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mercoledì, 5 Novembre, 2025
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Un’occasione per ripartire

Articolo già pubblicato sull’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Monda

«Chi ha compiti di responsabilità dovrebbe evitare di accostare agli slogan politici i simboli religiosi. Sono episodi di incoscienza religiosa, che rischiano di offendere il sentimento dei credenti e nello stesso tempo di oscurare il principio di laicità, tratto fondamentale dello Stato moderno». Questo passaggio dell’intervento di ieri al Senato del presidente del consiglio Giuseppe Conte (il resto è raccontato nell’articolo di cronaca) tocca un punto cruciale non solo dell’attuale momento politico ma della storia politica italiana. Vale la pena quindi fermarsi e riflettere. Si potrebbe anche liquidare la questione citando il passo del Vangelo di Matteo (6,5-9) in cui il credente è invitato a pregare «nel segreto» e non «agli angoli delle piazze». Ma il tema è molto grande e complesso e merita la massima attenzione e capacità di approfondimento rispetto al tempo che viviamo e al rapporto, che riguarda la politica ma non solo, fra il dire e il fare (anche su questo basterebbe forse citare ancora Matteo 7,21: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli»).

Negli ultimi mesi questo quotidiano ha ospitato una lunga serie di interviste che hanno coinvolto intellettuali e studiosi, cattolici e laici, tutti appassionati delle sorti di questo meraviglioso e talvolta incomprensibile paese che è l’Italia e questo tema è inevitabilmente emerso più volte. C’è chi come Massimo Cacciari ha evidenziato criticamente anche come i gesti di esibizione dei simboli religiosi abbiano avuto l’effetto di un aumento del consenso e non la diminuzione, riscontrando in questo dato la prova di un evidente problema educativo. In fondo la domanda riguarda la verità di quel che si dice e il modo in cui la si propone testimoniandola o tradendola nei fatti. E riguarda allo stesso modo quel che ognuno vuol sentirsi dire e credere alimentando false verità. Si tratta di temi sociali ed etici, di difesa della giustizia e della vita, che non possono essere disgiunti e che riguardano tutti, non solo questo o quel partito o esponente politico.

E allora, in ossequio al motto di Spinoza «non ridere non lugere neque detestari sed intelligere» cerchiamo di frenare i nostri primi impulsi e di non deridere, non compiangere né disprezzare ma di comprendere: come si è arrivati a questo? L’educazione è in effetti il punto chiave, un’educazione che forse nel corso dei decenni è stata ridotta a istruzione, a una forma di mera guida e governo “dall’alto”, e questo slittamento di significato ha riguardato sia la politica sia la Chiesa cattolica, entrambe si sono dimenticate che per educare è essenziale come primo passo l’ascoltare. Il popolo non è stato ascoltato. I fattori che hanno causato questo stato di cose sono molteplici e infatti sembra indubbio che — paradossalmente — un posto di rilievo lo ha avuto anche la progressiva emarginazione del “religioso” dalla scena pubblica attraverso il complesso fenomeno che passa sotto il nome di secolarizzazione. In Italia non si è arrivati alla situazione propria della Francia, in cui proprio i simboli religiosi sono stati messi sotto accusa e espulsi anche fisicamente dalla vita pubblica attraverso legislazioni e normative penali, però anche in Italia si è affermato un assetto sociale che ha reso superfluo e superato ogni riferimento alla dimensione religiosa per cui il dominus è oggi il principio economico e tecnologico che inevitabilmente spinge verso un prepotente individualismo inaridendo ogni senso di appartenenza, tanto più se legata alla sfera religiosa vista come un residuo folkloristico di epoche antiche, tendenzialmente “buie” e superstiziose. Il discredito che a livello “alto”, della politica e del mondo culturale e intellettuale, è stato riversato sulla religione ha finito per provocare una reazione quasi istintiva per cui quei simboli religiosi hanno di fatto tradito la loro stessa natura: se infatti “sim-bolo” significa ciò che unisce, oggi assistiamo ad una spaccatura, tra chi li vede con fastidio e avversione e cerca di espungerli dalla vita sociale e chi invece a quei simboli si aggrappa come ad un feticcio dal forte valore identitario che però rischia di tradire il significato che essi rappresentano.

Se non si scioglie questo nodo la crisi politica potrà pure risolversi a livello parlamentare, con un passaggio elettorale o con un nuovo governo, ma la vera crisi, quella che affonda le radici nel vivere quotidiano e nelle esistenze reali degli italiani, non sarà minimamente affrontata.

In questa situazione la Chiesa cattolica, cioè il popolo dei cristiani, può senz’altro giocare un ruolo decisivo. Potrà farlo se innanzitutto avrà il coraggio di fare una profonda autocritica, in particolare per quella mancanza di ascolto già accennata e che è parte essenziale della dimensione sinodale che il Papa con insistenza sta proponendo sin dall’inizio del suo pontificato.

Il cristianesimo in particolare è la religione imperniata sul dogma dell’Incarnazione, cioè di un Dio che diventa uomo rinunciando al suo potere e che non chiede più il sangue degli uomini come nell’antichità ma Lui stesso diventa carne e sangue, pane quotidiano, cibo per la vita di tutti i giorni di ciascun essere umano. L’onnipotenza divina come era intesa prima del cristianesimo viene abbandonata a favore della libertà e la dignità dell’uomo. Per questo il potere viene de-sacralizzato e Dio lascia spazio a Cesare senza confondersi più con esso. Dal Vangelo è scaturita quella forza che ha portato all’affermazione della laicità, che non può però essere ridotta a laicismo, cioè a liquidare snobisticamente in nome di un malinteso razionalismo tutto ciò che riguarda la sfera religiosa anche perché questa rimozione impoverisce l’esperienza umana e fa torto alla sua ricchezza e complessità creando inevitabili reazioni che spesso si spingono agli eccessi opposti del fanatismo irrazionale e alla fine del fondamentalismo.

Su questo sentiero sottile e delicato tra i due rischi opposti si è sempre mossa e deve continuare a farlo con coraggio la Chiesa cattolica e allora anche questa ingarbugliata crisi della politica italiana può (e deve) rivelarsi un’occasione per una severa riflessione sul passato in vista di una urgente ripartenza dalle basi, cioè dall’ascolto del popolo e dei suoi bisogni e quindi dall’educazione, una ripartenza di cui l’Italia ha drammaticamente bisogno.

La “Quaresima di Salvini” e il M5S nuovo centro della politica italiana

Giuseppe Conte, infatti, nel suo intervento al Senato aveva appellato il ministro degli interni con questa connotazione: autoritario, privo di cultura costituzionale e irrispettoso delle regole, irresponsabile, sleale, sino alla stilettata velenosa della replica finale: “politico senza coraggio”. L’epiteto di codardo è quello che più pesa e peserà sull’immagine del “capitano”. 

Un’anamnesi psicologico caratteriale degna di una seduta psicanalitica. Mai si era vista, nella storia politica e parlamentare italiana, una crisi di governo con una requisitoria pubblica così feroce del presidente del consiglio contro il suo vice e ministro degli interni. 

Finisce così l’esperienza del governo giallo verde che segna, da un lato, la rinascita di un nuovo leader dei Cinque Stelle, Giuseppe Conte, e, dall’altra, l’inizio della “Quaresima salviniana”, ricordando una metafora che Fanfani utilizzò per Forlani, in un lontano congresso della DC, quello del patto di Palazzo Giustiniani (6 Giugno 1973). 

Alla “Quaresima di Salvini” si aggiunge il declino della guida politica del M5S di Luigi Di Maio, responsabile del crollo elettorale subito dal partito dopo quindici mesi di un governo, nel quale il M5S ha subito costantemente l’egemonia della Lega salviniana parlamentarmente più debole. 

Salvini paga gli errori di una strategia ondivaga, tra annunci e contro annunci, tempi errati nella tattica utilizzata, presentazione e ritiro di mozione di sfiducia al governo, senza dimissioni sue e dei ministri leghisti. Insomma una strategia fallimentare, tanto che nella seduta di ieri il ministro degli interni, anche nel suo confuso intervento, sembrava un pugile suonato, “groggy”, alle soglie del KO tecnico. 

Ovviamente, come ricordò Fanfani, dopo il patto con Moro per liquidare la segreteria Forlani, “dopo la Quaresima ritorna la Resurrezione”, e così potrà essere anche per Salvini, se saprà correggere gli errori di conduzione politica commessi in questa fase della politica italiana e del suo partito. 

Aperta la crisi di governo, spetta al saggio presidente Mattarella il compito di accertare se esistono le condizioni per una nuova maggioranza parlamentare in grado di reggere per l’intera legislatura o se, invece, si debba andare a elezioni anticipate, salvo passare per un governo di garanzia per lo svolgimento delle elezioni stesse. 

Per quanto è emerso dalle dichiarazioni di voto al Senato, se il passaggio obbligato sembra essere quello di una possibile maggioranza M5S-PD, con tutte le difficoltà interne ed esterne ai due partiti, ieri abbiamo assistito alla riconfermata e per certi versi incomprensibile disponibilità della Lega a un nuovo tentativo con i grillini, oltre alla richiesta del voto anticipato; alla reiterata dichiarazione di Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia per l’immediato ricorso al voto e per dar vita a una maggioranza sovranista e nazionalista Lega-FdI, con l’esclusione di Forza Italia; al timido cinguettio di quest’ultima che, con gli interventi della Bernini e di Gasparri, continuano a reclamare elezioni (?!) e il ritorno al centro destra a trazione salviniana, senza dar peso all’esclusione, quanto meno sottaciuta di Forza Italia da  parte sia della Meloni che dello stesso Salvini, almeno sino a quando questi vestiva i panni del Rodomonte tuttofare. 

Se veramente si andasse a elezioni anticipate, anche stavolta sarebbe impossibile la partecipazione di un partito di ispirazione cristiana, persistendo una diaspora suicida e assurda, espressione, da un lato, della “maledizione di Moro” e , dall’altra, della stupidità di tutti noi, eredi indegni dei nostri padri fondatori. Le abbiamo tentate tutte nel lungo travaglio politico dei cattolici italiani, dopo la fine della DC ( 1993-94) e sino ai nostri giorni, ma, almeno sin qui, rimangono velleitarie le nostre indicazioni e pressoché nulli i risultati politico organizzativi concreti in grado di ricomporre ciò che resta della tradizione democratico cristiana e popolare italiana. 

Ieri Giuseppe Conte è riuscito nell’impresa di parlare come un politico di cultura democratico cristiana, fedele servitore delle istituzioni, della Costituzione repubblicana e dello stato di diritto, autentico leader di un movimento che, grazie anche agli errori di Salvini, sta assumendo oggettivamente il ruolo di asse centrale della politica italiana. 

Certo il M5S dalla sua nascita con la cultura dei “vaffa…” e la sua struttura aziendale privatistica non può essere il modello di riferimento in grado di rappresentare gli interessi e i valori dei ceti medi produttivi e delle classi popolari, che sono stati quelli cui ha sempre fatto riferimento la Democrazia Cristiana. Oltre tutto, gli esempi forniti sin qui, tanto a livello locale che di governo nazionale, hanno scontato il livello di improvvisazione e di prevalente scarsa competenza professionale politica e amministrativa dei dirigenti grillini. 

Non vi sono dubbi, però, sulla buona fede di una classe dirigente nuova di giovani che hanno inteso rappresentare ansie e bisogni diffusi in larghi strati della società italiana, rispetto ai quali noi “ DC non pentiti” abbiamo il dovere di guardare con estrema attenzione. 

Anche la triste formula della “decrescita felice” deve farci meditare tutti noi che, sulla questione ambientale e su quella antropologica, abbiamo il dovere di dare risposte, alla luce degli insegnamenti della dottrina sociale cristiana espressi dalle ultime encicliche sociali: dalla “Centesimus Annus” di Papa San Giovanni Paolo II, alla “Caritas in veritate” di Papa Benedetto XVI, sino alla “Evangelii Gaudium” e la “Laudato Si” di Papa Francesco. Che si debba puntare a un nuovo tipo di economia, dando prevalenza a quella reale contro il dominio dei poteri finanziari sta scritto in tutti i nostri testi teologico pastorali citati, nella quale porre in essere politiche economicamente, socialmente e ambientalmente sostenibili, è una delle motivazioni più importanti di possibile intesa con il Movimento 5 Stelle. 

Non va sottovalutata, poi, la scelta europea fatta dal M5S a sostegno della neo presidente Ursula von der Leyen, popolare, ossia autorevolissima espressione del PPE cui facciamo anche noi riferimento. 

C’è, infine, una ragione più profonda che ci può collegare a questo nuovo centro della politica italiana, nel quale potremmo apportare il contributo della nostra migliore tradizione culturale e politica: il M5S tra i suoi primi obiettivi programmatici, ahimè sin qui solo enunciati, contiene quello che da molto tempo anche noi DC andiamo sostenendo: 

a) il ritorno al controllo pubblico di Banca d’Italia;

b) la netta separazione tra banche di prestito e banche di speculazione finanziaria. 

Trattasi di due riforme propedeutiche a ogni altro tipo di riforma economica e sociale, senza delle quali, ogni progetto riformatore risulterebbe vano. 

Incapaci di realizzare, nei tempi brevi che la politica italiana ci impone, l’unità di tutti i DC, credo andrebbe accelerato il progetto di concorrere alla creazione di un nuovo centro democratico, popolare, liberale, riformista, europeista, trans nazionale, alternativo al sovranismo nazionalista che la deriva salviniana e della destra meloniana vorrebbe far prevalere in Italia. Una prospettiva drammatica se vincesse, di sicuro isolamento dell’Italia e di rottura con i nostri tradizionali partner europei e atlantici. E’ tempo che, come faremo noi sin dai prossimi incontri degli organismi nazionali DC, anche il M5S, con la nuova leadership di Conte conquistata sul campo, cominci a muoversi in questa direzione. 

Cresce il reddito delle famiglie, ma l’Italia resta tra le ultime

Aumenta il reddito delle famiglie nei Paesi Ocse. E pur se l’andamento è positivo anche in Italia, quest’ultima si piazza comunque sotto la media dell’organizzazione parigina e dell’aera euro.

La crescita nel nostro Paese è stata dello 0,5% contro il +0,6% dell’Ocse e il +0,7% dell’Europa.

Secondo i dati della stessa Ocse, in Germania l’aumento è stato dello 0,6%, in Francia dello 0,8%, negli Stati Uniti e in Canada dello 0,9%. Peggio di noi fa solo il Regno Unito (+0,3%), che mostra però un dato migliore nel cumulato degli ultimi 8 trimestri.

La Food and Drug Administration approva un farmaco per il tumore della prostata

Assorted pills

la Food and Drug Administration (FDA), ha approvato darolutamide, un farmaco indicato per il trattamento del tumore della prostata che continua a progredire nonostante la terapia di deprivazione androgenica (ADT) ma che non ha ancora sviluppato metastasi.

La decisione è stata presa sulla base dei risultati ottenuti nello studio (ARAMIS), che ha valutato darolutamide associato a terapia di deprivazione androgenica (ADT): l’aggiunta del farmaco comporta un aumento altamente significativo della sopravvivenza libera da metastasi (MFS)

Al momento, però, il darolutamide non è approvato dall’agenzia regolatoria europea o da altre autorità sanitarie al di fuori degli Stati Uniti.

Adesso il braccio di ferro è sul nome del Presidente del Consiglio.

L’approvazione all’unanimità dell’ordine del giorno (v. link sotto), presentato in direzione di partito da Nicola Zingaretti, contribuisce a rendere più lineare la gestione della crisi. Sì è fatto un passo avanti.

I punti programmatici indicati nel testo possono essere recepiti facilmente dal M5S. Il passaggio più delicato è quello che sollecita un accordo fondato sulla “necessaria discontinuità e su un’ampia base parlamentare”, tale da consentire al PD di assumersi “la responsabilità di dar vita a un governo di svolta per la legislatura”.

Aggettivi e sostantivi, in apparenza solo enfatici, stanno ad indicare la la richiesta pregiudiziale dei Democratici  in ordine alla sostituzione di Giuseppe Conte. Si tratta di uno scoglio – Bodrato parla di “calcio dell’asino” – che può determinare quanto meno il ritardo nella definizione dell’accordo.

Non è escluso che Renzi possa nuovamente inserirsi, con un gesto di fantasia e imprevedibilità, negli interstizi delle trattative. Nel suo discorso al Senato ha negato di voler tornare al governo: un modo come un altro per prendere le distanze dai vari aspiranti ministri e sottosegretari di stanza al Nazareno.

Ma la “necessaria discontinuità”, enunciata nell’ordine del giorno del PD, deve tradursi nella nomina di alcuni amici di Zingaretti?

LINK

L’ordine del giorno del segretario  https://www.agi.it/politica/crisi_governo_direzione_pd_zingaretti-6058098/news/2019-08-21/

Le incognite della crisi

Mai si era visto un Presidente del Consiglio svolgere la sua requisitoria dai banchi del governo contro il suo vice-Presidente e ministro dell’Interno, mentre quest’ultimo, seduto accanto, platealmente accompagnava i vari passaggi dell’intervento con segni di dissenso, facendo smorfie o sfoderando sorrisetti di degnazione.

La crisi è stata portata in Parlamento, ma ciò non ha prodotto un guadagno in termini di stile e contenuti. Qualcuno ha parlato di corrida. È stata sciupata l’occasione, ornata di solennità, di mettere a fuoco le ragioni che hanno condotto al fallimento del “governo del cambiamento”, nato fuori da un esplicito mandato elettorale. Conte ha tagliato di netto il nodo gordiano della crisi, sancendo con la sua requisitoria  l’archiviazione del rapporto con la Lega. Nel medesimo tempo, senza giravolte improvvisate, ha tracciato il solco di un’alternativa al ricatto sovranista, chiaramente riassunto nella rivendicazione di “pieni poteri” – così si è espresso Salvini – attraverso elezioni ridotte a plebiscito. Di fatto si è proposto come erede di se stesso.

Da oggi, dopo le dimissioni del Presidente del Consiglio, la partita è nelle mani di Mattarella. Lo è, in effetti, non solo ai sensi della Costituzione, ma anche per la “moral suasion” che può mettere in campo nel tentativo di evitare lo scioglimento anticipato delle Camere. Dovrà, per questo, capire come evolve il confronto all’interno del Pd, in particolare sulla cosiddetta discontinuità (che ridotta all’osso vuol dire immaginare proprio la rimozione di Conte). Non è un mistero che Zingaretti preferisca la strada delle urne e si tenga molto stretto, a tale scopo, un pretesto poco convincente agli occhi del Capo dello Stato. Ma il pretesto unifica davvero il partito? I segnali non sono affatto chiari.

Di chiaro c’è che Renzi userà tutto il suo ascendente per marcare una posizione di forte autonomia, anche a prescindere dalla linea della segreteria. Sgradevole è apparso l’attacco (pilotato?) di Francesco Boccia all’ex segretario Dem, come se il problema, nel bel mezzo della verifica politica in Senato sui destini del governo e della legislatura, fosse la pubblica certificazione di un disaccordo strutturale tra la maggioranza zingarettiana e l’area renziana. È vero però che nascondere l’esistenza di tale disaccordo è praticamente impossibile.

Ora, in un certo senso, preme sotto i carboni ardenti della crisi una dinamica nascosta che avvolge il bisogno di un nuovo “centro propulsivo”, capace di unire politica e società nella ripresa di uno slancio vitale, per uscire dal pantano dell’immobilismo. L’Italia non cresce da 25 anni. In tutto questo tempo ha dominato la logica del bipolarismo artificioso, sempre gravido per i teorici della democrazia decidente, nonché dei partiti a vocazione maggioritaria, di un bipartitismo ancora più artificioso. Non c’è dubbio che la cancellazione del centro abbia infine generato un vuoto di direzione politica. Da ciò deriva la considerazione in ordine al fatto che l’iniziativa di Renzi, con l’apertura ai Cinque Stelle, incrocia esattamente questa profonda esigenza di riordino.

Siamo a un passaggio decisivo nella vita democratica del Paese.

Merlo: No alle scissioni, si al nuovo partito.

Al di la’ del ribaltone che forse sta per nascere dopo la fallimentare gestione del governo giallo/ verde, quello che emerge in modo inequivocabile è che il nodo da sciogliere adesso nel campo del centro sinistra, alternativo alla destra e al movimento antisistema e populista dei 5 stelle, è quello di dar vita ad un partito “costituzionale” che recuperi il progetto e la cultura politica del centro democratico, riformista e innovativo che ha caratterizzato per molto tempo la miglior stagione politica italiana. E, senza entrare nelle dinamiche sempre più misteriose di una crisi di governo “folle” ed irresponsabile, il problema non è riconducibile a favorire, o meno, una scissione all’interno del Partito democratico. Anche perché sarebbe curioso pensare che questa scissione, e l’ennesima, favorisca la ripartenza del campo del centro sinistra. Che oggi, semplicemente, non c’è.

Ormai è da mesi che tutti gli organi di informazione parlano e anticipano come imminente la “scissione” del Partito democratico e nel Partito democratico. Una operazione a mio parere inutile perché non contribuisce, se non in misura ridotta e quasi ininfluente, il tema di un credibile allargamento politico ed elettorale del campo riformista e di centro sinistra. E questo per un semplice motivo: oggi, molto più di ieri, c’è una esplicita richiesta di un nuovo spazio politico che vada a ridare voce ad un pezzo di società che oggi, di fatto, è orfano e senza rappresentanza. Uno spazio politico che prescinde da eventuali scissioni all’Interno del Pd o di altri partiti. Forse oggi, e proprio alla vigilia appunto di questa folle crisi di governo, emerge la necessità sempre più impellente di dar vita ad una nuova forza politica che rimetta in discussione i vecchi equilibri politici e cerchi di ridare una rappresentanza autorevole ed omogenea, nonché credibile, ad una consistente fetta di elettorato oggi spaesata e quasi attonita di fronte ad uno spettacolo semplicemente inguardabile. 

La vera sfida, oggi, è quindi quella di saper costruire un luogo politico, saper intercettare un consenso sempre più liquido e disorientato, elaborare al contempo un progetto politico e di governo che non si faccia condizionare dalle plateali contraddizioni che caratterizzano molte forze politiche e, in ultimo, che sia anche in grado di ridare voce a spezzoni di classe dirigente, di interessi sociali e culturali che oggi sono stancamente presenti nel Pd, in Forza Italia e in altre piccole formazioni politiche e che, invece, sono disponibili a scommettere sul progetto di una nuova forza politica. Questa, quindi, è la vera sfida politica, culturale e forse anche etica. Ma non solo perché quasi tutti i sondaggisti indicano una strada favorevole per una formazione politica che imbocchi quella via, ma per la semplice ragione che è utile per la democrazia italiana, per la qualità del campo riformista e democratico e per le stessa credibilità delle istituzioni nel nostro paese. 

Ecco perché è inutile, e anche un po’ riduttivo, continuare a parlare della scissione all’interno del Pd o di altri partiti. Quello che serve è altro, totalmente altro. Cioè un altro partito, con un nuovo progetto politico e una nuova cultura politica. Lo chiede la contingenza storica e politica italiana, e non un vecchio e stantio gruppo dirigente in preda alla conservazione del proprio seggio parlamentare.

Perché evitare le urne. Intervista a Dellai

Articolo già apparso sulle pagine di Formiche.net

Lorenzo Dellai, ex deputato di Democrazia Solidale – Centro Democratico, lo ha detto qualche settimana fa quando con Enrico Letta ha presentato a Trento la scuola di formazione politica promossa dall’associazione “Codice Sorgente. Idee Ricostruttive”.

All’Italia occorre un nuovo humus culturale e politico per affrontare le sfide, come quella di Salvini, che punta a banalizzare la politica. E consiglia di lavorare per una legittima difesa della democrazia parlamentare.

Quante possibilità ha il governo-ponte di durare per l’intera legislatura?

Se fossimo in tempi normali ed in una situazione normale la via maestra sarebbe stata quella del voto il più presto possibile. Il punto vero è che in questa crisi sui generis non vi è nulla di normale. Non è normale il modo in cui dentro il governo tutti hanno giocato alla maggioranza e all’opposizione, non è normale il ruolo del ministro dell’Interno che come da storia repubblicana italiana dovrebbe essere quello più discreto e silenzioso, non è normale che tutta questa dinamica della crisi annunciata ma non formalizzata si sia svolta in maniera totalmente sganciata dalle emergenze del Paese e dal quadro europeo.

Dunque?

Non essendoci nulla di normale il discorso va rovesciato. È interesse del Paese verificare fino in fondo con lealtà, serietà e rigorosità se il Parlamento sia in grado di assicurare una continuità della legislatura nei termini che il Capo dello Stato valuterà. Credo che il ragionamento vada fatto su due livelli. Il primo sulla base politico-parlamentare sufficientemente ampia che garantisca una ulteriore fase di legislatura. Il secondo sul profilo del governo, che non necessariamente deve rappresentare l’intera base: può essere anche di tipo diverso, espresso dalla forza politica principale, oppure misto.

Ipotesi Ursula, o parte di essa, quindi?

Importante in questa fase è mettere in sicurezza il Paese. É per questo che osservo la presenza di un altro punto anomalo: il gioco a non assumersi alcuna responsabilità. La crisi è stata provocata dal non voler fare i conti con gli effetti della manovra finanziaria. Qualcuno pensa che non gli convenga andare al governo adesso perché poi gli toccherebbe fare la manovra, è il mondo alla rovescia. La battaglia politica invece si fa per dimostrare di avere una visione, assumendosi responsabilità anche pesanti.

Vede nel Lodo Grasso appoggiato da Romano Prodi il tentativo di salvaguardare gli interessi nazionali più che quelli elettorali?

