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domenica, 2 Novembre, 2025
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Se l’Italia (può) organizzare grandi eventi sportivi

Per cinque anni consecutivi, dal 2021 al 2025, si terranno a Torino le finali Atp di tennis, il torneo di fine anno in cui si affrontano, come da tradizione, i primi 8 giocatori del mondo. Una novità assoluta per l’Italia che non aveva mai ospitato questa manifestazione, la più importante per il tennis professionistico, in programma dopo le quattro prove del Grande Slam. Per averla, Torino ha dovuto battere la concorrenza (agguerrita e qualificata) di Londra, Tokyo, Singapore, Manchester e Barcellona.

Non è una notizia da confinare nelle pagine sportive, per più di una ragione. La prima riguarda il valore economico dell’impresa. Per Torino il giro d’affari sarà, ogni anno, tra i 120 e i 150 milioni di euro. Negli ultimi nove anni le Atp Finals hanno portato a Londra oltre due milioni e 300mila persone, mentre 100 milioni di spettatori hanno seguito il torneo in televisione. La candidatura di Torino ha avuto la meglio grazie all’intraprendenza della sua amministrazione e anche grazie al sostegno finanziario del governo, che ha stanziato la somma necessaria per il montepremi quinquennale. In questo caso ha ben funzionato (per una volta) il gioco di squadra tra il Comune di Torino e Palazzo Chigi.

Ma ha funzionato anche – e questa è la seconda lezione – la capacità dei torinesi di valorizzare quanto di buono era stato fatto negli anni scorsi, da altre amministrazioni comunali e in altre stagioni politiche. La candidatura è risultata vincente anche perché Torino dispone degli impianti adatti e in particolare del Pala Alpitour, struttura costruita per le Olimpiadi inverali del 2006 in grado di ospitare 15 mila spettatori. L’affidabilità dimostrata in passato è diventata una garanzia per il presente. D’altra parte più volte nel corso della storia patria i piemontesi hanno dimostrato di saper conciliare il valore del cambiamento con quello della continuità. Tra poco più di un anno, nel giugno 2020, lo Stadio Olimpico di Roma ospiterà la partita inaugurale del Campionato Europeo di calcio, per la prima volta itinerante. Ci aspettiamo dalla sindaca Raggi lo stesso scatto di orgoglio dimostrato dalla collega Appendino: Roma non può fallire una manifestazione sportiva così importante: hic Rhodus, hic salta.

I media e il concordato Stato-Chiesa del 1929

Nel 1929 Benito Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri, plenipotenziario della Santa Sede, firmarono un trattato che cambiò la storia: come rispose l’opinione pubblica del tempo? Come le forze schierate in campo, nell’informazione e nella politica, raccontarono e vissero il riavvicinamento fra lo Stato italiano e la Santa Sede?

Novant’anni dopo la stipula dei Patti Lateranensi, il nuovo eBook edito da The Skill Press, “I media e il concordato Stato-Chiesa del 1929”, di Alessandro Vinai, analizza come il sistema dell’informazione nazionale reagì alla firma dello storico trattato. Lo fa attraverso uno studio dei giornali del tempo, palcoscenico dei rapporti di forza tra i diversi movimenti politici e sociali in campo (fascisti, cattolici, liberali, socialisti, monarchici…), e la lettura ragionata di testate quali, tra le altre, L’Osservatore Romano, Il Popolo d’Italia, La Stampa.

Il volume è arricchito dalla firma di Giovanni B. Varnier, docente presso l’Università di Genova ed esperto di relazioni tra Stato e Chiesa in Italia, istituzioni ecclesiastiche e minoranze religiose. Varnier, membro di diversi comitati di direzione per riviste e istituti, ha scritto più di 350 pubblicazioni di carattere politico, giuridico, storico, tra cui ricordiamo “Gli ultimi governi liberali e la questione romana” (ed. Giuffrè, 1976), “Le minoranze religiose in Italia e Il fenomeno religioso nella trasformazione dell’ordinamento giuridico” (ed. San Paolo, 1997).

Tra i protagonisti dell’accordo Benito Mussolini, capo di governo del Regno d’Italia, interessato ad accrescere il proprio consenso, e Papa Pio XI, mosso dalla volontà di superare il conflitto e la separazione civile che aveva fin lì contraddistinto le masse cattoliche in Italia. Un delicato equilibrio giocato e soppesato sulle colonne dei giornali, in un mondo che di lì a poco sarebbe stato interamente stravolto dalla guerra prima e dalla modernità poi.

L’ebook è disponibile sulle piattaforme Amazon e Kindle.

Don Primo Mazzolari: “Il primo Maggio è di tutti”

E poi c’è un’altra rivendicazione del mondo del lavoro: la fatica deve essere pagata onestamente, deve essere giustamente retribuita. Non si può domandare la fatica dell’uomo e non darle quello che giustamente merita per vivere, non per vivere appena, ma per vivere da uomini e da cristiani, per avere una casa, per avere una tranquillità, per avere nell’ora della sofferenza non il vuoto del bisogno intorno e nessuna mano che s’allunga.

E, allora, miei cari fratelli, non vi ricordate che è stata appunto questa Chiesa che ha parlato di un peccato, un peccato contro lo Spirito, cioè il più grande, che non si perdonerà né in questa, né nell’altra vita: il defraudare la mercede all’operaio, qualche cosa di sacro, come un sacramento. E chi non paga la fatica, miei cari fratelli, fa un sacrilegio, è come il sacerdote indegno che butta via l’ostia del Signore.

Da “Il primo Maggio è di tutti” di Don Primo Mazzolari (Bozzolo, 1 Maggio 1957)

 

Vita di Don Primo Mazzolari

Primo Mazzolari nacque agli inizi del 1890 a Santa Maria del Boschetto, frazione rurale di Cremona, città in cui nel 1902 entrò in seminario. Come riportano le pagine del suo Diario, elaborò fin dall’adolescenza alcune idee sulla Chiesa e sulla società che avrebbe mantenuto negli anni della maturità: la fiducia accordata alla modernità (in antitesi alla visione che di essa aveva dato il mondo cattolico intransigente), il suo patriottismo di ispirazione risorgimentale e democratica («l’avvenire è della democrazia: […] dobbiamo essere noi cristiani, che abbiamo la vera democrazia di Cristo» scrisse nel 1906), l’affermazione della propria libertà di coscienza (scrisse nel 1907: «Io amo la Chiesa e il Pontefice, ma la mia devozione e il mio amore non distruggono la mia coscienza di cristiano»).

