e all’eredità patrimoniale consolidata come fattore di discriminazione sociale. Ciò che gli autori chiamano ‘effetto cicatrice permanente’ potrà rendere i giovani svantaggiati di oggi degli adulti e degli anziani poveri domani. Una globalizzazione del disagio generazionale che sarebbe miope ridurre a un conflitto padri-figli, poiché è in gioco la sostenibilità di un modello sociale e l’immaginazione di uno diverso e migliore.

Ignazio Silone. L’avventura di un grande cristiano

Articolo apparso sull’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Elio Guerriero

Verso la fine degli anni Sessanta lessi la Storia della Cina di Franco Martinelli che culminava con l’epopea della lunga marcia dell’armata rossa guidata da Mao. Successivamente divorai Uscita di sicurezza e L’avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone. Due visioni opposte del comunismo nella tensione tra grandezza e miseria, tra aspirazioni alla giustizia e repressione staliniana di ogni forma di libertà. Dopo il successo de L’avventura, peraltro, partecipai in qualche modo allo spettacolo teatrale che venne ricavato dal romanzo. 

Studiavo allora a Roma al collegio di sant’Anselmo sopra l’Aventino e qui vennero a registrare il coro di canto gregoriano che doveva servire da colonna sonora. Nacque allora il desiderio di incontrare Silone. Con incoscienza giovanile riuscii a procurarmi il suo numero di telefono e lo chiamai per chiedergli un appuntamento. Silone accettò di ricevermi a casa sua in via di Villa Ricotti al quartiere Nomentano e, nonostante la sua fama di uomo burbero e solitario, fu gentilissimo. 

Mi raccontò della sua origine, della sua grande ammirazione per don Orione di cui in Uscita di sicurezza aveva tracciato un ritratto mirabile. A mia volta gli narrai dei miei studi di teologia, dei tanti aspetti de L’avventura di un povero cristiano che sembravano vicini alle riforme auspicate dal Vaticano II. Non negò Silone questa vicinanza, al contrario mi raccontò che dopo la pubblicazione del romanzo veniva spesso invitato in istituzioni cattoliche. Ricordava poi divertito un episodio che gli era capitato qualche tempo prima. 

Chiamato a presentare L’avventura in un liceo, aveva dato il suo assenso. Quale era stata la sua sorpresa nel trovarsi di fronte un uditorio di suore, professoresse del liceo! Dal punto di osservazione del relatore con i loro abiti neri e bianchi gli erano sembrate uno stormo di rondini cinguettanti che al suo ingresso si ammutolirono rispettose. Un’altra volta, invece, era stato al centro culturale san Fedele dei padri gesuiti a Milano, invitato dall’indimenticabile padre Alessandro Scurani. Qualche critico gli rimproverò allora che, avendo iniziato con il partito comunista, aveva finito per accasarsi con i gesuiti. A sua volta replicò che se gli garantivano identica libertà di parola sarebbe ritornato volentieri anche a Mosca. 

Al primo incontro ne seguirono altri di carattere sempre più amichevole. Lui era interessato ai miei studi e mi raccomandava di studiare le minoranze religiose presenti in Italia. Io cercavo di approfondire il suo interesse per Gioacchino da Fiore, Celestino v, i frati francescani, gli spirituali che desideravano una Chiesa povera, libera dal potere e dalle ricchezze. Dietro le due figure dell’abate calabrese e del Papa che aveva fatto il grande rifiuto vi era, tuttavia, soprattutto l’utopia pacifista di Silone, la sua avversione per le manovre dei grandi che vanno sempre a danno dei poveri e dei cafoni, degli umili del Vangelo. 

Nei dialoghi tra Papa Celestino e il cardinale Caetani, il futuro Bonifacio VIII, che già tramava per succedere al Papa fraticello, emergevano le due concezioni diverse della Chiesa che si contrapponevano nel romanzo come nell’immaginario di noi studenti di teologia. Mentre Celestino trovava terribile che la Chiesa fosse organizzata come uno stato, il cardinale pensava alla Chiesa come un superstato; mentre il Papa non riconosceva altri rapporti che quelli delle anime, per il cardinale la Chiesa era un potenza che va governata con tutte le finzioni e gli accomodamenti necessari. 

Al Papa che gli confessava di credere solamente al Pater noster e al Vangelo, il cardinale rispondeva drastico: «Non si governa con il Pater noster». Fu così che, arrivato al termine degli studi, nacque in me l’idea di una tesi sullo scrittore abruzzese a partire da quella che egli chiamava l’eredità cristiana. Vi confluivano alcune tematiche emerse al concilio, così come in versione laica alcune delle utopie all’origine della rivolta degli studenti. Da una parte vi era la piena accettazione, anzi la radicalizzazione di alcune istanze cristiane, dall’altra una critica rancorosa verso la Chiesa e verso ogni forma di istituzione. L’utopia del regno di Dio veniva intesa come via per realizzare una fraternità senza regole e senza costrizioni. Cristo, secondo Celestino, non aveva portato delle nuove regole di governo, ma alcune apparenti assurdità: «Amate la povertà, amate gli umiliati e offesi, amate i vostri nemici, non preoccupatevi del potere, della carriera, degli onori, sono cose effimere, indegne di anime immortali». 

Su queste tematiche lo scrittore aveva riflettuto negli anni oscuri del suo esilio in Svizzera dove erano parimenti rifugiati scrittori ed intellettuali come Thomas Mann, Bertolt Brecht, Robert Musil, Martin Buber. Il legame più stretto era stato proprio quello con lo scrittore ebreo. Sotto il suo influsso, Silone si accostava alla Bibbia e si sforzava di trasmetterne i contenuti nei suoi romanzi, attraverso scene di vita improntate all’universo patriarcale e ascetico dei contadini. Anche gli intellettuali in rivolta tra i quali il più riuscito era Pietro Spina di Vino e pane si allontanavano per qualche tempo da questo humus ma disillusi dalla militanza politica e partitica vi ritornavano per ritrovare autentica, umile e pacifica compagnia. 

Dopo la morte dello scrittore avvenuta a Ginevra nel 1978 sono stati pubblicati alcuni scritti che testimoniano di alcuni contatti poco edificanti dello scrittore con la polizia fascista. Non è certo una storia edificante ma va ricordato che anche di questo vi era traccia in Vino e pane nella vicenda di Luigi Murica, un giovane abruzzese studente a Roma. Arrestato dalla polizia fascista perché sospettato di appartenenza al partito comunista, aveva finito per cedere davanti alle angherie dei poliziotti. In cambio della libertà, ad essi inviava dei rapporti il più possibilmente generici sull’attività clandestina. Nauseato di se stesso, era poi fuggito da Roma e si era rifugiato in Abruzzo presso la sua famiglia dove ritrovava serenità nel lavoro dei campi e nella compagnia dei cafoni. Venne infine arrestato e ucciso dalla polizia fascista. 

Basta questo a giustificare i contatti di Silone? Certamente no. Una scusa in parte plausibile potrebbe essere il suo desiderio di aiutare il fratello Romolo, l’unico parente che gli era rimasto dopo il tragico terremoto del 1915. Lo scrittore aveva forse accettato quella forma di blanda collaborazione per salvare il fratello arrestato come comunista. Questo non dovrebbe, tuttavia, gettare il discredito su un’opera che resta una testimonianza drammatica delle vicende del secolo ventesimo. Dichiarava Albert Camus in una intervista rilasciata subito dopo che gli era stato attribuito il premio Nobel: «Guardate Silone, che parla a tutta l’Europa. Se io mi sento legato a lui è perché egli è nello stesso tempo incredibilmente radicato nella sua tradizione nazionale e anche provinciale». 

La solidarietà umana, la fraternità dei poveri e la carica di millenarismo presente nella sua opera restano un lascito di rilievo.

Il Piemonte e gli angeli della semplificazione

In Piemonte arrivano gli ‘angeli della semplificazione’, 50 esperti formati dalla Regione che avranno il compito di aiutare i Comuni e gli ordini professionali nell’iter di digitalizzare e modernizzazione. L’annuncio è arrivato dall’assessore regionale alla Delegificazione Roberto Rosso, durante la presentazione e l’avvio dei lavori del Tavolo di coordinamento regionale per la semplificazione. In Piemonte, infatti, hanno preso il via il 7 ottobre i lavori del Tavolo di coordinamento regionale per la semplificazione.

Ogni sei mesi ciascuna sezione dovrà produrre un disegno di legge da sottoporre alla Giunta e poi al Consiglio regionale, per eliminare norme considerate inutili o desuete. Anche i singoli cittadini potranno partecipare a questa grande operazione di snellimento, scrivendo all’indirizzo mail rosso.semplificazione@regione.piemonte.it, indicando il problema, le norme di riferimento, la proposta di intervento e i soggetti che ne beneficeranno.

Ma la novità più rilevante annunciata da Rosso è l’introduzione a breve dei cosiddetti “Angeli della Semplificazione”, 50 fra dipendenti delle Province e giovani usciti dalle Università piemontesi, appositamente formati dalla Regione, incaricati di affiancare gli enti locali e le associazioni nell’opera di digitalizzazione e modernizzazione delle procedure.

Ed ancora, quando si tratterà di assumere un particolare provvedimento, saranno organizzati stage di tre settimane per i funzionari regionale nelle associazioni di categoria, ordini o imprese, per costruire insieme a loro una norma che sia davvero utile e incisiva per i destinatari.

Con i rifiuti abbiamo toccato il fondo

Con i rifiuti abbiamo “toccato il fondo”: più del 70% di quelli marini è depositata nei fondali italiani e il 77% è plastica. Il mare di Sicilia, con 786 oggetti rivenuti e un peso complessivo superiore ai 670 kg, conferma la sua collocazione tra le discariche sottomarine più grandi del Paese, seguita dalla Sardegna con 403 oggetti nella totalità delle 99 cale e un peso totale di 86,55kg.

La situazione varia da area ad area e in base alle zone monitorate: nei fondali rocciosi, dai 20 ai 500 m di profondità, le concentrazioni più alte di rifiuti sul fondo si rilevano nel Mar Ligure (1500 oggetti per ogni ettaro), nel golfo di Napoli (1200 oggetti per ogni ettaro) e lungo le coste siciliane (900 oggetti per ogni ettaro).

 

Walter Ricciardi è il nuovo presidente del “Mission board on cancer”

Walter Ricciardi è stato nominato presidente del ‘Mission board on cancer’ della Commissione europea che gestisce un fondo da 20 miliardi di euro, messo a disposizione dal Parlamento europeo e dagli Stati membri, per ricerca e interventi sociali e clinici contro i tumori.

Ricciardi succede a Harald zur Hausen, premio Nobel per la Medicina, che per motivi personali ha annunciato le sue dimissioni dal vertice del board. Professore di igiene e sanità pubblica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, Ricciardi è stato presidente dell’Istituto superiore di sanità.

Centro sinistra, si riparte da zero.

L’ex centro sinistra, in Italia, riparte – sempre che riparta – sostanzialmente da zero. Oggi, di fatto, non c’è più. L’alleanza strategica che molti nel Partito democratico vogliono fare con il partito di Grillo e Casaleggio – qualche autorevole dirigente parla addirittura di una fusione tra i due partiti – getta un futuro negativo per una alleanza politica e una coalizione programmatica che ha segnato, con la sua politica, la stessa evoluzione della democrazia italiana. Una coalizione che ha saputo esprimere, nelle diverse fasi storiche, un pensiero e una prassi fortemente democratica, riformista e nel pieno rispetto delle indicazioni costituzionali.

Ora, la nuova fase politica che si è aperta all’insegna del trasformismo, rischia di far accelerare definitivamente ed irreversibilmente la fine del centro sinistra. Se la spinta antisistema, demagogica e populista dei 5 stelle viene sposata acriticamente dal Partito democratico, non potremmo che salutare definitivamente l’alleanza di centro sinistra come un fatto storico e da consegnare agli storici per le loro ricerche accademiche e culturali. Siamo, cioè, ad un bivio decisivo per il futuro del riformismo politico e di governo nel nostro paese. Ecco perché, allora, almeno su due aspetti, si tratta di chiarire se si vuol recuperare sino in fondo la tradizione, la cultura e la storia del centro sinistra o se, al contrario, si accettano la logica e la prassi del trasformismo. Una tesi, questa, cara ai Del Rio di turno che, per il mantenimento e la conquista del potere, sono disposti a fare qualsiasi operazione politica.

In primo luogo, quindi, va respinta in modo chiaro e senza equivoci la deriva demagogica, populista e trasformistica. Se questi elementi sono e saranno la nuova bussola che orientano il comportamento dei partiti che virtualmente sostengono di rifarsi ancora al centro sinistra, sarà perfettamente inutile continuare a blaterare di coalizione riformista, democratica e progressista. Sarebbe un puro esercizio retorico e del tutto virtuale. E’ inutile girarci attorno.

In secondo luogo il centro sinistra può rinascere e consolidarsi solo se saranno visibili un centro e una sinistra. Sembra una affermazione semplice e persin banale ma è indubbio che con il tramonto definitivo della cosiddetta “vocazione maggioritaria” del Partito democratico la coalizione può ridecollare solo se sarà in grado di rimettere insieme partiti, movimenti e gruppi politici. Appunto, una coalizione plurale e vasta. Ma, soprattutto, una alleanza che sappia rendere visibile l’articolazione pluralistica – culturale, politica e programmatica – su cui poggia una alleanza come il centro sinistra. Lo diceva recentemente a Torino Massimo D’Alema durante un convegno organizzato dalla Fondazione Italiani Europei. E cioè, con rara semplicità e lucidità, il centro sinistra può avere una prospettiva e un futuro solo saprà riscoprire le ragioni politiche del centro riformista e democratico e le ragioni politiche della sinistra riformista e democratica. Serve, cioè, riscoprire le culture politiche e i rispettivi programmi di governo che alimentano e giustificano la presenza del centro e della sinistra. Cioè del centro sinistra.