La situazione italiana presenza dei buoni margini per un governo che, se dovesse impostare una manovra nell’immediato e nel medio periodo, potrebbe puntare all’interesse generale. Auspico quindi che dal dibattito di oggi possa aprirsi una fase, sotto la vigilanza del Colle, che porti ad evidenziare una base parlamentare possibile. Ma non intendo con ciò una classica alleanza politica, quella parte solo dalle urne, bensì una convergenza di volontà per il bene comune.

Chi teme le urne?

È vero che esclude le urne chi teme di perdere i consensi, ma d’altronde è questa una forma di difesa della democrazia parlamentare rispetto alla sfida lanciata dal ministro Salvini alla politica italiana. Una sfida di banalizzazione delle questioni, di radicalizzazione di posizioni, rispetto alla quale si sarebbe apprestato a cogliere più consensi nelle urne per trasformare la natura della democrazia italiana. Rispetto a questo rischio è giusto essere preoccupati mettendo in campo una legittima difesa della democrazia parlamentare.

Dunque evitare le urne per un interesse nazionale?

Per interesse nazionale intendo il dover evitare che il ricorso alle urne, in una fase così delicata della nostra situazione economica e dei nuovi rapporti con la Commissione Ue che sta nascendo, avvenga in dispregio del bene comune. Ovvero senza il dovuto principio di responsabilità del governo e del parlamento. Inoltre questa strategia risponde anche all’interesse di tutelare una democrazia parlamentare liberale che non vuole diventare il primo laboratorio europeo pro Putin, che parla di superamento della democrazia parlamentare liberale.

Il direttore di Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, ha detto: “È tempo di resistenza, umana civile e religiosa”. Ha ragione?

Credo che sia una frase molto dura ma anche molto opportuna, che mi ricorda un’altra frase altrettanto dura scritta da De Gasperi nel 1925 ad un giovane cattolico trentino in cui spiegava la fase di consolidamento iniziale del Ventennio. E osservava che mentre una larga parte dei cattolici scelse il silenzio, un’altra osannava il nuovo capo. Diceva: “Non posso che essere contrario a questo atteggiamento, non per merito politico ma principalmente in quanto cattolico per motivi morali e spirituali”. Per cui vedo in questo momento una necessità di testimonianza da parte di chi ha l’ardire di definirsi cristiano: ed è un imperativo che va al di là dei legittimi regionamenti di tattica politica, ammesso che ve ne siano. Parlo di una visione legata all’umanesimo che non trova purtroppo riscontro negli atteggimenti sotto gli occhi di tutti.

 

Mercenari e compagnie di ventura in Africa. La corporazione della morte.

Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Padre Giulio Albanesi

Mercenari e compagnie di ventura infestano oggi, più che mai, le periferie del nostro povero mondo, quei bassifondi della Storia contemporanea dove sopravvive in condizioni penose tanta umanità dolente. Essi costituiscono, alla prova dei fatti, una sorta di corporazione dell’illecito sulla quale sarebbe auspicabile riflettere, rappresentando nel suo insieme, un fattore altamente destabilizzante per non pochi Paesi, molti dei quali africani. 

Chi scrive ricorda come fosse ieri, la lunga conversazione che ebbe a Nairobi, alla fine degli anni ‘90, con uno di loro, un certo Joe. L’incontro avvenne in un bar, dalle parti di Westlands, uno dei quartieri della capitale keniana. Magro allampanato, barbetta a pizzo, sguardo simpatico, questo signore aveva un passaporto sudafricano, ma in effetti era nato in Inghilterra dove aveva seguito tutti gli studi fino ad intraprendere la carriera militare. Successivamente si era congedato dall’esercito di Sua Maestà per raggiungere la moglie sudafricana a Johannesburg. Capelli ossigenati, pantaloni corti color panna, camicia nera sbottonata dalla quale affiorava una collana confezionata con strani amuleti e scarpe da tennis in pessimo stato, Joe sulle braccia aveva due grandi tatuaggi raffiguranti sull’avambraccio destro un elefante e sul sinistro un enorme coccodrillo, seminascosto dalla manica ripiegata. 

Questo personaggio, a dir poco eccentrico, mi era stato segnalato da un collega della stampa australiana che lo aveva intervistato in Angola quando combatteva come mercenario della famigerata Executive Outcomes (Eo). Joe disse subito che aveva deciso di chiudere la partita una volta per sempre con i cosiddetti dogs of war (“cani da guerra”), appellativo attribuito ai moderni soldati di ventura che da anni imperversano nel continente africano. «Àrmati e viaggerai» era il loro motto. Nelle loro fila c’era di tutto: portoghesi, belgi, russi, inglesi, irlandesi, serbi, croati come anche africani dello Zimbabwe, Mozambico, Namibia. I maggiori centri di reclutamento erano a quei tempi in Inghilterra e Sudafrica. 

«È gente disposta a tutto per i soldi poiché alle spalle di ogni mercenario c’è sempre una delusione: professionale, familiare, affettiva», raccontò Joe, mostrando la foto di sua moglie morta tragicamente nel corso di una rapina a mano armata alla periferia di Johannesburg. Nel 1986, essendo rimasto vedovo senza figli, decise di mollare il suo impiego di responsabile della sicurezza in un complesso alberghiero di prestigio, per fare il soldato di ventura; un mestiere che gli fruttò un bel gruzzolo, ma troppo rischioso per durare nel tempo. 

Oggi Joe vive in una capitale africana dove dirige un’impresa di import–export, ma quando era nell’Eo, combatteva in Angola. Nel corso della conversazione a Nairobi raccontò che gli uomini dell’Eo, ai suoi tempi, erano circa 2.500, molti dei quali veterani di guerre civili che hanno marcato la storia postcoloniale africana: Mozambico, Liberia, Namibia… Un vero e proprio esercito di professionisti, al soldo di chi offre di più. 

I mercenari, certamente, hanno sempre guadagnato bene. Stando ad un’inchiesta della rivista «New African», nel 1994, diciotto elicotteristi sudafricani operarono in Angola, firmando un contratto di 18.000 dollari mensili. «Può sembrare una cifra da capogiro — commentò Joe — ma, dopotutto, il rischio è davvero grande: durante gli anni trascorsi con l’Eo ho intascato molto, ma ho anche perso molti amici». Alcuni dei suoi compagni, spiegò con tono affranto, sono stati fatti prigionieri, altri hanno perso la vita. 

In questo ultimo decennio vi è stata comunque una sporulazione di compagnie dedite al reclutamento di mercenari. Attualmente, ad esempio, nella Repubblica Centrafricana è operativa la Wagner Group, un’organizzazione di mercenari dell’ex impero sovietico. I suoi mercenari affiancano i contractor statunitensi, sudafricani e francesi e godono della benevola protezione dei caschi blu dell’Onu impegnati, con non poche difficoltà, a contenere i massacri e le pulizie etniche in atto nello stremato Paese africano. Peraltro, secondo fonti autorevoli della società civile, la Wagner Group — già attiva in Siria, Libia e Sudan — avrebbe siglato diverse intese per avere ragguardevoli emolumenti sulle materie prime centrafricane, come i diamanti e l’oro estratti dal sottosuolo. 

Ciò nonostante, nessuna compagnia di mercenari ha mai raggiunto in Africa la notorietà di Eo. Il segreto del successo? La straordinaria capacità operativa dimostrata nel realizzare i contratti; una competenza, frutto, in gran parte, dell’esperienza maturata sul campo dagli ex appartenenti alle Forze Speciali dell’esercito del Sudafrica «razzista», tra cui il nefasto Battaglione 32, probabilmente la più famigerata unità militare che abbia mai combattuto in Africa. Anche se è stata ufficialmente sciolta il 31 dicembre del 1998, ancora oggi Executive Outcomes rappresenta il modello su cui si basano tutte le società militari private (Pmc), come quelle che hanno operato in Iraq e Afghanistan.

Secondo Mark Brown, un volontario statunitense di una importante ong, che conobbi in Sierra Leone nel 1998, questi moderni lanzichenecchi sono uomini senza scrupoli: «Per loro uccidere è un business e lo fanno perché esiste una costante crescita nel rapporto domanda-offerta». D’altronde il fenomeno non è affatto nuovo se guardiamo alla storia e la stessa etimologia della parola soldato lo lascia intuire. Molti dei dittatori africani vedono nei mercenari dei preziosissimi collaboratori. In effetti, la presunta etica di Eo — «azienda leader nei servizi di sicurezza per proteggere vite e comunità di persone» si leggeva sulla Web page aziendale (oggi non più online) — non ha mai convinto neanche i più ingenui. 

In Sudafrica le Chiese cristiane hanno da sempre condannato l’operato dei mercenari, definendoli come «cani da guardia della segregazione razziale» o «mastini da guerra». A dire il vero, negli anni ’60 e ’70 i mercenari riuscirono a creare attorno alla loro professione un alone di mito o leggenda. Come il francese Bob Denard, patito per i colpi di Stato nelle isole tropicali dell’Oceano Indiano — con una particolare propensione per l’arcipelago delle Comore — o come Mad Max Hoare, celebre per aver soffocato la rivolta dei Simba nell’ex-Congo belga negli anni Sessanta. 

Ma accanto a quelli che comunque sono pur sempre poco più che gruppi di sbandati pronti a tutto, sta emergendo un’altra figura di combattente a pagamento: il professionista della guerra, messo sotto contratto o alle dipendenze di private security, compagnie che, alla stregua di qualsiasi multinazionale, hanno proprie strategie di mercato, pubblicizzano il loro prodotto con show reel televisivi e stipulano regolari contratti secondo la legislazione internazionale. 

Personalmente, non dimenticherò mai l’esperienza vissuta in Sierra Leone quando, nel marzo del 1999, volai su un loro elicottero Mi8 carico di armi e munizioni. Avevo chiesto un passaggio per raggiungere l’aeroporto di Lungi dalla foresta dove avevo incontrato degli eroici missionari saveriani. A dire il vero ero convinto che si trattasse di militari dell’Ecomog, la forza d’interposizione dei Paesi della Comunità Economica dell’Africa Occidentale, sotto comando nigeriano. E invece, chiacchierando a bordo con i due piloti e il mitragliere, scoprii le loro vere nazionalità: due angolani e un eritreo. Il loro capo mi disse in perfetto inglese che appartenevano tutti e tre ad una non meglio precisata compagnia di sicurezza e che si guadagnava bene.

Inizialmente pensavano che fossi solo un giornalista, ma quando rivelai la mia vera identità missionaria, con grande sorpresa, divennero affabili e addirittura cortesi. «Padre, credo che oggi io abbia fatto l’unica opera buona di tutta la mia carriera militare; mi riferisco al fatto d’aver preso a bordo un prete», disse l’angolano spiegandomi che uccidere per lui non era mai stato un problema. 

Ascoltando le sue parole capii davvero quanto rischioso possa essere appaltare a società di mercenari le missioni di pace e di interposizione fra opposte fazioni come qualcuno vorrebbe in sede internazionale. Un’eventualità che, se dal punto di vista strettamente pragmatico ha indiscutibili vantaggi in termini di efficacia operativa, dall’altra ha ovvie e incontrovertibili controindicazioni di ordine morale. 

Parlare della realtà dei mercenari, senza ipocrisie e falsi pudori, è opportuno se si vuole davvero scuotere le coscienze, combattendo la «globalizzazione dell’indifferenza», denunciata da Papa Francesco nel suo illuminato magistero.

Il Monocolore Pentastellato

Il monocolore targato M5S, che stamane ripropone Giuliano Ferrara sul Foglio, è un’idea ardita ma non assurda. Se si vogliono evitare le elezioni, frenando la pretesa dei “pieni poteri” di Salvini, non ci sono tante strade. L’alternativa è un governo politico di complicata gestazione, frutto di un’intesa strategica tra M5S e Pd, con tutte le obiezioni che ne frenano la definizione pratica.

La svolta avverrà oggi pomeriggio in Senato con il discorso di Giuseppe Conte. Solo dopo l’intervento prenderà forma la procedura che segnerà il percorso della crisi. È improbabile che il Presidente del Consiglio traduca la volontà di archiviare l’esperimento gialloverde in un semplice e drastico rovesciamento di fronte, con l’appello ai Democratici a fare “squadra” in modo organico per il prosieguo della legislatura, sotto il mantello ideale di un matrimonio di convenienza a forte impatto sulla pubblica opinione. 

In effetti, la pubblica opinione è divisa tra il rifiuto delle smanie (pericolose) di Salvini e l’assenso, perlomeno complicato, a un mutamento di fronte tutto interno al Palazzo. Per questo la “tregua” è l’unica forma di soluzione alla crisi politica aperta con tanto clamore e tanta arroganza. Si tratta di conferire il giusto rilievo a un passaggio che risponde a una logica di necessaria e problematica transizione, appoggiandosi allo schema adottato in Europa con la elezione di Ursula con Deri Leyen (e David Sassoli). Il punto è capire se il monocolore pentastellato, a prescindere dalla sua intrinseca provvisorietà, può essere innervato da un gruppo più esteso di tecnici, su cui dovrebbe pesare la discreta ma incisiva “benedizione” di Mattarella.

È la scelta della “tregua” a consentire, più di altre ipotetiche operazioni, il formarsi di una larga convergenza parlamentare, senza pregiudiziali in ordine alle possibili inclusioni e quindi aperto, in via di principio, anche al l’apporto di Forza Italia. Ciò darebbe modo di esaltare il riconoscimento di una nuova centralità del Parlamento, alla quale necessariamente il governo sarebbe sottomesso. Poi si vedrà. Isolato Salvini, spetterà alle forze politiche immaginare lo sviluppo dell’intesa al di là dell’emergenza (perché di vera emergenza, non solo finanziaria, si deve oggi parlare in Italia).

Questo scenario – si dice – non convince Zingaretti. La preoccupazione del segretario Pd poggia su un argomento rispettabile, ovvero sulla consapevolezza dei rischi che comporta una transizione priva di respiro strategico. Bisogna tuttavia che emerga nel Pd un’altra consapevolezza, non meno stringente, a riguardo proprio dell’audacia di un cambio di maggioranza, la cui connotazione rimarrebbe agli occhi dei più un affrettato e spregiudicato accordo di potere con gli odiati (fino a ieri) avversari grillini. Invece un approccio più garbato – se l’aggettivo non disturba – è ciò che conviene allo stesso Zingaretti. Incassare la liquidazione dell’offensiva leghista sarebbe già un risultato di straordinaria importanza. Se esistesse un partito di centro, alla maniera di quel centro che proprio in queste ore il ricordo di De Gasperi riporta alla mente, non avrebbe difficoltà a cogliere il valore di una simile linea di prudenza, ma di una prudenza certamente unita a intelligenza e lungimiranza. Prima vengono gli interessi del Paese, poi quelli del proprio partito.

Le categorie politiche del novecento non servono più. A proposito di Del Noce.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Caro direttore, caro Lucio,

sto seguendo con interesse e – come ben sai – con tanti dubbi il vostro dibattito sul futuro di “Rete Bianca”,  per un ritorno sulla scena politica di quello che voi definite “Centro moderato cattolico-democratico e popolare”. 

Succede che domenica 18 agosto mi sono incontrato casualmente su”La Stampa”,  con un articoletto di Letizia Tortorello, dedicato ad Augusto Del Noce: “Ritornare a Del Noce tra democrazia e cristianesimo” Te lo allego.

La Tortorello – che io non conosco – dimostra però di saperla lunga. E una volta persuasa che la “…rilettura di Del Noce è oggi più che mai urgente” per evitare rischi di nuovi totalitarismi, recensisce e riassume efficacemente in 10 righe un recente libro di Luca Del Pozzo (“Filosofia cristiana e politica in Augusto Del Noce”) con cui l’autore sostiene “…l’urgenza di una nuova stagione di un cattolicesimo politico italiano” .

Di primo acchito, sembrerebbe dunque la tesi cara a “Rete Bianca”, sostenuta dalle indubitabili convinzioni del buon Giorgio Merlo, suo indefesso e coriaceo  sostenitore.

Ma non è  così! 

Continuando a leggere la breve recensione, ci si può  accorgere che Del Pozzo si proietta in quella analisi che, con strumenti conoscitivi e di studio sicuramente più  modesti, io mi sono permesso di accennare tempo fa.

Essendo sprovveduto tralascio la “Metafisica civile” come sintesi di quel che Del Noce intendeva per  ri-cristianizzare la democrazia. La lascio a voi filosofi della politica. 

A me interessano le conclusioni. 

Secondo Del Pozzo, Del Noce “…spinge il lettore a porsi la domanda cruciale se l’Italia sia ancora un paese cattolico, e per cattolici maturi”, e sostenendoci dalle sue categorie, spinge a ” …chiederci quale sia oggi la ‘superideologia’ dominante dopo che abbiamo visto la destra separarsi dalla sua visione morale, e la sinistra abbandonare il suo obiettivo sociale” .

Con la sorprendente – e per me consolatoria – constatazione che “…gli schemi politici novecenteschi sono saltati”(sic!) .

Ricorderai, caro direttore, che con alcune mie divagazioni primaverili ed estive da te pubblicate mi sono permesso di proporre l’atroce dubbio che le categorie politiche spaziali e geometriche orizzontali novecentesche di Centro, Sinistra e Destra, sono superate dalla storia che viviamo; e che bisogna vivere l’oggi per guardare al futuro.

Alcuni amici di ex sinistra mi hanno rimproverato; molti amici di ex centro mi hanno invece detto di non essere precipitoso e di osservare con attenzione quel 40% degli aventi diritti al voto che rimane a casa in pantofole; qualche conoscente di ex destra mi ha detto che chi non pensa prima alla Patria e dopo agli “invasori” emigranti non può  essere di destra e che la destra a tutela della nostra nazione è ancora viva e utile.

Detto doverosamente ciò,  ho sostenuto che secondo me è  oggi meglio, molto meglio, trasferirsi cristianamente sulla geometria verticale: Alti e Bassi; Ricchi e poveri; Superiori e Inferiori; Eguali e disuguali; amici e nemici; grande Europa e piccolo paese; Italexit e Nord Italia, e via divagando, al posto di rimanere ancorati a quella orizzontale degli emicicli novecenteschi; mi sono permesso di divagare sulle “Identità” del passato viste come scatole chiuse e pie illusioni che ci portano fuori strada; mi sono permesso di supporre che il “cattolicesimo moderato” non è  cosa per noi, di forte formazione cattolico-democratica e popolare; ho ricordato che vietandoci e impedendoci da noi medesimi – ma dimenticando Sturzo – di osservare la società, studiarla, descriverla e quindi progettare “…Il domani”, è cosa cattiva e sbagliata.

Mentre invece scommettere sulla cultura e sulla formazione prima di affidarci ai desideri (pur legittimi ) suggeriti solo da una mera legge proporzionale, è  invece cosa buona e giusta. 

Un caro saluto.

N.B. Comprerò il libro.

Intervista al Professor Abbruzzese: I quaranta anni del Meeting di Rimini

Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Igor Traboni

Tre anni di lavoro certosino su migliaia di fonti, facendo leva anche su esperienze e studi personali (suo tra l’altro il Comunione e liberazione edito in Francia nel 1989 e tradotto in Italia da Laterza nel 1991), hanno consentito a Salvatore Abbruzzese, sociologo e docente all’Università di Trento, di dare alle stampe Il Meeting di Rimini: dalle inquietudini alle certezze, in uscita dalla Morcelliana.

Il libro verrà presentato il 24 agosto, giornata conclusiva della kermesse riminese, a suggellarne l’edizione numero 40 e i quattro decenni trascorsi, con un dibattito cui interverranno, oltre all’autore, il vicedirettore del Corriere della Sera, Antonio Polito, e la presidente della Fondazione Meeting per l’amicizia tra i popoli, Emilia Guarnieri.

Professor Abbruzzese, il titolo del libro è già tutto un programma. In estrema sintesi, quali le inquietudini e quali le certezze di questi primi 40 anni del Meeting?

Le inquietudini sono quelle degli inizi, degli anni ’70, interne alla Chiesa, al movimento di Cl, ma soprattutto alla società, che si è vista bruciare tra le mani la contestazione, fino agli anni di piombo, con un senso di non riuscire a capire come e dove intervenire. Il Meeting nasce allora da un desiderio di esplorare ciò che si muoveva nel mondo, poi ampiamente confortato dalla contingenza della storia, e penso all’esperienza di Solidarność. Il tutto, e qui siamo alle certezze, con l’idea di un sottofondo religioso che producesse anche il desiderio di un percorso civile.

Che metodo di lavoro ha scelto per ripercorrere la storia del Meeting?

Da sociologo ho preferito una scansione temporale, per guardare in simultanea i vari avvenimenti e stabilire una relazione tra un evento e il contesto culturale in cui questo matura. La base empirica mi è stata data da tanti testi, come quelli di monsignor Camisasca, di Emma Neri e della Vita di don Giussani scritta da Alberto Savorana, ma soprattutto dallo sterminato archivio del Meeting che mi sembra mai nessuno prima d’ora abbia letto e studiato: i testi delle conferenze, i documenti di presentazione, gli indirizzi di saluto dei Pontefici. Molto mi ha aiutato anche l’esperienza personale del Meeting, che da oltre venti anni frequento e vivo e a cui sono stato invitato quattro volte come relatore.

Dell’intuizione iniziale del Meeting cosa è rimasto?

L’essenziale. È rimasto l’essenziale. Certo, si è andati avanti, anche secondo i cambiamenti della società, ma poi è sempre ricomparsa quella matrice iniziale del senso religioso, che ritorna come domanda ricorrente; basti ripercorrere i titoli del Meeting da due decenni a questa parte. Nell’andare avanti si è anche affiancato un tentativo di esplicitazione di una cultura di popolo che suggeriva anche un progetto di presenza politica.

Ecco, la politica: nel suo libro come affronta il capitolo per niente facile del rapporto con il Meeting?

Lo ripercorro per intero, dal Movimento Popolare fino all’attuale intergruppo parlamentare. Emergono così delle affinità elettive (penso ad Andreotti ma anche a Napolitano) ben diverse da quelle strumentali. Però direi che questo “connotato politico” è niente rispetto al patrimonio culturale del Meeting anche con le sue declinazioni attuali, che vanno dal tema dei migranti a quello dei cristiani in Medio Oriente e del dialogo interreligioso.

Il Meeting è una grande esperienza di giovani: che idea si è fatto di questo mondo, osservandolo nello scorrere del tempo?

Il Meeting consente ai giovani la costruzione di un ambiente morale e relazionale, con modalità di ascolto e incontro senza eguali. Non so dove capiti di trovare 5.000 ragazzi che prendono appunti in silenzio ascoltando un filosofo. C’è sempre una grande attenzione gli uni verso gli altri, che si esplica nel volontariato, prima, durante e dopo il Meeting. Però non parlerei solo di una componente giovanile: quando il Meeting è nato Cl era attiva da 10 anni e c’era anche Gioventù studentesca, per cui si fece leva anche su tanti adulti. E anche oggi tanti adulti sentono il Meeting come un’esperienza irrinunciabile.

Come immagina il Meeting nei prossimi 40 anni?

Bisognerà vedere, e capire, come andrà il mondo. Già oggi molte cose sono cambiate, penso al dibattito sulla famiglia o sul fine vita, impensabili 40 anni fa. Il Meeting è un po’ una nave nel mare della società e della cultura, capace però di ripresentare sempre una certezza che definirei “accanita”: quella sull’uomo amato e guardato da Dio.

Alcide De Gasperi e il presente

Alcide De Gasperi: uno dei pochi veri statisti della storia moderna d’Italia e d’Europa.

Il suo ricordo diventa oggi un motivo in più di riflessione sulla politica italiana. Tanto essa ha perso quel ragionare, quell’agire superiore e quella tensione ideale che il cittadino si aspetta da chi lo rappresenta e guida le  istituzioni. Una riflessione resa ulteriormente convulsa da una crisi inspiegabile, dai risvolti persino oscuri.

Molto di quello cui assistiamo è lontano dall’esempio di De Gasperi, uomo lineare, retto, coerente e dalla visione ampia ed ardita. In questi nostri giorni, quasi tutto  è giocato sulla rincorsa delle piccole e non durature cose del contingente, sulle pulsioni demagogiche, su una sostanziale mancanza di passione civile.

Colpisce la divaricazione tra impegno politico e una motivazione etica pubblica che dovrebbe ispirare il vincolo verso la cosa comune. Lo spirito di servizio si trasforma in mera ricerca di un consenso immediato e a tutti i costi.

Il prezzo è quello di seguire un machiavellismo maccheronico ed opportunista e smarrire quella più ampia proiezione capace di indicare e perseguire una prospettiva in cui la maggior parte dei cittadini possano sentirsi coinvolti.

De Gasperi, come le grandi figure destinate ai grandi libri di storia, e non certo alla sola cronaca dei nostri giornali o del web dozzinale, delineò con i fatti una concezione dell’agire politico ricco di umanità e spiritualità cui egli non venne mai meno. Neppure nei tanti momenti di difficoltà e incertezza costretto ad affrontare, da solo o con i colleghi di governo o di partito.

Fermo contro ogni visione totalitaria. Che fosse d’impronta fascista o comunista non faceva alcuna differenza. La sua fu in primo luogo scelta di libertà e di democrazia partecipata, inclusiva, di rispetto ed attenzione ai delicati equilibri internazionali e a quanto di critico era emerso nel Paese all’indomani di una cruenta guerra civile.

Approfittò dell’evidente andamento del mondo dei suoi tempi per portare il Paese, finalmente, nel solco delle grandi democrazie occidentali.

Dovette cercare il sostegno di quelle democrazie in un quadro complesso in cui si stagliavano anche forze non pienamente convinte dalla possibilità di risolvere vecchie e nuove questioni italiane sulla base di una opzione pienamente democratica e di pacificazione.