L’approfondimento di questi pensieri, durante gli anni del seminario, lo unì in amicizia al compagno di studi Annibale Carletti, accomunato dalla medesima ottica modernistica e riformatrice. Fra i due seminaristi si sviluppò una solida intesa di ideali e un affetto profondo che perdurò tutta la vita.

Il 24 agosto 1912 venne ordinato presbitero a Verolanuova dal vescovo Giacinto Gaggia; il 1º settembre dello stesso anno venne nominato curato a Spinadesco e il 22 maggio 1913 a Santa Maria del Boschetto.

Favorevole all’interventismo democratico, nel 1915 si arruolò come volontario nella prima guerra mondiale e divenne cappellano militare nel 1918.

Rientrato in Italia nel 1919, venne nominato Cavaliere della Corona d’Italia e inviato in Alta Slesia, prima di essere definitivamente congedato nel 1920.

Il 31 dicembre 1921 venne nominato parroco a Cicognara. Il 10 luglio 1932 venne trasferito, infine, nella parrocchia di Bozzolo, dove visse per il resto della sua vita.

Nel 1925 fu denunciato dai fascisti per essersi rifiutato di cantare il Te Deum dopo il fallito attentato a Mussolini ad opera di Tito Zaniboni.
La notte del 1º agosto 1931, chiamato alla finestra della canonica, gli spararono tre colpi di rivoltella che tuttavia non lo colpirono.

Dopo l’8 settembre 1943, partecipò attivamente alla lotta di liberazione, incoraggiando i giovani a partecipare, e venne arrestato e rilasciato. Fu costretto a vivere in clandestinità fino al 25 aprile 1945, per timore dei fascisti.

Dopo la guerra, l’Anpi di Cremona gli riconobbe la qualifica di partigiano.

Nel 1949 fondò il quindicinale Adesso del quale fu direttore. I suoi scritti attirarono le sanzioni dell’autorità ecclesiastica che ordinò la chiusura del giornale nel 1951. A luglio dello stesso anno, venne imposto al prete il divieto di predicare fuori diocesi senza autorizzazione e il divieto di pubblicare articoli senza una preventiva revisione dell’autorità ecclesiastica.

Il quindicinale poté riprendere le pubblicazioni a novembre, ma don Primo dovette lasciare l’incarico di direttore; egli continuò tuttavia a scrivere alcuni articoli sotto pseudonimi. Proprio alcuni di questi scritti sul tema della pace attirarono nuove sanzioni; nel 1954, infatti, fu imposto a don Primo il divieto assoluto di predicare fuori dalla propria parrocchia e il divieto di pubblicare articoli riguardanti materie sociali.

Dagli inizi degli anni cinquanta don Primo sviluppa un pensiero sociale vicino alle classi deboli (Nessuno è fuori della carità) e ai valori del pacifismo che attireranno le critiche e le sanzioni delle autorità ecclesiastiche fino a portarlo all’isolamento nella sua parrocchia di Bozzolo.

Con la pubblicazione anonima di Tu non uccidere, nel 1955, Mazzolari attaccava a fondo la dottrina della guerra giusta e l’ideologia della vittoria, il tutto in nome di un’opzione preferenziale per la “nonviolenza”, da sostenere con un forte «movimento di resistenza cristiana contro la guerra» e per la giustizia, vista come l’altra faccia della pace. Al fondo c’era la nuova consapevolezza del significato dirompente della bomba atomica, che aveva cambiato il campo razionale entro il quale il realismo aveva potuto muoversi per giustificare l’extrema ratio della guerra.

È solo nella seconda metà degli anni cinquanta che don Primo Mazzolari cominciò a ricevere le prime attestazioni di stima da parte delle alte gerarchie ecclesiastiche. Nel novembre del 1957 l’arcivescovo di Milano Montini, futuro Papa Paolo VI, lo chiama a predicare presso la propria diocesi, molte idee sui poveri e sulla missione della Chiesa accomunano Montini e Mazzolari[6]; nel febbraio del 1959 Papa Giovanni XXIII lo riceve in udienza privata e lo saluta pubblicamente “Tromba dello Spirito Santo in terra mantovana”.

Il 20 giugno 2017 papa Francesco si è recato in visita a Bozzolo per ricordare la figura di don Primo Mazzolari .

Qui potete leggere l’omelia del Papa.

Aldo Moro e il lavoro dell’uomo

Oggi festa dei lavoratori, vogliamo pubblicare questo breve scritto di Aldo Moro, a nostro avviso denso di un significato troppo spesso dimenticato 

Sia dunque ben chiaro che, quando si parla di un giusto controllo dell’economia e di rapporti umani, su base di autonomia, dignità e responsabilità nell’ambiente di lavoro, non si discute solo di efficienza produttiva, ma di condizione sociale della persona, di qualche cosa che va al di là della pur naturale rivendicazione di benessere e della giustizia, per toccare la posizione dell’uomo ed il suo modo di essere, il solo accettabile ed appagante, nella società.

La partecipazione così intesa è non solo mezzo, ma anche è più fine; è il superamento della civiltà dei consumi in favore della civiltà dell’uomo. In termini di libera politica e di dignità ed autonomia sociale si riscatta la persona dall’inquietudine e dallo scontento, che il solo benessere non riesce a placare. In una tale condizione c’è un lavoro da compiere ed una disciplina da accettare. Ma è importante e caratterizzante che in essi si esprima l’uomo non come servo della macchina, della tecnica, dei padroni, del potere, ma come libero e responsabile protagonista della vita sociale e politica.