Ecco perché siamo arrivati ad un bivio: o, adesso, si cede alle ragioni del populismo e della demagogia dei 5 stelle o si inverte, seppur faticosamente, la rotta e si ricreano le ragioni per il rilancio di una coalizione. Si tratta di una scelta politica. Basta dirlo, e farlo, con chiarezza e senza equivoci.

Eutanasia

Abbiamo aspettato a lungo e abbiamo constato che la legge sul suicidio assistito non è arrivata in tempo. Aspettiamo e vediamo come andrà con quella sull’eutanasia Come ha scritto Giovanni Bianconi sul Corriere, l’imperdonabile ritardo è la certificazione dell’incapacità delle Camere di “assumersi quella responsabilità che la Corte costituzionale ha sollecitato un anno fa”. La Corte ha dunque giudicato come aveva promesso l’anno scorso. L’articolo 580 del codice penale, istigazione al suicidio, applicato al caso di Dj Fabo, assistito da Marco Cappato nella sua ultima volontà di farla finita, è incostituzionale. Su questo tema si apre quindi un capitolo nuovo e diverso.

Il silenzio del Parlamento, interrotto da pallide geremiadi che nessuno ha ascoltato, fanno pensare, fanno temere però che sulla stessa più grande questione della “fine vita” (che chiamano “il” fine vita, come fanno parlando “del” weekend) non vi siano in campo idee e proposte se non quelle radicali di chi tira dritto verso la legalizzazione dell’eutanasia.
Gli altri, impietriti, trascorso un anno nell’illusione che qualcosa si muovesse, si erano aggrappati a un’ultima speranza e, colta l’occasione della replica di Giuseppe Conte nel dibattito sulla fiducia al suo secondo governo, gli avevano chiesto di fare lui qualcosa. Il presidente, come in primavera a Parigi Macron, aveva obiettato: non sono io, ma voi gli unici a poter affrontare questo problema. Allora gli stessi senatori chiedevano alla presidente del Senato, Elisabetta Casellati, di garantire la Corte che un prossimo, anche se assai tardivo intervento parlamentare su questo tema avrebbe potuto risparmiare la sentenza. I proponenti, insomma, avevano chiesto al loro presidente di fare la classica telefonata che allunga la vita, senza ottenere nulla.

Certo, l’inoperoso silenzio delle Camere non è dipeso soltanto da una maggioranza parlamentare favorevole all’eutanasia e che dunque considerava tatticamente la scontata sentenza della corte un passo in avanti in questa direzione. Sull’inerzia del Parlamento hanno contato anche l’assenza di idee e di proposte degli ambienti contrari.
L’ex presidente della Consulta Cesare Mirabelli ha osservato che “in ogni argomento che riguarda la vita e la morte si manifestano convinzioni e sensibilità diverse. Tuttavia dovrebbe essere comune a tutti l’impegno ad una concreta espressione di solidarietà nei confronti della persona sofferente.”

Questo è già di per sé un programma che dovrebbe essere condiviso dalle diverse parti, ma proprio l’offerta di concreta solidarietà ai sofferenti è mancata nel dibattito, non vastissimo e purtroppo di non grande qualità, sulla “fine vita”.
Circa la qualità, notiamo che da parte “cattolica” si è partiti, ed anche arrivati, avendo come base la proposta di legge Pagano-Turri sul suicidio assistito. Gli autori sono parlamentari della Lega. Il primo dei due ha coraggiosamente abbandonato Berlusconi e Forza Italia all’indomani dell’exploit elettorale di Salvini. L’altro firmatario, leghista sperimentato, insieme alla proposta sul suicidio assistito con il suo collega Pagano ha anche sottoscritto quello dell’altro leghista Bitonci per la riapertura delle “case chiuse”.
Le non frequenti riunioni indette sul tema dalla Cei, la Conferenza episcopale del cardinal Bassetti, non sono riuscite ad elevare il livello di quel dibattito. Gli intervenuti erano perlopiù seconde o terze file di partiti e movimenti di destra: a quei raduni non si sono visti né Salvini, il quale pure avrebbe potuto esibire in luogo appropriato i suoi oggetti di culto, né Berlusconi, né Giorgia Meloni.

Meno ancora presenti quelli di sinistra, non c’era Renzi, non c’era Dario Franceschini soltanto per citare leader “cattolici” di quel ramo. Cosa troppo delicata e impopolare esprimersi su questo tema. Per questo capi e dirigenti di prima fascia, quelli che soli contano ormai nelle decisioni parlamentari, non hanno lambito la porpora di Bassetti. Ancor più visibile l’assenza a queste discussioni di quegli intellettuali, devoti non atei e atei devoti, studiosi del cristianesimo come filosofia e prassi, ammiratori di un pontificato che c’era e avversari di quello che c’è.

Il papa ha più volte dichiarato che “non esiste un diritto a disporre arbitrariamente della propria vita”. Il presidente della Cei, Gualtiero Bassetti non ha dubbi. Per lui “va negato che esista un diritto a darsi la morte.” Posizioni che avrebbero dovuto aprire un dibattito nel paese, obbligare a iniziative di chiarimento e di confronto con l’opinione pubblica gli organismi ecclesiastici che se ne dovrebbero occupare: la commissione della Cei “per la famiglia, i giovani e la vita”, che ha tra le sue competenze la “difesa e promozione della vita” e la Pontificia Accademia per la vita, fondata da Giovanni Paolo II e di recente rifondata da papa Francesco.

Se quel silenzio non l’hanno rotto loro, se queste autorità ecclesiastiche non sono fin qui riuscite a individuare e metter all’opera intelligenze ed energie in grado di parlare con i sostenitori della via più diritta, l’eutanasia, ci si può chiedere perché mai avrebbero potuto farlo parlamentari sconosciuti?
Molti, in quello che si chiamò il mondo cattolico, si sarebbero accontentati di una “brutta legge”, convinti che questa soluzione sarebbe stata meglio di una sentenza della Corte costituzionale. Ottimisti costoro, a una brutta legge potrà sempre seguire una pessima legge.

Oltre 3.700 lingue attendono ancora la traduzione della Bibbia. Quando manca la Parola.

Articolo pubblicato sull’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Charles de Pechpeyrou

Sulle 7.100 lingue parlate nel nostro pianeta, oltre 3.700 — comprese le lingue dei segni — non hanno alcuna traduzione delle Sacre Scritture. Eppure, «abbracciare la diversità linguistica» può favorire «un arricchimento e un approfondimento della nostra comprensione della Parola di Dio, incarnandola nelle varie culture». Ne è convinto il teologo Alexander Markus Schweitzer, che ha esposto le sue opinioni sulle sfide legate alle traduzioni bibliche in un’intervista diffusa dal sito del Consiglio ecumenico delle Chiese in occasione della recente Giornata internazionale della traduzione, istituita dall’Onu nella ricorrenza di san Gerolamo, al quale si deve la Vulgata in latino. Schweitzer nel 2008 era stato nominato da Benedetto XVI esperto per il Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio, la cui importanza nella vita e nella missione della Chiesa è stata ribadita dai Pontefici, in particolare dopo il concilio Vaticano II e la pubblicazione della Costituzione dogmatica Dei Verbum. La rilevanza della lettura delle Sacre Scritture nella vita quotidiana dei fedeli, come è noto, è stata ultimamente sottolineata anche da Papa Francesco, che ha istituito la Domenica della Parola di Dio con la lettera apostolica in forma di motu proprio Aperuit illis pubblicata il 30 settembre. Finora, indica Schweitzer, l’intera Bibbia è stata tradotta in 700 lingue, ci sono oltre 1.100 traduzioni di parti di essa, come ad esempio i Vangeli, i Salmi e alcuni altri testi, mentre oltre 1.500 lingue hanno traduzioni del Nuovo Testamento.

Fortunatamente, «nonostante il fatto che una traduzione dell’intera Bibbia o del Nuovo Testamento richieda diversi anni, ci sono centinaia di lingue che ricevono una prima traduzione ogni anno», rileva il teologo tedesco, che è anche direttore esecutivo del Bible Ministry e direttore della Global Bible Translation presso la rete internazionale United Bible Societies. Tra le traduzioni realizzate lo scorso anno dell’intera Bibbia figurano lingue come il lusamia-lugwe (Uganda-Kenya, 650.000 parlanti), il kalanga (Botswana, 142.000), il rote (Indonesia, 30.000), il malto (India, 51.000). Il Nuovo Testamento è stato tradotto in northern waray (Filippine, 632.000), blin (Eritrea, 112.000), korku (India, 550.000), lemi (Myanmar, 12.000).

Nel corso del 2018, le Società bibliche del mondo intero hanno contribuito al completamento delle traduzioni in 66 lingue utilizzate da 440 milioni di persone. Occorre tuttavia molto tempo per pubblicare le Sacre Scritture in nuove lingue. «La traduzione della Bibbia affronta sfide su più livelli», afferma Schweitzer. Dal punto di vista culturale, i testi biblici riflettono culture specifiche del Vicino oriente antico, e «poiché le realtà culturali spesso non si traducono facilmente in altre culture, i traduttori affrontano una sfida costante, provando a preservare i caratteri distintivi culturali semitici che fanno parte del messaggio biblico, e allo stesso tempo a trasmettere concetti che abbiano senso per la cultura del recettore».

Inoltre, dal punto di vista linguistico la Bibbia «presenta molti generi letterari diversi e molte lingue non hanno letteratura in alcuni generi letterari che sono contenuti nella Bibbia». Una seconda sfida linguistica ha a che fare con il vocabolario teologico. «Termini chiave come redenzione, perdono, colpa, levirato, non esistono in molte lingue», ricorda il teologo tedesco. «Come tradurli quando non esiste un equivalente letterario o teologico?».

Altra sfida, le tradizioni e le teologie delle Chiese, che esercitano un’influenza notevole sul processo di traduzione. «Questo fenomeno diventa evidente quando una traduzione è stata effettuata in una lingua in passato e una teologia si è sviluppata a partire da questa traduzione», spiega il biblista. Spesso, «la traduzione precedente è ritenuta come un “pseudo-originale”, il che complica decisamente i cambiamenti di approccio per una nuova traduzione». Infine, bisogna tener conto delle difficoltà amministrative, che comprendono la questione dei finanziamenti e in particolare «la necessità di riunire la domanda, i desideri, i bisogni locali, così come le idee e i desideri dei donatori». Un’immersione nelle realtà locali, suggerisce Schweitzer, permetterà a questi ultimi — che spesso arrivano con la mentalità del Vecchio mondo — di capire meglio la complessità delle traduzioni della Bibbia e le peculiarità di ogni situazione

Brexit: Boris Johnson cerca di scongiurare il “No Deal”.

Il primo ministro britannico Boris Johnson ha fatto appello all’omologo irlandese Leo Varadkar in un ultimo tentativo per salvare il suo piano per un nuovo accordo tra Regno Unito e Ue sulla Brexit, prima della scadenza del 31 ottobre.

Anche se Leo Varadkar, aveva già dichiarato che sarebbe stato “molto difficile” per il Regno Unito e  l’Unione Europea raggiungere un accordo sulla Brexit prima della scadenza del 31 ottobre.

Intervistato dall’emittente irlandese Rte, Varadkar ha parlato di “grossi divari” ancora esistenti tra le parti. Il primo ministro del’Eire, che ieri ha anche sentito telefonicamente Boris Johnson, ha assicurato il massimo impegno per raggiungere un accordo, ma ha anche ribadito: “non a qualunque costo” per il suo Paese.

Unica soluzione che rimane a Londra sembra, per evitare un “no deal”, è quella di trovare un Paese membro dell’Ue che ponga il veto ad un’eventuale estensione della Brexit ora fissata al 31 ottobre, promettendo in cambio un accordo commerciale favorevole post Brexit.

 

Da Bruxelles la seconda edizione dell’Osservatorio della cultura e della creatività urbana

Avviato nel luglio 2017, l’Osservatorio della cultura e della creatività urbana utilizza informazioni quantitative e qualitative per misurare il relativo potenziale delle aree urbane. Le informazioni dell’istituto sono sintetizzate in 29 indicatori suddivisi in nove tematiche politiche, che riflettono tre aspetti fondamentali della vitalità culturale e socioeconomica delle città: “vivacità culturale”  che registra la situazione in termini di infrastrutture culturali e partecipazione alla cultura; “economia creativa” che misura il contributo dei settori culturali e creativi all’economia stessa delle città in termini di occupazione e innovazione; “contesto favorevole” per sondare i beni tangibili e intangibili che aiutano le città ad attirare talento creativo e a stimolare l’impegno culturale.

L’Osservatorio è stato realizzato dal Centro comune di ricerca, ed è accompagnato da uno strumento online rinnovato che consente alle città d’inserire i propri dati per un’analisi comparativa assai approfondita. La prima edizione dell’Osservatorio della cultura e della creatività urbana ha ispirato le amministrazioni locali di tutta Europa. Madrid, ad esempio, ha utilizzato i dati dell’Osservatorio per comprendere su quali beni culturali e creativi (come monumenti, musei, cinema, teatri e gallerie d’arte) concentrare la strategia di branding al fine di migliorare la propria posizione nelle classifiche internazionali. La capitale spagnola ha quindi pubblicato un nuovo opuscolo, dal titolo “Madrid  – dati e cifre 2018”, che promuove le diverse proposte culturali della città. L’Osservatorio ha inoltre aiutato Gyor (Ungheria) ad esaminare le esigenze di investimento in itinere e ha sostenuto la decisione della città di adottare una strategia di economia culturale e creativa per il periodo 2019-2028, individuando le principali misure da attuare, quali la creazione di spazi dedicati agli artisti e di un incubatore per il design. Umea (Svezia), invece, ha utilizzato questo strumento per sensibilizzare i portatori di interessi locali sul ruolo degli investimenti culturali nella promozione della crescita sostenibile.