De Gasperi non ebbe mai alcun dubbio sul fatto che non bastasse adagiarsi opportunisticamente su quel sostegno. Certamente decisivo, ma non per questo esaustivo nell’affrontare i problemi interni e quelli ancora in essere con i paesi vicini, a proposito dei quali permanevano motivi di preoccupazione e di crisi.

Fu sempre convinto che una rinascita autentica del Paese dovesse essere assicurata da un definitivo impegno per la libertà, per la democrazia. Vedeva fondamentale la partecipazione alla politica e alla vita delle istituzioni di sempre più ampi settori della vita civile e della società. Non voleva un riconoscimento e un diritto all’esistenza solo per il suo partito o per la sua visione politica.

Il sostegno delle altre democrazie a un’Italia tutta da ricostruire non era affatto scontato. Basta ricordare l’isolamento da lui vissuto nel corso della Conferenza sulla Pace di Parigi del 1946.

Forti erano le pressioni affinché la scelta di campo da parte italiana, semmai fosse necessario, avvenisse eventualmente anche attraverso un violento e definitivo scontro con la sinistra, come quello che si stava già verificando in Grecia in quello stesso ’46 e sanguinosamente destinato a durare fino al ’49.

De Gasperi fu capace, assieme, di superare la dura e perdente esperienza fascista e quella, altrettanto non sostanzialmente democratica e popolare, legata all’intera fase  liberal – monarchica del dopo 1870.

Riannodò fili rimasti spezzati per decenni. Contribuì in maniera fondamentale al getto di quelle fondazioni di un quadro democratico sconosciuto fino ad allora da un’Italia per larghe parti rimasta prossima al sottosviluppo. Creò i presupposti per una ricomposizione di tanti interessi, in taluni casi fortemente contrapposti. Una ricomposizione fondamentale per dare corso ad un sistema di alleanze politiche e ad un assetto istituzionale ed economico certo e duraturo.

Egli andò in maniera decisa e definitiva alla sostanza di alcuni dei ritardi storici del Paese. A partire da quello che riguardava la classe dirigente e l’apparato dello Stato. Grazie a lui, finalmente, sia pure con quei disequilibri propri di ogni fase di passaggio, l’Italia poté fare i primi passi per entrare nel novero degli stati moderni.

Da qui la sua convinta adesione al Patto Atlantico. Anche il sostegno alla politica economica di Ezio Vanoni, a lungo suo ministro delle Finanze e del Bilancio e padre della omonima legge diretta a introdurre un più equo e moderno sistema di tassazione, alle riforme agrarie di Antonio Segni contro il latifondismo e dirette a favorire la nascita di piccoli proprietari e l’aumento della produzione, ai progetti di Amintore Fanfani in materia di edilizia popolare, a Enrico Mattei che sviluppò l’Eni, nonostante le forti pressioni contrarie anglo americane e francesi, quando divenne chiara l’importanza strategica per lo sviluppo dell’economia italiana che quel cambio di politica energetica significava.

De Gasperi  seppe condurre con decisione, accortezza, sapienza e, con un pizzico di arguzia, i più importanti passaggi affinché il processo di allargamento delle basi democratiche del Paese procedesse nella maniera più solida e condivisa possibile.

Ecco perché volle che la scelta tra Monarchia e Repubblica avvenisse attraverso un referendum. La definizione di un assetto istituzionale tanto decisiva non poteva essere lasciata a un ceto politico ristretto e che ancora doveva guadagnarsi un pieno riconoscimento internazionale e popolare. Inoltre, ritenne che solo dopo il responso delle urne si potesse giungesse al superamento di quella divaricazione tra i settori cattolici rimasti legati alla Monarchia e quelli dichiaratamente repubblicani. Questi ultimi, provenienti soprattutto dalle regioni centro settentrionali, erano parte di quel ” vento del Nord” che voleva con decisione gonfiare le vele della neonata democrazia italiana.

Ecco perché immediatamente dopo quel risultato assunse immediatamente le funzioni di Capo provvisorio dello Stato, impedendo così ogni possibile rigurgito anti democratico e anti repubblicano.

Allo stesso modo, De Gasperi non ebbe dubbi nell’accettare il suffragio elettorale generale e prevedere il voto anche per le donne, a partire dal referendum del giugno ’46, sulla scia di quanto già applicato nelle precedenti elezioni amministrative del marzo di quello stesso anno.

Importante la prima formazione politica del futuro Presidente del Consiglio e Segretario della Dc nel Parlamento austriaco di Vienna.

Rappresentante di una minoranza, egli visse in un contesto in cui si trovavano a coesistere tante etnie e  tanti popoli diversi. Questa sua familiarità con la ” diversità”, con la non completa coincidenza di culture, atteggiamenti e sensibilità private e pubbliche potrebbe essere stata decisiva nell’affrontare il problema delle tante specie di ” minoranze” presenti nel Paese. A partire da quelle legate all’irredentismo tedesco in Alto Adige, cui fu dedicato l’accordo  firmato assieme all’austriaco Karl Gruber.

Questa sua particolare sensibilità servì anche ad allentare la tensione con la vicina Jugoslavia di Tito e, pure, ad avviare una riconciliazione con i popoli austriaco e tedesco.

E’ uno dei padri dell’Europa. Vide in essa la possibilità di assicurare una Pace rimasta offesa ciclicamente nel corso dei secoli. Un’Europa di passioni positive. Animata dalla solidarietà, dalla cooperazione, dal coinvolgimento in una crescitita comune e congiunta in grado di sopire le spinte egoistiche e nazionalistiche sempre pronte a tornare sulla scena con il loro volto dai tratti inquietanti, fatti di revanscismo e bellicosità.

Nella politica interna, a differenza di tanti nostri politici attuali, volle sempre anteporre l’interesse generale a quello di parte.

Fece della mediazione e del sistema della coalizione gli strumenti di rafforzamento del quadro democratico. Senza che per questo gli mancasse il coraggio di dire pure dei “ no”, quando necessario, nonostante situazioni persino dolorose sul piano umano e politico che quei “ no” comportavano.

Famose le calde lacrime che gli procurava la rude incomprensione dell’ambasciatrice statunitense a Roma,  Claire Luce, e quella freddezza nei confronti del suo operare che, con continuità, registrava tra i vertici vaticani.

Un qualcosa che giunse quasi alla rottura definitiva si determinò  a causa della cosiddetta “ operazione Sturzo” del 1952. De Gasperi rifiutò di dare vita a Roma a una lista collusa con la destra per evitare che la Città eterna finisse amministrata dalle sinistre.

Ebbe elettoralmente ragione De Gasperi, ma i suoi rapporti con Papa Pacelli non si rasserenarono più e la cosa lo portò a confidare a Pietro Nenni di sentirsi un “ tollerato” dai vertici della Chiesa. Si giunse al punto che gli venne rifiutata un’udienza con il Papa.

De Gasperi reagì scrivendo all’ambasciatore italiano di allora presso la Santa Sede: «Come cristiano accetto l’umiliazione, benché non sappia come giustificarla; come presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, la dignità e l’autorità che rappresento e di cui non mi posso spogliare, anche nei rapporti privati, m’impone di esprimere stupore per un rifiuto così eccezionale e di riservarmi di provocare dalla Segreteria di Stato un chiarimento».

Un De Gasperi, quindi, profondo credente, cittadino, uomo di stato, senza contraddizioni. Segno evidente di come lo statista trentino rappresentasse quella figura di laico pieno di fede che, parte viva della Chiesa, ha la libertà di sviluppare nel mondo la forza creatrice e vivificatrice dell’ispirazione cristiana senza pulsioni integraliste o clericali. Ciò che sarà sancito dal Concilio Vaticano II destinato, però, ad iniziare solo otto anni dopo la sua scomparsa.

In ogni caso, la conferma di come fosse andato evolvendo nel mondo politico cattolico italiano quel processo di definizione di un’autonomia basata sul pieno rispetto della distinzione tra i diversi piani della fede e dell’impegno nella cosa pubblica.

Un’ultima riflessione sulla dimostrazione più evidente di come si possa essere leader, senza la pretesa di essere “ capo”.

Alcide De Gasperi non ha mai comandato. Semmai, ha sempre sviluppato quelle capacità di mediazione necessarie a chi guida senza pretendere cieca obbedienza. Nella sua Dc il confronto tra le tante anime presenti cominciò a farsi sempre più ricco, ma tutti ebbero lo spazio e le opportunità adeguate.

Al momento del dunque, superò la divaricazione con i giovani “ dossettiani” lasciando che nuove leve emergenti si mettessero “ alla stanga” e finissero persino per prendere la guida del partito che tanto doveva alla sua capacità politica e alla sua abnegazione.

De Gasperi non utilizzò mai la propria autorevolezza, sarà questo anche il tratto di Moro, per imporre decisioni e mai gli passò per la testa di utilizzare il gioco delle tessere per condurre giochi pasticciati e d’interesse.

Così, a De Gasperi possiamo guardare non come ad una icona imbalsamata, ma ad un patrimonio di pensiero e a un metodo di azione cui dare oggi l’adeguata applicazione nella politica dell’oggi.

Lo stesso vale per quel ragionare politico, quel realismo, quella ragionevolezza e quella concretezza necessarie a chi vuole partecipare alla vita politico istituzionale puntando su  un cambiamento reale dell’esistente che non funziona e che necessita di trasformazioni, se necessario, anche radicali.

 

Si parva licet componere magnis, il ciclope e le api

Prima le “magnis”: le cose dei Ciclopi, per restare con Virgilio.
Quest’anno, la tradizionale “Lectio Magistralis” organizzata dalla Fondazione Trentina “Alcide Degasperi” per la ricorrenza della scomparsa dello statista, si è svolta attraverso la lettura di alcune sue lettere.

Testi che rendono pienamente l’idea di uno straordinario profilo spirituale e politico e che vanno valorizzati come base preziosa di una riflessione di incredibile attualità.
Oltretutto sono ora tutte disponibili in rete.
Emerge in primo luogo il profilo spirituale di un uomo cresciuto in un cristianesimo mitteleuropeo profondo e, insieme, rispettoso della laicità della politica vissuta come “responsabilità personale”.

Bisognerebbe riflettere molto su questo punto. Sopratutto oggi, mentre da un lato sembra smarrita la “cifra” distintiva dei cattolici in politica e, dall’altro, un Ministro degli Interni blasfemo bacia in pubblico rosari e crocefissi.
Per capire un poco meglio, basta rileggere la lettera che Degasperi scisse nel 1925 al giovane trentino Tullio Odorizzi, poi Sindaco di Trento, pubblicata sabato sul Corriere della Sera.

Nella fase iniziale del regime fascista, quando molti cattolici stavano in silenzio, oppure osannavano il nuovo “capo”, convinti che un po’ di libertà si potesse barattare in cambio di più sicurezza, Degasperi scriveva che proprio “in quanto cattolico” avvertiva il dovere di una irriducibile contrarietà. In nome dei principi religiosi e morali, prima che politici.
Una lettera – mutatis mutandis – di sconvolgente, inquietante attualità.
Oppure – per cogliere il senso del “cattolicesimo adulto ante litteram” – basta leggere quanto ebbe modo di scrivere a diversi interlocutori anni dopo, durante lo scontro con il Papa a proposito della volontà degli ambienti ecclesiastici del tempo di costringere la DC ad un accordo con la destra estrema per sconfiggere i comunisti alle elezioni per il Comune di Roma.

Dalle lettere emerge, in secondo luogo, naturalmente, il profilo “politico” di Degasperi.
E questo, ancora di più, induce ad uno sguardo (sofferto) alle “parva”, le cose nostre di oggi, sempre per restare con Virgilio. Cioè, le cose di noi povere api che rileggono le gesta dei Ciclopi.
Il grande poeta ne vedeva il nesso, tra le api e i Ciclopi. Noi oggi, questo nesso, lo vediamo molto meno.
Per questo, rileggere Degasperi non è retorica operazione di facciata, ma sincera ed umile volontà di ritrovare un “senso”, di ricostruire un “valore” della politica e delle Istituzioni democratiche.

Certo, si dirà, viviamo in un contesto storico radicalmente mutato. Verissimo.
Ma in ogni epoca di sconvolgenti cambiamenti occorre affidarsi a precisi punti di riferimento, che aiutino a scorgere i segni – che sempre e comunque la realtà ci offre – per individuare un nuovo sentiero.
Nelle lettere e nella testimonianza di Degasperi, questi punti di riferimento sono forti e precisi.

Necessità di una robusta dimensione morale (e spirituale per chi crede) come condizione di vera libertà ed autentica autonomia di giudizio; coerenza tra ciò che si proclama nella vita pubblica e ciò che si testimonia in quella privata; laicità della politica, come esercizio personale della responsabilità nelle scelte, alla luce dei valori in cui si crede e senza alcuna tentazione di relativismo; concezione alta e nobile delle Istituzioni, che mai ed in nessun modo possono essere violentate o delegittimate per interessi di parte; rapporto sincero ed ispirato alla verità con il popolo, al quale il politico ha il dovere di prospettare una idea ed un percorso, non le suggestioni demagogiche dei populisti; convinzione che la politica è per sua natura “coalizione tra diversi” per il bene comune e non arrogante solitudine auto referenziale.

Mi sembrano queste alcune delle premesse “a temporali” e attualissime di quella idea di “centro” che Degasperi interpretò non come banale moderatismo o “equidistanza” rispetto agli scontri politici e sociali, ma come progetto per un progressivo allargamento delle basi sociali della democrazia (il “centro che guarda a sinistra”); come capacità di “governare le complessità” senza violenza e sopraffazioni, con l’attitudine alla concretezza che gli derivava dalla sua formazione in ambito austro ungarico; come spazio politico dinamico, plurale, equilibrato nei modi ma radicale nella spinta riformatrice, rispettoso del “muro invalicabile” alla propria destra.
Si parva licet componere magnis, appunto.

Nessuna ape può avere oggi la sfrontatezza di intestarsi le gesta dei Ciclopi.
Se però qualcuno ha l’ardire di richiamarsi, con rispetto e pudore, a Degasperi può trovare riferimenti solidi. Certo oggi “fuori moda” e decisamente in contro tendenza, ma solidi e duraturi.
Riferimenti attorno ai quali ritrovare il “senso” delle cose e, magari, le tracce di un sentiero che pareva smarrito ed utili, forse, anche per orientarsi nell’inedito ginepraio di questa crisi di Governo.

Intervista a Felice Gimondi

1) Sig. Gimondi, nel ciclismo Lei è stato certamente uno dei più grandi campioni di sempre.
Nel suo palmares di vittorie c’è la Vuelta, il Tour, il Giro d’Italia, il titolo di campione del mondo. Come ricorda il ciclismo di quegli anni, dal punto di vista sportivo e tecnico da un lato e umano e spettacolare dall’altro?
Ci sono analogie e differenze con il ciclismo di oggi?

Si, sicuramente perché oggi c’è una esasperazione elevata, nella preparazione e nella competizione. I ciclisti hanno carature diverse e concentrano l’impegno in una parte della stagione agonistica, non corrono tutto l’anno come si faceva una volta, non hanno tenuta per l’intera stagione, si focalizzano su singoli obiettivi. Questo toglie lo spettacolo ma anche il tifo che c’era una volta, quando ci confrontavamo da febbraio a ottobre in tutte le gare. Allora c’era una prevalenza della motivazione umana, oggi dell’aspetto tecnico e di quello economico: prima si lavorava con un po’ più di sentimento. Tanto per fare un esempio io nella mia carriera ho corso per l’oratorio di Sedrina, poi per la Salvarani (fin quando ha smesso la sua attività) e infine per la Bianchi. Si restava legati e affezionati alla squadra, all’azienda, anche senza mettersi sul mercato per guadagnare di più. Oggi è cambiato il ciclismo ma è cambiata anche la vita: ci si accontentava e si era più felici, ma quei tempi – dal punto di vista umano e sentimentale – non torneranno più. E’ proprio cambiato il modo di vivere, tutto è diventato difficile e complesso.

2) Resta celebre la Sua rivalità sportiva con Eddy Merckx. Era un limite agonistico o uno stimolo continuo ad utilizzare tutte le risorse fisiche e mentali per competere con lui?

Avevo fatto due anni di gare e vittorie prima che arrivasse Mercks ed ero forse considerato senza presunzione il numero uno al mondo. Avevo vinto di seguito il Tour, la Parigi- Roubaix, la Parigi-Bruxelles, il Giro di Lombardia. Quando è arrivato lui io ho impiegato un paio d’anni sotto il profilo psicologico ad adattarmi a lui: Mercks mi ha tolto ma mi ha anche dato.
Mi ha tolto tante vittorie ma anche un modo di correre audace, ho imparato tattica e prudenza. Secondo me è stato il più grande di sempre: aveva doti naturali straordinarie ma poi in Eddy c’era l’applicazione, la volontà, il carattere. Una macchina costruita per vincere.

3) Lei ha conosciuto e gareggiato con molti campioni, in un’epoca dove anche il mezzo tecnico, l’intelligenza tattica facevano la differenza oltre la prova di forza fisica e di resistenza. Quali Suoi colleghi ricorda in modo particolare, legandoli magari a brevi aneddoti personali?

Come ho detto Eddy è stato il più grande ciclista della storia. Ha vinto 500 corse, di cui 51 in un anno. Cinque Giri, cinque Tour, tre mondiali, sette Milano-Sanremo, dieci Liegi-Bastogne-Liegi. Poi ricordo – per la classe immensa e la signorilità Jacques Anquetil e lo spagnolo Fuente: uno spagnolo vero, di temperamento, non all’Indurain (che mi sembrava più una macchina tecnologica).
Fuente era un istintivo, gli spagnoli della mia generazione (Fuente, Jimenez, Bahamontes) erano grimpeur di grande temperamento come il nostro Massignan, poi sono cambiati, da Indurain in poi. Ricordo Gianni Motta, uomo di grande classe e poi Moser: tenace, forte, vero, istintivo, di grande temperamento nel ciclismo e nella vita. Tra i gregari uno su tutti, il più completo, fedele, continuo: Hubreck e poi Parsani, Ronchini, Pambianco. Tutta gente che mi dava sicurezza avendoli vicini: ci si capiva in corsa e poi si parlava e si studiava alla sera la tattica di gara. Erano antenne della corsa.

4) Dopo il dualismo Coppi-Bartali Lei seppe riconciliare il tifo degli italiani, entrando nella leggenda degli ineguagliabili, degli eroi del pedale capaci della grande impresa epica e indimenticabile.
Un pò quello che sarebbe poi capitato più recentemente con Pantani. Che cosa non
funzionò, quali problemi emersero invece nella sua storia, pure contrassegnata da infortuni e
da una tenacia indicibile e commovente?

Io voglio ricordare Marco il giorno in cui salii con lui sul palco a Parigi quando vinse il Tour: io ero stato l’ultimo italiano a vincerlo prima di lui. Ebbe una fortuna e una grandezza immensa che uscirono subito che furono sprecati banalmente più sotto il profilo umano che atletico.
A trentatre anni si diventa uomini, non si può morire.
Seppi della sua morte quella sera, uscendo da un ristorante con mia moglie. Era la sera di San Valentino. Fui suo presidente, gli ero amico: un grande temperamento ma tante volte voleva fare di testa sua. Ricordo altri ciclisti morti in corsa: Simpson, Santisteban. Sono ricordi che ti restano dentro.

5) Il ciclismo – attraverso la bicicletta – trasporta e dissemina proprio fisicamente nel mondo e tra la gente i valori dello sport, è un mezzo per trasmettere sentimenti di amicizia e di lealtà tra le persone, una passione forte che non ha età. In che cosa consiste per Lei questo fascino indicibile che lega la persona al senso di avventura, che ci fa ammalare per il mezzo tecnico, la cura dei dettagli, che ci mantiene giovani nonostante il passare degli anni? Dopo l’agonismo e le imprese sportive resta ancora accesa in Lei questa ineguagliabile magià?

Il fascino più importante e significativo per me è l’emblema della fatica, che ti mette sullo stesso piano di tanta povera gente che deve lavorare, tribolando. Ricordo a Liegi quegli italiani che venivano sotto il mio albergo a chiamarmi e applaudirmi: era gente che lavorava in miniera e faceva della mia vittoria motivo di riscatto. Non dimenticherò mai gli italiani che ho incontrato all’estero, per via delle mie corse: avvertivo la loro sofferenza e correvo anche per loro.
Sentivo la loro nostalgia per il nostro Paese: io portavo loro il ricordo della patria lontana, quando gli italiani erano chiamati “maccaronì”.

6) Ancora adesso Lei prende la bicicletta per farsi il suo giro con gli amici, mantiene accesa la vecchia passione?

Vado la domenica, adesso uso spesso la mountain bike perché la strada è diventata pericolosa.
Controllo meglio il mezzo, vado più piano e mi diverto di più.
Ho aperto una scuola di mountain bike per bambini, credo che per loro sia più facile iniziare con questo mezzo.

7) Quali consigli si sente di dare ai giovani che vogliono intraprendere la strada del ciclismo amatoriale e poi agonistico, quali sono le doti che devono coltivare, oltre la preparazione fisica e la cura del mezzo tecnico?

Di non avere mai un rapporto esasperato e agonistico con il mezzo e gli altri ciclisti ma di cercare invece un contatto diretto con la natura. Ci sono tanti bambini in città che non conoscono tipi e qualità degli alberi e delle piante. Purtroppo – questo è il grosso problema – le nuove generazioni non potranno più fare a meno delle tecnologie: per questo crescerà sempre di più il bisogno fisico, organico, di scaricare la tensione psicologica e lo stress fisico. Ecco che la bicicletta è il mezzo ideale per questa scarica di adrenalina, inoltre permette di riappropriarsi dello sfogo fisico, della fatica e dell’esercizio come valvola di scarico psicologico e garanzia di stile di vita fisicamente corretto e salutistico.

8) Al di là dello spettacolo, della performance, della gara e della vittoria anche il ciclismo – come ogni sport – ci permette di capire che ogni prova della vita richiede impegno, dedizione, prudenza, fatica, sacrificio. E’d’accordo su questo significato educativo da attribuire allo sport in generale?

Tutta la vita richiede impegno diretto, conoscenza, sacrificio, fatica: il merito esce fuori da queste prove non dalle cose facilitate o dalle aristocrazie già stabilite. Tutti devono essere messi in condizione di competere, alla pari. Credere in se stessi, migliorarsi, superare le difficoltà con le proprie forze, metterci impegno e motivazione. Conta ciò che si ha dentro, che si pensa in modo corretto e onesto: non l’apparenza e neanche quello che gli altri possono pensare di te. Le risorse, tutte, sono dentro di noi.
Quando vado nelle scuole a parlare di sport ai ragazzi cito sempre un aneddoto che mi riguarda, quello dei campionati del mondo su strada di Barcellona, dove i favoriti erano Maertens, Ocana e Merckx. Nessuno puntava su di me. Io mi sarei accontentato di arrivare secondo, invece vinsi io.
Dico sempre ai ragazzi: “quando passa il treno dell’opportunità bisogna essere pronti per salirci”, questo non accade solo per fortuna ma per l’impegno che metti nel cercare questa occasione.
Questo vale nello sport e nella vita.

9) Mi pare che ci sia un ritorno nella mentalità e nelle abitudini della gente al rispetto della natura, all’ecologia, al passatempo libero e gratificante, oltre le ubriacature della televisione spazzatura, di internet e degli stili di vita malsani. Condivide questa impressione e in che misura la vecchia, gloriosa bicicletta può aiutarci a spezzare le routine, a vincere la noia e la sedentarietà che si viva in campagna, al mare, nei paesini o nei centri urbani?
Non servirebbe allora una più oculata tutela all’uso di questo mezzo, attraverso politiche urbanistiche e dei trasporti che ne favoriscano la diffusione, specie tra i giovani?

E’ ormai indispensabile aver cura degli spazi da riservare alle piste ciclabili. Quello che ancora manca è la possibilità di collegare i centri urbani con le piste esterne alle città per evitare – spostandosi con l’auto – di accumulare traffico e annullare i benefici dell’uso della bicicletta che deve invece essere favorito come mezzo di trasporto totale, senza interruzioni di percorso.
Occorre riservare spazi alla bicicletta per usarla ovunque. Occorre ripensare anche la presenza di uno spazio ciclabile nelle strutture sportive. La bicicletta come mezzo di trasporto – oltre a non inquinare – permette maggiore libertà di movimento.
Ricordo che dieci anni fa mi trovavo a Bonn presso l’ambasciatore italiano con un gruppo organizzato dall’ACMA di Milano in occasione della Fiera di Colonia – e il giorno di apertura dell’evento fieristico ci spostammo tutti – eravamo una trentina – da Bonn a Colonia in bicicletta. Cinquanta chilometri in mezzo al verde, se incrociavamo le strade le auto si fermavano per darci la precedenza: è un esempio di ‘cultura’ all’uso della bicicletta che qui da noi manca.

10) Sig. Gimondi, nella Sua carriera sportiva Lei ha indossato molte maglie, con molti colori.
Tra il giallo, l’iridato e il rosa, qual è quello che è rimasto nel suo cuore?

Il giallo è certo il più importante, dal punto di vista sportivo: il Tour de France è la corsa ciclistica più prestigiosa e completa al mondo, si svolge nel pieno della stagione agonistica, sono 22 giorni di gara che ti chiedono il massimo e poi c’è la presenza più qualificata di atleti. Ma certo anche il rosa ha il suo valore, così come l’iridato di campione del mondo. Personalmente però ho nel cuore la maglia tricolore, di campione d’Italia. Sono sempre stato orgoglioso di portare i colori della mia bandiera sulle strade del mondo.