1° Maggio, la festa dei lavoratori 2019: memoria e speranza

Diventa difficile parlare della festa del lavoro quando un terzo dei giovani italiani non sono occupati, il tasso di disoccupazione è sempre sopra al 10% (l’Italia è la penultima nella classifica dei Paesi Europei per i senza lavoro, l’ultima è la Grecia) e il numero degli incidenti del lavoro sono in costante aumento, nel 2018 le denunce per infortuni sono state 641 mila e i morti 1133.  Tuttavia le ricorrenze o gli anniversari, hanno sempre un senso, perché rappresentano la memoria e l’evoluzione che ha caratterizzato il nostro Paese. Stiamo di fronte alla Costituzione della Repubblica Italiana, ove all’articolo 1, è scritto: “L’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro.”

 

La Costituzione è la regola fondamentale, con diritti e doveri, va rispettata e attuata, è la “stella polare” della vita democratica e sociale dell’Italia, e in questo senso il suo dettato è di perenne attualità, per garantire sviluppo e libertà, in questa fase dove “il nuovo appare come un vecchio passato” e ciò che è stato costruito, con tutti i limiti, deve  essere rimosso o cancellato. E’ preferibile fare memoria e guardare al futuro con realismo e concretezza, senza approssimazioni o improvvisazioni. Ecco perché ricordare il 1° maggio è importante, per tutti, giovani e meno giovani.

 

Che cosa ha rappresentato nell’immaginario collettivo e nella storia la festa dei lavoratori ?

Il 1° Maggio nasce come momento di lotta internazionale di tutti i lavoratori, senza barriere geografiche, ne tanto meno sociali per affermare i propri diritti, per raggiungere obiettivi, per migliorare la propria condizione.

“Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire” fu la parola d’ordine coniata in Australia nel 1855, condivisa da gran parte del movimento organizzato del primo Novecento.

Si apri cosi la strada a rivendicazioni generali e alla ricerca di un giorno, il primo di Maggio, in cui tutti i lavoratori potessero incontrarsi per esercitare forme di lotta e affermare la propria autonomia e indipendenza.

Negli Stati Uniti, nello Stato dell’Illinois, nel 1866 ci fu il primo riconoscimento, con molte limitazioni, della giornata lavorativa a otto ore; sempre nello stesso anno in dodicimila fabbriche degli Stati Uniti, oltre 400mila lavoratori incrociarono le braccia il 1°Maggio e nella sola Chigaco 80 mila operai scioperarono e parteciparono a un grande corteo.

Tutto si svolse pacificamente, ma nei giorni successivi ci furono scontri fra manifestanti e polizia, per protestare contro i licenziamenti di una fabbrica, ci furono diversi morti.

Da quei fatti e nel ricordo dei “martiri di Chigaco”, che erano diventati il simbolo della lotta nacque il 1° Maggio.

 

La decisione fu assunta cosi come indicato dal Congresso costitutivo della “Seconda internazionale” riunito a Parigi, il 14 luglio 1889, nel centenario della presa della Bastiglia, ( l’evento storico più significativo della Rivoluzione francese) e venne deciso, dopo forti discussioni, di garantire ai sindacati  l’autonomia e l’indipendenza dai partiti. Nel 1890, per la prima volta si svolsero manifestazioni simultaneamente in tutto il mondo con successo, per la grande partecipazione di lavoratori e di cittadini.

 

A Roma la manifestazione era stata convocata in Piazza Santa Croce in Gerusalemme, nei pressi di S. Giovanni, la tensione era alta, ci furono tumulti che provocarono morti e feriti, centinaia di arresti tra i manifestanti, con la folla che sosteneva la causa dei lavoratori. Nel resto d’Italia e del mondo le manifestazioni del 1° Maggio ebbero uno svolgimento più tranquillo, lo spirito di quella giornata si stava radicando nelle coscienze dei lavoratori e dei cittadini. Iniziava una nuova stagione per i lavoratori sfruttati e sottopagati, con tanti diritti da conquistare.

Nel nostro Paese il fascismo decise la soppressione della Festa del 1° Maggio, durante il ventennio, e fu fatta coincidere con le celebrazioni del 21 aprile, il Natale di Roma, mentre la festa del lavoro veniva connotata come “sovversiva”.

 

Nel dopoguerra , il ripristino della Festa del 1° Maggio fu conseguenza della Liberazione, nel 1947 a Portella della Ginestra in Sicilia, venne scritta una pagina nera a opera della banda Giuliano.

Durante una manifestazione per festeggiare la fine della dittatura, la ritrovata libertà e rivendicare migliori condizioni di lavoro per i braccianti e i mezzadri agricoli venne compiuta una strage, che causò 11  morti e 50 feriti. Successivamente il 1° Maggio 1955, il Papa Pacelli, Pio XII, istituì la celebrazione di San Giuseppe Lavoratore, venendo incontro a una richiesta del 1945 delle ACLI, così da ufficializzare la ricorrenza anche per i lavoratori cattolici.

 

Le forti trasformazioni sociali nel corso dei decenni trascorsi, il mutamento delle abitudini, la progressiva omogeneizzazione degli stili di vita, l’industrializzazione del paese, il ruolo della cultura e dello studio, la crescita dei servizi e della comunicazione attraverso i social, le conquiste di migliori condizioni economiche e civili, hanno profondamente cambiato il significato di una ricorrenza che aveva esaltato la distinzione della classe operaia.

Il modo di celebrare il 1° Maggio è quindi cambiato negli ultimi due decenni dello scorso secolo, questa condizione è da attribuire alla partecipazione e alle lotte dei lavoratori di tutte le categorie che hanno modificato la società italiana

 

Dal 1990, CGIL- CISL- UIL hanno scelto di celebrare la giornata del 1° Maggio promuovendo una manifestazione nazionale dedicata a specifici temi.  Quest’anno a Bologna, con questo lo slogan : “Lavoro, Diritti, Stato Sociale, La Nostra Europa.” La scelta della Città Capoluogo dell’Emilia Romagna, “perchè ha sempre combattuto per la difesa dei diritti, che ha sempre fatto  delle battaglie per il lavoro, per l’accoglienza, la difesa dei diritti di cittadinanza e di inclusione sociale, questi i tratti distintivi della sua storia.”