Le novità dell’edizione 2019 sono rappresentate dall’aggiunta di 22 nuove città (arrivando così ad un totale di 190 realtà urbane). Sono state inoltre utilizzate nuove fonti di dati web (OpenStreetMap) per comprendere meglio e in maniera più dinamica la vivacità culturale. I nuovi risultati derivanti dall’analisi spaziale dei luoghi della cultura aiutano, infine, a porre al centro della ricerca non solo la ricchezza economica ma anche la prospettiva dell’inclusione sociale.

Per pagare le cartelle del fisco arriva pagoPa

Stop al modello Rav per pagare il fisco.  Ad annunciare la novità è l’Agenzia della Riscossione.

In cosa consiste il nuovo sistema dei pagamenti? È un modulo di pagamento realizzato dallo Stato e gestito dalla nuova società pagoPA Spa nell’ambito dell’attuazione dell’Agenda Digitale Italiana e sostituirà gradualmente il bollettino Rav.

Il nuovo modulo permette di trovare rapidamente le informazioni di cui il contribuente ha bisogno, di aggiornare l’importo dovuto alla data del versamento e include il QR code per pagare facilmente anche attraverso lo smartphone. Ma come con il bollettino Rav, si può pagare online oppure presso Poste, banche, tabaccherie e tutti gli altri canali aderenti al nodo pagoPa, portando con sé il modulo di pagamento inserito in cartella.

I bollettini RAV collegati a comunicazioni già inviate (ad esempio per la “rottamazione-ter” delle cartelle) potranno continuare a essere utilizzati per il pagamento. Lo stesso vale per quelle comunicazioni che verranno ancora inviate con i Rav fintanto che non si concluderà la fase di passaggio a PagoPA.

Nel mondo ci sono 150 milioni di bambini obesi.

I dati raccolti nel primo Atlante sull’obesità infantile sono allarmanti, l’incremento supera il 60%. Sempre secondo lo studio, ci sono altissime probabilità che i bambini che oggi sono obesi domani diventeranno adulti obesi e, di conseguenza, a serio rischio di malattie cardiache e diabete di tipo 2. Ma non è solo una questione di salute, nell’Atlante viene esplicitamente dichiarato che “Il continuo aumento dell’obesità infantile travolgerà i servizi sanitari di molti paesi. Questo aumento mostra un grave fallimento del governo nel rispettare e proteggere i diritti dei nostri figli in buona salute”.

I numeri d’altra parte parlano chiaro: entro il 2030 in Cina ci saranno quasi 62 milioni di bambini obesi di età compresa tra i 5 e i 19 anni, 27 milioni in India e 17 milioni negli Stati Uniti. Ma l’obesità sta danneggiando le prospettive di salute anche per quanto riguarda i paesi più poveri: la Repubblica Democratica del Congo avrà 2,4 milioni di bambini con obesità e la Tanzania e il Vietnam ne avranno 2 milioni ciascuno.

In Ucraina il 26% dei bambini è obeso, nelle Isole Cook il 40,7% dei bambini dai 5 ai 19 anni è obeso e negli Stati Uniti un adolescente su cinque è obeso.

L’esercito turco ha attraversato il confine

Un piccolo gruppo di forze turche è entrato, da poche ore, in Siria in due punti lungo la frontiera, vicino alle città siriane di Tal Abyad e Ras al-Ayn.

L’avanzata della Turchia segue la drammatica inversione della politica americana di questa settimana.

Trump aveva preannunciato al presidente turco Recep Tayyip Erdogan in una telefonata che dozzine di truppe americane, che avevano lavorato a stretto contatto con le forze curde, si sarebbero ritirate, aprendo effettivamente la strada a un’incursione turca.

Ora l’offensiva Turca nel nord della Siria mira innanzitutto a circondare le città in una striscia di territorio di confine, prima di spingersi più a sud nel tentativo di smantellare qualsiasi possibilità che uno stato curdo emerga alle sue porte.

I primi obiettivi saranno le città siriane di Kobani, Tal Abyad e Ras al-Ayn, tutte detenute dall’YPG e situate lungo l’ex ferrovia Berlino-Baghdad che per centinaia di miglia costituisce la frontiera con la Turchia.

Le forze a guida curda che erano già in allerta hanno invitato i combattenti a dirigersi verso la frontiera per difendere la regione dall’offensiva turca che dovrebbe coinvolgere decine di migliaia di soldati sostenuti da carri armati e mezzi corazzati del secondo esercito della NATO.

Il capo della comunicazione della Presidenza di Ankara, Fahrettin Altun ha informato l’esercito Curdo che  “I militanti dell’Ypg hanno due opzioni: possono disertare oppure noi dovremo fermarli dall’interrompere i nostri sforzi di contrastare l’Isis“.

Perché serve un nuovo partito

C’è spazio oggi in Italia per un nuovo partito che rappresenti noi Popolari?

Dobbiamo rispondere a questa domanda se pensiamo di avviare una nuova stagione politica dei “liberi e forti”. Le analisi, utili e necessarie, si sono sprecate. Ma il percorso per passare dalle parole ai fatti è stato molto lento. Se la determinazione di alcuni fosse stata generalmente condivisa, avremmo già un nome e un simbolo, un manifesto ideale e un programma su cui richiedere adesioni in giro per l’Italia. Purtroppo, prudenze e dubbi hanno sinora prevalso. Che provengano da interrogativi sulle convenienze personali o dal timore di fare un buco nell’acqua dello zero virgola, non cambia di molto il risultato.

Comunque, pian pianino, i diversi posizionamenti personali sono destinati a chiarirsi. Chi si è conquistato un ruolo nel PD o nei suoi paraggi fa bene a mantenere le posizioni. Chi crede necessario un contenitore dei “moderati”, e intende lì ritagliarsi uno spazio, può trovare nel duo Cesa-Rotondi (o forse in Toti) il suo punto di riferimento. Chi pensa a un contenitore centrista concorrenziale con la sinistra (PD e satelliti), sul modello della fu Margherita, ora ha solo l’imbarazzo della scelta tra Calenda, almeno coerente nel NO ai Cinquestelle, e Matteo Renzi, tornato prepotentemente alla ribalta con il doppio salto mortale carpiato e avvitato dell’apertura al M5S e della successiva fuoriuscita dal PD.

Ma allora, con queste novità, non si sono ristretti gli spazi per una presenza dei democratici popolari di ispirazione cristiana? Non bastano a rappresentare quest’area culturale il Partito Democratico con Franceschini e Fioroni, e Italia Viva dell’ex boy scout Renzi, e Siamo Europei del duo Calenda-Richetti, altro cattolico?

Senza entrare in considerazioni sul PD – trasformatosi da “partito plurale” in un “partito radicale di massa” –, o sul fenomeno Renzi – bocciato sia per le politiche attuate sia per gli atteggiamenti – o sulle incognite di altri gruppi fondati su individualità, rispondo senza esitazioni: esiste uno spazio di consenso nel Paese per una forza politica nuova.

Il perché è presto spiegato. Alle ultime elezioni europee – che sono squisitamente politiche – il 47% degli aventi diritto non è andato a votare. Nel recente passato abbiamo avuto un astensionismo ancora maggiore in alcune elezioni amministrative, con il clamoroso picco del 62.3% alle ultime regionali emiliane, quelle del 2014. Anche considerando più realisticamente il corpo elettorale vicino al 90% degli aventi diritto, si può constatare che oggi quasi una metà degli italiani non va a votare. E una fetta consistente di coloro che scelgono un partito lo fanno – montanellianamente – turandosi il naso.

È di tutta evidenza che l’offerta politica della declinante Seconda Repubblica intercetta a malapena metà elettorato. Di delusione in delusione, di scandalo in scandalo, di fanfaronata in fanfaronata, di ignavia in ignavia, una intera classe politica – dall’ottantenne Berlusconi al quarantenne Renzi, dall’eterno Casini all’homo novus Di Maio – ha perso credibilità e ha fatto precipitare il Paese nel vortice della sfiducia.

Una classe politica che, complici sistemi elettorali fatti per consegnare il potere nelle mani dei segretari di partito, si è perpetuata in una compagnia di giro. Ricordate la commedia dell’arte? Una serie di personaggi grotteschi e divertenti – Arlecchino, Brighella, Pantalone, Colombina, Pulcinella ecc. – ma alla fine ripetitivi: possono anche recitare su un canovaccio diverso ogni sera, ma finiscono per stufare. E gli spettatori (gli elettori) diminuiscono. Non a caso la moderna messa in scena della politica caricaturale, quella del Bagaglino, ha già chiuso i battenti da anni, sorpassata dal cabaret quotidiano della realtà politicante.

Insomma, se pensassimo solo di aggiungere una maschera alla compagnia o di mettere in scena una variante dello stesso spettacolo, dovremmo lasciar perdere prima di cominciare.

La riuscita di un nuovo partito non può certo passare per facce, ricette e parole d’ordine già viste e sentite, presenti e logore in questo desolante panorama politico. La sfida sta tutta nel riuscire a farsi ascoltare da quella metà di elettorato (e oltre la metà tra i cattolici) che non ci crede più, e motivarla al voto.

Non si tratta quindi di strappare consensi ai vari Franceschini, Renzi, Cesa o Casini, perché sarebbe un obiettivo misero e perdente in partenza. Solo se riteniamo di poter dire parole nuove, di avere comportamenti seri e controcorrente, potremo rappresentare una novità nel mondo della politica spettacolo, della gara a chi la spara più grossa, delle corti di lacché nominati dal capo, delle giravolte che fanno clamore e attirano gli applausi scontati delle claques, ma rendono ancor più diffidenti i cittadini.

Oggi, per essere non solo nuovi ma “rivoluzionari”, basterebbe applicare il consiglio evangelico del parlare con il “sì, sì, no, no”, riabituando le persone ad ascoltare parole di verità. E aggiungiamoci coerenza, onestà, ricerca del bene comune, sobrietà, responsabilità, competenza, ascolto, rispetto, dialogo, condivisione, solidarietà, uguaglianza: quanto c’è di questi valori nella politica svilita di oggi? Quanto sarebbe necessario rilanciarli? E, tra i molti temi a noi cari, proviamo a parlare di quelli che non si ascoltano nei talk-show: di famiglia e di come favorire concretamente chi decide di far nascere e crescere dei figli, di giovani a cui una generazione privilegiata ha negato il futuro, di rappresentanza dei territori contro la demagogia dei tagli ai parlamentari, di autonomie locali fondate sui municipi contro il falso mito delle metropoli, di doveri che danno senso ai diritti, dell’importanza del merito perché la scuola rimanga l’ascensore sociale dei poveri, del lavoro che dà dignità e non può essere tassato più delle rendite, del creato e della pace da difendere ogni giorno.

Non sappiamo quanta capacità e forza avremo per farci ascoltare e conquistare l’attenzione delle persone. Ma certamente per “i liberi e forti” è l’ora di rimboccarsi le maniche e avviare una nuova stagione politica. Con generosità e un po’ di coraggio.

Non è detto che per avere nuovamente successo si debbano aspettare le macerie di una terza guerra mondiale.

La politica non può intendersi solo come costo

Abbiamo votato il taglio dei parlamentari. Sarei ipocrita se dicessi che ne sono felice, perché quando si incide così profondamente sulla  democrazia rappresentativa è doloroso per chi, come me, ha un rispetto profondo per le Istituzioni.

E anche perché il Pd aveva finora votato contro.

E sono sincera: se non fosse arrivato un documento condiviso della maggioranza, che garantisce, nel prosieguo della legislatura, la realizzazione dei pesi e contrappesi di questa riduzione, soprattutto la modifica della legge elettorale e dei regolamenti parlamentari, oggi in tanti non avremmo votato.

Stantibus sic rebus, alcune regioni resterebbero infatti senza rappresentanza parlamentare e il deficit di rappresentanza tra eletti ed elettori sarebbe il più alto in Europa.

Se questo taglio serve forse a risparmiare i costi della politica (un risparmio di circa 60 milioni di euro a fronte di una enorme spesa pubblica!), sia chiaro che la democrazia non può intendersi solo come un costo.

Al contrario, la democrazia si fa di tutto per potenziarla e efficientarla.

Se le cose verranno fatte bene e secondo gli accordi politici, avremo l’occasione di snellire la democrazia parlamentare con l’auspicio, forte, che a un minor numero di parlamentari consegua una selezione più rigorosa degli stessi da parte dei partiti, che finalmente sentiranno la responsabilità di mandare a rappresentare le nostre Istituzioni il “meglio” che hanno a disposizione, dal punto di vista delle competenze, della serietà e della rappresentatività territoriale.

Troppo ottimista? Forse. Ma se non fossi così, non farei politica come sono abituata a fare.