Il coraggio delle idee. Cosa può insegnare De Gasperi oggi

Articolo già apparso sulle pagine di formiche.net

A 65 anni dalla scomparsa di De Gasperi, avvenuta il 19 agosto nella casa di Borgo Valsugana, attingiamo alla memoria con l‘intento di capire il presente. A questo serve la storia, non ad allestire calendari di eventi e gallerie di eroi. Intriga scoprire, dietro le apparenze, anche la verità del paradosso. Abituati agli stereotipi correnti perdiamo di vista la sua irriducibilità al quietismo di stampo centrista-moderato.

Ha saputo cambiare il Paese, come oggi avremmo desiderio di fare, proprio evocando l‘età che gli appartiene per il segno lasciato nel secolo trascorso. La poderosa ricostruzione post-bellica, ovvero il passaggio dal mondo contadino alla società industriale, le trasformazioni di ordine epocale, quali ad esempio la riforma agraria e l‘intervento straordinario per il Mezzogiorno, la stabilità della moneta e la liberalizzazione del commercio verso l’estero, l’adesione al Piano Marshall, la scelta dell’Europa e l’ingresso nella NATO: sono questi e altri ancora, in quel frangente irripetibile di sfide e di successi, i tratti salienti del miracolo italiano.

In realtà De Gasperi non si sentiva destinato a guidare la nazione. Nell’isolamento patito durante il Ventennio aveva preservato indubbiamente la fede nella libertà. Tuttavia gli appunti di diario raccontano le confessioni di un uomo sempre tenace, sul piano politico e morale, ma incline a riflettere sulla fine della vita terrena. Fu rapido, in ogni caso, a cogliere i segnali del crollo imminente del Regime. Ritornò sulla scena pubblica, operando in prima linea nel CLN, con l’integrità e la forza della sua coerenza. Di questo dobbiamo ragionare, per non scivolare nell‘agiografia o nel ritratto deformato.

È vero, centrale rimane il 18 aprile, la rottura a sinistra e la vittoria su Togliatti e i suoi alleati; ma in quella impresa contrastante l’avanzata del movimento comunista, sotto la regia dell‘Unione Sovietica di Stalin, operava la stessa visione della libertà che ebbe inizialmente a sfidare le mire totalitarie del fascismo, rese visibili ed esecrabili dalla “secessione parlamentare” dell‘Aventino. Di qui, insomma, prende inizio un percorso che lega il prima e il dopo dell‘esperienza democratica degasperiana.

Mussolini andava fermato a tutti i costi. Il tempo della sua conversione all’opzione illiberale e autoritaria, con la brutale rivendicazione dei pieni poteri, matura progressivamente dopo le elezioni del 1924, vinte dal PNF con largo consenso dei partecipanti al voto e senza gli additivi premiali della legge elettorale iper-maggioritaria, la cosiddetta “Legge Acerbò”, strappata poco tempo prima a un Parlamento sfibrato e perlopiù supino. Sulla via trionfale di Mussolini si staglia però l‘omicidio di Giacomo Matteotti (10 Giugno 1924) e la dura risposta, destinata nell’arco di un biennio ad alimentare alterne speranze, ma a concludersi nel fallimento dei gruppi parlamentari di minoranza. Con l’Aventino, simbolo della sfortunata battaglia in difesa della libertà, muore la democrazia nata e cresciuta sotto la bandiera del liberalismo post-risorgimentale.

De Gasperi colse allora la necessità di avvicinare i popolari anti-mussoliniani, i socialisti anti-massimalisti, i liberali e democratici anti-giolittiani – una sorta di anticipazione dell’alleanza centrista e quadripartitica del dopoguerra – per impedire l’approdo reazionario del partito unico fascista. Fu aventiniano convinto e difese, all‘indomani della caduta del Regime, la posizione coraggiosa degli aventiniani. Al primo congresso della Dc, nella primavera del 1946, quindi a ridosso del plebiscito su Monarchia e Repubblica, nonché delle elezioni per l‘Assemblea costituente, impose il rispetto di una quota riservata in Consiglio nazionale ai “suoi” popolari, purché legati in modo diretto o indiretto alla vicenda dell’Aventino. Di sicuro incoraggiò la formulazione della III Disposizione transitoria e finale della Costituzione con la quale si sarebbe proceduto ad aggiungere agli eletti a Palazzo Madama, come Senatori di diritto, i parlamentari dichiarati decaduti (perché aderenti alla “secessione”) nella seduta del 9 novembre del 1926.

Dunque nel giudizio dello statista trentino, discorde alquanto dall’”anti-aventinismo” di destra e di sinistra, la ripresa della democrazia sulle macerie e le sofferenze della guerra doveva recare il timbro della originaria opposizione del biennio ’24-’26. La Resistenza ne era debitrice, perché senza la prima resistenza aventiniana, colpevolmente ignorata dal re Vittorio Emanuele III e perciò inibita nella sua estrema difesa delle norme Statutarie, anche il contributo di lotta e di sangue al fianco degli Alleati non avrebbe incarnato le ragioni più profonde e veritiere della nuova Italia.

Qual è la lezione, dunque, che possiamo trarre oggi da questa particolare rilettura del “paradigma democratico degasperiano”, non abitualmente evidenziato con la dovuta intensità? Innanzi tutto, abbiamo detto, emerge il richiamo al valore della coerenza: in politica, nel medio e lungo periodo, conta più di quanto si è disposti ad apprezzare. Poi, alla luce dei fatti storici, rinviene la valutazione di quanto sia essenziale nei momenti cruciali della vita politica l‘adozione di una condotta ferma e rigorosa, altrimenti non solo vince l‘arbitrio, ma nemmeno residua di contro, a beneficio di future riscosse, la pur esibita dislocazione sul fronte morale dell’opposizione. Infine si dimostra come il “centro” – e nessuno ha interpretato questa categoria politica (“il centro che guarda a sinistra”) più e meglio dello statista democristiano – non costituisca il luogo della mediazione fine a se stessa, bensì il momento complesso ed esigente della sintesi politica, e certo la più alta delle sintesi possibili.

La conclusione chiama in causa il coraggio e l’inventiva, non le facili scorciatoie del pensiero prevalente. Contrapporre sinistra e destra evoca il ripristino di un modello logorato. Oggi l’Aventino, come spirito che muove il paradosso, aleggia sulle singole coscienze. All’Italia serve in sostanza l’afflato di una nuova fiducia nel futuro, di una concentrazione forte e solidale, per andare avanti. Se contiamo di fronteggiare l’urto del neo-nazionalismo, preoccupati del suo debordare verso la radicalizzazione e il depauperamento della politica, abbiamo urgenza di riprendere a maneggiare un’idea di “centro liberal-popolare” che propugni, sulla scia dell’insegnamento degasperiano, l’unità delle forze di autentica radice democratica.

Non si occupa uno spazio politico, lo si determina e organizza sulla base di un’iniziativa che non abbia remore ad apparire dirompente.

I partiti e le coalizioni, è solo più una finzione

Nessuno sa, ad oggi, quale sarà l’epilogo finale di una intricata e sempre più misteriosa crisi di governo. Abbiamo una sola certezza, però, accompagnata da una sola fiducia. La soluzione è soprattutto nelle mani, ma purtroppo non solo, di un uomo che oggi più che mai rappresenta un faro della democrazia e, soprattutto, una pietra angolare per la credibilità delle stesse istituzioni: il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Vedremo nei prossimi giorni, comunque, come finirà.

Ma già adesso possiamo dire, senza tema di essere smentiti, che parlare oggi di coerenza e di credibilità politica del centro sinistra, del centro destra o, addirittura, del movimento antisistema e populista dei 5 stelle, si sarebbe travolti da una grassa risata.

Il centro destra viene annunciato ed invocato a giorni alterni. Denigrato a livello nazionale dal suo mattatore Salvini e salvato a livello locale e regionale da tutti i contraenti.

Un mistero politico che ormai non viene più spiegato neanche dai protagonisti talmente è intricata la matassa ed ingarbugliata la soluzione. Insomma, una gloria del passato che viene ricordata come un possibile auspicio per il futuro. Nel frattempo i comportamenti quotidiani dei vari partiti di centro destra sono del tutto slegati gli uni dagli altri e privi di qualsiasi credibilità nel dar vita ad una coalizione.

Il centro sinistra, o meglio l’ex centro sinistra, è il più simpatico di tutti. Dopo aver predicato per anni la “vocazione maggioritaria” del Partito democratico che nel frattempo è diventata sinonimo di “vocazione minoritaria”, dopo aver sostenuto che la coalizione si può costruire solo con partiti che ricevono l’autorizzazione del segretario nazionale del partito di maggioranza relativa, cioè l’ormai famoso “lodo Calenda”, dopo aver insultato e denigrato per anni il movimento di Grillo e Casaleggio, adesso addirittura si propone un “patto di legislatura” tra il Pd il movimento dei 5 stelle sottoscrivendo un accordo politico e programmatico organico per molti anni.

Roba per stomaci forti e pelle dura. Altroché coerenza, lungimiranza, trasparenza e serietà politica. Il tutto, come da copione, per arginare il solito “pericolo fascista”, la deriva autoritaria e il rischio dittatura. Per 25 anni contro Berlusconi e adesso contro Salvini. Appunto, tutto secondo copione.

Per non parlare, in ultimo, del movimento dei 5 stelle che nell’arco di pochi giorni è passato dal descrivere il Pd come il “partito di Bibbiano” a partito con cui si può e si deve stringere una alleanza politica di lunghissima durata perché, come dicono dalle parti del Nazareno, c’è una perfetta condivisione dei due partiti sui principi fondanti della democrazia e della azione di governo.

Un triplo mistero.

Ora, senza addentrarsi ulteriormente in questo vicolo, del resto sempre più cieco, l’unica
considerazione politica che si può fare è questa: e cioè, è tramontata, almeno per il momento, quella concezione che vedeva i partiti come strumenti politici che erano portatori di una visione politica generale da un lato e artefici di una strategia delle alleanze dall’altro. Tesi e strategie sacrificate scientificamente sull’altare della contingenza politica e dei vari opportunismi in campo.

Ecco perché, all’indomani della soluzione della crisi di governo, sempre che sia possibile in tempi brevi e con un esito che non scada nel ridicolo, è sempre più indispensabile e necessario riqualificare la politica e gli stessi comportamenti politici con attori e protagonisti – cioè partiti – che coltivano l’obiettivo di indicare una visione di società da un lato con una prospettiva di alleanze coerenti e lungimiranti dall’altro. Solo così sarà possibile evitare la  crescita dell’astensionismo e la consegna politica dei territori periferici prima e dell’intero paese dopo a forze e movimenti che individuano proprio nel profilo dell’uomo forte e nell’ordine e nella disciplina la soluzione dei problemi complessi e articolati di una comunità.

Appesi al 20

Ci appendiamo al giorno 20. Non possiamo fare diversamente. Stare nella desolazione di questi giorni ferragostani, è proprio una contraddizione. Dobbiamo rivolgerci all’immediato futuro.

Sentendo il dibattito al Senato della Repubblica credo sia parso a tutti la ristrettezza intellettuale dominare la scena. Non uno che si elevasse dal coro. Tutti a far sollevare polvere e a lucidare le superfici. Né dai banchi dell’opposizione, né in quelli della maggioranza – opposizione e maggioranza che non si sa più quali siano – si è levata una voce degna di essere ricordata.

Siamo, quindi, costretti ad appenderci al 20. Al 20 di agosto.

Confidiamo che il Presidente del Consiglio dei Ministri, visto il ruolo, si stacchi dalla triste platea. Non ci vorrà molto per attuare questo proposito, ma, noi, abbiamo sete di costumi e ideali di portata meno prosaica possibile. Sperando che le comunicazioni di Giuseppe Conte sveglino le capacità sopite nel semiciclo di Palazzo Madama.

C’è bisogno di un linguaggio meno legato agli interessi immediati, di prospettive che non si arenino al primo angolo del futuro e a respiri etici tali da anestetizzare almeno il cattivo gusto imperante.

Mancano tre giorni, nel frattempo stiamo assistendo al gioco che mai ci saremmo attesi di una teatralità tra le parti davvero poco edificante: prima uno dà una sberla, l’altro annichilisce, un terzo risponde per le rime, il primo allora sembra scusarsi, una scena da vero teatro paesano. Un quarto appare sulla scena e, non appena apparso, si trova immediatamente all’angolo.

A novembre, si poteva accettare una compagnia teatrale di questo tipo, ma il 15 di agosto, ci saremmo attesi una spassosità che il regista, avendo questi attori, non ha potuto offrirci.

Consumi, stop al pesce fresco in tutto l’Adriatico

Stop al pesce fresco a tavola lungo tutto l’Adriatico con il fermo pesca che si estende dal 15 agosto anche al tratto di costa da San Benedetto e Termoli, dopo che la flotta aveva già interrotto le attività da Trieste ad Ancona e da Manfredonia a Bari. A darne notizia è Coldiretti Impresapesca nel sottolineare che il blocco delle attività durerà nel tratto tra il sud delle Marche, l’Abruzzo e il Molise fino al 13 settembre.

La novità di quest’anno è che – spiega Coldiretti Impresapesca – in aggiunta ai periodi di fermo fissati i pescherecci dovranno effettuare ulteriori giorni di blocco che vanno da 7 a 17 giorni, a seconda dalla zona di pesca alla quale sono iscritti. Le giornate di stop saranno decise direttamente dai pescatori che dovranno darne comunicazione scritta entro le ore 9 del giorno stesso. L’intero ammontare delle giornate aggiuntive dovrà essere obbligatoriamente effettuato entro il 31 dicembre 2019.

In un Paese come l’Italia che importa dall’estero 8 pesci su 10, nei territori interessati dal fermo biologico aumenta così il rischio – sottolinea Impresapesca Coldiretti – di ritrovarsi nel piatto per grigliate e fritture, soprattutto al ristorante, prodotto straniero o congelato se non si tratta di quello fresco Made in Italy proveniente dalle altre zone dove non è in atto il fermo pesca, dagli allevamenti nazionali o dalla seppur limitata produzione locale dovuta alle barche delle piccola pesca che possono ugualmente operare.

“Per non cadere in inganni pericolosi per la salute occorre garantire la trasparenza dell’informazione ai consumatori dal mare alla tavola estendendo l’obbligo dell’indicazione di origine anche ai menu dei ristoranti con una vera e propria ‘carta del pesce’”, ha dichiarato il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare che “passi in avanti sono stati fatti sull’etichettatura nei banchi di vendita, ma devono ora essere accompagnati anche dall’indicazione della data in cui il prodotto è stato pescato”.

Per effettuare acquisti di qualità al giusto prezzo il consiglio di Coldiretti Impresapesca è dunque di verificare sul bancone l’etichetta, che per legge deve prevedere l’area di pesca (Gsa). Le provenienze sono quelle dalle Gsa 9 (Mar Ligure e Tirreno), 10 (Tirreno centro meridionale), 11 (mari di Sardegna), 16 (coste meridionali della Sicilia), 17 (Adriatico settentrionale), 18 (Adriatico meridionale), 19 (Jonio occidentale), oltre che dalle attigue 7 (Golfo del Leon), 8 (Corsica) e 15 (Malta). Ma si può anche rivolgersi alle esperienze di filiera corta per la vendita diretta del pescato che Coldiretti Impresapesca ha avviato presso la rete di Campagna Amica.

Nonostante la riduzione del periodo fisso di blocco delle attività, l’apertura alla tutela differenziata di alcune specie e la possibilità per le imprese di scegliere i restanti giorni di stop, come richiesto da Coldiretti Impresapesca, il giudizio sull’assetto del fermo pesca 2019 non può essere positivo poiché la misura continua a non rispondere alle esigenze della sostenibilità delle principali specie target della pesca nazionale, tanto che lo stato delle risorse nei 33 anni di fermo pesca è progressivamente peggiorato, come anche parallelamente lo stato economico delle imprese e dei redditi. Questo ha determinato nel periodo un crollo della produzione – spiega Coldiretti Impresapesca – la perdita di oltre 1/3 delle imprese e di 18.000 posti di lavoro. L’auspicio è che dal 2020 si possa partire dalle novità positive per mettere in campo un nuovo sistema che tenga realmente conto delle esigenze di riproduzione delle specie e delle esigenze economiche delle marinerie.

 

Per non essere ostaggi del sovranismo: un nuovo Governo di tregua e di programma.

Siamo consapevoli che la crisi di governo, esplosa all’improvviso e con un carico di avventura partigiana, riporti alle ragioni – mai sufficientemente approfondite – che nelle elezioni dello scorso anno (4 marzo 2018) hanno determinato la rottura clamorosa di un equilibrio politico a lungo preservato o incoraggiato dal sistema maggioritario, quindi dal forzato adeguamento al bipolarismo.

Bisogna approfondire, per non accontentarsi del giudizio superficiale, la tormentata vicenda della mozione di sfiducia. L’anomalia, in questo caso, non è data dalla frattura in sé, ultimo atto di un’impervia collaborazione tra Lega e M5S; ma dalla costituzione, a prescindere dal mandato popolare, di un’intesa senza basi programmatiche adeguate, per la quale due partiti antagonisti, in aperto conflitto prima e durante la campagna elettorale, hanno tuttavia convenuto di approntare una maggioranza parlamentare artificiale, unità dal collante del potere.

Ha prevalso dunque la logica di una convergenza casuale, come per attrazione di poli estremi e per similitudine di accenti anti-sistema, tali da evocare ambigue e spericolate teorie sulla fuoriuscita dall’Euro o sul distacco dall’Europa, in coincidenza con gli interessi e le aspirazioni di potenze straniere, da sempre ostili al rafforzamento dell’Unione.

Salvini non apre la crisi per ricomporre un disegno di governabilità su basi più razionali, mirando cioè al superamento delle distorsioni e degli eccessi negativi del connubio gialloverde. La apre, semmai, con un sovrappiù di aggressività, denunciando le insufficienze operative dell’esecutivo e invocando, come risposta alle difficoltà, il conferimento dei pieni poteri. Le elezioni avrebbero – questo il messaggio affidato alla propaganda –  il significato di un plebiscito pro o contro l’istanza neo-autoritaria della Lega: più  comando (personale) in cambio di più sicurezza (collettiva).

Invece, tenuta a freno la tentazione di un ricorso anticipato al voto, equivalente ad una battaglia campale senza nemmeno la possibilità di identificare e proporre in breve tempo le motivazioni di una alternativa, questa crisi deve aprire la strada a una fase intermedia di decantazione, per utilizzare la tregua ai fini di una necessaria ricomposizione civile e politica del Paese.

Occorre ricostruire la fiducia – in effetti le politiche del 4 marzo 2018 ne hanno sancito la rottura – tra popolo e istituzioni, riattivando energicamente la leva di un’autentica, rinnovata strategia europeistica, intesa come largo orizzonte sovranazionale di sviluppo e di pace, senza con ciò rinunciare a modificare, laddove giusto e necessario, le forme che hanno garantito lungo vari decenni il processo di allargamento e integrazione della originaria Comunità di Stati nazionali.

Ora, le forze politiche che proprio in Europa hanno concorso alla elezione di David Sassoli a Presidente del Parlamento e all’approvazione della nomina di Ursula Von der Leyen alla guida della Commissione, sono in condizione e perciò hanno il dovere di adempiere in Italia a uno sforzo di analoga convergenza, per collaborare alla definizione concreta, in spirito di responsabilità verso le istituzione e verso i cittadini, di quello che le associazioni cattoliche firmatarie di un recente documento (https://ildomaniditalia.eu/chiediamo-una-tregua-di-ricomposizione-morale-e-civile-del-paese/amp/?__twitter_impression=true) hanno appunto chiamato il governo di tregua, ovvero di tregua operosa.

Non è, questa, una premessa che sancisca di per sé l’uscita immediata dalla condizione di disordine e conflittualità, affidandosi magari a un generico accordo di programma e quindi autorizzando le critiche all’«inciucio»; essa piuttosto, come premessa, rappresenta (o deve rappresentare) il punto di rilancio di una iniziativa democratica, chiusa nettamente a destra, capace di trascinare le componenti della futura maggioranza sul terreno di una positiva dialettica di cooperazione e competizione, per ridare coerenza spessore e concretezza alla lotta politica in Italia.

Ciò non significa, in sostanza, che il futuro governo debba prevedere la partecipazione di tutte le diverse componenti, partiti grandi e piccoli, forse essendo preferibile che la tregua si organizzi attorno a una combinazione di valore tecnico-politico, imperniata sulla responsabilizzazione del gruppo parlamentare (M5S) di gran lunga prevalente. Ci sarebbe quindi, secondo questo schema, un recupero di assoluta centralità del Parlamento, data la forza di indirizzo e di controllo che avrebbe la maggioranza in quanto tale, nelle Aule di Camera e Senato, nello svolgimento dell’attività ordinaria e straordinaria dell’Esecutivo. Non sarebbe affatto una soluzione di ripiego perché, anzi, un Parlamento rinvigorito nelle sue funzioni costituzionali e un governo rispettoso della volontà espressa dalla sua maggioranza potrebbero rappresentare l’architrave – l’unico realisticamente verificabile ora – di questa auspicabile e indispensabile fase di tregua.

La durata dell’Esecutivo sarebbe calibrata, in questo caso, sulla effettiva volontà e capacità di portare avanti un disegno di riordino politico, mettendo in sicurezza i conti dello Stato, aggredendo il nodo dell’efficenza del sistema produttivo, rilanciando investimenti e occupazione, specialmente al Sud, innescando provvedimenti virtuosi sul piano della solidarietà e della coesione sociale, anche nella gestione dei flussi immigratori, piegando la curva del declino strutturalmente legato alla grave questione demografica,  affrontando con razionalità le questioni dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile, restituendo dignità e giusta reputazione, infine, al ruolo dell’Italia nel Mediterraneo e nel mondo, secondo le linee delle storiche e consolidate alleanze di politica internazionali.

Uno sforzo consapevole, fatto di rinunce reciproche e comune impegno in funzione dei superiori interessi della nazione, da cui può scaturire il riordino di un sistema politico nel quale identificare in prospettiva la presenza autonoma di un centro democratico e popolare, darebbe intanto più serenità alla valutazione che il Presidente della Repubblica, arbitro della crisi, svilupperà nel corso delle verifiche di rito, di sicuro esercitando la sua azione con la saggezza e l’equilibrio sempre pienamente riconosciuti dalla pubblica opinione.

Il momento è delicato, dunque richiede generosità e lungimiranza. L’Italia non merita di scivolare nel pantano di una politica ostica e pregiudiziale, a perenne intonazione demagogica. L’alternativa democratica è possibile.

Giuseppe Conte gioca la sua partita personale contro un Salvini “ pentito”

Matteo Salvini è “ pentito” assicura Luigi Di Maio il quale, però, chiosa : “ oramai la frittata è fatta”, e ribadisce la richiesta di dimissioni da parte del “ ravveduto”.

Quello che appariva l’imbattibile capo della Lega prova, però, ancora a mandare un segnale ai 5 Stelle: il mio telefono è sempre acceso. Questa lapalissiana dichiarazione, perché è raro vedere Salvini senza un telefono in mano, non ci impedisce di tornare con la mente al bollettino di Diaz del 1918: “ I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza”.

Sarà proprio così? Viste le tante stranezze di questa crisi non ci sarebbe da meravigliarsi di niente. Il potere di cui si gode nella Roma “ ladrona” potrebbe pure valere il riconoscere d’aver fatto una bischerata, per dirla alla Montanelli.

Per cui, chi sta dando per certo un nuovo governo abbia la pazienza di attendere il lavorio che sfocerà nel dibattito parlamentare del prossimo 20 agosto.

La notizia del giorno è comunque un’altra. Il Presidente del consiglio, Giuseppe Conte, ha cominciato a giocare una sua propria partita, indipendentemente dai 5 Stelle.

Ha preso carta e penna e ha scritto addirittura una lettera aperta al suo ministro dell’Interno. Una delle tante cose inedite ed inusuali che ci offre l’attuale fase politica.

Mai, se la memoria non falla, c’è stato un intervento di questo genere. Ai vecchi tempi sarebbe comunque seguita un’altra lettera, aperta o chiusa, con l’inevitabile rinuncia all’incarico da parte di Matteo Salvini.

I due sono giunti al punto in cui tanti separati in casa si vedono costretti a lasciarsi reciprocamente attaccati al frigorifero messaggi su questioni che, altrimenti, non sarebbero in grado di affrontare guardandosi in faccia.

Già Conte era stato molto chiaro quando il capo della Lega prese irruentemente cappello: dirò tutto su Salvini e il comportamento del suo partito.

Quello del Presidente del consiglio è un messaggio importante. Sia nel merito, sia per quello che anticipa. Non solo egli non arriva al dibattito parlamentare da dimissionario, come speravano i capi della Lega, ma fa capire che sta stringendo i suoi guantoni da pugilato, la “ nobile arte”.

Conte comincia a giocare una partita sua. Lo fa con la forza di quella apparentemente ingenua determinazione dei non addetti ai lavori della politica che, però, talvolta si rivela più “ politica” che mai.

A seconda di come gestirà l’attuale situazione, il Presidente del consiglio potrebbe guadagnare molto prestigio e considerazione e costruire le condizioni per un eventuale reincarico, con o senza la Lega al governo.

Cosa dice Conte nella sua lettera aperta?

L’affermazione chiave credo debba essere ravvisata là dove sostiene: “Siamo ormai agli sgoccioli di questa nostra esperienza di governo”. Ergo: questo governo non prosegue più così. Si volta pagina in ogni caso, pure con Salvini, ammesso che quest’ultimo si presenti a piedi scalzi e con il capo cosparso di cenere al portone di Palazzo Chigi .