 

Inoltre è diventato un appuntamento storico il tradizionale “Concerto” del 1° Maggio a Piazza San Giovanni, chiamato in forma popolare “Concertone”,   che con la diretta Non-Stop della Rai, lo scorso anno ha registrato, 16,8 milioni di contatti unici TV e la “media share” della diretta su Rai 3, ai massimi storici. Quindi “un Primo Maggio che è la festa non solo di chi lavora, ma di tutti coloro che desiderano lavorare e costruire la loro dignità sul lavoro, e attraverso il lavoro si uniscono le diverse generazioni.

  

Viene infine da domandarsi, ed è una domanda di grande attualità, richiamando quanto affermava Papa Giovanni Paolo II, oggi Santo, nell’Enciclica la “Laborem exercens”( Compiendo il lavoro): “Nell’attuale mutato quadro di riferimento ha ancora senso parlare di priorità del lavoro sul capitale? Esistono ancora oggi buone ragioni per sostenere il principio del primato del lavoro e la centralità dell’uomo”.

Saranno necessarie nuove forme di responsabilità, intesa come spirito di servizio, superando il culto dell’individualismo e dell’approssimazione nella gestione della cosa pubblica e dell’economia; certamente le forze politiche e le forze sociali dovranno tenere conto, ove il sindacato deve superare le differenze e le divisioni di questi ultimi anni, avendo avanti agli occhi e nel cuore, il valore e lo spirito che ispirò la nascita della Festa del 1° Maggio.

In gioco ci sono le sorti delle giovani generazioni del nostro Paese e il futuro dell’Europa. Bisogna crederci, impegnarsi e partecipare, pensando anche alla storia del 1° Maggio, Festa Internazionale del Lavoro, può aiutare.  

Eurostat, i dati sulla disoccupazione sono da brivido

Tra il 2017 e il 2018 nel Sud e nelle Isole, la disoccupazione è cresciuta ancora, superando quota 65% contro una media Ue scesa dal 44,9 al 43,2%. A scattare l’istantanea è Eurostat con la diffusione dei dati sull’andamento della disoccupazione nelle tante amministrazioni regionali in cui sono divisi i Paesi membri dell’Unione.

Dalle rilevazioni vediamo che in Alta Baviera sono disoccupati soltanto 4 giovani su 100 (il tasso più basso d’Europa), mentre in Sicilia, Campania e Calabria è senza lavoro oltre un ragazzo su due. E i rispettivi tassi di disoccupazione giovanile (il 53,6% per Sicilia e Campania e il 52,7 per la Calabria) collocano queste aree al settimo e al nono posto nella classifica delle “peggiori” dieci regioni tra le 280 dell’Ue. I dati Eurostat sottolineano inoltre (ancora una volta) come all’interno dell’Europa, ma anche del Belpaese, ci sia una netta divisione tra Nord e Sud. Non serve infatti andare fino in Germania per trovare tassi di disoccupazione giovanile decisamente inferiori alla media, basta ad esempio guardare il caso della Provincia autonoma di Bolzano (una vera eccezione), del Trentino (15%), dell’Emilia Romagna (17,8%), della Lombardia (20,8%), del Veneto (21%).

Nel contesto europeo a far registrare le quote più preoccupanti sono invece alcune aree della Grecia, i territori d’oltremare francesi di Mayotte e Guadalupa e le enclave spagnole in Marocco di Ceuta e Melilla. Complessivamente sono 71 le regioni dei Paesi dell’Unione che nel 2018 hanno avuto un tasso di disoccupazione inferiore al 3,5% (pari alla metà della media europea che è del 6,9%). Tra queste 20 regioni sono in Germania, 15 nel Regno Unito, 9 in Polonia, 7 in Cechia, 5 in Ungheria, 4 in Olanda e Austria, due in Belgio e Romania e una in Bulgaria e Slovacchia.

Lavoro: Istat, a marzo la disoccupazione cala

A marzo 2019 la stima degli occupati è in crescita rispetto a febbraio (+0,3%, pari a +60 mila unità); anche il tasso di occupazione sale, arrivando al 58,9% (+0,2 punti percentuali).

L’aumento dell’occupazione è determinato da entrambe le componenti di genere e si concentra tra i minori di 34 anni (+69 mila); sono sostanzialmente stabili i 35-49enni mentre calano gli ultracinquantenni (-14 mila). Si registra una crescita dei dipendenti permanenti (+44 mila) e degli indipendenti (+14 mila), mentre risultano sostanzialmente stabili i dipendenti a termine.

Le persone in cerca di occupazione calano del 3,5% (-96 mila). La diminuzione riguarda entrambi i generi e tutte le classi d’età. Il tasso di disoccupazione passa dal 10,5% al 10,2% con un calo di 0,4 punti percentuali.

La stima complessiva degli inattivi tra i 15 e i 64 anni a marzo è sostanzialmente stabile come sintesi di una diminuzione tra i minori di 34 anni e un aumento tra gli over 35. Il tasso di inattività è invariato al 34,3% per il terzo mese consecutivo.

Nel periodo da gennaio a marzo 2019 l’occupazione registra una crescita rispetto ai tre mesi precedenti, sia nel complesso (+0,2%, pari a +46 mila) sia per genere. Nello stesso periodo diminuiscono i dipendenti a termine (-1,0%, -31 mila), mentre aumentano sia i dipendenti permanenti (+0,4%, +64 mila) sia gli indipendenti (+0,3%, +14 mila).

Nel trimestre all’aumento degli occupati si associa un calo delle persone in cerca di occupazione (-1,8%, pari a -50 mila) e degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-0,1%, -18 mila).

Su base annua l’occupazione cresce dello 0,5%, pari a +114 mila unità. L’espansione interessa entrambe le componenti di genere, i 15-24enni (+63 mila) e gli ultracinquantenni (+210 mila). Al netto della componente demografica la variazione è positiva per tutte le classi di età. In un anno crescono soprattutto i dipendenti a termine (+65 mila) e si registrano segnali positivi anche per gli indipendenti (+51 mila), risultano sostanzialmente stabili i dipendenti permanenti.