P.S. Detto questo, c’è da chiedersi perché illustri giornalisti ed opinione pubblica si accorgano solo ora, a cose quasi fatte, dell’”anomalia” del taglio dei parlamentari…Ma questa è unaltra storia. La solita…

Carenze strutturali e religiosità africana

Articolo pubblicato sull’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Giulio Albanese

La storia di Alphonse è emblematica rispetto a un fenomeno oggi molto diffuso in Africa, quello delle Chiese indipendenti. Chi scrive, ebbe modo di conoscerlo negli anni Novanta, incontrandolo, tutte le domeniche, impegnato nel dirigere un coro all’aperto nella valle di Mattare, una delle zone più malavitose della città di Nairobi, in Kenya. Un tempo faceva il makausi (il ladro), fumando da mattina a sera il bangi (la marijuana locale) accompagnato dal pombe (un super alcolico distillato con mezzi rudimentali). Diceva sorridendo di aver cambiato vita, aiutando i poveri e cantando lodi a Dio, da quando i suoi genitori decisero di affidarlo alla Legio Mariae, conosciuta anche come Maria Legio Church, una delle innumerevoli Chiese indipendenti presenti nel suo Paese. Fondata da Gaudencia Aoko, meglio conosciuta come Mama Mtakatifu (Mamma Santa), la Legio Mariae, sviluppatasi fortemente negli anni Settanta, nacque in seguito a uno scisma dall’omonimo movimento cattolico introdotto negli anni Trenta dai missionari nella provincia keniana di Nyanza. Secondo i dati forniti dal database dell’African Independent Churches and Leaders, nel 2006 risultavano esserci circa 10 mila Chiese indipendenti presenti nel continente africano (altre fonti, oggi parlano addirittura di oltre 25 mila unità), sebbene risulti assai arduo monitorare questi movimenti religiosi. Sorte in gran parte dalla seconda metà xix secolo, le Chiese indipendenti hanno espresso, almeno originariamente, la necessità degli aderenti di rispondere a istanze di autonomia culturale e spirituale rispetto alle Chiese europee, se non addirittura di liberazione rispetto alla dominazione coloniale. La costituzione di queste comunità è, in ogni caso, un fenomeno in continua evoluzione nelle società autoctone. Una manifestazione tipica dello status religioso esercitato all’interno di queste Chiese indipendenti la si osserva nell’ambito delle guarigioni, non solo con la funzione di colmare il vuoto di assistenza sanitaria, ma anche in riferimento alla mancata integrazione della predicazione missionaria nelle culture africane. Se da una parte si evidenzia un mix di superstizione e sincretismo, dall’altra emerge, in molti casi, l’istanza di una inculturazione del Vangelo.

Oggi molte delle Chiese indipendenti vengono ascoltate e studiate nell’ambito ecumenico. Il loro modo originale di vivere la fede cristiana ha fatto sì che fossero denominate in tempi recenti come African Instituted Churches (Chiese istituite africane), a significare il fatto che la loro esistenza è legata all’iniziativa di fondatori o fondatrici africani. A questo riguardo non pochi teologi, come il tanzaniano Laurenti Magesa (autore tra l’altro di African Religion. The Moral Traditions of Abundant Life, che presenta e approfondisce la spiritualità africana), hanno stigmatizzato che gli stessi missionari, i quali per lungo tempo non hanno approvato la religiosità degli africani, sono stati costretti ad ammettere che è solo a partire da questa base che possono promuovere l’incarnazione del messaggio evangelico. Si tratta in sostanza di un patrimonio religioso di tutto rispetto che, all’interno e per mezzo della comunità autoctona, concorre alla promozione dell’individuo e all’armonia dell’universo. D’altronde, come rileva lo stesso Magesa, se si osservano attentamente le Chiese indipendenti, si può notare che per esse proprio la Rivelazione è un evento continuo e ricorrente, che si manifesta, oltre che attraverso le Scritture, tramite il sogno, l’estasi, la trance o specifici eventi quali, ad esempio, le calamità. Un’analisi comunque più approfondita obbliga a riconoscere che questi elementi sono solo la veste esteriore di una fede che rimane essenzialmente cristiana nei contenuti. Secondo la stragrande maggioranza degli studiosi di fenomenologia religiosa, infatti, è decisamente fuori luogo pensare che si tratti di una sorta di paganesimo mascherato. Non a caso il Consiglio mondiale delle Chiese ha auspicato un dialogo sereno con le Chiese indipendenti africane nella consapevolezza che il loro vero interesse è di rimuovere dal cristianesimo africano il marchio d’importazione rendendolo più incarnato nel contesto culturale locale. Va comunque rilevato che le Chiese indipendenti africane sorte in seguito al distacco dalla Chiesa cattolica sono una piccola percentuale rispetto alla maggioranza che proviene da esperienze di rottura con le altre confessioni cristiane di matrice occidentale. Occorre però anche precisare che non sempre le Chiese indipendenti possono essere considerate come il risultato finale di processi scismatici dalle grandi tradizioni cristiane come l’anglicanesimo o il protestantesimo più in generale. La Nigeria, ad esempio, che già nel 1970 contava oltre 700 Chiese indipendenti, ha dato vita tra gli altri a un gruppo di Chiese denominate Aladura (Degli oranti). Si tratta di comunità sorte spontaneamente, sotto la guida di leader locali, e non in seguito a veri e propri scismi dalle Chiese madri occidentali. Questo movimento religioso trae origine dal clima che venne a determinarsi nel Paese africano in seguito a una tremenda epidemia che devastò l’Africa occidentale nel 1818. Ritenendo le Chiese europee incapaci di far fronte all’emergenza sanitaria, molti cristiani appartenenti all’etnia yoruba incominciarono a formare gruppi spontanei di preghiera per imporre le mani sui malati. Da questo trend religioso scaturirono, ad esempio, la Chiesa dei cherubini e dei serafini (presente attualmente anche in Italia con una comunità di immigrati nigeriani nelle Marche), la Chiesa del Signore e la Chiesa apostolica di Cristo. Sebbene in epoca coloniale gli adepti delle Chiese di Aladura provenissero dai ceti meno abbienti (diseredati, malati e comunque gente senza istruzione), successivamente si verificò una graduale inversione di tendenza. Infatti, dagli anni Sessanta in poi, furono numerosi i membri delle élite politico-economiche che aderirono a queste nuove comunità autoctone.

Non v’è dubbio pertanto che la sporulazione di Chiese indipendenti in Africa, rappresenti da una parte un problema, trattandosi di una galassia fatta di innumerevoli realtà a sé stanti, ma anche una sfida per il cattolicesimo. Da rilevare che in questi ultimi anni, in molti Paesi del continente africano si sono diffuse anche altre comunità fautrici del pentecostalismo, provenienti da alcuni Paesi occidentali. Con il risultato che non poche Chiese indipendenti africane hanno ricevuto da queste entità religiose straniere cospicui finanziamenti, manifestando in alcuni casi atteggiamenti molto radicali, all’insegna del fondamentalismo religioso, con devianze, in alcuni casi, inquietanti. Visitando il Malawi, lo stesso san Giovanni Paolo II ebbe modo di dire: «Io vi lancio una sfida oggi, una sfida che consiste nel rigettare un modo di vivere che non corrisponde al meglio delle vostre tradizioni locali e della fede cristiana. (…) Guardate alle ricchezze delle vostre tradizioni, guardate alla fede che abbiamo celebrato in questa assemblea. Là voi troverete la vera libertà, là troverete il Cristo che vi condurrà alla verità». Un concetto, peraltro ribadito da Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium laddove scrive che «È imperioso il bisogno di evangelizzare le culture per inculturare il Vangelo». Dunque, soprattutto in chiave ecumenica, la catechesi e più in generale la formazione delle comunità cristiane esige un rinnovato impegno nella conoscenza delle culture locali, troppo spesso, purtroppo, sottovalutate o addirittura ignorate. Ecco perché sarebbe un grave errore considerare le Chiese indipendenti africane quasi fossero la manifestazione di una spiritualità che sopravvive stancamente nel tempo. La fede di questi afro-cristiani è infatti segnata molto spesso da testimonianze di servizio ai poveri e agli ammalati che, se accolte nello Spirito, potrebbero edificare le nostre stesse comunità. La conversione di Alphonse, il ragazzo della Legio nella valle di Mattare la dice lunga.

Un Parlamento indebolito è un vulnus per la democrazia

Dunque, cedendo alle pressioni di Di Maio, Grillo e della Casaleggio associati , dopo 70 anni di vita democratica e Repubblicana, il Parlamento italiano verrà alleggerito in quanto a consistenza numerica di deputati e senatori, in nome di un risparmio di spesa pubblica stimato dai fautori dell’iniziativa in 500 milioni di euro all’anno. Eliminati di netto 345 seggi: 230 alla Camera e 115 al Senato, avremo dunque 400 deputati e 200 senatori. Un taglio quantitativo considerevole che pone problemi di interfaccia tra paese legale e paese reale.

Forse questo è il modo in cui i grillini avevano promesso di scardinare la scatola di sardine.

Colpisce la facilità con cui il M5S ha fatto breccia nel partito con cui condivide il Governo del Paese e in quelli di opposizione, affondando la lama della demagogia nel burro marcescente dell’inconsistenza di qualsivoglia argomentazioni dissuasive. Il fatto che – come sottolineato da Emma Bonino a nome di ‘Più Europa’- non sia stato svolto uno studio preliminare di accertamento sulla fattibilità e sulle conseguenze tecniche, politiche, di funzionalità del Parlamento la dice lunga sul pressapochismo con cui le forze politiche hanno di fatto bypassato un serio e approfondito esame sulle imprevedibili conseguenze che sconvolgeranno il principio della rappresentanza: il legame che univa i parlamentari al territorio di provenienza elettorale era garanzia di un flusso di andata e ritorno tra conoscenza delle realtà territoriali, pertinenza dei provvedimenti legislativi, legame tra eletti ed elettori.

Ne hanno fatto una questione quantitativa poiché il vero obiettivo è il progressivo esautoramento del Parlamento e della democrazia rappresentativa a favore di quella democrazia virtuale di cui recentemente si è impartita una sorta di lectio magistralis all’assemblea dell’ONU.

Questo voler tagliare e togliere tutto, parlamentari, pensioni, grandi opere, ammodernamento del Paese, crocifissi dalle aule, partecipazione democratica e popolare, concertazione politica, assomiglia ad una sorta di gigantesca operazione giacobina di decapitazione della democrazia e delle tradizioni del Paese: il tutto condito con una demagogia disarmante che avrebbe dovuto far riflettere qualche ormai rara testa pensante dalla sponda sinistra del governo e da quella destra dell’opposizione. Per timore di essere accusati di difendere privilegi e di impoverire il Paese molti hanno scelto l’indolenza del silenzio e dell’acquiescente, passiva accettazione.

Proni e supini di fronte allo strapotere dello sparuto drappello dei frequentatori della piattaforma Rousseau, hanno avvallato la più gigantesca e mistificatoria operazione di giustizialismo ai danni della democrazia e della centralità del Parlamento.

Non è infatti il numero dei deputati e dei senatori che andava diminuito perdendo forza e rappresentatività popolare: oscillando perennemente tra sistema maggioritario e proporzionale, con sfumature bizantine tendenti a salvare capra e cavoli, i partiti hanno eluso il vero problema.

Che non è di quantità o di risparmio sulla democrazia , ma di qualità degli eletti, di rettitudine morale, di competenza e merito. Incapaci di una seria e durevole riforma elettorale gli attuali parlamentari hanno fatto due conti: basta che ci sia posto per chi nei partiti conta, i peones potranno fare le valigie e tornare a casa. Ne è prova provata il fulmineo riposizionamento di chi vuole garantirsi la poltrona anche a costo di rinnegare appartenenze e scelte “etiche” del passato.

Con buona pace dei capaci e meritevoli che resteranno esclusi da ogni speranza di essere eletti, non ci sarà interscambio ma consolidamento di poltrone numerate, come alla Prima della Scala. In una democrazia blindata nelle candidature ed ora decapitata nei parlamentari, la casta diventerà super-casta in attesa di transitare tutti, eletti ed elettori, in quel buco nero che chiamano “democrazia virtuale e società digitale” dove non serviranno menti pensanti e illuminate. Non servirà neanche votare, basterà un clic dallo smartphone. Lo avevano previsto Orwell in ‘1984’ e Aldous Huxley ne ‘Il mondo nuovo’ e presto accadrà. Come scrisse Goethe: ‘il primo passo è libero, è al secondo che saremo tutti obbligati’.

La Grecia vuole uscire dalla crisi

Il nuovo governo conservatore della Grecia ha presentato il suo primo budget , con obiettivi di crescita ambiziosi.

Il primo progetto di bilancio, da quando è subentrato all’estrema sinistra Syriza a luglio, prevede riduzioni fiscali al fine di incoraggiare la spesa privata e gli investimenti esteri. Il viceministro delle finanze Theodoros Skylakakis lo ha descritto come una “svolta radicale alla crescita, all’occupazione e all’aumento del reddito”.

L’economia greca ha iniziato a crescere nel 2017, anche se ad un ritmo anemico, ed è uscita dal suo terzo programma di salvataggio ad agosto. I creditori internazionali, che continuano a monitorare da vicino la politica fiscale, potrebbero essere sorpresi dalle promesse di Atene che non sembrano al momento poggiarsi su basi solide.

Perché sebbene Atene si stia gradualmente riprendendo da sei anni di recessione e da una crisi economica e politica decennale, la sua economia rimane fragile. Soprattutto visto che è ancora soggetta alle rigorose condizioni di bilancio dettate da Unione europea e dal Fondo monetario internazionale.

E anche se la Commissione europea prevede una crescita del 2,2 per cento per il prossimo anno, raggiungere sia gli obiettivi di bilancio sia i numeri di crescita stabiliti nel progetto di bilancio si rivelerà estremamente impegnativo.