Il cambio di pagina sarà all’insegna di un modo diverso di condurre le cose istituzionali. Conte vuole lealtà. In merito all’ultima vicenda dei migranti, rimprovera il comportamento del suo interlocutore: “ È un chiaro esempio di sleale collaborazione, l’ennesima a dire il vero, che non posso accettare”.

La lezione politica di Conte è netta: “ Come ho sempre pubblicamente rappresentato, il tema dell’immigrazione è un tema complesso. Va affrontato con una politica di ampio respiro, come ho provato a fare sin dal primo Consiglio Europeo al quale ho partecipato, a fine giugno 2018, evitando di lasciarci schiacciare dai singoli casi emergenziali”.

Qui, partono una serie di affermazioni: “ è il momento di insistere in direzione di una soluzione sempre più europea, altrimenti l’Italia si ritroverà completamente isolata in una situazione che diventerà, nuovamente, via via sempre più ingestibile. La nuova Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, nei colloqui sin qui avuti, mi è sembrata molto determinata a percorrere questa strada e a darci una mano risolutiva… se davvero vogliamo proteggere i nostri “interessi nazionali”, non possiamo limitarci a esibire posizioni di assoluta intransigenza….Non possiamo agire da soli. Dobbiamo continuare a insistere in Europa, come peraltro hai fatto Tu, di recente a Helsinki. E’ questa la direzione giusta”.

Dopo i rimproveri a Salvini, che prefigurano in ogni caso una nuova rotta da seguire in materia immigrati, utile anche a mettersi in sintonia con la nuova maggioranza formata a Bruxelles, Conte gli porge la ciotola piena di cenere da cui attingere per cospargersi il capo e lascia uno spiraglietto aperto: “ E poi non oscuriamo quello che abbiamo fatto di buono. Se mai rammarichiamoci per quello che ci riproponevamo di ottenere e ancora non abbiamo ottenuto”.

Discolaccio, dice Conte a Salvini, “ la tua foga politica e l’ansia di comunicare, tuttavia, ti hanno indotto spesso a operare “slabbrature istituzionali”, che a tratti sono diventati veri e propri “strappi istituzionali”.

Infine, la lezione conclusiva del neofita della politica al ben più navigato Salvini, che va per i trent’anni di continua ed indefessa esperienza istituzionale: “ Il consenso politico a cui ogni leader politico aspira si nutre della fiducia degli elettori. Ma se non alimentiamo la fiducia dei cittadini nelle istituzioni pubbliche si crea un cortocircuito e alla fine prevalgono rabbia e disaffezione. Dobbiamo tutti operare per riconoscere piena dignità alle istituzioni che rappresentiamo, nel segno della leale collaborazione”.

Il botto finale è un appello accorato che un irritato, ma paziente papà potrebbe fare ad un figliolo scapestrato, ma di cui pure si può intuire qualche dote: “ Hai alle spalle e davanti una lunga carriera politica. Molti l’associano al potere. Io l’associo a una enorme responsabilità”.

Un vero e proprio capolavoro della politica. Adesso più che mai la palla torna a Salvini. Lancio della monetina e scommessa sulla faccia che la crisi mostrerà il 20 d’agosto?

Il Veneto assume 500 neo laureati in medicina

La Regione Veneto a fronte di una carenza ormai tanto storica, quanto preoccupante di medici ha deciso, con due delibere approvate dalla Giunta regionale, su proposta dell’Assessore alla Sanità, Manuela Lanzarin, l’assunzione con contratti autonomi di 500 giovani medici, laureati e abilitati, ma non ancora in possesso della specializzazione, che frequenteranno un corso di formazione pratico e teorico, al termine del quale, con il tutoraggio di colleghi strutturati, 320 verranno introdotti al lavoro nell’area del Pronto Soccorso e 180 in quella della Medicina Internistica (Medicina Generale e Geriatria).

L’operazione avrà un costo annuo di circa 25 milioni, la quasi totalità legati agli stipendi dei nuovi assunti.

Per la festa dell’Assunzione di Maria

L’articolo appare nell’edizione odierna de L’Osservatore Romano 

di Carolina Blazquez Casado

Il mistero della Glorificazione di Maria in anima e corpo in cielo è stato l’ultimo dogma mariano proclamato solennemente — nella data relativamente recente del primo novembre 1950, per opera di Pio XII — ma la certezza che il corpo di Maria, la Madre di Gesù, non sperimentò la corruzione e perciò gode in pienezza, come prima creatura e anticipo del nostro destino, dei frutti della Risurrezione di suo Figlio nella totalità della sua umanità, è antichissima e risale agli inizi del cristianesimo.

Il primo scritto cristiano che affronta questo tema è datato tra iv e v secolo, ma contiene esso stesso materiale più antico, elaborato, secondo alcuni studiosi, già nel ii secolo. Stiamo parlando dell’apocrifo intitolato il Transito di Maria e attribuito per secoli a Melitone di Sardi per la sua forte impronta teologica della tradizione antiochena. Questa scuola patristica era caratterizzata da un pensiero profondamente semitico, lontano dai paradigmi filosofici greci, e in aperta polemica con le tesi gnostiche, al punto tale da elaborare un’interessantissima teologia della carne, ovvero quella che oggi chiameremmo un’antropologia “a partire dal corpo”, sottolineando come, in virtù del Mistero della creazione in Cristo e dell’Incarnazione del Verbo, la materia — e in concreto la carne dell’uomo — sia stata scelta da Dio come spazio teologico per eccellenza, in cui depositare e irradiare la grazia della salvezza.

Un altro dato da osservare in relazione all’importanza di questa festa è la sua celebrazione liturgica nella data del 15 agosto. Nelle Chiese Orientali abbiamo notizia di questa celebrazione già a partire dal iv secolo, col nome di “Memoriale di Maria”; in Occidente, dal Medioevo in poi essa è citata con formulari specifici. Nel settimo secolo essa viene istituita nella liturgia romana e in seguito anche negli altri riti occidentali: per esempio nella liturgia ispano-mozarabica nel nono secolo essa si celebra ufficialmente, ma già dal settimo secolo si allude al tema dell’Assunzione di Maria nella liturgia dell’apostolo Giovanni, in cui verginità e incorruzione della carne appaiono connessi in modo interessante.

Questa festa pertanto è stata sempre celebrata dopo la chiusura del ciclo pasquale che introduce il cristiano nella pienezza della rivelazione grazie all’effusione dello Spirito Santo nella Pentecoste. Dio ha riversato il Mistero della sua Vita su questo mondo fino all’estremo, in un lungo e paziente gesto di “svuotamento” — lungo quanto la storia della salvezza — il cui frutto è quello che i Padri della Chiesa chiamano lo “scambio felice”: poiché Dio ha assunto la carne dell’uomo fino alle ultime conseguenze, questa carne si apre ad accogliere lo Spirito; poiché Dio ha “rotto” la sua trascendenza per avvicinarsi all’uomo, si è aperta la via attraverso la quale l’uomo può entrare nella vita divina. Questo disegno di salvezza si è realizzato in Maria, superando la costante tentazione gnostica o razionalista, e si è compiuto nella fragilità della sua carne, perché è proprio nel corpo di Maria che si è consumata definitivamente l’unione tra Dio e l’uomo.

Non esiste un’altra festa cattolica in cui la natura della Tradizione, vero canale della rivelazione divina, e il senso della fede proprio del popolo di Dio, salvaguardia della verità rivelata, si manifesta con maggiore chiarezza; in cui la stima e il rispetto della fede cristiana per la carne, il corpo e il creato siano più esaltati e vi si esprima con più limpida bellezza la relazione intima tra il principio apostolico e il principio mariano su cui si costruisce la Chiesa.

In un paese della Spagna orientale già sono cominciati i preparativi per l’imminente rappresentazione dell’unico auto sacramental — una forma di dramma religioso tipica del teatro spagnolo a partire dal Seicento — che per un privilegio speciale di Urbano VIII si continua a rappresentare all’interno di una chiesa, la basilica minore di Santa Maria di Elche. Quest’opera s’intitola il Mistero di Elche: in valenciano, la lingua in cui è scritta la quasi totalità dei versi, I Misteri d’Elx. Di origine medievale, riprende la tradizione teologica, liturgica e spirituale sull’Assunzione di Maria comune a tutto il bacino del Mediterraneo. Se i versi sono straordinari per profondità teologica e bellezza poetica, il canto che li accompagna è meraviglioso e commovente. Le melodie di ispirazione orientale, con una grande influenza corsa, introducono in profondità nel mistero.

L’opera — che viene messa in scena ogni 15 agosto e, negli anni pari, anche nella data di proclamazione del dogma dell’Assunta — si sviluppa in due atti. Nel primo, Maria riceve, come in una nuova Annunciazione, la notizia della sua prossima morte e per questo motivo, mossi da una spinta o da una forza interiore che non sanno spiegarsi, tutti gli apostoli si mettono in cammino dai confini della terra in cui si erano dispersi per annunciare la buona notizia del Vangelo. Si tornano a incontrare con stupore e sorpresa quando si accorgono di essere stati tutti misteriosamente chiamati a Gerusalemme, convocati intorno al letto di Maria per accompagnare il suo transito ed essere testimoni della sua glorificazione in Cielo. È un punto di straordinaria tenerezza e bellezza perché Maria per loro è l’ultimo segno, la memoria viva della presenza di Gesù sulla terra. La rappresentazione è una vera espressione credente della relazione intima che esiste tra Maria e la Chiesa, tra il principio mariano e il principio petrino: e della primazia del primo sul secondo. Maria infatti ci precede, perché grazie all’accoglienza fedele della Parola nella buona terra della sua umanità, il seme del Verbo ha portato frutto in tutto il suo essere Donna, fino a fare di Lei la «Terra del Cielo».

Guardiamo insieme al futuro, l’omelia del cardinale Bagnasco

L’omelia dell’arcivescovo Bagnasco
Ecco le parole del cardinale Bagnasco, arcivescovo di Genova, all’omelia.

“A distanza di un anno dal tragico crollo del ponte Morandi. Genova è qui, e con noi prega per le vittime, angeli della Città. Li pensiamo nella luce, tra le braccia di Dio; e con gli occhi della fede li vediamo affacciarsi dalla finestra del cielo mentre pregano per i loro cari, per tutti noi: Genova non li dimenticherà mai. Abbiamo incisi nel cuore quei giorni, quell’apocalisse che ci ha lasciati senza respiro, che ci ha fatti sentire svuotati, come se tutto – d’improvviso – fosse precipitato nel buio. Come in quei momenti di lutto, la Città rinnova il suo abbraccio ai familiari delle vittime: siamo consapevoli che nessuno di noi può colmare il vuoto dei loro cari, ma umilmente e, con grande rispetto, vogliamo stringerci a loro perché non si sentano troppo soli. Anche le parole del Santo Padre Francesco ci fanno sentire il suo affetto e la sua vicinanza: di cuore lo ringraziamo.

 

Abbiamo stampata nell’anima, però, anche una luce che ha sfidato l’oscurità di quei momenti funesti; una luce che man mano si è ingrandita, che si è fatta largo tra le macerie alla ricerca di vita: è la luce dei soccorritori sbucati da ogni dove, come se fossero miracolosamente pronti ad essere presenti e operativi. E’ stato solo dovere? No, è stato anche amore. Era la luce dell’amore che da
quelle macerie è scaturita insieme all’immenso dolore. E quell’amore si rivestiva di perizia, di speranza, di ostinato coraggio, di sacrificio, che è l’altro nome dell’amore. A tutti – dalle forze dell’ordine ai vigili del fuoco, dalle istituzioni pubbliche alle diverse organizzazioni, dal mondo delle professioni ai molti volontari – rinnoviamo gratitudine; essi hanno espresso l’anima di Genova, la sua forza di non piegarsi, di non arrendersi, la coriacea volontà di rinascere. E così è!
Nonostante gli interventi giunti, le difficoltà sono state pesanti, e i disagi diffusi per muoversi da una parte all’altra, per gli abitanti della zona, per non pochi lavoratori che qui avevano le loro attività: tutti hanno vissuto il distacco da un ambiente familiare e caro, hanno visto messo in crisi il loro lavoro. Ma su tutto ha aleggiato la speranza, il credere in un futuro non lontano, e che oggi cominciamo a vedere. La demolizione del rimanente troncone del ponte è stato come il definitivo distacco da un pezzo di storia, ma la Città è protesa al futuro, un futuro che, con onestà e determinazione, dobbiamo guardare insieme.

Il Vangelo di oggi ci esorta, e come sempre ci aiuta: Gesù, il Figlio eterno di Dio, ci assicura che “dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Ci può essere oggi parola più illuminante per il nostro popolo? Lo stare insieme, lo sperare e lavorare insieme, insieme camminare e guardare al bene non individuale ma comune, non è solo una regola d’oro per la Città e un modo per onorare i defunti, ma è anche la garanzia di una presenza più grande, di un Amore che ci abbraccia, e tutti conforta e rafforza: è la presenza e l’amore di Dio! Le nostre forze non sono piccole, così il desiderio di giustizia e di bene, ma per esperienza sappiamo quanto siamo fragili, quanto possiamo essere attraversati da egoismi e miopie, da rivalità e divisioni, da dimenticanze. Se restiamo uniti e ci lasciamo umilmente abbracciare da Dio, allora saremo capaci di abbracciarci gli uni gli altri, e le nostre capacità – come i pochi pani e pesci della parabola evangelica – si moltiplicheranno e faranno miracoli. Sia così, cari Amici, sia così per il bene di noi tutti, delle giovani generazioni di cui siamo responsabili, sia così per il bene di Genova e del nostro amato Paese”.

L’ENCICLICA DI FRANCESCO NON CI OBBLIGA A SEGUIRE LA STRADA DELLA DECRESCITA

di Giovanni Farese*

Ho letto con molto interesse il dibattito che si è aperto sul Domani d’Italia. In particolare mi ha colpito la nota di Federico Fazzuoli, sulla quale, a dire il vero, non mi trovo in perfetta sintonia.

 

Il dissenso non riguarda le parole della Enciclica, ovviamente, che vanno sempre meditate con cura, quanto l’interpretazione puntuale che ne viene offerta (come sembra leggendo appunto l’articolo di Fazzuoli).

 

Il problema della crescita e dello sviluppo non si risolve con la decrescita, ma con la direzione (la giustizia sociale) e la qualità della crescita (meno diseguale). Lo scriveva peraltro già il nostro Keynes. Certo che il consumismo può condurre al materialismo, all’anomia etc. Gli eccessi sono sempre dannosi. Pertanto la decrescita – occorre ripeterlo – non può essere indicata come la meta di una comunità.

 

E poi ci sono tanti tipi di consumi (p. es. quelli culturali). In ogni caso, mi porrei prima il problema degli investimenti. Al quale l’aumento prospettico dei consumi è comunque agganciato.

 

In ogni caso il dibattito su queste cose fa sempre bene, ed è meglio di un comizio sulla spiaggia.

 

*Farese è docente di Storia dell’economia presso l’Università Europea di Roma). Con Giorgio La Malfa ha curato la recente edizione della Teoria generale (e altri scritti) di John Maynard Keynes (I Meridiani-Mondadori).

Il bluff di Salvini

Il deputato e costituzionalista Ceccanti ha riassunto, in tarda serata di ieri, le questioni collegate alla proposta di Salvini in ordine al taglio dei parlamentari e al ricorso immediato alle urne. Riportiamo integralmente la nota, il cui carattere di immediatezza, sulla scia del dibattito e delle votazioni svoltisi in Senato, non toglie completezza e rigore all’esposizione.  

 

 

La giornata termina con la sconfitta totale di Salvini. La capigruppo Camera calendarizza il taglio dei parlamentari il 22 agosto, dopo che Conte si sarà dimesso e quindi la cosa sarà sospesa fino alla chiusura della crisi.

 

E’ prevalsa la tesi giusta secondo cui la crisi è già sostanzialmente aperta e quindi hanno precedenza le comunicazioni del Presudfnte del Consiglio.

 

La proposta di Salvini era un bluff propagandistico per due motivi.

 

Il primo si è già scoperto ed era la crisi di governo che lui stesso ha provocato e che non poteva far calendarizzare il taglio prima della soluzione della crisi.

 

Del taglio, della sua possibile votazione, insieme ad altri provvedimenti integrativi, si potrà parlare solo se ci sarà un nuovo Governo a partire dalle dimissioni di Conte al termine della seduta del Senato del 20 agosto.

 

Il secondo è il grave problema politico ma anche costituzionale che si sarebbe aperto.

 

Se la Camera avesse votato il 19 agosto, come ben si capisce dai primi articoli della legge 352/1970, il testo sarebbe uscito sulla Gazzetta solo per pubblicazione notiziale, non per entrare in vigore. Di sicuro perché al Senato è già passato solo con la maggioranza assoluta e non coi due terzi.

 

Poi il timing previsto dalla legge è questo: tre mesi per chiedere il referendum; fino a un mese per la Cassazione per esaminare le eventuali richieste e qualche altro giorno per eventuali ricorsi; fino a 60 giorni per indire il referendum; fra 50 e 70 giorni per svolgerlo; alcuni giorni per la proclamazione del risultato e poi per eventuali ricorsi; poi qualche giorno per la proclamazione; quindici giorni di vacatio e due mesi per i collegi (norma transitoria e legge 51/2019).

 

Alla fine dei conti ci vogliono circa 5-6 mesi dall’ultimo voto della Camera se non c’è il referendum e 10-11 se invece si svolge.

 

La proposta Salvini avrebbe quindi comportato il voto della riduzione, ma senza effetti immediati. Le nuove Camere appena elette sarebbero state subito delegittimate dai nuovi numeri della riforma.

La decisione dei capigruppo elimina in radice questo scenario pericoloso dal punto di vista politico e costituzionale.

 

Il bluff di poche ore è finito.

 

La crisi esige un momento di rigore

Il dibattito che si è aperto sul nostro “Domani d’Italia” è stimolante. Condivido pienamente, a questo proposito, la lettura della situazione politica fatta ieri da Giuseppe De Mita. Bisogna non perdere di vista la sola visione utile per il Paese: abbandonare ogni tattica e stare ben fermi su una lettura strategica fondata sulle dinamiche storiche, come fecero Sturzo, De Gasperi e Moro. Non le loro singole scelte ché sono caduche, ma il loro metodo occorre preservare. Il nostro impegno politico particolare infatti per essere fruttuoso ha bisogno di respiro, di tempo.

 

Nella circostanza, poi, degli eventi urgenti dettati dalla attuale crisi politica, credo che alla richiesta di polarizzazione a destra imposta al sistema da Salvini la linea più saggia per il Pd sia non la polarizzazione del partito a sinistra, ma l’unità del partito, che è altra cosa, quale mi sembra sostenga Zingaretti. Solo così a mio parere si salva la ragione strategica di quel partito. E con quel partito, si può salvare la ragione stessa della sopravvivenza della democrazia rappresentativa parlamentate nel nostro Paese.

 

La crisi chiesta da Salvini, infatti, presenta una sua logica di chiarimento generale del sistema politico che non va disprezzata. Presenta insieme pericoli di involuzione di tipo totalitario, che vanno tenuti presenti, ma che occorre parare con soluzioni possibili costituzionalmente corrette e non con pasticci che corrodono il sistema politico pervertendolo e causando danni peggiori dei pericoli paventati.

 

Sta infine alla saggezza del Capo dello Stato, nella piena libertà delle sue funzioni garantite dalla Costituzione, in occasione della eventuale formazione di un nuovo governo, il ricorso a taluna di queste soluzioni, che funzionano da contrappesi e da garanzie per il prossimo sviluppo della nostra vita politica, soprattutto nella scelta delle grandi linee politiche tradizionali del Paese e contemporaneamente nella individuazione di rette ed equilibrate personalità che per fortuna non mancano in ogni attuale formazione politica. Credo che ancora vi sia una strada limpida e non pasticciata per dare soluzione ai contingenti problemi politici del Paese, perseguendo l’interesse generale e non le velleità personali di questo o quello.

 

Che lo Spirito divino ci illumini !

STURZO, IL SUD E LA POLITICA ITALIANA. IL RISORGIMENTO MERIDIONALE

L’articolo di Vito Piepoli è apparso nella newsletter di Servire l’Italia

L’8 agosto 1959, esattamente sessant’anni fa, moriva a Roma all’età di ottantasette anni don Luigi Sturzo, il cui pensiero risulta quanto mai attuale. Ci preme ricordare in questa occasione solo uno dei suoi tanti articoli, per darvi un piccolo assaggio delle sue idee sul Mezzogiorno e la politica italiana, sul programma del risorgimento meridionale. “Lasciate che noi del meridione possiamo amministrarci da noi, da noi designare il nostro indirizzo finanziario, distribuire i nostri tributi, assumere le responsabilità delle nostre opere, trovare l’iniziativa dei rimedi ai nostri mali” scriveva.
Era il 1901 quando La Croce di Costantino pubblicò quest’articolo di Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare e meridionalista convinto che, solo attraverso lo sviluppo di un largo decentramento, il Mezzogiorno avrebbe potuto trovare la via del riscatto. Il forte senso geopolitico di Sturzo lo rese ben cosciente del carattere differenziato e composito delle regioni d’Italia. “La regione in Italia è un fatto geografico, etnografico, economico e storico, che nessuno potrà mai negare. L’Italia è lunga e stretta, si allarga al nord lungo la catena alpina che la protegge e la incorona; si sviluppa nelle colline e pianure padane fino all’Adriatico; si stende verso il sud con la dorsale appenninica che la divide in zone adriatiche e tirrene, si va a bagnare nello Jonio, arriva con la Sicilia al mare africano, e con la Sardegna fronteggia a distanza le Baleari. La storia ci ha plasmati in mille modi, dando a ciascuna zona la sua caratteristica, la sua personalità, una e multipla allo stesso tempo”.
Va detto che Sturzo non rifiutò mai l’unità d’Italia che considerò sempre come un risultato positivo che doveva essere raggiunto prima, però questo non lo indusse a risparmiare delle critiche ai limiti dell’unificazione. E tanto per cominciare, per lui vi erano tante storie delle varie parti dell’Italia, più che una storia d’Italia. Le differenze tra Nord e Sud erano abissali nel momento dell’unificazione e queste non furono ridotte. Secondo Sturzo l’unità d’Italia fu soprattutto una occupazione ed una omogeneizzazione, un tentativo fallito di esportare al sud un modello del Nord. In definitiva si ebbe l’“uniformità” piuttosto che l’“unificazione”. Nel 1926 Sturzo parlava di “piemontesizzazione dell’Italia”, di “centralismo burocratico”, di stampo francese al posto del federalismo e/o regionalismo di stampo anglosassone.

“Uno degli errori più gravi di quel tempo, i cui effetti deleteri si risentono ancora, fu l’esagerato criterio di unificazione che fu trasformato in quello di uniformità. (…) Tutto ciò fu detto piemontesizzazione dell’Italia”. “Avevano voluto tagliare alle radici le tradizioni comunaliste e le vitalità regionali; avevano bandito dalla nuova vita ogni ricordo religioso-cattolico intimamente legato alle manifestazioni di pensiero, di tradizione e di arte italiana; avevano accentrato ogni vitalità nel governo e nel parlamento, che divenivano anche centro di intrighi e di affarismi; e non si accorsero di aver tolto una delle forze vitali del nuovo regno”.
E In un altro scritto riferisce che “L’Italia non poteva trovare una misura unica, che creasse una metropoli per tutta la sua lunga linea, dalle Alpi al Lilibeo: doveva imitare l’Inghilterra non la Francia, e dare dinamismo legislativo alle sue forze varie, non la forza statica dei suoi regolamenti”. Rafforzato anche dalle esperienze di amministratore locale, l’autonomismo resta un punto nevralgico del pensiero politico di don Sturzo che nel 1921 a Venezia, in occasione del terzo congresso dei popolari, lancerà in modo compiuto l’idea di regione come ente con autonomia legislativa e finanziaria.
Ma questo non gli impedisce di muovere dure critiche alla scarsa convinzione con cui la Costituzione del 1947 aveva riconosciuto le prerogative legislative regionali. In particolare il sacerdote siciliano polemizza per l’esclusione tra le materie di competenza regionale dell’industria e del commercio, settori cruciali per lo sviluppo sui quali soltanto la conoscenza del territorio delle istituzioni locali, secondo Sturzo, consente di pianificare efficaci politiche d’incentivo e di sostegno infrastrutturale senza mai cadere, però, nell’assistenzialismo pubblico.
La politica economica è, infatti, un aspetto fondamentale del regionalismo di don Sturzo. Il suo è insieme un federalismo storico, che vede nelle regioni italiane una realtà vivente e insopprimibile dell’Italia post-unitaria, ma anche un federalismo funzionale, proposto come soluzione pratica allo statalismo che attraverso le logiche assistenziali nutre i suoi apparati e affama il cittadino elettore e contribuente. Nella sua concezione politica, la semplificazione amministrativa e legislativa sono elementi portanti in un disegno regionale dello stato, il cui obiettivo finale consiste nella sana gestione del denaro pubblico attraverso il controllo locale delle risorse e della leva fiscale. È questo uno dei punti più attuali del pensiero di Sturzo che riconosce la necessità di un federalismo fiscale, come passaggio indispensabile per assecondare lo sviluppo delle differenti realtà regionali.
“È razionale e giusto, scrive nel 1901 sul Sole del mezzogiorno, che le regioni italiane abbiano finanza propria e propria amministrazione, secondo le diverse esigenze di ciascuna, e che la loro attività corrisponda alle loro forze, senza che queste forze vengano esaurite o sfruttate a vantaggio di altre regioni e a danno proprio”. Un federalismo spinto quello sturziano che non nega tuttavia il principio di nazionalità che deve portare le regioni ad aiutarsi reciprocamente. Da liberista non esita a scagliarsi contro il capitalismo di stato che finanzia e sostiene le imprese nei settori più disparati col denaro pubblico, alterando in questo modo lo sviluppo di una forte e sana iniziativa privata.