Nei dodici mesi, la crescita degli occupati si accompagna al calo dei disoccupati (-7,3%, pari a -208 mila unità) e degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-0,3%, -35 mila).

Le 10mila bugie di Trump

Bugie, bugie sempre più bugie. Donald Trump ha abbattuto il muro delle 10 mila bugie. Lo rivela il Washington Post sulla base del suo Fact Checker’s database. Il presidente era arrivato a 5000 dopo i primi 601 giorni, con una media di otto dichiarazioni false o fuorvianti al giorno. Ma, ora, con un ritmo di circa 23 bugie al giorno il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è quasi un re nel mondo delle dichiarazioni false o poco  veritiere.

Un traguardo che sembrava improbabile, sottolinea il Washington Post, quando e’ stato lanciato il progetto di verificare le affermazioni di Trump: nei primi 100 giorni, il presidente aveva una media di meno di 5 bugie al giorno, un numero che proiettava un massimo di circa 7000 falsità nei quattro anni di mandato.

Voto a domicilio: c’è tempo fino al 6 maggio per la domanda

Gli elettori affetti da gravi infermità che non possono allontanarsi dalla propria abitazione – si legge in una nota pubblicata sul sito del Viminale –  hanno la possibilità di votare a domicilio.

La domanda, corredata da un certificato medico della ASL e dalla copia della tessera elettorale, deve pervenire entro il 6 maggio 2019 al comune di residenza.

Inoltre, gli elettori che hanno bisogno dell’assistenza di un altro elettore per esprimere il proprio voto, possono richiedere al proprio comune di provvedere all’annotazione permanente del diritto al voto assistito mediante l’apposizione di un timbro sulla tessera elettorale.

Giorgio de Chirico: Ritorno al Futuro

La GAM di Torino presenta la grande mostra Giorgio de Chirico. Ritorno al Futuro, Neometafisica e Arte Contemporanea, un dialogo tra la pittura neometafisica di Giorgio de Chirico (Volo, Grecia, 1888 – Roma, 1978) e le generazioni di artisti che, in particolare dagli anni Sessanta in poi, si sono ispirati alla sua opera, riconoscendolo come il maestro che ha anticipato la loro nuova visione e che con la sua neometafisica si è posto in un confronto diretto con gli autori più giovani.

La mostra a cura di Lorenzo Canova e Riccardo Passoni è organizzata e promossa da Fondazione Torino Musei, GAM Torino e Associazione MetaMorfosi, in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico e presenta un centinaio di opere provenienti da importanti musei, enti, fondazioni e collezioni private.

La metafisica di Giorgio de Chirico, nella sua visione originaria e futuribile, ha influenzato atteggiamenti e generi differenti, non solo nel campo delle arti visive, ma anche della letteratura, del cinema, delle nuove tecnologie digitali, arrivando fino a confini inattesi come videogiochi e videoclip, in un interesse globale che va dall’Europa agli Stati Uniti fino al Giappone.

Oggi la posterità, libera dagli stereotipi di certe condanne, può “dire la sua”, come intuì con il suo genio Marcel Duchamp in un testo su de Chirico del 1943.

In questo contesto si inserisce la nuova attenzione per il periodo della neometafisica di de Chirico (1968-1978), che rappresenta allo stesso tempo un ritorno e una nuova partenza, una fase di nuova creatività e un riandare verso l’immagini del proprio passato, attraverso un nuovo punto di vista e nuove soluzioni formali e concettuali.

Così, già nel 1982, Maurizio Calvesi, rivolgendosi idealmente al maestro nel suo fondamentale volume La Metafisica schiarita, sottolineava l’importanza del de Chirico neometafisico per l’arte contemporanea: “perché riconoscemmo i tuoi colorati chiaroscuri, le tue sfere, i tuoi segnali e le tue frecce, i tuoi schienali e le tue ciminiere, i tuoi oggetti smaltati ed ora come staccatisi dai quadri, qualcosa delle tue schiarite e delle tue sospensioni, nel nuovo momento di un’arte che si disseminò come un concerto o una pioggia rinfrescante”.

Non a caso, la neometafisica di de Chirico sembra già dialogare con la pop art e con l’arte internazionale, in particolare americana, e in quegli anni proprio Andy Warhol dichiaratamente riconosceva in de Chirico uno dei suoi precursori, e gli rendeva omaggio con un celebre ciclo di opere in cui presentava una metafisica rivisitata e seriale.

Con una pittura di grande intensità e felicità cromatica, il de Chirico neometafisico sembra dunque rispondere agli omaggi degli artisti più giovani creando un dialogo a distanza di grande intensità e vitalità. In questo modo de Chirico si è posto come una delle fonti dirette dell’arte di molte generazioni di artisti italiani e internazionali, sospese tra le immagini dei segnali urbani, delle merci della civiltà di massa e le memorie di una bellezza classica e perduta, un accostamento anticipato dallo stesso de Chirico nel suo romanzo Ebdòmero.

La mostra evidenzia questo rapporto intenso e profondo, mettendo in relazione le opere neometafisiche di de Chirico con le nuove tendenze dell’arte italiana e internazionale come la Pop art di Andy Warhol, Valerio Adami, Franco Angeli, Mario Ceroli, Lucio Del Pezzo, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Gino Marotta, Ugo Nespolo, Concetto Pozzati, Mimmo Rotella, Mario Schifano, Emilio Tadini. La mostra presenta anche un grande prosecutore della Metafisica come Fabrizio Clerici, la pittura di Renato Guttuso e di Ruggero Savinio, insieme a grandi artisti internazionali come Henry Moore, Philip Guston, Bernd e Hilla Becher. Il percorso propone anche maestri dell’arte povera come Giulio Paolini e Michelangelo Pistoletto, le visioni concettuali di Fabio Mauri, Claudio Parmiggiani, Luca Patella e Vettor Pisani, fino ad arrivare alle ombre geometriche di Giuseppe Uncini, alla fotografia di Gianfranco Gorgoni, alle sculture di Mimmo Paladino, ai dipinti di Alessandro Mendini e di Salvo, al mistero di Gino De Dominicis, ai tableaux vivants di Luigi Ontani, e a protagonisti delle ultime generazioni internazionali come Juan Muñoz, Vanessa Beecroft e Francesco Vezzoli.