Alla fine di settembre il Fondo monetario internazionale, infatti, aveva sostenuto la richiesta della Grecia di obiettivi fiscali meno stringenti per accelerare la crescita, ma aveva anche insistito sulla necessità di una riduzione delle spese pensionistiche e di una base imponibile più ampia. Mossa che l’attuale governo è riluttante ad attuare.

Il Fondo pensa che “occorrerà un altro decennio e mezzo affinché i redditi pro capite reali raggiungano i livelli pre-crisi”.

Dai territori la filiera virtuosa del biometano

In riferimento al solo settore rurale la produzione di biometano, il biocombustibile che si ottiene dagli scarti di biomasse di origine agricola e dalla frazione organica dei rifiuti solidi urbani derivante dalla raccolta differenziata, potrebbe coprire il 10 per cento degli attuali consumi di gas a livello nazionale. Una buona pianificazione in tal senso e la partecipazione alle buone pratiche sostenibili da parte dei cittadini potrebbero essere dirimenti per immettere in rete questo combustibile prodotto, appunto, da rifiuti urbani, scarti agroalimentari, fanghi di depurazione, discariche esaurite.

Lo sviluppo degli impianti a biometano potrebbe comportare notevoli vantaggi ambientali e consentire di affrontare una delle sfide più difficili della decarbonizzazione, quella della mobilità e dei trasporti. Diverse aziende hanno iniziato da tempo a sviluppare mezzi pesanti funzionanti a biometano compresso, migliorando di molto la sostenibilità del trasporto su strada e del trasporto pubblico locale. Ulteriori passi avanti potrebbero poi interessare il trasporto navale.

Tecnologie, gestione e usi finali del biometano sono stati oggetto dell’incontro organizzato ieri a Bologna da Legambiente per creare un momento di confronto sulla diffusione e sullo sviluppo di questa risorsa in Italia, attraverso l’intervento di attori del settore, istituzioni e portatori d’interesse, al fine di sottolinearne la strategicità e le potenzialità in una prospettiva di decarbonizzazione del settore energetico e dei trasporti.

Due le proposte fondamentali avanzate dall’Associazione ambientalista: una campagna di informazione capillare su che cosa sia il biometano “fatto bene” e l’attivazione di processi di partecipazione territoriale. Con l’obiettivo di favorire la produzione di questa fonte di energia rinnovabile, attraverso una corretta pianificazione degli impianti di produzione per rendere lo sviluppo del biometano strategico per ridurre la dipendenza dalle energie fossili e per raggiungere gli obiettivi dell’economia circolare, a partire dalla chiusura del ciclo dei rifiuti organici.

“L’Italia, con 1.600 impianti a biogas, è il secondo produttore di biogas in Europa e il quarto al mondo – ha detto il direttore generale di Legambiente, Giorgio Zampetti – ha quindi un potenziale produttivo di biometano alto, stimato al 2030 in 10 miliardi di metri cubi, di cui almeno otto da matrici agricole, pari a circa il 10 per cento dell’attuale fabbisogno annuo di gas naturale e ai due terzi della potenzialità di stoccaggio della rete nazionale. E l’approvazione del decreto del 2 marzo 2018, che ha introdotto nuovi incentivi per la produzione di biometano finalizzato al settore trasporti, è un ottimo strumento. Anche se la finestra degli incentivi si chiude al 2022 e occorre quindi uno sforzo di tutti per riuscire a mettere in campo procedure e iter per la realizzazione degli impianti che tengano conto di questo vincolo temporale. Positivo e importante in questo contesto il segnale che arriva dalle aziende nell’investire in innovazione e produrre progetti sempre più interessanti”.

Liceo scientifico delle Scienze Applicate con curvatura biomedica

Negli ultimi anni la domanda nell’area dell’assistenza Sanitaria e delle attività ad essa collegate (Medicina, Ingegneria medica e bio-medica) è aumentata esponenzialmente: le professioni legate al mondo sanitario e alla ricerca industriale rappresentano nuovi sbocchi lavorativi ad alto valore economico e sociale.
I dati sull’occupazione sono estremamente confortanti: il 64% dei laureati trova un lavoro già a un anno dalla laurea e ben il 95% entro i cinque anni dal titolo di studio [fonte: Consorzio interuniversitario AlmaLaurea].

Negli obiettivi del liceo c’è naturalmente innanzi tutto la preparazione all’accesso a tutte le facoltà di area medico-sanitaria, ma non solo:

Medicina e Chirurgia
Ingegneria biomedica e robotica
Psicologia clinica
Farmacia
Biologia
Chimica
Infermieristica
Scienza dell’alimentazione
Fisica Medica
Veterinaria

Tangenziale est Roma: al via la demolizione, abbattuto un primo pezzo della sopraelevata

Sono partiti i lavori di demolizione vera e propria del tratto sopraelevato della Tangenziale est.

Per l’assessore Meleo “è un’occasione di riqualificazione molto importante, un intervento che la cittadinanza attendeva da molti anni”. Nei giorni scorsi una rappresentanza dei comitati di quartiere ha incontrato, intanto, i presidenti M5s delle commissioni Urbanistica e Mobilità, Donatella Iorio ed Enrico Stefàno.

A quanto riferisce Lorenzo Mancuso, del comitato cittadini della stazione Tiburtina, “ci sono ancora distanze sul progetto, in particolare sul collocamento dell’autostazione dei bus, ma abbiamo apprezzato la volontà di trovare un punto d’incontro”.

Nuova era feudale?

All’inizio dell’estate Facebook aveva annunciato che erano circa una trentina i soggetti di grande reputazione economica – e che presto sarebbero saliti ad un centinaio – ,  coloro che avrebbero compartecipato all’inedito progetto di mettere in circolazione virtuale la criptò moneta chiamata Libra. Insomma un esteso numero di soggetti (Universita, società, associazioni) utili a smentire che l’impresa potesse essere della sola Faceboock, social forte di più di due miliardi di individui utenti.

Ma pare, che ormai tanti che avevano assicurato di essere interessati al  progetto, si stiano defilando ad uno ad uno. La ragione del ripensamento di molti, deriverebbe dalle pesanti critiche esternate dalle più importanti autorità mondiali finanziarie e politiche, contro il progetto di Faceboock, che hanno denunciato rischi di infiltrazione delle mafie nella gestione della moneta virtuale oltre ai rischi di operazioni fraudolente possibili. Ad esempio si sa che Paypal non parteciperà, e le indiscrezioni riferiscono che Visa e MasterCard insieme ad altri attori finanziari si stiano defilando.

Vedremo comunque cosa accadrà nella riunione prevista a breve prevista per fare il punto sulla situazione dell’intrapresa. Intanto alcuni Stati stanno provvedendo a progettare essi stessi criptò valute che potranno sconvolgere gli attuali assetti dominati dal dollaro.  Comunque da questa storia di privati ricchissimi che tentano con una loro moneta di scalzare l’autorità degli Stati, ci viene l’avvertimento che o i poteri politici si riorganizzano su scala mondiale, oppure andremo verso nuove entità private potentissime, che scardineranno ogni ordine sinora conosciuto.

C’è da essere certi: o la democrazia si ristruttura globalmente oppure conosceremo una nuova era feudale del terzo millennio su scala mondiale. In assenza di una revisione profonda del modo di organizzare il potere democratico e la supremazia dell’ordine statuale, saranno sempre più invadenti i poteri dei singoli potentati economici, che oltre che a possedere risorse economiche più grandi anche degli Stati più potenti, ambiranno progressivamente a sostituirsi al loro potere, dando vita nel terzo millennio a nuove entità feudali su scala mondiale.

Dove sono, oggi, gli intellettuali?

In questi giorni si legge spesso sui giornali che gli intellettuali non esistono più, sono scomparsi. Sia quelli che venivano chiamati “organici” perché mettevano i loro saperi e le loro conoscenze al servizio del partito cui aderivano, sia gli “indifferenti” che non avevano cioè alcuna passione politica ma si limitavano a coltivare le loro scienze e i loro impegni accademici e professionali.

La Democrazia Cristiana, ad esempio, nasce da una costola dei Popolari, fondati da don Luigi Sturzo, che erano stati un grande partito. Il suo primo leader, Alcide De Gasperi, ai tempi del fascismo era stato ospitato e assunto in Vaticano, dove lavorava nella Biblioteca Apostolica. In quella sede conobbe un giovane Andreotti, che stava lavorando alla tesi in Giurisprudenza con un lavoro sulla Marina Pontificia del ‘600. Il bibliotecario trentino lo apostrofò con queste parole: “Lei non ha nient’altro di meglio da fare?”. Il giovane Giulio, infatti, non lo aveva riconosciuto.
Anche gli altri “cavalli di razza” della Dc erano intellettuali di professione prestati alla politica come Fanfani, Dossetti, La Pira. In una recente intervista pubblicata sul “Corriere della Sera”, Vittoria Leone ricorda che “Moro era molto legato a mio marito, era stato suo assistente di diritto penale all’Università di Bari. Il destino li volle entrambi candidati della Dc al Quirinale. Votarono i gruppi parlamentari, Giovanni vinse per otto voti e Aldo fu leale, non armò i soliti franchi tiratori”.

La maggior parte degli esponenti dei principali partiti dell’Italia del secondo Dopoguerra, erano persone di discreta esperienza e cultura politica e facevano parte di quello che allora si chiamava il “notabilato” nelle libere professioni: medici, avvocati, docenti universitari. Gli esponenti democristiani contendevano principalmente al Pci la guida della pubblica opinione (l’egemonia culturale di Gramsciana memoria) e delle istituzioni locali. Quanto ai comunisti, la loro svolta è rappresentata dal Congresso di Lione, dove viene messo fuori gioco il massimalismo di Bordiga. A Lione nasce il Pci moderno. Il gruppo dirigente era guidato da personalità come Togliatti, Terracini, e poi arrivarono anche Amendola, Ingrao, Tortorella, Macaluso, Reichlin, Giorgio Napolitano.

Persone naturalmente diverse, di diverso sentire, ma accomunate da una vasta cultura che discendeva da personaggi come Antonio Labriola, Giustino Fortunato e perfino Benedetto Croce. Anche Enrico Berlinguer era un intellettuale e guidò il partito per diversi anni fino alla sua prematura scomparsa. La nuova generazione del Pci era comunque dotata di ampie letture e interessi culturali. Massimo D’Alema era “intelligente e abile” (secondo una definizione dello stesso Berlinguer). Walter Veltroni è stato direttore dell’Unità, vicepresidente del Consiglio del primo governo Prodi (“il miglior esecutivo della Repubblica”, secondo lo stesso Veltroni) ministro dei Beni Culturali, sindaco di Roma per due mandati e coltiva cinema, scrive romanzi e memorie.

Ci si chiede: dove sono, oggi, gli intellettuali? Il dilettantismo politico (spesso derivante da quello professionale) ha progressivamente inquinato e deformato la democrazia italiana. Un fenomeno non inconsueto nella vita pubblica italiana è emerso a modificare in peggio la qualità della nostra convivenza sociale. Si chiama demagogia e ha come strumento il populismo. Forse, in una situazione del genere, almeno gli intellettuali dovrebbero allarmarsi. In realtà prevale l’antica attitudine alla viltà e alla furbizia: si preferisce non prendere posizione. Oggi la parola è passata, ormai definitivamente, a chi non ha niente da dire. E il segreto sta nel fatto che questi si rivolgono a chi non ha tempo e voglia di ascoltare. In questo modo ogni fesseria è sempre viva e vegeta, mentre il pensiero sembra diventato un esercizio per presuntuosi.

Forse quello che una volta si chiamava “impegno politico” oggi dovrebbe partire dalla condizione fisica e spirituale degli italiani. Bisogna partire dalle menti e dalle scuole di formazione politica. Da questo punto di vista il governo in carica sembra assai lontano dal poter svolgere un qualunque lavoro di politica culturale. Allora sì che la necessità degli intellettuali (organici o indifferenti) risulta vitale per il futuro di una democrazia.

Tagliare il cuneo è (quasi) impossibile. Parola di Becchetti

Articolo pubblicato sulle pagine del sito internet formiche.net a firma di Gianluca Zapponini

Per gli imprenditori è un po’ la madre di tutte le battaglie: tagliare il cuneo fiscale, ovvero pagare meno il lavoro. Il datore di lavoro risparmia e investe, il lavoratore ha una busta paga più sostanziosa e magari alla fine ripartono anche i consumi. Un’operazione che Confindustria, che ha appena presentato le sue previsioni di crescita in vista della manovra, chiede da anni. Invano, visto che l’Italia continua a subire un costo del lavoro tra i più alti d’Europa, complice una pressione fiscale reale che nel secondo trimestre 2019 ha toccato il 40% secondo l’Istat. Se anche questa volta si fallisse, nonostante le buone intenzioni del premier Giuseppe Conte che insiste nel voler trovare i soldi per tagliare il cuneo, sarebbe solo ordinaria amministrazione. Scenario, purtroppo, verosimile almeno a sentire Leonardo Becchetti, economista e docente a Tor Vergata, reduce dal dibattito con il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, in occasione della presentazione del rapporto sull’economia redatto dal Centro Studi di Confindustria.

Becchetti, gli imprenditori sembrano un po’ scontenti della manovra, anche se non mancano gli attestati di merito. Lei che dice?