Lo stato è infatti l’istituzione più lontana dai cittadini, cui tutti sentono di poter chiedere senza percepire nell’immediato le ripercussioni di una politica spendereccia; per lo stesso motivo lo stato è il centro di potere, dove meglio possono annidarsi le pratiche partitocratiche e le grandi lobby economiche. Prima di tanti, Sturzo prevede insomma le conseguenze nefaste dell’assistenzialismo, la voragine del debito pubblico, la politica inflazionistica. Il decentramento amministrativo e finanziario, nel suo disegno, è allora l’antidoto agli sprechi persi nei meandri dei ministeri, ai buoni propositi, puntualmente disattesi, dei politici meridionali di fare fronte comune in Parlamento nell’interesse del sud.
Una lezione, questa di don Sturzo, che conserva quindi un’attualità impressionante e che oggi, che ancora si dibatte sul federalismo fiscale, sull’Unità d’Italia e sulle politiche del governo per gli incentivi al Sud, può rappresentare per il Mezzogiorno un invito al coraggio, a scommettere su se stesso. Il Sud, dopo essere stato per decenni una palla al piede dell’economia nazionale, è oggi chiamato a diventare la frontiera di un’Italia ricca di potenzialità. In questo scenario, tale obiettivo può essere raggiunto sposando l’idea di un federalismo fiscale per il Sud.
Anziché invocare una maggiore redistribuzione a loro favore, la classe politica e l’opinione pubblica meridionale devono accettare la sfida della competizione tra territori e rinunciare allo status quo. Ma sono soprattutto due le “idee forti” di Sturzo per colmare il profondo divario fra Nord e Sud: porre il Mezzogiorno nella condizione di diventare il grande protagonista di una politica mediterranea e far crescere nei meridionali la convinzione che “La redenzione comincia da noi”, senza attendere che lo sviluppo del Sud possa venire solo dall’esterno.

GIUSEPPE DE MITA, OLTRE LA CRISI: GUARDIAMO AL FUTURO DELL’ITALIA, LAVORIAMO A UN NUOVO PARTITO

Inizio le mie vacanze, ma non mi allontano di molto. Vado in montagna e non so, a 1800 metri daltezza, se avrò copertura per cellulare e IPad. Forse sconterò un podi sano distacco dalle comodità quotidiane. Giuseppe De Mita, anche se con le valigie in mano, scambia volentieri qualche pensiero sulle vicende politiche prima che ci si immerga nella pausa ferragostana.

Ma sarà vera pausa? Mi sembra, caro Giuseppe, che lo spettro delle elezioni anticipate si allontani. In fondo darla vinta a Salvini, subendo il suo diktat, sarebbe stato un errore. Non è così?

Sì, ritengo anchio che votare al buio, sotto la spinta impetuosa della Lega, avrebbe implicato una defezione dal campo della responsabilità politica. Sì può tentare lavvio di una fase nuova. A patto che si definiscano bene i contorni delloperazione.

Ecco, loscillazione sulle prospettive – governo di scopo o governo di legislatura – mostra quanto sia complessa la manovra di aggancio tra Pd e M5S. Più complessa, diciamo, delle convenienze a breve.

Noi abbiamo dato un segnale, nel nostro piccolo, con la proposta del governo di treguaavanzata da Costruire Insieme, Politica Insieme e Rete Bianca. Il documento licenziato qualche giorno fa andrebbe valorizzato e approfondito. Il mio giudizio è positivo: certamente si deve evitare un ricorso precipitoso alle urne. Tuttavia capisco le obiezioni che Zingaretti ha sollevato, perché un accordicchionon risolverebbe i problemi e consegnerebbe la legislatura a un prosieguo stentato, privo di energia e consistenza politica. Che senso avrebbe?

C’è da ricordare, però, che i governi hanno un che di aleatorio, sempre, anche quando nascono con lobiettivo di durare a lungo. Di Maio e Salvini, in questo anno, si sono spalleggiati ripetutamente nella recitazione scolastica sulla tenuta della maggioranza gialloverde. Ora, di colpo, questa maggioranza è andata in frantumi. Oltre le intenzioni, dunque, contano i fatti.

È vero, la preoccupazione sulla data di scadenza del possibile nuovo governo rivela la fragilità di questo approccio un poguardingo, direi fin troppo tattico. I governi durano finché ne restano valide le ragioni di sussistenza. Tutto dipende dalla qualità del percorso che verrà sviluppato. Le premesse, al momento, rimandano a un necessario ma di per sé insufficiente ricorso alla procedura durgenza: gli attori della svolta si accingono a consumare un matrimonio fondato sulla opportunità di frenare la deriva autoritaria di Salvini. Invece serve un discorso a più ampio spettro. Lo stesso Renzi, non smentendo i pregi e i difetti del suo carattere di abile pokerista, ricolloca nellambito del suo sperimentatomovimentismo listanza di una diversa e più corretta visione del cambiamento.

È un cambiamento sui generis. Ricordo che Enzo Carra, scrivendo in queste ore per noi, ha definito quella in corso una crisi giolittiana. Si tende cioè a risolvere tutto o quasi nel gioco stretto degli equilibrismi, più dentro che fuori delle Aule parlamentari. È un giudizio troppo severo?

No, è un giudizio appropriato. Quando riemerge, sempre a proposito di Renzi, la convinzione che il popolo italianoabbia sbagliato nel referendum sulla Costituzione, allora vuol dire che lanalisi della crisi non affronta le cause più remote e profonde. Ancora dobbiamo capire perché alle politiche, lo scorso anno, gli elettori hanno dato disco verde alla locomotiva del populismo. In assenza di un dibattito allaltezza dei problemi, ogni proposta finisce nel cono dombra di un pesante deficit di motivazione. È come se camminassimo bendati sul ciglio del precipizio, ignari del pericolo. E litigassimo sulla disposizione della fila…

Sì, la metafora rende bene il concetto, a condizione che ne sia estraneo un retro pensiero di tipo pessimistico. Non siamo, noi, quelli che adombrano la suggestione di un nuovo partito? E perché dovremmo impegnarci in questa direzione, se poi restiamo incatenati a un sentimento di rassegnazione? Celebrare, come abbiamo fatto, i cento anni dellappello di Sturzo ai liberi e fortidovrebbe instillare un senso di maggiore fiducia. Non credi?

 

Sono daccordo con te. Forse mi sono spiegato male: non è il pessimismo labito della nostra azione morale e politica. Anzi! Volendo andare oltre laridità della critica,  pesa (anche) su di noi il carico di una seria meditazionepolitica sulle prospettive del Paese. Il tema non è se e come occupiamo uno spazio, virtualmente al centro,  bensì cosa significhi in termini di valori e programmi questa specifica dislocazione sullo scacchiere politico. A me piacerebbe che rileggessimo il discorso di Moro alla Costituente, quando arrivò a formulare nella dialettica con Calamandrei lesigenza di assumere alcuni grandi e vitali principi, poi trasfusi nei primi tre articoli del Testo, come missione fondamentale e ineludibile della rinnovatademocrazia italiana.. Pensiamo, ad esempio, al dato emblematico di una nazione fondata sul lavoro(art. 1), al rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale(art. 2), allimpegno per la rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana(art. 3). Qui sta il nocciolo duro, a mio parere, di una nostra ripresa diniziativa politica. È pessimismo?

Direi proprio di no! Ma se questo è lorizzonte che ci deve interessare, tanto vale riconoscere lurgenza di un grandedibattito aperto, un vero seminario politico, da cui far scaturire quelle che potremmo chiamare con un pizzico di orgoglio – spero non di presunzione – le nostre idee ricostruttive.

Sottoscrivo. E se non lo dovessimo fare…altro che pessimismo.

Centro sinistra, oltre il civismo c’è di più

 

l’articolo è apparso su Huffingtonpost.it

Il possibile, e ormai del tutto probabile – anche se la serrata trattativa e’ tuttora in corso – tra il Pd di Zingaretti e il movimento 5 stelle per superare l’ormai ex governo giallo/verde e per porre un argine alla cosiddetta “onda nera” per citare chi continua a vedere o a sognare un pericolo fascista nel nostro paese, può avere effetti dirompenti nella politica italiana. Certo, prima di parlare di questo potenziale scenario, e’ importante attendere gli sviluppi concreti di questa crisi di governo a lungo annunciata ma che adesso assume un profilo inedito e ricco di contraddizioni. Anche perché attendiamo tutti le decisioni, che come sempre saranno sagge e di buon senso, del Presidente della Repubblica Mattarella, vero punto di riferimento e credibile della politica e delle istituzioni democratiche.
Ora, se dobbiamo attendere ancora pochi giorni per capire la piega concreta che prendera’ questa crisi, sul versante della coalizione alternativa alla destra che dovrà affrontare, prima o poi, le elezioni, l’orizzonte resta confuso anche se cominciano ad apparire elementi chiari ed inequivocabili.
Innanzitutto la natura di questa coalizione. Senza riproporre la simpatica ma del tutto irrealistica nonché virtuale concezione del Pd come partito a “vocazione maggioritaria”, resta quantomai singolare anche la concezione che vorrebbe una alleanza tra il Pd e un fantomatico “partito ambientalista” e una serie di liste civiche a partire da quella dei sindaci. Che, come noto, essendo anch’io Sindaco, sono anche e soprattutto il frutto del “civismo” democratico e culturale. Che resta un fatto trasversale e difficilmente etichettabile quando la partita politica ti chiede, in modo secco, da che parte stare senza equivoci e tentennamenti. Al di là dei sindaci delle grandi città che sono già militanti, tesserati o aderenti al Pd. Al riguardo, forse è giunto il momento per richiamare un aspetto politico che resta decisivo ed essenziale per l’ormai prossima stagione elettorale. E cioè, il civismo e’ indubbiamente importante, i partiti virtuali che vengono inventati alla bisogna sono altresì importanti, ma senza la presenza di partiti organizzati e che si alleano non in virtù di una autorizzazione gentilmente concessa dal segretario del partito di maggioranza relativa ma come frutto di una presenza politica, culturale ed organizzativa autonoma e definita nella società la partita si complica. Sotto questo versante una organizzazione politica e culturale che sbrigativamente si potrebbe definire di centro, riformista, democratica e di governo e’ quantomai necessaria ed indispensabile in una alleanza con la sinistra. Non c’è civismo o partiti e movimenti inventati a tavolino dal partito di maggioranza relativa che tengano. Servono partiti organizzati e radicati concretamente nel territorio, nonché portatori di una cultura politica specifica e determinata. Ed è proprio lungo questo crinale che si pone il tema su cui si sbizzarriscono da tempo molti organi di informazione e moltissimi opinionisti e commentatori politici. Al di là dei nomi e dei cognomi, ormai il capitolo di un partito che sia distinto e distante dal neo Pds di Zingaretti e’ quantomai importante e decisivo per rendere credibile e competitiva la potenziale coalizione di centro sinistra. Tocca ormai a coloro che si riconoscono in questo progetto politico fare il salto di qualità e dar vita al partito, strumento costituzionale che resta determinante per l’organizzazione politica democratica. E tocca alla neo sinistra prendere atto che senza una formazione politica del genere la competizione con la destra diventa quantomai complicata ed aggrovigliata. Anche perché la sinistra, da sola, in questo paese non vince. E men che meno con una singolare ed anacronistica alleanza con i 5 stelle. Prima se ne prende atto e meglio e’. E questo non per il bene del centro sinistra o del riformismo italiano ma per la stessa prospettiva e qualità della democrazia italiana.

Il partito di Renzi non decolla. Ma nessuno smentisce il progetto

Agi.it

di P.Molinari e M.Bazzucchi

La prima opzione rimane quella delle urne. Tuttavia, il Partito democratico aspetta il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per vedere quali saranno le ipotesi di soluzione sul tavolo. Nicola Zingaretti, intanto, richiama il suo partito all’unità dopo lo ‘strappo’ di Matteo Renzi, con l’ipotesi di un governo a tempo Pd-M5s che faccia solo la manovra economica, e soprattutto l’annuncio del prossimo varo di Azione Civile, il movimento di stampo macroniano con il quale Matteo Renzi certificherebbe il suo addio al Pd, denominazione che viene intanto rivendicata dall’ex magistrato Antonio Ingroia.

Lo scenario di una scissione non è ancora stato smentito da nessuno, tanto che dalla maggioranza dem c’è chi definisce “grave” il silenzio dell’ex presidente del Consiglio su questo argomento: “È grave che nessuno di quella parte di minoranza renziana abbia ancora smentito la scissione annunciata oggi ai giornali e la nascita di un nuovo soggetto politico chiamato Azione Civile”. Ma dalla maggioranza Pd viene anche rimarcato lo scarso fascino che la exit strategy di Renzi sta esercitando su parlamentari, dirigenti e base del partito. Effetto dei richiami all’unità di Zingaretti, forse. Di fatto, “non c’è stata nemmeno una dichiarazione, un accenno, un ‘like’ su questa idea da parte di nessuno”. E anche fonti parlamentari di area renziana evitano l’argomento: “Oggi parliamo di calendario dei lavori d’Aula. Questi sono discorsi che vengono dopo”.

L’idea che si fa largo tra i parlamentari della maggioranza del partito che Renzi sia “isolato”, in questo momento, su almeno tre fronti: nel partito, perché la sua idea di uscire dal partito non sta ricevendo il consenso atteso; nei confronti delle altre forze politiche, perché l’idea di un governo ‘di scopo’ che metta insieme Pd, M5s e Forza Italia “non ha sortito altro effetto di ricompattare il centro destra” con i contatti ristabilititra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi; nella base, visti i commenti negativi che circolano in rete dopo l’intervista con cui Renzi “ha spostato la crisi dal governo all’interno del Pd”, per dirla con un parlamentare dem.

Su un possibile accordo con M5s per un governo di scopo, la linea, in attesa di novità, rimane quella dell’ultima direzione. In occasione di quell’appuntamento, è stata accolta la richiesta proveniente dai renziani e da Carlo Calenda di rifiutare qualsiasi dialogo con M5s. Certo, questo non si traduce in un “senza se e senza ma” ad un governo istituzionale (una nuova riunione della direzione potrebbe tenersi subito prima la discussione della mozione su Conte). Se il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ponesse i dem davanti alla possibilità di un governo di legislatura guidato da un’alta personalità, si valuterà nelle sedi opportune.

Ma la proposta di Matteo Renzi di un governo per fare la manovra e andare solo dopo ad elezioni sembra non fare presa all’interno del Partito Democratico, nemmeno nei gruppi parlamentari dove i renziani sono in maggioranza. In particolare, a non convincere è l’idea di accelerare verso la formazione di quel movimento, Azione Civile, che dovrebbe diventare una sorta di En Marche renziana. Da un primo calcolo, afferma un senatore dem, sarebbero con Renzi 17 senatori su 51.

Ingroia: “Il nome Azione Civile è mio”
Da “Azione civile” ad azione legale. Il nuovo partito di Matteo Renzi non è ancora nato (e non è dato sapere se nascerà) e all’orizzonte si preannuncia già un parto tumultuoso. Oltre alle conseguenze politiche che una scissione a destra dal Pd dell’ex-premier avrebbe sugli equilibri del centrosinistra, una “grana” di entità minore ma fastidiosa per il disegno della en marche italiana potrebbe essere rappresentata dall’ex-magistrato Antonio Ingroia, che ha fatto oggi sapere, con una nota durissima, di essere l’unico titolare del nome in questione.

“Azione civile”, infatti, è il nome del movimento fondato da Ingroia dopo “Rivoluzione civile”, sigla dismessa dopo il deludente risultato alle elezioni del 2013. Ingroia sostiene ora di aver registrato il nome e un simbolo, e che quindi non sarà possibile per Renzi utilizzarlo. “Tentano di scippare il nostro nome – si legge nel comunicato firmato appunto Azione civile, movimento politico fondato e presieduto da Antonio Ingroia – è una notizia che ci indigna e scandalizza. ‘Azione civile’ è un nome depositato davanti ad un notaio, e già presente in varie elezioni, il nostro. Renzi e i suoi ‘comitati’ – prosegue – tengano giù le mani dal nome del nostro movimento. Respingiamo sdegnati al mittente – conclude il comunicato – questo tentativo”. Per capire se quello che sostiene l’ex-pm, ora, bisognerà verificare se effettivamente nome e marchio risultano depositati.

“Confondi lucciole per lanterne, caro Ingroia. I circoli lanciati da Renzi si chiamano ‘Comitati di azione civile’. Da qui l’ipotetico nome di ‘azione civile’ oggi evocato da anticipazioni giornalistiche” replica il vicepresidente della Camera, Ettore Rosato, “del resto lungi da noi usare un’idea di Ingroia, per ragioni di tutela del nome e soprattutto scaramantiche”.

Sull’aumento dei consumi

di Federico Fazzuoli

Ciao Direttore, a caldo ero intervenuto, sia pur brevemente, sulla questione dei consumi evocata dal Documento di Costruire Insieme, Politica Insieme e Rete Bianca. Ora ritorno a parlarne non attraverso un vero articolo, che presto andrà invece proposto per una discussione più approfondita, ma attraverso alcune frasi dall’enciclica Laudato si. Una vera miniera. Credo che possa essere utile a tutti rileggerle. Ho fatto solo una breve premessa ed un breve commento. 

Nel documento programmatico delle tre associazioni che hanno fatto fronte comune contro la deriva della politica italiana si propone di risolvere i nostri problemi, naturalmente tra tante altre cose,  anche  con l’aumento dei consumi.

Vorrei prendere alcune frasi dall’enciclica Laudato si, che non è solo un documento per i credenti ma un documento che si avvale di dati scientifici e che ha ottenuto un enorme apprezzamento anche da moltissimi non credenti.

Scrive il Papa, aiutato dall’accademia vaticana delle scienze:

“Adesso, di fronte al deterioramento globale dell’ambiente, voglio rivolgermi a ogni persona che abita questo pianeta”….

…..“Il ritmo di consumo, di spreco e di alterazione dell’ambiente ha superato le possibilità del pianeta, in maniera tale che lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi, come di fatto sta già avvenendo periodicamente in diverse regioni.”…..

……  “L’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti. Per questo i Vescovi della Nuova Zelanda si sono chiesti che cosa significa il comandamento “non uccidere” quando «un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere»”…..

….. “L’alleanza tra economia e tecnologia finisce per lasciare fuori tutto ciò che non fa parte dei loro interessi immediati”….

….. “i poteri economici continuano a giustificare l’attuale sistema mondiale, in cui prevalgono una speculazione e una ricerca della rendita finanziaria che tendono ad ignorare ogni contesto e gli effetti sulla dignità umana e sull’ambiente. Così si manifesta che il degrado ambientale e il degrado umano ed etico sono intimamente connessi. Molti diranno che non sono consapevoli di compiere azioni immorali, perché la distrazione costante ci toglie il coraggio di accorgerci della realtà di un mondo limitato e finito. Per questo oggi «qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta»”…

….. “Il mio predecessore Benedetto XVI ha rinnovato l’invito a «eliminare le cause strutturali delle disfunzioni dell’economia mondiale e di correggere i modelli di crescita che sembrano incapaci di garantire il rispetto dell’ambiente»”….

…… “C’è da considerare anche l’inquinamento prodotto dai rifiuti. Si producono centinaia di milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, molti dei quali non biodegradabili: rifiuti domestici e commerciali, detriti di demolizioni, rifiuti clinici, elettronici o industriali, rifiuti altamente tossici e radioattivi. La terra, nostra casa, sembra trasformarsi sempre più in un immenso deposito di immondizia”. …

…… “Questi problemi sono intimamente legati alla cultura dello scarto, che colpisce tanto gli esseri umani esclusi quanto le cose che si trasformano velocemente in spazzatura”….,

…. “L’umanità è chiamata a prendere coscienza della necessità di cambiamenti di stili di vita, di produzione e di consumo, per combattere questo riscaldamento o, almeno, le cause umane che lo producono o lo accentuano. È vero che ci sono altri fattori (quali il vulcanismo, le variazioni dell’orbita e dell’asse terrestre, il ciclo solare), ma numerosi studi scientifici indicano che la maggior parte del riscaldamento globale degli ultimi decenni è dovuta alla grande concentrazione di gas serra (anidride carbonica, metano, ossido di azoto ed altri) emessi soprattutto a causa dell’attività umana.

Molti di coloro che detengono più risorse e potere economico o politico sembrano concentrarsi soprattutto nel mascherare i problemi o nasconderne i sintomi, cercando solo di ridurre alcuni impatti negativi di cambiamenti climatici.

Ma molti sintomi indicano che questi effetti potranno essere sempre peggiori se continuiamo con gli attuali modelli di produzione e di consumo”….

……”Altri indicatori della situazione attuale sono legati all’esaurimento delle risorse naturali. Conosciamo bene l’impossibilità di sostenere l’attuale livello di consumo dei Paesi più sviluppati e dei settori più ricchi delle società, dove l’abitudine di sprecare e buttare via raggiunge livelli inauditi. Già si sono superati certi limiti massimi di sfruttamento del pianeta, senza che sia stato risolto il problema della povertà”…..

…… “Se teniamo conto del fatto che anche l’essere umano è una creatura di questo mondo, che ha diritto a vivere e ad essere felice, e inoltre ha una speciale dignità, non possiamo tralasciare di considerare gli effetti del degrado ambientale, dell’attuale modello di sviluppo e della cultura dello scarto sulla vita delle persone”….

….. “Incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi. Si pretende così di legittimare l’attuale modello distributivo, in cui una minoranza si crede in diritto di consumare in una proporzione che sarebbe impossibile generalizzare, perché il pianeta non potrebbe nemmeno contenere i rifiuti di un simile consumo. Inoltre, sappiamo che si spreca approssimativamente un terzo degli alimenti che si producono, e «il cibo che si butta via è come se lo si rubasse dalla mensa del povero»”….

…. “Ad ogni modo, è certo che bisogna prestare attenzione allo squilibrio nella distribuzione della popolazione sul territorio, sia a livello nazionale sia a livello globale, perché l’aumento del consumo porterebbe a situazioni regionali complesse, per le combinazioni di problemi legati all’inquinamento ambientale, ai trasporti, allo smaltimento dei rifiuti, alla perdita di risorse, alla qualità della vita” ….

…… “Queste situazioni provocano i gemiti di sorella terra, che si uniscono ai gemiti degli abbandonati del mondo, con un lamento che reclama da noi un’altra rotta. Mai abbiamo maltrattato e offeso la nostra casa comune come negli ultimi due secoli. Siamo invece chiamati a diventare gli strumenti di Dio Padre perché il nostro pianeta sia quello che Egli ha sognato nel crearlo e risponda al suo progetto di pace, bellezza e pienezza. Il problema è che non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi e c’è bisogno di costruire leadership che indichino strade, cercando di rispondere alle necessità delle generazioni attuali includendo tutti, senza compromettere le generazioni future. Si rende indispensabile creare un sistema normativo che includa limiti inviolabili e assicuri la protezione  degli ecosistemi prima che le nuove forme di

potere derivate dal paradigma tecno-economico finiscano per distruggere non solo la politica ma anche la libertà e la giustizia” ….

…. “La sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente. Ci sono troppi interessi particolari e molto facilmente l’interesse economico arriva a prevalere sul bene comune e a manipolare l’informazione per non vedere colpiti i suoi progetti”.

Vorrei solo sottolineare un passaggio:

“Il problema è che non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi e c’è bisogno di costruire leadership che indichino strade”.

E noi?  Possiamo attardarci a pensare che tra le soluzioni dei nostri problemi – problemi del 20% dei ricchi della terra, di cui facciamo parte – ci sia ancora l’aumento dei nostri  consumi?

Credo che questa sia una impostazione vecchia e profondamente sbagliata. Mi rendo conto che da decenni tutti hanno promesso l’aumento dei consumi  come panacea di tutti i mali, dagli spot della Presidenza del Consiglio dei governi Berlusconi  – “consuma così aiuti il tuo paese!” – alle decine di decreti crescita, agli 80 euro di Renzi e così il consumismo più sfrenato è entrato dentro di noi. Mi rendo conto che una impostazione diversa sarebbe poco popolare o meglio non sarebbe subito percepita come giusta e positiva. Ma ci dobbiamo tutti adeguare senza tentare di percorrere una strada nuova, se questa nuova strada è giusta?
Federico Fazzuoli

Il bluff di Salvini

Il deputato e costituzionalista Ceccanti ha riassunto, in tarda serata di ieri, le questioni collegate alla proposta di Salvini in ordine al taglio dei parlamentari e al ricorso immediato alle urne. Riportiamo integralmente la nota, il cui carattere di immediatezza, sulla scia del dibattito e delle votazioni svoltisi in Senato, non toglie completezza e rigore all’esposizione.

 

 

La giornata termina con la sconfitta totale di Salvini. La capigruppo Camera calendarizza il taglio dei parlamentari il 22 agosto, dopo che Conte si sarà dimesso e quindi la cosa sarà sospesa fino alla chiusura della crisi.

 

E’ prevalsa la tesi giusta secondo cui la crisi è già sostanzialmente aperta e quindi hanno precedenza le comunicazioni del Presudfnte del Consiglio.

 

La proposta di Salvini era un bluff propagandistico per due motivi.

 

Il primo si è già scoperto ed era la crisi di governo che lui stesso ha provocato e che non poteva far calendarizzare il taglio prima della soluzione della crisi.

 

Del taglio, della sua possibile votazione, insieme ad altri provvedimenti integrativi, si potrà parlare solo se ci sarà un nuovo Governo a partire dalle dimissioni di Conte al termine della seduta del Senato del 20 agosto.

 

Il secondo è il grave problema politico ma anche costituzionale che si sarebbe aperto.