Oltre al prestito delle opere neometafisiche della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, la mostra presenta un’animazione digitale di Maurice Owen e Russell Richards, insieme a opere di artisti contemporanei provenienti dalle collezioni della GAM di Torino e tra questi Claudio Abate, Gabriele Basilico, Luigi Ghirri, Franco Fontana, Fausto Melotti. Una piccola sezione della mostra, come un inserto prezioso, è riservata al tema della citazione e della copia, esercizio prediletto da de Chirico nella sua lunga ricerca sulla pittura dei grandi maestri e presenta un disegno originale di Michelangelo proveniente da Casa Buonarroti, insieme a disegni di de Chirico dedicati allo studio degli affreschi michelangioleschi della Volta della Cappella Sistina e a opere del famoso ciclo su Michelangelo di Tano Festa, pittore che tra i primi ha compreso la forza innovativa della pittura di de Chirico, in un collegamento con l’arte del passato che, nella curva del tempo, ha il potere di rifondare l’arte del futuro.

La mostra è accompagnata da un catalogo edizioni Gangemi International con testi di Lorenzo Canova, Riccardo Passoni e Jacqueline Munck.

Lazio: Trend positivo per i trapianti

L’Assessore alla Sanità e l’Integrazione Sociosanitaria della Ragione Lazio, Alessio D’Amato commentando i dati sull’attività di donazione e trapianto dichiarando che: “Nel Lazio lo scorso anno sono stati eseguiti 435 trapianti di organo che rappresentano il 12% del dato nazionale. Stiamo parlando di oltre un trapianto al giorno. Un trend in continua crescita che ha fatto registrare una vera impennata nei primi due mesi del 2019. Proprio qualche giorno fa abbiamo registrato un caso straordinario con la donazione degli organi della signora Annita deceduta al Policlinico Umberto I all’età di 88 anni. Un gesto reso possibile anche grazie anche alla generosità dei suoi famigliari e che ha permesso di salvare due vite umane. Credo sia il miglior esempio di quanto sia importante l’attività trapiantologica che nella nostra Regione”.

Entrando nello specifico nel differenziale tra gennaio e febbraio del 2018 rispetto al 2019 i donatori sono passati da 12 (2018) a 30 (2019), mentre i trapianti effettuati da 40 (2018) a 69 (2019). Sono stati effettuati tra gennaio e febbraio di quest’anno 35 trapianti di rene contro i 20 dello stesso periodo nel 2018, 22 di fegato in aumento rispetto ai 18 del 2018, 3 trapianti di polmone nel 2019 a fronte di nessuno nello stesso periodo del 2018.

I 2 preamboli del nuovo centro sinistra

Già pubblicato su Huffingtonpost

Non giriamo troppo attorno al tema. Oggi una coalizione di centro sinistra, in Italia, non c’è. E’ perfettamente inutile aggrapparsi attorno allo slogan che si è “l’unica e vera alternativa democratica” al centro destra. Uno slogan che, ripetuto a iosa, diventa anche un po’ stucchevole. O meglio, una coalizione di centro sinistra c’è ma è strutturalmente minoritaria. E’ appena sufficiente registrare i voti reali disseminati in tutta Italia senza fermarsi ai soliti sondaggi che dipingono un futuro roseo, illuminato e senza ostacoli per il Pd di Zingaretti. Perché, al di là della narrazione virtuale dei soliti noti “progressisti” sui soliti organi di informazione “progressista”, non c’è votazione importante a livello locale o regionale – e forse domani anche nazionale – che non certifichi l’avanzata del centro destra. Distanziando sempre, e puntualmente, il centro sinistra. Per non parlare dell’ormai decadente e progressivamente marginale partito dei 5 stelle.

Ora, ci sono almeno 2 condizioni – o preamboli per usare un termine ancora più netto – che devono essere rigorosamente rispettate se si vuol far decollare una coalizione che non sia solo una banale e burocratica sommatoria di sigle più o meno note.

Innanzitutto si deve archiviare definitivamente la cosiddetta “vocazione maggioritaria” del Partito democratico. Sia nella versione ufficiale del passato e sia in quella ufficiosa del presente. Per capirci, il partito che rappresentava politicamente ed elettoralmente l’intero campo del centro sinistra è ormai alle nostre spalle. Stagione chiusa, come si suol dire. Ma quello che pensa e pratica Zingaretti non può essere la soluzione. E cioè, l’antico vizio della sinistra post comunista italiana che pensava di costruire la coalizione attorno ad un partito centrale attorniato da allegri “nanetti” politici che avevano il compito di dire che con la loro presenza si certificava la natura plurale dell’alleanza. Un’operazione persin troppo nota per essere descritta nei particolari. Anche perché si tratta di un’operazione pianificata a tavolino dove si decide chi, all’interno dell’alleanza, deve assolvere al compito di rappresentare la sinistra, chi la destra e chi il centro. Ma sempre e solo in funzione degli interessi del partito principale. Ora, se si vuol costruire una alleanza che non sia un banale prolungamento del Partito democratico – appunto, una vocazione maggioritaria mascherata – si tratta di ricostruire una vera coalizione. Dove la pluralita’ politica, culturale e programmatica – poi da sintetizzare in un progetto di governo comune ed omogeneo – emerga in modo chiaro, netto e immediatamente percepito dai cittadini elettori. Perché altrimenti si tratta di un escamotage neanche troppo intelligente per essere condiviso e quindi votato.