Diciamo che dalle imprese sono arrivati diversi messaggi. Una certa soddisfazione per la riduzione dello spread e per l’ottenimento di una certa flessibilità dall’Europa. Questo è sicuramente un primo dividendo della cooperazione tra imprese e governo. Dall’altra però c’è un po’ di delusione verso una manovra poco coraggiosa, basata sul fatto che alla fine non bisogna toccare nulla per non scontentare nessuno. Una visione sbagliata, forse imputabile anche a una certa concorrenza tra politici.

C’era bisogno di più coraggio insomma…

Beh, direi di sì. Se si vuole ragionare in un orizzonte di tre anni bisogna fare scelte forti, altrimenti si rimane paralizzati. Se passa la logica che non si vuole scontentare nessuno alla fine nessuno fa niente perché lo spazio di manovra si riduce a zero. Non vedo margini per tagliare il cuneo fiscale, tanto per dirne una.

Ecco il cuneo. Gli industriali hanno parlato si svolta necessaria per il 2020…

Sarà difficile tagliare il cuneo. Secondo le stime del governo ci sono a malapena 3-4 miliardi di spazio, al netto dei 23 miliardi per l’Iva. Ma è più probabile che non ci siano nemmeno questi 3 o 4 miliardi. Confindustria prevede che con uno stop all’Iva il nostro deficit salirà al 2,8%, ma dal momento che la Nota di aggiornamento al Def ha fissato il target 2020 al 2,2% bisogna recuperare dei soldi da qualche parte per rientrare del deficit. C’è la lotta all’evasione, che però è aleatoria. E i soldi per il cuneo da dove li facciamo saltare fuori? Il rischio è di dare ragione a Renzi che ha definito un “pannicello caldo” le poche risorse messe in campo dal governo per il cuneo. Ha ragione: se mai ci saranno, sarà poca cosa: è sempre la stessa storia, se non tocco nulla per quieto vivere, alla fine non avrò soldi per fare alcunché.

E pensare che Assolombarda chiedeva 13 miliardi per il cuneo…

Le risorse per il cuneo non ci sono o se ci saranno saranno irrisorie. Non vorrei sembrare provocatorio, ma la Germania durante la crisi del 2007-2008 ha aumentato l’Iva e con quei soldi ha tagliato il cuneo fiscale. Una scelta forte per una misura strutturale. In Italia abbiamo da sterilizzare l’Iva e usiamo i 23 miliardi. Ma se li usiamo per l’Iva non li abbiamo per abbattere il costo del lavoro, semplice. L’unico modo di fare qualcosa di più è avere il coraggio di fare scelte impopolari, che però cozzano puntualmente contro una cultura della paura del cambiamento.

Facciamo un esempio?

Io sono rimasto allibito dal vedere tanta gente contraria al bonus sulle carte di credito. Come si fa ad essere contrari a una misura che ti dà dei soldi se usi la carta?

Qui l’articolo completo

Economia: Istat, in Italia “prosegue la fase di debolezza dei livelli produttivi”

I dazi imposti dagli USA e le misure compensative attivate dai paesi coinvolti, i fattori geopolitici destabilizzanti e il rallentamento dell’economia cinese, continuano a influenzare negativamente il commercio mondiale.

In Italia, la revisione dei conti economici ha lievemente modificato il profilo del Pil che ora evidenzia un marginale incremento congiunturale sia nel primo sia nel secondo trimestre (+0,1%). Tuttavia, a luglio, l’indice della produzione industriale ha registrato la seconda flessione congiunturale consecutiva.

Nel primo semestre, i miglioramenti del mercato del lavoro si sono riflessi sull’andamento favorevole del reddito disponibile lordo delle famiglie consumatrici, traducendosi in un aumento del potere d’acquisto e della propensione al risparmio.

L’inflazione al consumo rimane bassa sia nella misura complessiva sia in quella di fondo. Le indicazioni prospettiche a breve degli operatori economici delineano la prosecuzione dell’attuale fase di moderazione.

A settembre, l’indice del clima di fiducia dei consumatori e l’indice composito per le imprese hanno fornito indicazioni diverse. La fiducia dei consumatori ha segnato un lieve aumento, a sintesi di un deterioramento del clima economico e di un miglioramento della va-lutazione delle prospettive future, mentre la fiducia delle imprese ha evidenziato un peggioramento.

L’indicatore anticipatore ha mantenuto un profilo negativo, suggerendo il proseguimento della fase di debolezza dei livelli produttivi.

Gli ultimi tentativi di Boris Johnson

Boris Johnson è sempre più impegnato per salvare il suo piano per la Brexit.

Dopo aver capito, che con ogni probabilità, sarà respinto dal Consiglio europeo in programma a Bruxelles il 17 ottobre prossimo, Johnson attraverso colloqui telefonici con i leader di quasi tutti gli Stati membri dell’Ue, sta cercando una via di uscita onorevole.

In particolare, Johnson starebbe avvertendo l’Ue che rischia di commettere uno “storico errore di giudizio” nel ritenere che alla fine il Regno Unito chiederà un ulteriore rinvio della Brexit e che non uscirà in ogni caso dall’Unione europea alla scadenza del 31 ottobre prossimo.

Intanto il Times ha rivelato che lo speaker dimissionario della Camera dei Comuni britannica, John Bercow, è in testa tra i papabili per la guida di un eventuale governo di unità nazionale.

Siria: gli alleati curdi rimangono soli

Le truppe americane in Siria si allontaneranno dal confine turco perché Ankara “attuerà presto un’operazione militare pianificata da tempo” che porterà all’invasione del Nord del Paese. Lo ha reso noto la Casa Bianca dando conto di un colloquio telefonico tra il presidente americano, Donald Trump, e il suo omologo turco, Recep Tayyip Erdogan.

Le Nazioni Unite hanno già dichiarato  che bisogna “prepararsi al peggio”.

Perché l’invasione porterà come conseguenza una crisi umanitaria. “Non lo sappiamo cosa accadrà “, ha dichiarato il coordinatore umanitario delle Nazioni Unite per la Siria Panos Moumtzis in una conferenza stampa a Ginevra. Ma ha chiarito che il suo ufficio non era stato avvertito della decisione di Washington di abbandonare gli ex alleati curdi nella lotta contro i jihadisti dell’ISIS in Siria.

Già lo scorso dicembre Trump aveva annunciato di voler richiamare a casa le truppe americane dispiegate in Siria nonostante la contrarietà dei suoi consiglieri che non volevano abbandonare gli alleati curdi nelle mani di Erdogan e le dimissioni dell’allora ministro della Difesa Jim Mattis. Il timore, piuttosto fondato, è che è un ritiro delle truppe americane e l’attacco alle forze curde favorisca una risurrezione dell’Isis.

La settimana Ue dell’alfabetizzazione digitale

Circa 3mila iniziative in cantiere, di cui l’80% riguarderà istituti di ogni ordine e grado. Questo il contributo del nostro Paese alla ‘Eu Code Week’, la settimana europea della programmazione informatica.

Italia, Polonia, Spagna, Francia, Germania, ma anche Turchia, Stati Uniti, India, sono alcuni dei Paesi in prima fila.

Giunta alla sua settima edizione, la Eu Code Week, promossa dalla Commissione Ue, dedica particolare attenzione all’istruzione e prevede la partecipazione attiva di scuole e insegnanti, con il coding come metodologia didattica.

L’Italia risponde così ai dati non confortanti contenuti nelle statistiche Ue che inseriscono il nostro Paese in fondo alle classifiche sull’innovazione digitale. Secondo il Digital Economy and Society Index (Desi) 2018 di Eurostat, infatti, l’Italia è solo venticinquesima nell’Unione rispetto ai progressi compiuti dagli Stati membri in termini di digitalizzazione.

Nodulo tiroideo

Il nodulo della tiroide è una formazione nodulare (di natura liquida, solida o mista) che si sviluppa nello spessore della ghiandola tiroide. Il nodulo può avere origine neoplastica (benigna o maligna) o non-neoplastica. Esso rappresenta una lesione comune: è stata stimata una prevalenza nella diagnosi del 50-60% nella popolazione sana. La maggior parte dei noduli non provoca sintomi clinicamente significativi, anche se possono essere associati a una patologia.

Un nodulo può essere descritto in base a diverse caratteristiche morfologiche:

dimensioni e luogo di insorgenza: i noduli particolarmente grandi (dimensioni ≥ 1 cm) e particolarmente superficiali (es. quelli che compaiono a livello dei lobi) possono essere palpati mediante esame obiettivo;
struttura e consistenza: il nodulo non possiede un’architettura ghiandolare e generalmente non possiede una capsula che lo separa dal parenchima tiroideo normale. La consistenza del nodulo è generalmente maggiore rispetto a quella del parenchima tiroideo circostante. Qualora presentassero una capsula fibrosa (come accade in alcune varianti di tumore della tiroide) la consistenza dei noduli potrebbe aumentare. Anche il contenuto del nodulo (es. cisti con tessuti liquidi o semisolidi) condiziona la sua consistenza;
mobilità: il nodulo può essere mobile rispetto ai visceri circostanti.

La storia naturale dei noduli non è omogenea. Di fronte a noduli che crescono di numero e dimensioni, ci sono anche noduli che riducono nel tempo le loro dimensioni fino a non risultare più rilevabili. La crescita in numero e volume dei noduli può portare a un gozzo multinodulare o altre forme iperplastiche ben visibili alla base del collo che si presenta tumefatta e globosa.

Per diagnosticare la presenza di noduli alla tiroide possono essere necessari:

Esami del sangue
Ecografia tiroidea,
Scintigrafia tiroidea
Agoaspirato del nodulo tiroideo

Ancora insieme?

Lo scritto che segue fa riferimento all’articolo apparso ieri sul Domaniditalia a firma del Direttore Lucio D’Ubaldo, che, tra arguti flash (da un Di Maio rivisto come socialdemocratico a un Pd con cuore di antica sinistra e pratica neo-centrista), riflettendo sulla crisi del centro sinistra, approda ad una conclusione di fondo:

“Manca una dottrina politica per la sinistra di centro o per il centro a sinistra”.

Sul tema della crisi del centrosinistra, nel cui ambito si colloca l’articolo, non bisogna aggiungere altre parole a quante già spese sulla sua grande difficoltà da qualche anno in qua. Da una parte il ridimensionamento subito in seguito alle recenti sconfitte elettorali, dall’altra un dibattito interno non certo immune da personalismi rendono assai incerto l’immediato futuro. Nel quale si proietta, ormai, anche la recente scissione di Italia Viva, che in troppi, nel centrosinistra, si attardano ancora a ridurre a questioni di stile di lavoro o di carattere di questo o quel personaggio.

Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la crisi del pd è parte di quella più ampia della sinistra europea e financo delle battute d’arresto dei movimenti progressisti d’oltre oceano. Né, soprattutto per quanto ci riguarda, possiamo tralasciare che le sconfitte recenti si innestano in processi decennali di revisione e di crisi delle culture di riferimento delle formazioni ex comuniste, ma anche, per altri versi, di quelle caratteristiche dell’impegno cristiano e cattolico. A Tal proposito, a grandi fermenti nell’area della cultura cattolica sul rinnovamento del suo impegno politico e sulla ricerca di un nuovo centro si accompagnano grandi perplessità sulla concreta percorribilità della ri-fondazione di una forza politica di centro facendo leva sull’identità religiosa. Non a caso Giorgio Merlo stesso, pur ribadendo una volta di più la propria fedeltà al valore della cultura cattolica come fondamento dell’agire politico, ne vede intransitabile il rilancio come vera e propria formazione politica.

Ambedue le grandi culture popolari del centro sinistra e della nostra democrazia appaiono stanche e deluse dei risultati e del consenso attualmente raccolti. Soprattutto appaiono incapaci di dare una risposta ad una domanda politica sempre più pressante: quella di una serie di soggetti che spingono per ricostituire una nuova, centrale, forza politica in grado di raccogliere  le varie espressioni di una cultura riformista, espressioni vuoi popolari, vuoi socialiste, vuoi cristiane, senza neanche escludere nessuna voce di quella destra moderata rintracciabile tuttora in FI.

Ma nonostante la grande dimensione di questa domanda ancora sostanzialmente virtuale, il Direttore del Domani scriveva ieri, anticipando nel sottotitolo il leit motiv della sua riflessione, che: “Manca una dottrina politica per la sinistra di centro o per il centro a sinistra”.  

E ha perfettamente ragione! Come si può pensare che la fine del socialismo reale possa avvenire dolcemente e senza colpi di coda, che sia possibile cancellare un passato glorioso, seppur ormai ingombrante, marciando, sotto la bandiera della rottamazione, verso un assetto più di centro che di sinistra? Né appare meno complessa la realtà di secolarizzazione della società che si impone alla cultura cattolica scesa in politica. Si tratta di affrontare questioni annose, come il massimalismo a sinistra e il minimalismo di culture diventate consociative, abituate dalla pratica della mediazione a trovare facilmente una collocazione moderata tra destra e sinistra. Si tratta, piuttosto, di dare nuova voce ad una vasta area comprendente realtà e soggetti spinti a convergere verso una proposta politica di riforme per il cambiamento, area tuttora priva di una vera e propria strategia del cambiamento.

Non vogliamo in questa sede affrontare questioni fondamentali, ma di portata così grande da chiamare in causa cosa abbandonare dei vecchi modi d’essere del centro sinistra, cosa invece mantenere in eredità dalle culture da cui proveniamo e, soprattutto, in che modo raccoglierle in un programma che agisca non solo sul terreno dell’economia (come tradizione della sinistra a partire dal marxismo), o su quello proprio della cultura cristiana (equità, volontariato, solidarietà), quanto soprattutto sul terreno diretto della politica come programma di una vera e propria riforma della democrazia e dello Stato; cioè, intervenendo sul terreno di quella che una volta veniva chiamata l’autonomia del politico.