 

Se la Camera avesse votato il 19 agosto, come ben si capisce dai primi articoli della legge 352/1970, il testo sarebbe uscito sulla Gazzetta solo per pubblicazione notiziale, non per entrare in vigore. Di sicuro perché al Senato è già passato solo con la maggioranza assoluta e non coi due terzi.

 

Poi il timing previsto dalla legge è questo: tre mesi per chiedere il referendum; fino a un mese per la Cassazione per esaminare le eventuali richieste e qualche altro giorno per eventuali ricorsi; fino a 60 giorni per indire il referendum; fra 50 e 70 giorni per svolgerlo; alcuni giorni per la proclamazione del risultato e poi per eventuali ricorsi; poi qualche giorno per la proclamazione; quindici giorni di vacatio e due mesi per i collegi (norma transitoria e legge 51/2019).

 

Alla fine dei conti ci vogliono circa 5-6 mesi dall’ultimo voto della Camera se non c’è il referendum e 10-11 se invece si svolge.

 

La proposta Salvini avrebbe quindi comportato il voto della riduzione, ma senza effetti immediati. Le nuove Camere appena elette sarebbero state subito delegittimate dai nuovi numeri della riforma.

La decisione dei capigruppo elimina in radice questo scenario pericoloso dal punto di vista politico e costituzionale.

 

Il bluff di poche ore è finito.

 

 

L’America in Italia, dieci anni fa moriva Fernanda Pivano

L’articolo è uscito nell’edizione odierna de L’Osservatore Romano

di Paola Petrignani

La donna che ha conosciuto e che ci ha fatto conoscere l’America si spegneva il 18 agosto del 2009. Fernanda Pivano era un personaggio ben lontano da qualsiasi schema precostituito, distante anni luce da quella semplice e fin troppo scopiazzata immagine d’intellettuale borghese forte delle proprie sentenze e convinzioni, “alto” perché sorretto da un polveroso piedistallo libresco. No, la Nanda era molto di più. Traduttrice prima, saggista e giornalista poi, divenne ben presto un punto di riferimento culturale straordinario; la vera e propria icona della “controcultura” giovanile che schiere sempre più numerose di ragazzi ammiravano come se fosse l’incarnazione dei propri sogni nel cassetto.

Era l’America in Italia. Solo lei riuscì ad affondare come un coltello nel cuore pulsante della cultura letteraria d’oltreoceano, vivendola e comprendendola nel profondo, in prima persona, per poi risalire in superficie con traduzioni e resoconti inediti, vivi, che aspettavano solo lo scontro con gli editori italiani affinché quel patrimonio inestimabile venisse restituito nella forma più sincera e autentica possibile. Ciò che colpiva di questa donna erano la forza, lo spirito, e quella perpetua giovinezza di chi — fino all’ultimo — parlava di letteratura con la stessa passione di quando, a diciott’anni, conobbe per la prima volta i grandi scrittori americani; lei che non smise mai di credere che i versi dei poeti potessero fermare le bombe.

Hemingway, Whitman, Masters e Sherwood Anderson furono i primi a sconvolgerle il sangue; e l’Antologia di Spoon River la stregò a tal punto da determinare tutta la sua esperienza letteraria successiva, accompagnandola fin proprio al suo ultimo articolo. Questo perché l’Antologia (come anche le Foglie d’erba e Addio alle armi) era qualcosa di completamente diverso rispetto alla vuota e falsa prosa dell’Italia fascista, fin troppo imbevuta di eroismo e falsa epicità per essere anche solo digeribile. La vita non era fatta di eroi, ma di poveri diavoli; e proprio nella semplicità scarna dei versi di Masters, nel loro contenuto dismesso, rivolto ai piccoli fatti della vita, la ragazza “dalle belle trecce bionde” vide qualcosa di autentico, reale, vivo. La verità nuda e cruda era racchiusa in quei versi, e con essa la speranza di essere uomini, non solo marionette del sistema; ed ecco, allora, che dalla passione viscerale per quei versi si accese in lei il desiderio della traduzione, che subito le valse i primi contratti con Einaudi.

Da quel momento, la Pivano traduttrice non smetterà mai di scandagliare i testi degli scrittori americani e quel loro modo di scrivere così pragmatico e intenso, cercando di andare oltre la semplice ricerca di soluzioni linguistiche adeguate per poterne raggiungere le matrici umane e culturali.

Per farlo, bisognava tradurre per davvero, attraverso la comprensione delle ragioni e dei sogni di chi, quei versi, li scriveva. Era la ricerca di un contatto profondo a muovere la mente e le indagini della Pivano; un contatto che ben presto si tradusse in incontro e, come succedeva nella maggior parte dei casi, anche in amicizia. Perché la Nanda era anche questo: una confidente preziosa per tutti, soprattutto per quegli scrittori con i quali riusciva a strappare anche solo una breve conversazione. Quelle menti geniali la consideravano una loro pari, una confidente fidata che poteva comprendere appieno le radici profonde del loro operato; qualcuno che aveva «una buona testa per pensare» diceva Hemingway, il quale volle conoscere a tutti i costi la donna che rischiò la prigione per tradurre il suo A Farewell to Arms, e con il quale condivise un’amicizia durata tutta una vita.

Approdata in America nel 1956, riuscì ben presto a entrare in contatto con gli scrittori che sarebbero stati i pionieri della generazione Beat: Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti li incontrò alla libreria City Lights di San Francisco, dove i due erano di casa; e a loro si aggiungensero poi Kerouac — che con il suo On The Road aveva messo per iscritto il cromosoma della nuova generazione americana (e che fu lei la prima a riconoscere come tale, smuovendo mari e monti pur di renderlo noto in Italia) —, e Allen Ginsberg, il poeta-profeta che stravolge ogni canone e tabù negli anni della contestazione. Ma la traduttrice andò ancora più in profondità, scoprendo e riportando alla luce la poesia degli afroamericani e degli omosessuali — minoranze che ancora urlavano nel silenzio dell’indifferenza generale (un’apertura ancora difficile in America, per non dire totalmente estranea in Italia). E fu sempre lei a capire il senso fortemente letterario dei testi dei nuovi cantautori statunitensi, facendoci conoscere per prima un giovane Bob Dylan che suonava il folk con la chitarra elettrica.

Condividere quella cultura che così tanto riusciva a restituire la realtà nella sua forma più veritiera e dissacrante era diventata una vera e propria missione per la Pivano, perché quelle parole — quei colpi allo stomaco — potevano scrollare di dosso qualsiasi tipo di indifferenza. E tutto questo lo fece tenendo sempre a mente i giovani: la Nanda era convinta che fossero l’unica possibilità per un cambiamento necessario; l’unica speranza contro gli orrori della guerra. Questa convinzione non la perse mai, neanche dopo la disillusione successiva agli anni della contestazione; e nella vecchiaia, il pensiero dei giovani sognatori che aveva aiutato con il suo lavoro di divulgatrice le riempiva il cuore di una grande, meravigliosa, consolazione. Quei ragazzi che ancora la cercavano, che ancora venivano da lei con la luce negli occhi e qualche consiglio da chiederle, erano la prova che il proprio lavoro non fosse stato vano; che avesse lasciato «un piccolo segno, un piccolo seme».

E quel seme ha dato vita a un tesoro immenso, perché quel suo imperterrito lavoro di contatto e di comprensione ci ha avvicinato a un mondo complesso e ancora inesplorato, liberandolo da qualsiasi tipo di pregiudizio per regalarcelo così, a cuore aperto, attraverso traduzioni, saggi e resoconti che erano delle vere e proprie “lettere d’amore” (come lei stessa le definiva). Fernanda Pivano era un “mito”, e a dieci anni dalla sua scomparsa, quel “mito” sopravvive più forte che mai.

 

NOI SOVRANISTI. RISPOSTA A GERARDO BIANCO (E ALTRO)

 

Papa Francesco ha avvertito che i sovranismi “finiscono sempre male” e ha citato la tragedia hitleriana. Veltroni ha parlato di “pericolo Weimar”. Gerardo Bianco è andato dritto: per lui Salvini non è Mussolini, “è peggio”. Dice Cacciari che “il rischio è un’Italia fascista”.

 

Insomma, gira gira si torna sempre lì: all’ascesa – ancora resistibile speriamo – dell’”uomo forte” che reclama i “pieni poteri” e può mettere in pericolo una democrazia dalle istituzioni indebolite in anni di governi del BungaBunga e di incertezze di un centrosinistra che ha vinto soltanto con il cattolico Prodi, poi regolarmente accoltellato.

 

La crisi attuale è grave perché non è tra quelle conosciute e risolte dal dopoguerra in poi. Questa è una crisi giolittiana e siccome la storia non è maestra di vita c’è da temere che liti, divisioni, egoismi e furbizie di quanti sono chiamati a difendere la nostra Costituzione spalanchino la porta a chi ha in mente qualcosa d’altro.

 

In momenti come questi il pericolo non è Salvini, il “Truce” come lo chiama chi ha deciso di renderlo simpatico alla gente. I pericoli vengono piuttosto da tutti noi. Dall’accettazione, convinta o no fa poca differenza, di milioni di italiani che vogliono finalmente dare un taglio a una commedia senza senso interpretata da attori scadenti. Per farlo scelgono chi fa la voce grossa e non ha paura degli altri, chi fa la faccia feroce davanti ai nemici e sorride alle vecchie zie.

 

Se nei commenti sui fatti del giorno ci sembra legittimo andare con la memoria al fascismo e a Weimar, allora è necessario chiederci se per caso Mussolini e poi Hitler siano arrivati a tanto solo per le loro doti e il loro carisma o non piuttosto perché quei popoli avevano investito su quei due. Se per caso non siano stati milioni di italiani e di tedeschi impoveriti, frustrati, bisognosi di un ordine purchessia a determinare la svolta totalitaria. Se per caso non sia stata la loro voglia di farla finita con “quelli di prima” a offrire i pieni poteri a quei due.

 

Tutto è già stato descritto nell’”autobiografia della nazione”, faremmo bene a sorvegliare noi stessi e quanti ci sono –perlomeno ci sembrano –  vicini. Perché è da qui che parte l’infezione che poi divampa come epidemia.

 

Al mio invito a ripensare allo spirito del CLN, Gerardo Bianco ha risposto che lui preferisce quello alla battaglia vittoriosa del 18 aprile 1948. Chi può mettere in dubbio la grandezza di quell’evento oggi, quando anche gli eredi della sconfitta d’allora ne parlano con rispetto e ammirazione? Il punto però, caro Gerardo, sta proprio qui: il 18 aprile c’era un partito, la Democrazia Cristiana, e un leader, De Gasperi. Oggi il maggior partito d’opposizione è diviso in due. Quelli che, con Renzi, dopo aver sparato a palle incatenate contro i 5 Stelle ora vogliono affiancarli nel maquis contro Salvini. Gli altri, fino a ieri sospettati di intessere accordi con gli stessi 5Stelle, ma adesso fermamente avversi a ogni intesa che sposti in là le urne. Il tutto condito dei consueti retroscena. Questi descrivono i primi contrari al voto in autunno per non disperdere con esso la propria forza parlamentare e gli altri, con Zingaretti, i quali, invece, con  una fretta dannata per rovesciare quell’equilibrio. Come si vede tutta roba di prima qualità. Dimenticavo, De Gasperi poi chi ce lo da?

 

Infine, caro Gerardo, per me vanno bene il CLN, il 18 aprile, la Costituente, le sfilate. Tutto quello che possa ritardare l’avanzata salviniana per poi fermarla. A me non vanno bene l’Aventino e le divisioni tra chi ha, o dovrebbe avere, un solo avversario che forse è un nemico. E certo non penso ad ammucchiate incomprensibili. Penso…à la guerre comme à la guerre.

 

Scusa se è poco.

Ambiente, una questione globale (non sovranista)

Come ha ricordato Veltroni (sul Corriere di qualche giorno fa) all’origine del declino imperiale di Roma, oltre alle calate dei barbari (così simili a quelli odierni) ci fu una “questione climatica” che in pochi anni devastò il tessuto economico e sociale in maniera irreversibile. Guerre, carestie, epidemie di peste e colera. Che il clima sia impazzito, ce ne siamo accorti anche questa estate, con continue ondate di calore accompagnate da fenomeni meteorologici estremi, come se l’Italia fosse la Florida. A questa crisi ambientale non si può dare una risposta “sovranista” (prima i boschi italiani). anche se i summit mondiali sull’ambiente (almeno da Rio de Janeiro 1992) hanno lasciato solo promesse di “emissioni zero” entro il 2020 (cioè domani), il clima è il problema più globale che esista ed è strettamente collegato al fenomeno migratorio. I principali leader mondiali, forse con l’eccezione di Macron, dimostrano una limitata visione ambientalista. Eppure è indubbio il successo elettorale dei Verdi alle ultime elezioni europee (con un forte elettorato under 30). Sulla questione dei consumi, non si tratta di consumare di più (non credo fosse questa l’intenzione) ma di consumare “meglio” (come dice anche il Papà nella Laudato Si) in modo cioè da ridurre le emissioni di CO2. Ad esempio, mangiando meno carne, non sprecando l’acqua, scegliendo i viaggi in treno rispetto all’automobile (quando è possibile). Una responsabilità precisa, infine, ce l’hanno anche i media. Discutere meno di 42 migranti a bordo di una nave (che c’entra Richard Gere) e più di soluzioni globali che mettano in sicurezza la vita sul nostro Pianeta.

DI PIAZZA (M5S): GOVERNO DEL BENE COMUNE? CON RENZI SI PUO’ FARE

 

Intervista di Andrea Piraino

Sen. Di Piazza, lei ieri ha lanciato una sorta di sfida a Salvini: altro che elezioni, oggi il problema è il cambiamento per un governo del “bene comune”. Quale pensa che nel suo Movimento sia la disponibilità a questo cambiamento di linea politica?

Penso che il “governo del Bene Comune”, per il M5S, non sia un cambiamento di linea politica. Il M5s, prima di “stipulare” il contratto di governo con la Lega, aveva tentato con il PD. Fu Renzi, in occasione di una trasmissione televisiva da Fabio Fazio, a dichiarare di non volere discutere con il movimento. Adesso ci potrebbero essere le condizioni anche per la disponibilità di Renzi. Anch’egli, in questi giorni, ha parlato, attraverso lanci di agenzia, di bene comune. Penso che una ritrovata centralità del Parlamento possa creare le condizioni affinchè un numeroso gruppo di Parlamentari, anche trasversalmente ai partiti, possa dare fiducia ad un Governo che collochi la Persona al centro del proprio programma.

Anche Grillo, il garante del Movimento, ha riconosciuto che non è tempo di elezioni anticipate e che, invece, bisogna fare un governo di scopo con al centro i temi irrinunciabili dell’esperienza dei 5s che, peraltro, sono quelle che interessano gli italiani.

Si anche perché i principi del movimento sono le 5 stelle, cioè : Acqua, Ambiente, Trasporti, Connettività , Sviluppo. Su questi punti è facile trovare intesa con partiti e movimenti presenti in Parlamento con i quali potrebbe essere possibile trovare convergenze di programma.

Ma come pensate di riuscirci? Alleandovi con chi? Con Salvini, allora, è tutto finito? È stato un enorme errore quello di allearvi con la Lega, partito del vecchio assetto di potere del Paese?

All’inizio della legislatura abbiamo proposto, prima al PD e poi alla Lega di condividere, attraverso un contratto di Governo, alcuni punti di programma. Abbiamo trovato una intesa con la Lega, che, rispetto alle precedenti esperienze legislative, aveva nel frattempo modificato lo statuto presentandosi, agli elettori, come partito nazionale e non più del Nord. Personalmente ho pensato che questa esperienza di governo avrebbe potuto avvicinare l’esigenza di sviluppo del sud Italia alla capacità produttiva del nord. Così non è stato, anzi i fatti di questi giorni hanno dimostrato che, all’interno della Lega, è sempre esistita un’ anima fortemente nordista e prevalente nelle decisioni più importanti. Infatti la rottura nasce per il TAV Torino Lione e per la volontà, espressa chiaramente dai Governatori di Lombardia e Veneto, di una riforma, sulle autonomie regionali, divisiva e premiante nei confronti delle regioni più ricche. Salvini non è riuscito a trasformare la Lega da nord a nazionale.

Renzi, che pure era stato tra i leader più netti nella chiusura, sembra ora fare un’apertura nei vostri confronti ed addirittura invoca l’approvazione della legge costituzionale sulla riduzione dei parlamentari che, secondo voi, sarebbe una delle cause di rottura di Salvini. Sareste pronti ad aprire un confronto con i Democratici?

Il M5s si è sempre dichiarato disponibile ad aprirsi con quei partiti e movimenti con i quali possa essere possibile condividere punti di programma comuni (attraverso il c.d. contratto di governo). Lo abbiamo fatto con la Lega, culturalmente lontana dai valori dei 5 stelle, altrettanto si potrebbe fare con il PD, che ha sempre messo, come i 5 stelle, il valore della Persona, al centro del proprio programma. Renzi poi ha sempre creduto alla opportunità di riforme costituzionale quindi gli viene facile condividere con noi quella sulle riduzioni dei parlamentari.

Oltre a questo, quali sarebbero secondo voi i punti irrinunciabili per questo eventuale governo di scopo?

I punti irrinunciabili per il Governo di scopo dovrebbero essere: a) la riforma costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari (è un atto del Parlamento, ma va condiviso con la coalizione di Governo); b) la riduzione del cuneo fiscale per aiutare le imprese e per far crescere il reddito degli operai; c) alcune opere infrastrutturali per il sud. Personalmente sono un keynesiano, quindi ritengo che le opere pubbliche e la spesa pubblica per infrastrutture potrà creare nuove opportunità di lavoro e migliorare il PIL del Paese; d) rispetto dell’ambiente attraverso opere di green economy e incentivazioni fiscali per le energie rinnovabili; e) creare una banca per gli investimenti , da non confondere con una banca per il sud, funzionale ad intervenire con finanziamenti di secondo livello (quindi in partenariato con le c.d. banche commerciali o private) e interventi di equity a favore delle PMI italiani al fine di facilitare l’accesso al credito ed una maggiore patrimonializzazione di queste ultime.

Tra questi obiettivi del nuovo governo potrebbe rientrare la riforma della legge elettorale?

Assolutamente si, anzi, penso fondamentale inserire, tra i primi punti del programma del nuovo governo, una riforma del sistema elettorale interamente proporzionale.

 

 

 

 

 

Renzi, la sua posizione merita rispetto.

Di Matteo Renzi si possono dire tante cose. Anzi, tantissime. Ma almeno su 2 aspetti c’è una oggettiva convergenza. E cioè, e’ un leader politico di razza con un forte carisma e, soprattutto, quando parla si fa capire. Certo, la politica, come mi insegnava il mio maestro Carlo Donat-Cattin, e’ una continua evoluzione e quindi non ci si può stupire se le posizioni mutano con il tempo. Soprattutto in una stagione politica come quella contemporanea dove l’assenza di cultura politica da un lato e con l’irruzione dei partiti personali dall’altro – con una classe dirigente alquanto approssimativa e superficiale – e’ francamente difficile riscontrare visioni di fondo destinate a durare nel tempo, seppur in aderenza al cambiamento della società.
Ora, per restare all’oggi, la posizione politica espressa da Renzi ha il merito, almeno secondo la mia opinione, di centrare 3 obiettivi.
Innanzitutto registra il radicale fallimento politico e di governo dell’esperimento giallo/verde. Checche’ ne dicano i due contraenti. Un fallimento riconducibile alla assenza di una comune visione politica e, soprattutto, dovuto ad una scarsissima cultura di governo. E Renzi questo lo ha sempre evidenziato.
In secondo luogo, rinviare il voto risponde certamente ad una condizione umanamente comprensibile dei deputati e senatori in carica – non perdere i privilegi dello status parlamentare, soprattutto per chi è matematicamente certo di non poterne più beneficiare con la prossima legislatura – ma, soprattutto, permette di ridisegnare l’equilibrio politico nel nostro paese dopo la sbornia populista e demagogica di questi ultimi 18 mesi. Un periodo di rinvio che, seppur breve, se viene accompagnato da una discreta azione di governo ha la concreta possibilità di far ripartire il paese al di là della propaganda e della sciatteria quotidiana.
In ultimo, ed è questo l’aspetto che più mi interessa, l’iniziativa coraggiosa e spregiudicata di Renzi impone, al di là della soluzione della crisi di governo, di ridare spazio e voce ad un’area che non può essere confusa vagamente con la sinistra, con i 5 stelle, con quel che resta di Forza Italia o con altri gruppuscoli elitari ed insignificanti. Ed è però proprio all’interno di questo contesto che si inserisce il ruolo, la funzione e la stessa “mission” di un movimento politico come quello di Rete Bianca che, in comune con altre esperienze cattolico popolari e altri filoni culturali, ha il compito di dar vita ad un soggetto politico – cioè un partito – capace di giocare un ruolo protagonistico nello scenario pubblico italiano.
Ecco perché, al netto del personaggio Renzi, le posizioni politiche di Matteo Renzi meritano adesso di essere approfondite e discusse. Costruttivamente e senza pregiudiziali.
Giorgio Merlo.

Torino: arriva il care-passport

Arrivano il progetto ‘TrattaMi Bene’, per consentire ai pazienti di decidere i loro percorsi insegnandoli al personale sanitario, e il care-passport, per agevolare i disabili nel loro accesso al pronto soccorso.

‘TrattaMi Bene’ è una iniziativa ispirata all’idea di acquisire dalle persone con patologie croniche suggerimenti rivolti ai bisogni della persona. Due i corsi formativi che partiranno nei prossimi mesi.

Il care-passport è invece una sorta di carta d’identità della salute, in cui annotare i bisogni del paziente disabile agevolandone l’accesso al pronto soccorso.

OLTRE RENZI, PER RIVENDICARE LE NOSTRE RAGIONI.

L’intervista al Corriere di stamattina di Matteo Renzi mostra un ulteriore possibile scenario per la crisi in corso. Crisi politica, prima ancora che di governo, come ormai è chiaro a tutti. L’apertura dell’ex premier ad un governo istituzionale appare, infatti, lucida e per certi versi impeccabile, motivata da ragioni di buon senso ed insieme – e per Renzi non è sempre scontato – da precisa volontà di rafforzare le istituzioni e di riportare il Paese sulla giusta carreggiata. Una proposta, peraltro, in forte sintonia col nostro appello di due giorni or sono, che a taluni appariva velleitario ma, evidentemente, non lo era.

 

Scaturiscono da questa proposta, però, alcune riflessioni sulla quali vale la pena soffermarci. In primo luogo, Renzi dà per scontato che si possa realizzare una legge di stabilità equilibrata, senza austerity né ampliamento del debito. È vero che Pd e M5S (e pure FI, se sarà della partita) fanno parte della stessa maggioranza nel Parlamento UE, ma è oggettivamente difficile pensare che si possa compiere un’operazione così complessa proprio alla vigilia di nuove elezioni, nelle quali peraltro ogni forza politica si schiererà contro l’altra senza esclusione di colpi.

 

In secondo luogo. questo ipotetico governo istituzionale dovrebbe approvare due norme strategiche: la riduzione del numero dei parlamentari (che Renzi ipotizza soggetta ad un referendum, anticipando le mosse del Pd) e una nuova legge elettorale, maggiormente proporzionale. Ottima idea, certamente, ma che richiede coesione dei gruppi parlamentari e una cabina di regia raffinata e molto esperta. È possibile che in poche settimane il M5S con una leadership sfiduciata e in balia delle onde e un Pd profondamente diviso tra organismi di partito e gruppi parlamentari riescano ad assicurare un simile quadro?

 

Una terza riflessione riguarda le ripercussioni di questo ipotetico passaggio su chi, come noi, sta lavorando alla costruzione di una nuova forza al centro degli schieramenti, popolare e innovativa. Renzi si candida, se dovesse prender corpo la sua proposta, a superare il Partito Democratico e a dar vita ad un nuovo soggetto politico, che vagheggiava già ai tempi del suo governo, ma che non ha mai avuto il coraggio di mettere davvero in campo. Con una sostanziale differenza rispetto alla nostra iniziativa: immagina di partire dall’alto, dalla leadership e dai gruppi dirigenti renziani timorosi di scomparire nel Pd di Zingaretti.

 

Tutto questo, però, deve essere tenuto in debito conto e spingerci a compiere, a breve, due passaggi: uscire allo scoperto, senza indugi e, ancor più, mobilitare il territorio, le liste civiche, le associazioni affinché si chiarisca la novità di un processo dal basso, lontano da ogni populismo, che vada oltre la fallimentare Seconda Repubblica e l’ancor peggiore Terza, e risponda finalmente ai bisogni concreti dei cittadini di sicurezza, giustizia e solidarietà sociale.

RENZI INECCEPIBILE, ZINGARETTI IMMOBILE: COSTRUIAMO L’ALTERNATIVA A SALVINI.

L’intervista di Matteo Renzi al Corriere della Sera non fa una piega.

In un Paese normale e in tempi normali, di fronte alla dissoluzione rovinosa della coalizione di Governo, l’opposizione dovrebbe auspicare un immediato ritorno alle urne, “senza se e senza ma”.

Qui, però, non c’è nulla di “normale”.

Non il modo col quale si è costruito il Governo; non il ruolo esercitato dal Ministro dell’Interno; non la chiara ed evidente sua volontà di chiedere “i pieni poteri” al popolo prima di dover presentare una manovra finanziaria con la quale fare i conti con la realtà e la verità: non la palese strategia messa in campo per aprire una guerra micidiale con l’Europa, che porterà il nostro Paese su una deriva inedita e minacciosa.

E neppure è normale che Salvini pretenda di fissare tempi e modi di gestione della crisi, in dispregio delle Camere e del Quirinale.