Il secondo preambolo essenziale per dare vita ad una vera coalizione non può essere la solita, banale, noiosa, stantia ripetizione che dobbiamo combattere l’ennesima offensiva fascista, autoritaria e di regime rappresentata dalla destra più retriva. Ora, non c’è nessuno che sottovaluta il pericolo di una destra regressiva, autoritaria e populista. Ma dopo aver predicato – sempre attraverso i soliti “progressisti” e “borghesi” nostrani – per lunghi 20 anni del rischio di una deriva autoritaria, fascista ed illiberale rappresentata dalla presenza di Berlusconi e del suo progetto politico, oggi rischia di essere scarsamente credibile la meccanica ripetizione di quello slogan con la semplice sostituzione del leader di Forza Italia con il capo della Lega di Salvini. Perché delle due l’una: o questo rischio c’è sul serio ma allora non si combatte a giorni alterni, oppure – com’è evidente ai più – si tratta di una semplice arma di propaganda politica che sviene sfoderata durante le campagne elettorali o alla vigilia delle grandi feste civili nazionali per essere prontamente rimessa nello zaino appena archiviato l’impegno elettorale o la partecipazione all’evento popolare. Ecco, per il centro sinistra serve si’ avere continuamente un avversario da combattere ma, come avviene nelle democrazie mature, si tratta di riaffermare una identità ed un progetto politico non solo attraverso il nemico ma, soprattutto, con un programma di governo che sappia rilanciare al contempo l’entusiasmo dei militanti e la fiducia degli elettori. E cioè, è necessario declinare una “identità in positivo” e non solo rimarcare una “identità in negativo”.

Dunque, le 2 condizioni basilari per rilanciare una prospettiva politica di centro sinistra sono fortemente intrecciate tra di loro. Solo attraverso una coalizione plurale e realmente

rappresentativa da un lato e un progetto che non sia solo l’annientamento strumentale del nemico dall’altro si potrà ancora parlare di un vero ed autentico centro sinistra. Il resto, purtroppo, appartiene solo al campo della propaganda, del passato che ritorna e anche della scarsa credibilità politica. È bene saperlo prima che si avvicinino le prossime elezioni politiche generali.

Continua il pressing del M5s per le dimissioni di Siri, ma Salvini lo blinda

Fonte AGI

Il caso di Armando Siri continua a creare tensioni nel governo. In attesa dell’incontro con Giuseppe Conte, si fa più intenso il pressing del M5s affinché il sottosegretario leghista, indagato per corruzione, faccia un passo indietro dall’esecutivo, mentre i leghisti ‘blindano’ l’ideologo della flat tax, sostenendo di attendere la mediazione del presidente del Consiglio.

Conte ha acconsentito a lasciare altro tempo al sottosegretario genovese, che potrebbe essere sentito dai pm nelle prossime ore, come annunciato dal suo avvocato, e il faccia a faccia, che avrebbe potuto tenersi oggi al ritorno del premier dalla Cina, non c’è stato mentre continuano le ‘stilettate’ tra alleati sul caso. Dal canto suo, il capo della Lega Matteo Salvini, ospite in tv, ha annunciato l’intenzione di riaprire i termini di scadenza per la presentazione delle domande per accedere alla cosiddetta ‘pace fiscale’, provvedimento di cui si è occupato proprio Siri, ‘corretto’ più volte nei mesi scorsi dal M5s.

Intanto, domani il premier e i suoi due vice, Salvini e Luigi Di Maio, si vedranno a Tunisi, per il vertice inter-governativo Italia-Tunisia. Il volo in aereo verso il Paese nordafricano potrebbe essere occasione per un confronto sul caso tra Conte e Salvini, che non avrebbero avuto recenti contatti sul tema. Mentre Di Maio li attenderà a Tunisi, dal momento che arriverà già stasera con il volo di linea.

“Siri continuerà a fare il senatore, lasciamo libero il posto da sottosegretario e quando si saranno concluse le indagini, vedremo”, ha scandito oggi il vice premier M5s, che ha smentito le indiscrezioni di stampa secondo cui una delle soluzioni potrebbe essere una autosospensione temporanea e volontaria dall’incarico del leghista. “L’autosospensione non esiste, è un istituto che non esiste, esistono le dimissioni o stare in carica, il tema è se Siri, se risulterà prosciolto, vuole tornare, sarò io il primo a dire che può tornare, se sarà innocente – ha scandito -. Ma non ci prendiamo in giro, non credo che Conte avesse in mente questo”.

“Il Movimento 5 stelle chiede a Siri di mettersi in panchina, finché l’inchiesta sia conclusa”, torna a dire Luigi Di Maio. “La Lega – sottolinea il capo politico M5s – deve comprendere che, sebbene loro non abbiano questa sensibilità sul tema corruzione, noi l’abbiamo e dobbiamo difendere le istituzioni anche da una macchia ipotetica che possa venire da questa inchiesta”.

Durissimo l’attacco inviato a mezzo ‘fonti M5s’ a Salvini: “Anche Berlusconi diceva che i processi non si fanno in Parlamento o sui giornali. E mentre lo diceva, accomodandosi sulla lunghezza dei processi, continuava a mangiarsi il Paese. Dispiace che anche Salvini la pensi allo stesso modo. Non è questione di dove si fanno i processi, a nostro avviso, ma questione di opportunità politica”. “Agli attacchi delle opposizioni e dei giornali sono abituato. È bizzarro leggere ogni giorno dichiarazioni di M5s contro di me. Io non rispondo e lavoro; sarebbe opportuno che tutti facessero lo stesso”, si è lamentato, dal canto suo, il capo della Lega.

“Conte è tornato, ci sta pensando lui”, ha spiegato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti. A chi gli chiedeva se fosse ottimista sull’esito della vicenda, ha risposto: “Se non si è ottimisti non si va avanti, bisogna essere ottimisti per forza”.

Fonti governative della Lega smentiscono che Siri sia intenzionato a rassegnare le dimissioni. “Domani – ha aggiunto Giorgetti – abbiamo il Consiglio dei ministri e almeno li’ ci vediamo”. Nella riunione del Cdm, non ancora convocata ma che si dovrebbe tenere intorno alle 21, dal governo dovrebbe arrivare il via libera alla nomina di alcuni prefetti e del nuovo direttorio della Banca d’Italia, indicato dal Consiglio superiore dell’istituto il 28 marzo.