E centrale appare, in quest’ottica, l’accenno fatto da D’Ubaldo alla questione della forma partito, perché è difficile approfondire il nesso tra forma organizzativa e linea politica di un partito senza mettere in discussione lo stretto legame tra architettura dello Stato e quella speculare del partito, o senza trovare rimedio (e i rimedi ci sono) alla questione della selezione della classe dirigente.

E’un programma ambizioso, ma necessario per rispondere ai grandi rivolgimenti in atto nella società (non solo italiana), la cui crisi non può essere risolta da semplici ricerche di un centro moderato tra opposti estremismi. 

Si tratta piuttosto di rispondere alle domande sempre più drammatiche provenienti dalla società, in termini di occupazione, sicurezza, benessere, equità. Domande espresse da masse enormi di giovani che chiedono un futuro, da donne vittime di violenze e disuguaglianze, da un mondo del lavoro in crisi di occupazione e di prospettive, vittima di disuguaglianze che aumentano sempre più il divario tra poveri e ricchi. Domande di una società che vuole tornare a crescere, economicamente, ma anche e soprattutto demograficamente.

Ma si tratta anche, sul terreno eminentemente politico-organizzativo, di trovare un’alternativa ai fallimenti di importanti istanze di cambiamento cercate in passato sul problema della stabilità politica del governare. Con Craxi e la sua proposta di presidenzialismo, con Tangentopoli e la fine della prima Repubblica, con la Bicamerale di D’Alema, infine con il Referendum di Renzi. Tutte occasioni di approdare a una forma di democrazia meno anarchica di quella attuale, tutte fallite.

In tale clima, certo non proprio facile, ognuno dovrebbe sentire il bisogno di tornare a precisare il senso delle scelte politiche compiute riflettendo, responsabilmente, sul passato e sul presente come condizione necessaria per poter  scegliere un percorso programmatico concreto. 

Assumersi  responsabilità dirette per non aver saputo impedire il declino è condizione necessaria per un soggetto che si pensi riformista. Rifiutare o minimizzare tali responsabilità vuol dire di fatto ammettere  di non aver più grandi obiettivi nazionali cui sentirsi legati.

Se riteniamo necessario fare un bilancio che parta dal passato levando uno squillo d’allarme sui rischi di un ritorno del PD verso forme corporative di stampo novecentesco, è perché tale bilancio è propedeutico ad avviare un discorso sulle riforme non fatte e da fare, con la consapevolezza che, nell’attuale magma in cui navigano le varie zattere riformiste, occorra definire meglio il senso, il programma e la forma della parola riformista.

Nello stesso tempo in cui guardiamo con grande curiosità ed attenzione al lancio del progetto di Renzi verso  un soggetto-movimento al di là delle tradizionali forme organizzative territoriali, in grado, quindi, di veicolare informazione, partecipazione e dibattito attraverso nuovi canali tecnologici, ci chiediamo anche se Renzi, che non lo ha saputo fare nel recente passato, sia in grado di lavorare, per la sua parte, alla definizione di quella dottrina di cui tuttora manca il centro virtuale e della quale parla Lucio D’Ubaldo. A questa domanda non ci sono, per ora, risposte, ci auguriamo che in tempi brevi sia possibile avviare con Italia Viva un dibattito per una ricerca comune e non certo per decidere una semplicistica adesione. Ma, per questo, occorre che intellettuali e dirigenti escano allo scoperto e si mettano all’opera, spero ancora insieme, come nel progetto originario del Pd.

Firenze: il primo imam che potrà insegnare religione cattolica a scuola

Hamdan Al Zeqri, 33 anni, da 16 in Italia, il 15 ottobre discuterà la tesi e diventerà dottore in scienze religiose, titolo che lo abilita anche a insegnare la religione cattolica nelle scuole. E sarà il primo imam a farlo.

Hamdan Al Zeqri è Mediatore culturale in tribunale e, come detto, ministro di culto presso il carcere di Sollicciano, Al-Zeqri è cittadino italiano dal 2017 e lavora in un’azienda aerospaziale del Mugello.

I suoi studi sono stati pagati dalla Curia, mentre l’iscrizione a Teologia cristiana è stata fortemente voluta dalla Comunità islamica fiorentina nell’ottica di rafforzare il dialogo interreligioso anche attraverso la conoscenza diretta della religione cristiana.

Nella comunità islamica fiorentina Al-Zeqri siede nel consiglio direttivo ricoprendo il ruolo di responsabile del dialogo interreligioso e della formazione spirituale coranica dei giovani.

Il neo dottore diventerà il primo esponente di una comunità islamica italiana, con incarichi ufficiali, a laurearsi in Scienze religiose. Titolo della tesi “Profilo e responsabilità del ministro di culto islamico in carcere”. Alla discussione della tesi sono attesi sacerdoti, imam e autorità religiose islamiche da tutta Italia.

Mal’aria 2019: il rapporto di Legambiente

Città soffocate dallo smog, dove l’aria è irrespirabile sia d’inverno sia d’estate (tra le principali fonti di emissione il traffico, il riscaldamento domestico, le industrie e le pratiche agricole) e dove l’auto privata continua ad essere di gran lunga il mezzo più utilizzato, se ne contano 38 milioni e soddisfano complessivamente il 65,3% degli spostamenti. È quanto emerge da Mal’aria 2019, il dossier annuale di Legambiente sull’inquinamento atmosferico in Italia che restituisce un quadro puntuale del 2018. Un anno da codice rosso per la qualità dell’aria, segnato anche dal deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia europea in merito alle procedure di infrazione per qualità dell’aria e che costerà multe salate alla Penisola.

A parlare chiaro sono i numeri: nel 2018 in ben 55 capoluoghi di provincia sono stati superati i limiti giornalieri previsti per le polveri sottili o per l’ozono (35 giorni per il Pm10 e 25 per l’ozono). In 24 dei 55 capoluoghi il limite è stato superato per entrambi i parametri, con la conseguenza diretta, per i cittadini, di aver dovuto respirare aria inquinata per circa 4 mesi nell’anno. La città che lo scorso anno ha superato il maggior numero di giornate fuorilegge è Brescia (Villaggio Sereno) con 150 giorni (47 per il Pm10 e 103 per l’ozono), seguita da Lodi con 149 (78 per il Pm10 e 71 per l’ozono), Monza (140), Venezia (139), Alessandria (136), Milano (135), Torino (134), Padova (130), Bergamo e Cremona (127) e Rovigo (121). Tutte le città capoluogo di provincia dell’area padana (ad eccezione di Cuneo, Novara, Verbania e Belluno) hanno superato almeno uno dei due limiti. La prima città non ubicata nella pianura padana è Frosinone, nel Lazio, con 116 giorni di superamento (83 per il Pm10 e 33 per l’ozono), seguita da Genova con 103 giorni (tutti dovuti al superamento dei limiti dell’ozono), Avellino con 89 (46 per il Pm10 e 43 per l’ozono) e Terni con 86 (rispettivamente 49 e 37 giorni per i due inquinanti).

Un quadro preoccupante che per Legambiente indica l’urgenza a livello nazionale di pianificare misure strutturali capaci di abbattere drasticamente le concentrazioni di inquinamento presenti e di riportare l’aria a livelli qualitativamente accettabili. Misure che spesso oggi mancano, dimenticando così che ogni anno in Europa, stando ai dati dell’Agenzia Europea per l’ambiente, sono oltre 422mila le morti premature all’anno per inquinamento atmosferico e l’Italia si colloca tra i paesi europei peggiori, con più decessi in rapporto alla popolazione, pari a più di 60.600 nel solo 2015. E che i trasporti stradali costituiscono una delle principali fonti di emissioni di inquinanti atmosferici nelle aree urbane – come ricorda l’ISPRA – una mobilità sostenibile consentirebbe di limitare le emissioni in aria dal trasporto stradale garantendo il soddisfacimento della domanda di mobilità dei cittadini.

Per quanto riguarda l’Ozono, nel 2018 sono stati ben 53 capoluoghi di provincia hanno superato il limite di 25 giorni con una media mobile sulle otto ore superiore a 120 microgrammi per metro cubo. Genova e Brescia le città peggiori per questo inquinante con 103 giorni, seguite da Monza (89), Lecco (88), Bergamo (85), Piacenza (80), Varese (78), Alessandria (77) e Venezia (76).

 

Copenaghen: ha un termovalorizzatore su cui si può sciare.

Un inceneritore che ha una pista da sci come tetto. L’impianto è quello di Amager Bakke, molto vicino al centro della capitale danese, ed è uno dei termovalorizzatori più green e all’avanguardia grazie al suo filtro per le emissioni.

I 450 metri di pista si sviluppano sul tetto dell’inceneritore, concepito apposta con una forma diagonale e ritorta su sé stessa per ospitare l’attrazione.

Tre le piste da sci sulle quali si potrà sciare tutto l’anno. Una nera, per sciatori esperti che parte dalla sommità del tetto del termovalorizzatore e scende per una lunghezza di circa 180 metri (45% di pendenza), una blu per sciatori principianti e una pista verde, intermedia, per tutti i livelli che porta fino alla base dell’impianto.

Non c’è solo una pista da sci ma anche alberi, una parete di arrampicata e alcuni sentieri per fare trekking che si snodano nelle aree intorno.

 

Il Piemonte guarda a progetti di crescita, innovazione ed export

Regione Piemonte, Cassa depositi e prestiti e Finpiemonte Spa hanno siglato il 2 ottobre un protocollo d’intesa per supportare le Pmi del territorio. Un’iniziativa che permette di avviare un rapporto di collaborazione con Cdp, in qualità di Istituto nazionale di promozione, volto in particolare alla valutazione e possibile definizione di interventi di promozione di canali alternativi di finanziamento a favore delle piccole e medie aziende piemontesi. La Regione svolgerà un’attività di indirizzo e coordinamento per la definizione delle modalità di realizzazione delle iniziative, Cdp valuterà, invece, la possibilità d’intervenire nelle iniziative singolarmente o insieme ad altri investitori istituzionali e realtà finanziarie.

Finpiemonte dal canto suo, in qualità di finanziaria regionale a sostegno dello sviluppo economico e sociale e della competitività del territorio agirà quale strumento operativo della Regione per lo svolgimento delle diverse attività. Cassa depositi e prestiti, secondo le previsioni del Piano industriale 2019-2021, s’impegna inoltre ad ampliare il proprio supporto alle Pmi attraverso l’operatività del fondo di garanzia per le Pmi, realizzando una sotto-sezione speciale a carattere multi-regionale dedicata al programma, per incrementare la dotazione dello strumento e permettere la concessione di nuove e maggiori garanzie a favore delle piccole e medie imprese piemontesi. Il protocollo d’intesa contribuirà altresì alla crescita delle imprese del settore creativo e culturale mediante l’utilizzo di fondi pubblici regionali, Fondi Sie (Fondi strutturali e di investimento europei) nonché con risorse proprie concedendo nuove linee di garanzia su interventi promossi da Confidi e banche. L’accordo è stato sottoscritto dal presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, dall’amministratore delegato di Cdp, Fabrizio Palermo, e dal presidente di Finpiemonte, Stefano Ambrosini.

Manca una dottrina politica per la sinistra di centro o per il centro a sinistra.

Forse una ragione ce l’ha quando dichiara di non stare sereno. Conte intuisce il pericolo. Non ce l’ha però, la ragione, quando di Renzi si lamenta in modo querulo, dato che l’inazione dei concorrenti rimanda all’immaginario della pigrizia o dell’assurdo: se vige la competizione, anche nella maggioranza, di per sé non è male. Piuttosto ha ragione nel dire, con maliziosa baldanza e senso di sfida, che siamo solo agli inizi. L’attuale equilibrio politico, come pure l’articolazione che ne sostiene l’impianto, è destinato a modificarsi profondamente. E in tempi non molto lunghi.

Il paradosso è che i politologi si affannano a teorizzare la scomparsa del centro e i politici, per contro, agiscono proprio con l’intento dichiarato o sottinteso di occuparlo, il centro. Vale appunto per Conte e per Renzi, entrambi destinatari di attenzioni da parte di un’Italia dinamica, dotata del giusto ottimismo, caparbiamente anti declinista. Un’Italia naturaliter di centro. Ma vale anche per Di Maio – un socialdemocratico autentico, in carne ed ossa, come lo erano i figliastri di Saragat – sebbene avvenga per lui che la decrescente reputazione ne offuschi la perizia nel camuffare le ambiguità di un soggetto atipico, il M5S, basato sull’enigmatica e rapinosa piattaforma Rousseau. Dunque, s’incontrano e si scontrano tutti nel punto laddove appare vincente l’esserci, ovvero al centro del sistema politico.

Con una eccezione. L’unico infatti a rifiutare il centro rimane Zingaretti, interessato semmai a restaurare la sinistra come categoria onnipervasiva delle istanze di giustizia e solidarietà, sottratte in via di principio alla concorrenza centrista, specialmente dopo lo scissione di Italia Viva. Alla sinistra viene prescritta una cura omeopatica, in definitiva per surrogare ed estinguere il populismo con il ritorno al vero popolo, anzi alla vera unità di popolo. Ma è allora per questo – si leggano bene gli ultimi sondaggi – che il motore del Pd batte in testa, rumorosamente. Vuol dire che la “linea politica”, per quanto possa presentarsi aggressiva e roboante non trova corrispondenza con i processi in corso a livello sociale.