È stato abituato troppo bene negli ultimi mesi: ben si comprende che, nel suo pensiero, il blitz ferragostano avrebbe dovuto filare liscio come l’olio e spianare la strada verso una profonda trasformazione della nostra democrazia.

È ancora possibile – se non probabile – che, alla fine, sia così.

Ma è sconcertante la rassegnata assenza di iniziativa che traspare dalla segreteria del PD. Il Parlamento non può non provare una minima linea di resistenza, che sia all’altezza dei rischi in campo.

Non per pasticciare al proprio interno nuove maggioranze politiche (oggi non proponibili) ma per garantire che il nuovo ricorso alle urne sia sostenibile per la nostra vita economica e finanziaria e per tutelare il rispetto sostanziale della dinamica democratica.

I tre punti indicati da Renzi per motivare il No all’immediato scioglimento delle Camere, in questo senso, sono più che pertinenti. A mio parere, sopratutto i primi due, relativi alle questioni finanziarie (aumento dell’IVA e non solo) che la strategia del voto subito lascerebbe irresponsabilmente aperte e al ruolo di garanzia del Ministro degli Interni in una campagna elettorale particolarmente delicata, da ogni punto di vista.

Si tratta di preoccupazioni vere, che trovano riscontro nell’Appello diffuso in questi giorni da Rete Bianca, Politica Insieme e Costruire Insieme. Speriamo che questa linea si faccia strada.

RACCOGLIAMO LA SFIDA, BISOGNA BATTERE SALVINI”. L’APPELLO DI GERARDO BIANCO.

 

“No, non è come Mussolini. Direi che Salvini è peggio.  Esprime un’analoga vocazione autoritaria, ma la conforma ad un lessico più povero, quasi elementare. L’ingiunzione ai parlamentari ad alzare le terga – per la verità ha fatto uso di un vocabolo diverso – avvolge nella trivialità un’indebita espressione di arroganza e presunzione”.

Gerardo Bianco, autorevole interprete della tradizione democristiana e popolare, è un fiume in piena. In questi giorni di grande afa, trascorre alcuni giorni di riposo a Cerveteri. Ci tiene, però, a lanciare un appello alla creazione di un ampio schieramento anti-Salvini. In questa intervista spiega i motivi del suo allarme e perciò della proposta politica che ne dovrebbe scaturire.

L’opinione pubblica sembra ammaliata dal clamoroso gesto di rottura del leader leghista. Di colpo ha affondato la nave del governo. Nei sondaggi raccoglie un consenso che potrebbe anche assicurare, nel caso di elezioni anticipate, la conquista della maggioranza.  

“Non dobbiamo aver paura. Se avanziamo una proposta chiara, unendo le forze democratiche, possiamo piegare l’avventurismo di Salvini. L’alleanza gialloverde è miseramente fallita. Chi ne ha ritmato l’azione, forte di un consenso legato all’area più dinamica e più ricca del Paese, non ha saputo esercitare un ruolo di guida stabile e autorevole. All’inconcludenza si è associata la propensione a  enfatizzare il mito della forza, affidando alla propaganda le questioni sensibili della sicurezza e dell’immigrazione. In questo modo, irresponsabilmente, ha scavato nei cunicoli della paura individuale e collettiva. Adesso, giunto al culmine della radicalizzazione politica, Salvini invoca addirittura i pieni poteri”.

Dunque, il suo è un progetto pericoloso…

“Non c’è dubbio. Si tratta di una minaccia rivolta ai nostri istituti di libertà, come d’altronde fu minaccia, nel 1948, quella rappresentata dal Fronte popolare. Capisco allora l’evocazione dello spirito del CLN, di cui il mio amico Enzo Carra ieri si è appropriato su questo foglio online, ma il paragone giusto chiama in causa il ricordo del 18 aprile di oltre settant’anni fa. All’epoca fummo in grado di vincere, grazie principalmente ad Alcide De Gasperi, scongiurando un destino filo-sovietico dell’Italia, con gravi ripercussioni sul piano dell’equilibrio internazionale.

In effetti, l’anti-europeismo della Lega rende l’Italia instabile.

È la ragione, appunto, che deve indurci a fare dell’Europa la bandiera della nostra battaglia politica. Contro il neo-nazionalismo, foriero di tensioni pericolose nei rapporti con il mondo, abbiamo il dovere di approntare una risposta netta, senza titubanze e infingimenti, nella convinzione che possa scuotersi un elettorato ancora frastornato, ma nondimeno ostile a una prospettiva di chiaro segno autoritario.

Eppure, di fronte all’accelerazione della crisi, si staglia la preoccupazione di un ricorso precipitoso alle urne.

Spetta alla saggezza del Presidente della Repubblica regolare la partita dello scioglimento delle Camere. In ogni caso, le elezioni incombono come un appuntamento oramai ineludibile. Non ci sono margini per proseguire nel tran tran di questa legislatura ingarbugliata, effettivamente nata storta. C’è da pensare, se mi si consente la battuta, alla formazione dell’esercito. Nel mondo cattolico deve prevalere un sussulto di responsabilità. Non è detto che un nuovo progetto – una lista o un partito – non possa nascere sull’onda dell’emergenza. L’importante è assumere la consapevolezza che lo scontro innescato da Salvini comporta, di riflesso, una straordinaria mobilitazione democratica, dentro cui il popolarismo d’ispirazione cristiana ha il diritto e il dovere, infine, di fornire il proprio contributo decisivo.

SUL DOCUMENTO DELLE TRE ORGANIZZAZIONI CATTOLICHE: CHE SIGNIFICA AUMENTARE I CONSUMI?

 

di Federico Fazzuoli

Ho letto con interesse il documento da Costruire Insieme, Politica Insieme e Rete Bianca. Nel suo complesso è certamente condivisibile.

Vorrei tuttavia sottoporre al dibattito due succinte annotazioni. 1) Mi pare un po’ troppo timido dopo le parole decise di Papa Francesco.
2) Credo che occorra fare una riflessione per precisare  meglio il significato della frase in cui si dice che bisogna ”aumentare i consumi”.

Che significa, quest’ultima affermazione? Mangiare di più per diventare tutti obesi? Comprare una macchina in più per costruire più garage? Cambiare più spesso il frigorifero o il televisore?

Non mi sembra che l’umanità debba andare in questa direzione. La salvaguardia del creato  passa anche attraverso consumi parchi ed oculati.

Su questo punto dobbiamo riflettere bene, per far crescere una  proposta politica nuova.

NON DOBBIAMO SUBIRE IL DIKTAT DI SALVINI. LETTERA AL DIRETTORE DEL FOGLIO.

Pubblichiamo la lettera inviata ieri a Claudio Cerasa da parte del nostro giornale online.

Caro Direttore,

apprezzo la chiarezza di argomentazione del giornale, allegramente a favore del ricorso anticipato alle urne, ma con altrettanta chiarezza dissento da questa linea del cosiddetto “voto subito”.

Se c’è un avversario lo si combatte, a viso aperto, democraticamente; non lo si aiuta a vincere lasciando che tempi e modi del confronto elettorale siano dettati dalle sue convenienze. Accettare, in realtà, il diktat della

Lega non è segno di forza e lungimiranza politica.

Oggi Salvini rappresenta l’antagonista più pericoloso, il vero  “genio guastatore” dell’Europa. Dietro la sua iniziativa si scorge l’ombra inquietante della Russia di Putin. È l’uomo di governo (fino a poche ore fa) che ha schierato il suo gruppo parlamentare a Strasburgo contro la designazione della Ursula Von der Leyen a capo della Commissione e di David Sassoli a Presidente del Parlamento.

Prima di guardare alle elezioni, sulla cui indizione spetta comunque  al Presidente della Repubblica l’ultima parola, proviamo a concentrarci allora sulle immediate conseguenze del gesto di rottura di Salvini. Vale la pena registrare, infatti, che uno  degli effetti positivi della crisi consiste nella cancellazione della candidatura di un leghista a Commissario europeo. Se ci fosse l’accordo su una “soluzione-ponte”, con un governo incaricato di approntare almeno la legge di bilancio e mettere in sicurezza i conti dello Stato, si potrebbe concordare con il M5S il nome del Commissario, senza incorrere nel rischio di una bocciatura in chiave anti-sovranista da parte degli europarlamentari.

Bisogna augurarsi, da questo punto di vista, che le opposizioni (Pd e Forza Italia) modifichino le loro rispettive posizioni, certamente diverse e tuttavia convergenti a riguardo di una rapida verifica elettorale, destinata con ogni probabilità a certificare l’ondata emotiva dell’Italia neo-nazionalista, mezzo anarchica e mezzo autoritaria. È necessaria una tregua, magari all’insegna della operosità possibile. Chiamare il popolo alle urne, chiudendo con largo anticipo una legislatura nata male, non esclude una ragionevole scansione dei tempi. È anche giusto che gli elettori scelgano tra opzioni meno grossolane e radicalizzate, trovando sulla scheda anche una indicazione utile – dunque una nuova lista di partito o coalizione – per un futuro governo a indirizzo democratico e vocazione europeista.

Lucio D’Ubaldo

 

La metropolitana che ricicla la plastica

L’articolo è uscito nell’edizione odierna de L’Osservatore Romano

di Piero Di Domenicoantonio

La metropolitana a Roma è sempre stata un argomento spinoso. Se ne cominciò a parlare già alla fine dell’800 e a oggi non si sa ancora come andrà a finire. D’altra parte una città che si fregia del titolo “eterna” un prezzo lo deve pure pagare. E magari fosse solo quello degli interminabili cantieri della metro.

Eppure, può succedere che nel giro di una notte — neanche ventiquattr’ore, solo una notte! — la città si sia ritrovata con una linea nuova di zecca, talmente nuova da non aver neppure lontanamente attraversato l’immaginazione, sempre prolifica di promesse, di qualche amministratore di turno o di chi ha già cominciato l’allenamento per scalare lo scranno più alto del Campidoglio. Undici stazioni: dal Trullo fino alla Tomba di Nerone, passando per il Gianicolo, la Bocca della verità, Campo de’ Fiori e pure il Foro italico.

Qualche cittadino, afflitto da insonnia per la calura di stagione, ha potuto seguire i lavori del fulmineo cantiere e avrà pensato che quello fosse il solito sogno d’una notte di mezza estate.

E invece no. O quasi. Perché di sogno si tratta, ma di quello visionario e provocatorio di un artista “di strada” che non si rassegna al degrado e al disimpegno. All’inizio della settimana, proprio quando cominciava l’interruzione per manutenzione della tratta Termini-Anagnina, Mauro Pallotta, ovvero Maupal come è solito firmare le sue opere, ha attraversato la città col suo furgone scortato da una coppia di amici in motorino, fermandosi di tanto in tanto, dal centro alla periferia, per sistemare le insegne delle stazioni della sua “MetrArt, una metro fatta ad arte”. Diventato celebre in tutto il mondo per il murale che una mattina del 2014 è apparso a Borgo Pio e nel quale, con i suoi inchiostri, ha saputo rappresentare come la gente “vede” Papa Francesco, Pallotta ha voluto questa volta richiamare l’attenzione su un tema non meno spinoso di quello della metro: il riciclo dei rifiuti urbani. Con la collaborazione dell’artista 3K ha assemblato tappi, flaconi, bottiglie, scolapasta e insalatiere — messi a disposizione dal consorzio nazionale per la raccolta, il riciclo e il recupero dei rifiuti di imballaggi in plastica (Corepla) — realizzando delle sculture che ammiccano al genius loci e, allo stesso tempo, sollecitano la riflessione e il senso di responsabilità.

Ogni insegna è un’opera d’arte che traccia un percorso «fuori dagli ingorghi e dagli schemi» e apre «nuovi orizzonti di consapevolezza». Così la sacca per le trasfusioni della stazione San Camillo ricorda che «riciclare fa bene… e salva la vita!» e il cannoncino alla fermata del Gianicolo, «che rimette in orario i campanili della città», spiega che «siamo ancora in tempo, ricicliamo».

Allora, avanti, c’è posto, anzi, c’è bisogno di tutti sulle carrozze della MetrArt. È necessario però munirsi dell’apposito titolo di viaggio. Come quello dell’azienda comunale dei trasporti, anche il biglietto creato da Maupal si chiama «Bit», ma si legge «Basta Impegnarsi Tutti»: è quello che serve perché un sogno, anche se in una notte di mezza estate, possa diventare qualcosa di più.

Contro il sovranismo un nuovo Cln

So di dirla grossa, ma coi tempi e i pericoli che corriamo devo provarci. Quando l’ascesa di Arturo Ui sembra inarrestabile, anche per i buoni uffici di agenzie internazionali e Stati stranieri, il minimo da reclamare a tutte le opposizioni, sociali, politiche, culturali è una tregua alle loro liti e una sospensione alle loro divisioni. Più ancora, è necessaria l’unità di tutte le forze democratiche, come fu nel Cln.

Questo è , a me sembra, anche il senso dell’Appello sottoscritto ieri da alcune formazioni cattoliche: Politica Insieme, Rete Bianca e Costruire Insieme. In quel documento si avverte, naturalmente, l’impronta di papa Francesco il quale, giusto ieri, nella sua intervista a Domenico Agasso de La Stampa, ha dato l’allarme. “Il sovranismo, ha detto, è un atteggiamento di isolamento” e poi, lo sguardo rivolto alle tragiche esperienze del passato, ha ricordato che il sovranismo “finisce sempre male”.

Si può pensare che Francesco sia un irriducibile pessimista e che quindi non sappia gustare appieno la fragranza del diktat salviniano: “datemi i pieni poteri”. Si può pensarla così, e in fondo è quello che finora hanno fatto in molti, fuori e soprattutto dentro il Parlamento. Nel caso tuttavia si fosse di altro parere, nel caso si creda che le parole di Francesco non siano un diverso modo di mettere paura alla gente, tipo quello usato per anni da Salvini e i suoi, allora non c’è che da mettersi in marcia.

La presa di posizione di queste formazioni cattoliche certamente non basta. Epperò sappiamo che quei timori sono condivisi da parti consistenti dell’elettorato, astenuti compresi, e da partiti e ambienti di tutt’altra ispirazione.

Le settimane che ci attendono saranno decisive, usiamo questa definizione non a caso. Conte potrebbe dimettersi prima di essere sfiduciato e già questo costituirebbe un primo intralcio all’irresistibile ascesa di Arturo Ui. Mattarella, arbitro e custode della Costituzione sotto attacco, saprà far valere i poteri che gli attribuisce la Carta.

L’errore, peggio il delitto che può commettere l’intero campo democratico, è quello di rimanere diviso. Unità è una parola che ha salvato l’Italia e l’ha fatta risorgere. Allora è stato il Comitato di liberazione nazionale.   Ora si tratta di difendere la democrazia, semplicemente, e scusate se è poco.

Ci fu un vecchio signore, tanti anni fa, che ebbe lo stesso incarico che ha oggi Sergio Mattarella. Quel signore, Sandro Pertini, che di difesa della democrazia se ne intendeva assai più di certi nostri leader, avvertì un giorno che “a brigante, brigante e mezzo!”. Questo, mi pare, è anche il sottotitolo dell’Appello delle formazioni d’ispirazione cattolica.Questo è anche quel che vogliono fare milioni di italiani di fede, cultura, origine diverse.Questo è il nostro dovere.

 

Andare avanti: la nuova consapevolezza di un orizzonte comune

​Se si vive appieno una crisi senza nascondersi, si può acquistare una consapevolezza nuova, più matura. Dal 4 marzo ad oggi è stata una crisi continua, ed è arrivato il momento della presa di coscienza, della crescita. Ciò implica da un lato l’aver imparato dagli errori del passato (testimonianza malinconico-reducista, pianificazione affrettata dall’alto di organigrammi e aggregazioni meramente elettorali), dall’altro l’aver compreso che il momento richiede una risposta, ora.

 

​L’appello congiunto di Costruire Insieme, Politica Insieme e Rete Bianca sembra essere una prima risposta, o quantomeno un’ultima domanda, un’ultima chiamata poco prima che suoni la fine della partita. Beninteso, la fretta è del demonio. Ma il segnale che si è dato è chiaro, e vi si deve rispondere con “ritmo” costante e deciso. L’appello chiama ad una riscossa dell’autentico spirito di comunità della casa comune che è l’Italia, a partire dalle sue vere e urgenti necessità: vera democrazia (legge elettorale vicina al popolo); coordinamento economico fra i problemi dell’occupazione, della produzione (e innovazione) e dei consumi, con preliminare lucida rinegoziazione dei vincoli europei; coesione sociale e territoriale fra Nord e Sud. Si tratta dei capisaldi prioritari per l’impostazione di un quadro d’insieme.

​La tradizione del cattolicesimo democratico urge a un salto in avanti della visione, ispira uno spirito profetico. Con tale spirito nella situazione attuale si avverte la necessità ineludibile di sforzarsi di scorgere avanti a noi un orizzonte comune, condiviso, pur nelle differenze.

Dobbiamo immaginare e proporre insieme un futuro possibile per la nostra casa comune, cominciando dalle vere priorità.

CHE ALTERNATIVA COSTRUIRE AL FALLITO ESPERIMENTO SOVRAN-POPULISTA?

Tre elementi della crisi strutturale del M5S vanno approfonditi con attenzione.
Il primo riguarda la strategia politica.

I Grillini sono passati dalla orgogliosa rivendicazione di una assoluta “alternativitá” rispetto ai partiti tradizionali ad una alleanza di Governo con la Lega. Poco importa che lo abbiano fatto sotto la foglia di fico di un cosiddetto semplice “contratto”.

L’errore è stato non capire che la Lega di Salvini, nonostante la sua indubbia innovazione metodologica, è il partito più “tradizionale” che esista oggi in Italia: altro non è che l’evoluzione della vecchia destra nazionalista ed illiberale.

Il vero “caso”, infatti, non è la vicenda TAV (importante, certo, ma  non tale da determinare un antagonismo sul piano della visione della società) bensì la incredibile decisione dei senatori grillini di accettare il diktat leghista sul decreto “(in)sicurezza bis”.

Il secondo elemento riguarda la questione della “leadership” nel campo populista e si traduce in una semplice domanda: esiste un “populismo buono” capace di scacciare quello cattivo, come si suole dire per le monete?

L’esperienza del Governo Giallo-Verde sembrerebbe suggerire di no.

Il populismo non si può dispensare in quantità omeopatiche, a fin di bene. Il populismo è droga che crea dipendenza: non prevede né “dosi scalari” né terapie di mantenimento per la riduzione del danno. Chi ha le maggiori chances ed il “physique di role” per capitalizzare il vento populista è la destra. Punto. La storia lo insegna. L’attualità italiana lo conferma.

Osservo peraltro che questa considerazione vale anche per ciò che resta di Forza Italia: pensare di rappresentare una istanza “moderata” a fianco di un Salvini egemone, che butta all’aria il Governo per poter chiedere agli elettori “i pieni poteri”,  è semplicemente una follia.

Il terzo elemento di riflessione intorno alla crisi del M5S è più profondo e chiama in causa la possibilità di dare voce democratica e progettualità di governo alla insoddisfazione di larga parte della popolazione.

Il M5S ci ha provato. Su coordinate politico-culturali e con una idea della democrazia che non condivido affatto (tema non certo superabile), ma ci ha provato. Ed ha fallito.

La questione però rimane.

Che futuro si può immaginare per la nostra democrazia, che rischia lo svuotamento di “senso” delle sue forme rappresentative e la perdita di carisma popolare nella sua costitutiva missione di giustizia sociale?

Che alternativa si può credibilmente presentare ai cittadini, che in una larga, crescente parte sembrano affidare le proprie paure e le proprie aspettative di sicurezza fisica, identitaria e socio-economica alla destra post democratica?

Esiste una possibile terza via tra l’improbabile conservazione dello status quo e la deriva democratica rappresentata dal baratto “meno libertà (effettiva) per più sicurezza (illusoria)”?

Questo mi sembra essere il vero terreno di discussione politica del futuro, che dovrebbe interessare le culture politiche democratiche, riformiste e popolari (nella prospettiva di una loro auspicata radicale rigenerazione) ma anche chi volesse rielaborare –  su basi nuove – le ragioni originarie di una parte del consenso dato al M5S.

Non so se il Presidente Conte intenda cimentarsi in questo: staremo a vedere.

Ciò che è certo è il rischio evidente di un possibile nuovo Parlamento che incoroni Matteo Salvini come primo leader “post democratico” e, dopo Mattarella, elegga un sovranista al Quirinale.

Motivo più che sufficiente per mettere in campo con urgenza nuovi progetti ed alleanze politiche e sociali all’altezza del rischio.

Elezioni, comunque vada occorre esserci

Ad oggi non sappiamo se si vota, quando si vota e come si vota. L’unica cosa che sappiamo è di essere entrati in una fase dove non si può restare alla finestra. Ormai il dado è tratto. Gli equilibri politici del marzo 2018 sono saltati tutti. E cioè, la Lega di Salvini pensa di avere – e non a caso ce l’ha – il vento in poppa ed è disposta a correre da sola, o in compagnia di alleati per strappare quasi tutti i collegi uninominali in ballo nell’intera penisola. Il centro sinistra, oggi, semplicemente non c’è. La strana concezione di Zingaretti secondo la quale i potenziali alleati del Pd devono ricevere l’autorizzazione del segretario dello stesso partito per poter competere – l’ormai famoso “lodo Calenda” – non depone granché a favore per ricostruire una coalizione competitiva, forte, plurale e capace anche di vincere in qualche collegio uninominale al di là di alcune province toscane e di alcuni territori dell’Emilia Romagna. Non a caso, almeno così pare, sarebbe ammesso nella coalizione solo un fantomatico “partito ambientalista” oltre al solito civismo che, come ben sappiamo, e’ trasversale ed è difficilmente riconducibile ad uno schieramento politico. I 5 stelle potrebbero anche scomparire, od uscire fortemente ridimensionati, visto la velocità di cambiamento delle scelte elettorali dei cittadini italiani.
Di fronte a questo quadro e’ persin inutile porsi la domanda: e noi, cioè i cattolici democratici, i cattolici popolari, i cattolici i liberali, i filoni culturali che non sono riconducibili alla sinistra o alla destra, al populismo antisistema dei 5 stelle o ai cultori della mera testimonianza, cosa devono fare? La risposta, appunto, e’ del tutto scontata: a prescindere da quando si vota, occorre semplicemente “essere in campo”. Non si tratta, com’è ovvio, di certificare la presenza di un “partito di centro”. Che non rientra in nessuna delle ipotesi in campo ma, al contrario, di dar voce a mondi vitali, ad interessi sociali, a gruppi culturali e a una posizione politica che oggi non è rappresentata e che si rifugia in un crescente astensionismo o vota stancamente i partiti esistenti.
Un cartello elettorale? Un partito? Un movimento politico? Una lista? Certamente un progetto politico chiaramente alternativo al populismo, al sovranismo e alla demagogia antisistema ma autonomo e con una chiara identità. Che, come ovvio e ispirandosi ad un caposaldo della tradizione del cattolicesimo politico italiano, persegue e declina sino in fondo la cosiddetta “cultura delle alleanze”. E cioè, senza chiusure narcisistiche, autoreferenziali o clerical/confessionali.
È questa, oggi, la vera sfida politica per chi non si limita a tifare dagli spalti. Il resto è accademia, pre politica, testimonianza e, purtroppo, radicale irrilevanza politica. Le prossime settimane saranno decisive per il decollo di questo progetto. Aperto a tutti, a cominciare dai delusi degli attuali partiti di opposizione all’ex esecutivo giallo verde.
Giorgio Merlo

Crisi di governo: chi ne pagherà i costi ?

 

Franco De Simone

L’8 agosto è stato il 60 anniversario della morte di Don Luigi Sturzo, avvenuta a Roma presso l’Isituto delle Suore Carrosiane del’Opera di Don Orione.

Il fondatore del Partito Popolare era convinto che per risolvere i problemi sociali e per combattere la povertà fosse necessario l’impegno in prima persona dei cattolici in politica.  Atto fondativo fu l’appello ai liberi e Forti, con il quale nacque il Partito Popolare Italiano. A 60 anni della sua scomparsa il suo contributo politico,  filosofico e di grande capacità di comprensione della società è ancora attuale.

La crisi politica di questi anni ha avuto ieri la manifestazione più evidente del dilettantismo e dell’arroganza dei politici di governo di oggi.

I 5 stelle sono stati gabbati dalla Lega dopo aver salvato Salvini in parlamento da un rinvio a giudizio per caso Diciotti, votato uno scandaloso decreto sicurezza bis per il quale anche il Presidente della Repubblica ha segnalato l’incostituzionalita’ di numerose parti, stravolto il loro programma sulla Tav, sul Tap, sull’ilva di Taranto, ecc.

Dopo avere schiacciato i 5 stelle ora Salvini ha aperto la crisi di governo per evitare di rispondere in Parlamento dei suoi opachi rapporti con La Russia di Putin, per cercare di giustificare il suo isolamento internazionale che porterà l’Italia ad avere (nel migliore dei casi) un commissario Europeo di secondo piano, per fuggire dalla responsabilità di approvare una Legge Finanziaria di lacrime e sangue con il rischio forte di un aumento dell’Iva del 3 %, e certo non ci sarà un calo delle tasse. Alle elezioni che si terranno fra qualche mese gli italiani dovranno scegliere se avere un governo di destra-destra o se avere politiche moderate che accettano il confronto democratico e hanno una visione di lungo periodo per il futuro del nostro Paese.

Grazie alle scelte miopi della Lega ieri lo spread è salito nuovamente di oltre 40 punti base.

L’Italia è vista come un problema in Europa. La credibilità del nostro Paese è sempre più scarsa.

Invito tutti a riflettere profondamente