Tuttavia Zingaretti, in base al paradosso delle cronache quotidiane, sta nel governo con perfetta logica di bilanciamento, di fatto costituendosi come cerniera della maggioranza. La dialettica tra Di Maio e Renzi, un po’ studiata per annebbiare il ruolo del Pd, costringe la sinistra che vuole farsi sempre più sinistra a gestire una posizione alquanto conforme alla tradizionale opera di equilibrio e di sintesi, a lungo rivendicata ed esercitata, in un’altra fase storica, dal partito democristiano. Oggi un drone adibito alla rilevazione dell’area di maggioranza fotograferebbe un Pd dislocato costantemente nel punto più utile alla difesa della stabilità del governo. La novità è una “sinistra di centro”, come l’avevano definita gli sherpa del partito laburista di Blair e come la potrebbero modellare (un “centro a sinistra”) gli eredi del popolarismo, che non conosce una corrispondente elaborazione teorica né un gruppo dirigente in sintonia con questa oggettiva trazione al centro.

Se allora il dibattito nel Pd rimane ancorato ai vecchi schemi, dove una certa interpretazione del progressismo inclina a omettere il valore della risorsa cristiana, nulla può salvare dal fallimento la ”rivoluzione parlamentare” che, in piena estate e con sorpresa di molti, ha condotto al varo del nuovo governo. La maggiore responsabilità che pesa sulle spalle degli uomini del Nazareno è fare chiarezza sulla forma partito derivante da questa traversata nel deserto della post-ideologia. In assenza di una dottrina che assuma il pluralismo e l’identità nel quadro di una nuova visione politica, può andare delusa ogni speranza di evoluzione del Pd come architrave della democrazia. Un’architrave, in sostanza, quale fu la Dc.

Quelle incisioni che colpirono la Yourcenar

Articolo pubblicato sull’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di di José Tolentino de Mendonça

L’agenda della Biblioteca Apostolica Vaticana per il 2020 sarà dedicata, in occasione del terzo centenario della sua nascita, a Giovanni Battista Piranesi (Mogliano Veneto 1720 – Roma 1778), famoso incisore, architetto e teorico dell’architettura, una delle figure più influenti del panorama grafico del XVIII secolo. La collezione delle sue opere conservate presso la Vaticana si distingue per la straordinaria consistenza numerica e qualitativa.

La sua produzione viene qui presentata in ordine cronologico (seppur nei limiti dello spazio disponibile). Tra le opere particolarmente significative presenti si segnalano due disegni attribuiti a Piranesi, un Capriccio architettonico e uno Schizzo progettuale per la decorazione del Pantheon, e la controprova dell’incisione Veduta della Piazza della Rotonda, qui pubblicata per la prima volta. Le frasi selezionate per accompagnare le settimane del 2020 illustrano il pensiero di Piranesi e la posizione critica che eruditi e artisti a lui contemporanei e intellettuali successivi assunsero nei suoi confronti.

Particolarmente suggestivo il contributo di Marguerite Yourcenar, che commentando le Carceri, una delle opere più note di Piranesi, scriveva: «Il vero orrore delle carceri più che in alcune misteriose scene di tortura, è nell’indifferenza di quelle formiche umane erranti in spazi immensi, e in cui diversi gruppi non sembrano quasi mai comunicare tra loro, o neppure accorgersi della loro rispettiva presenza, e addirittura non notare affatto che in un angolo oscuro si sta suppliziando un condannato». 

Proprio per mettere in luce il dato umano fortemente presente nelle stampe piranesiane, ma spesso messo in ombra e quasi schiacciato dalla imponenza delle architetture rappresentate, si sono estrapolati come dettagli da riproporre nelle pagine settimanali, laddove possibile, proprio i personaggi che “abitano” le incisioni. La legatura prescelta è la riproduzione di un volume di recente donazione, rappresentativo del rapporto di amicizia che legava Giovanni Battista Piranesi alla famiglia Rezzonico e quindi al Pontefice Clemente XIII cui l’artista dedicò diverse opere.

Un’agenda è un libro che, a modo suo, custodisce il tempo: lo scandisce sillaba per sillaba e sottilmente lo apre come fosse un tessuto, rendendoci più consapevoli del suo passaggio e del suo misterioso significato. Infatti, un anno può essere rappresentato come una lunga strada fatta di giorni. Ciò che auguriamo a quanti prendono contatto con questa agenda è quello di cui parla la bella preghiera del Salmo 89: «Insegnaci, Signore, a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore».

Firenze: il carteggio tra Giorgio La Pira e Fioretta Mazzei

Sarà presentato martedì 8 ottobre alle 16.30 nei locali della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, in piazza Torquato Tasso, 1/A a Firenze, il volume intitolato “Radicati nella Trinità”. Il testo racchiude una selezione delle oltre seicento lettere scambiate tra Giorgio La Pira e Fioretta Mazzei, amica e fidata collaboratrice del padre costituente e sindaco di Firenze.

La corrispondenza scelta, relativa al periodo 1943-1948, offre un ampio sguardo non solo sulle vicende politico-istituzionali del tempo, ma soprattutto sui preziosi elementi biografici di due figure della storia istituzionale e religiosa fiorentina e non solo.

In occasione della presentazione alla Facoltà teologica, interverranno l‘autore della postfazione, mons. Piero Coda, preside dell’Istituto Universitario Sophia di Loppiano, la deputata Rosy Bindi, il vicepresidente della Fondazione La Pira, Giulio Conticelli, e padre Eugenio Barelli, autore dell’introduzione.

Il volume, edito da Polistampa, è organizzato in 424 pagine ed offre in allegato il cd contenente l’intero epistolario: consentirà di approfondire un cruciale passaggio storico in cui il futuro sindaco di Firenze, ricercato dalla polizia fascista, riparò a Fonterutoli, minuscolo borgo del Chianti, ospite della famiglia Mazzei.

Furono tre mesi durante i quali lui e Fioretta stabilirono un forte sodalizio amicale e spirituale che sfociò proprio nel carteggio avviato nel dicembre del medesimo anno, quando La Pira si spostò a Roma, ove sentì l’urgenza di aprire il cuore alla giovane interlocutrice, proseguendo sulla carta quel serrato dialogo stabilito in precedenza. Un rapporto epistolare intenso, tra i due, inerente i temi della spiritualità cristiana, con echi dell’attività romana nell’apostolato, nella Costituente, nella ricostruzione dell’associazionismo cattolico e nella politica, che si prolungherà fino al 1957.

L’eterno ritorno della questione morale

Nel paese di Macchiavelli e Guicciardini il rapporto tra etica e politica ha sempre suscitato dibattiti emotivamente coinvolgenti. Tuttavia la distinzione tra gli approfondimenti teoretici e le applicazioni pratiche ha separato gli studi dalla realtà: di alto profilo i primi, tendenzialmente accomodante la seconda.

Ciclicamente quella che viene chiamata “giustizia ad orologeria” porta alla luce scandali o episodi di corruzione ma ciò avviene in particolar modo in prossimità delle tornate elettorali.

Fino a configurare una sorta di sistema che gestisce dazioni, tangenti, concussioni, peculato, voto di scambio ed altre peculiarità che descrivono una estesa ramificazione della politica clientelare (non necessariamente in senso partitico) che supera il concetto di casta, abbondantemente spiegato da G.A. Stella e S.Rizzo, poichè si estende a tutti i livelli di gestione della cosa pubblica, fino a diventare costume e prassi prevalente.

Quella classificazione duale – i potenti da una parte e la gente comune dall’altra – sembra superata dall’emergenza sempre più diffusa di legami, intrecci, appartenenze, cordate e congreghe che funzionano secondo un modello “a cascata” nel quale ognuno trova accomodamento e una parte di gratificazione personale, se vige la categoria della fedeltà e del vassallaggio morale.

In altri termini non sembra più sostenibile sotto il profilo della mera considerazione etica un gap tra paese reale e paese legale, tra istituzioni e popolo, tra partiti e gente comune: il fenomeno corruttivo è talmente pervasivo che favorisce l’intercambio interno al sistema per garantirne continuità anche di fronte ad una apparente alternanza. E’ in atto da tempo un salto di quantità in termini pervasivi del fenomeno e di qualità rispetto alla raffinatezza della commissione dei reati.

Ne consegue che non si tratta più di una prassi circoscritta ma di una deriva che si esplicita come consuetudine e mentalità e che riguarda il modus operandi prevalente sul piano istituzionale ad ogni suo livello e una sorta di regola non scritta che si allarga a macchia d’olio in tutti i gangli vitali della vita sociale.

In caso di inchieste l’innocenza fino a prova contraria è una tutela costituzionalmente garantita ma certamente disinibisce comportamenti svincolati da codici morali e consuetudini illecite e favorisce una certa disinvoltura anche negli intrecci tra vita pubblica e privata: di solito prevalgono i furbi sugli onesti.

Se una prassi diventa sistema diffuso e radicato non stupisce il venir meno delle categorie etiche e valoriali ad esempio nella scelta dei candidati, nel conferimento di incarichi o nella difesa degli inquisiti e ciò riguarda ormai lo stesso sentire comune.

Tutto ciò comporta un decadimento di valori tramandati e consolidati sul piano etico e culturale (se etica e cultura servono anche per nobilitare i comportamenti individuali e sociali, per ispirare quella che un tempo veniva definita “rettitudine”), l’emergenza di una cultura prassica ed utilitaristica (si fa ciò che serve piuttosto ciò che è lecito), un diffuso senso di impunità poiché è il “sistema” stesso che garantisce protezioni nelle sue articolate gerarchie.

Non è un fenomeno solo italiano ma prevalentemente italiano.

Il recente Rapporto dell’ISTAT sul nostro senso civico ci descrive accomodanti, tendenzialmente evasivi rispetto a norme e regole, superficiali ed inclini a trovare sempre attenuanti e giustificazioni alle loro violazioni. In Italia in fondo molto si imbroglia ma alla fine tutto si aggiusta.

In genere siamo portati a dare una spiegazione solo economica e strutturale a fenomeni come l’evasione fiscale, il deficit e il debito pubblico, visti in un’ottica oggettiva dimenticando che – disaggregando i dati o cercando di risalire alle motivazioni che ispirano le azioni- le decisioni politiche dovrebbero sempre poggiare su una base etica. Anche per fornire esempi corretti ai comportamenti individuali e sociali.

Ci sono Paesi dove le carriere politiche finiscono per reati che noi valutiamo con sufficienza se non con indulgente benevolenza: copiare una tesi di laurea, molestare anche a parole una donna, ingannare il fisco.

Una delle ragioni del declino italiano consiste proprio in questo lento, graduale ma incessante venir meno del senso civico e nella perdita del significato di “bene comune”.

Un tema di cui dovrebbe occuparsi la politica riguarda la semplificazione burocratica e lo sfoltimento delle leggi, ancora prima della redistribuzione del reddito e dell’ingegneria sociale.

La corruzione si attenua nei Paesi dove la giustizia funziona e la politica si occupa di sostenibilità sociale: unicuique suum ci insegna un precetto fondamentale del diritto romano.

La tripartizione del potere di cui argomenta Montesquieu nel suo “L’esprit de lois”(1748) è il principio fondativo su cui si reggono i rapporti e le competenze delle istituzioni nelle società moderne, principio peraltro assunto e fatto proprio nella nostra Costituzione Repubblicana proprio 200 anni dopo.

Purtroppo una delle ragioni dell’impantanamento istituzionale e sociale del nostro tempo si spiega attraverso gli intrecci e le collusioni tra poteri che dovrebbero essere indipendenti tra loro e con la violazione del patto sociale che dovrebbe garantire la sostenibilità del sistema.

Ne consegue che a monte di tutta questa congerie di prebende, favori, raccomandazioni, ingiustizie sociali, corruttele nella gestione della cosa pubblica sta– anzi starebbe, visto che non si fa – il problema di un radicale rinnovamento della classe dirigente.

Ma se il sistema è “marcio” e incancrenito dalla violazione delle norme e delle regole che dovrebbero garantire la coesione e la pace sociale, chi potrebbe occuparsi di selezionare gli onesti?

In Lombardia città più sicure grazie alla partecipazione civica

Sessanta Comuni del varesotto hanno aderito al protocollo sul controllo di vicinato firmato il 2 ottobre dai Sindaci delle rispettive municipalità, dal presidente della Provincia di Varese nonchè primo cittadino di Busto Arsizio, Emanuele Antonelli, dal Prefetto della città lombarda, Enrico Ricci, e dai vertici territoriali delle Forze dell’ordine. Il protocollo vuole orientare l’azione verso un modello partecipativo, integrato, di collaborazione tra cittadini e istituzioni, nel rispetto dei diversi ruoli e competenze.

In quest’ottica l’obiettivo dell’accordo è quello di definire regole omogenee in tutto il territorio provinciale per le varie attività volontarie dei privati secondo un periodo di formazione svolto in raccordo con le Forze dell’ordine. Attività finalizzate a segnalare fatti o fenomeni anomali che turbino l’ordine pubblico e la convivenza pacifica delle comunità locali. La vitalità del territorio è un elemento fondante attraverso il quale si può ottenere una maggiore sicurezza. La frequentazione degli spazi pubblici non solo produce sorveglianza spontanea, ma riduce in maniera sensibile spazi morti, nascosti, indefiniti dove la criminalità tende a concentrarsi.

L’apporto dei cittadini è importante sia per la capacità di leggere il territorio individuando e segnalando i problemi in modo capillare, sia perché la sicurezza considerata come qualità di vita e condizione di vivibilità dei quartieri non può prescindere dal coinvolgimento diretto di chi in quelle stesse aree abita, lavora, vive quotidianamente. La condivisione è quindi fondamentale per la crescita di città resilienti e più sicure.