Ma oltre al ‘caso Siri’ sono diversi i fronti, nuovi e vecchi, che dividono, i due azionisti della maggioranza: dalla castrazione chimica, rispolverata da Salvini dopo lo stupro di Viterbo e per la quale la Lega ha presentato diverse proposte di legge mentre per Di Maio è una “presa in giro per le donne e i cittadini”; alle intese con le Regioni che chiedono l’autonomia differenziata, battaglia storica degli ‘ex lumbard’ su cui il M5s nutre diverse perplessità; ai corridoi umanitari che sono oggetto di un botta e risposta ‘piccato’ tra il ministro della Difesa Elisabetta Trenta e i sottosegretari leghisti Nicola Molteni e Raffaele Volpi.

Confronto-scontro tra i due alleati di governo anche nell’interpretazione dell’esito delle amministrative in Sicilia, con Salvini che, da una parte, si è detto soddisfatto, mentre Di Maio, dall’altra, ha tenuto a sottolineare come il M5s ‘batta’ la Lega ove si presenta da sola e non in coalizione con il centrodestra.

Buon compleanno, Internet

Articolo già apparso sulla rivista Il Mulino a firma di Laura Sartori

Il 30 aprile 1986 l’Italia si connette per la prima volta a Internet, evento che oggi definiamo epocale, ma che allora fu festeggiato da un ristretto gruppo di scienziati. Sì, perché è tra le mura del Centro nazionale del calcolo elettronico (Cnuce) di Pisa – oggi diventato il Cnr – che parte il primo segnale Internet dall’Italia diretto in Pennsylvania, dove c’era la sede della rete Arpanet. Tecnicamente, il segnale partì da Pisa via cavo, grazie al progetto Italcable, fino alla piana del Fucino in Abruzzo, dove con la struttura satellitare del progetto Telespazio e il primo grande router (Butterfly Gateway) finanziato dal governo americano, arrivò infine negli Usa.

In quegli anni, Arpanet rappresentava la rete di università collegate nel mondo, nata nel 1958 quando il generale Eisenhower fondò Arpa (Advanced research projects agency), convinto che la conquista dello spazio fosse un progetto di ampio respiro e a lungo termine. Questa si integrò con l’idea dello psicologo Robert Licklider di un “Intergalactic Computer Network” creando il progetto Arpanet di Larry Roberts nel 1967. Ma è solo nel 1973 che la situazione matura e si comincia a parlare effettivamente di una rete Internet. Fu allora che Vinton Cerf e Bob Kahn definiscono lo standard di comunicazione con cui ancora oggi si articolano e distribuiscono le informazioni tramite la Rete, ovvero il protocollo Tcp/Ip, che si impose anche perché permetteva il dialogo tra tutte le reti che si stavano sviluppando in quegli anni: non solo Arpanet, ma anche Alohanet, Comsat e Stetnet.
Nasceva così Internet. Oggi, questo termine indica una infrastruttura tecnologica (una rete di reti) su cui corrono diversi protocolli, tra cui il cosiddetto World Wide Web, “immaginato” nel 1989 da Tim Berners Lee, al Cern di Ginevra, come un sistema ipertestuale che apre all’uso grafico e multimediale della Rete. Giunti a quel punto, mancava un ultimo passo per avvicinare Internet e il Web ai comuni cittadini. Ecco allora l’invenzione del browser, un software per la navigazione online. Il primo fu Mosaic nel 1993, seguito da Netscape nel 1994, Explorer nel 1997 e Firefox nel 2002. Nel 2004 si apre l’era dei social network con il lancio di Facebook (ben raccontato dal film “The Social Network” del 2010), Twitter nel 2006 e Instagram nel 2010. WhatsApp fa il suo debutto nel 2009 e Facebook reagisce, trasformando la sua chat, presente dal 2008, in una piattaforma di messaggistica nel 2010 (Messanger).

Questo breve excursus ci permette di capire come quello che comunemente chiamiamo “Internet” sia una realtà multiforme in continua evoluzione, fatta di reti e di app, di cavi e codici. Che pure ha cambiato la nostra quotidianità: per molti sarebbe oggi impensabile cercare lavoro, un hotel, una pizzeria (o perfino un partner) senza fare riferimento al Web. Certo è che Internet è profondamente intrecciato alle strutture sociali, politiche ed economiche del mondo, e questo porta con sé sfide e opportunità cruciali. In un quadro in cui sono profondamente cambiate le regole del gioco che riguardano i rapporti tra cittadini, imprese e governi.

Dalla ricerca di informazioni alla gestione della privacy, dalla consapevolezza nell’uso dei social alla capacità di cercare lavoro o informazioni politiche, l’alfabetizzazione e la competenza digitale sono oggi importanti quanto sapere leggere e scrivere nelle epoche passate. Da questo punto di vista, da noi si registrano ancora alcune lentezze rispetto ad altri Paesi europei. Ancora nel 2018 in Italia il 25% delle famiglie non aveva accesso a Internet da casa (perché non sa usare il Web: il 58%; o perché non lo considera uno strumento rilevante: il 21%). Dieci anni fa queste percentuali erano, rispettivamente, del 41 e 25%, quasi a suggerire come le competenze aumentino a una velocità che non regge rispetto a quella a cui crescono la centralità e la complessità del Web.

Alla sfida delle disuguaglianze digitali, si aggiunge quella rappresentata da come si articoleranno i fenomeni di hate speech che hanno trovato nel Web un terreno particolarmente fertile soffiando sul fuoco di misoginia, odio politico e risentimento. Una migliore conoscenza del Web offrirebbe ai cittadini un’arma in più per continuare a navigare, imparare a riconoscere le fake news e a destreggiarsi con il fact-checking. L’alfabetizzazione digitale e l’elaborazione di un pensiero critico, fondamentali per la società e la democrazia, vedono in campo sempre di più programmi e politiche specifiche: dal pioniere “Pane e Internet” della regione Emilia-Romagna del 2009 al recente progetto congiunto tra Apple e l’italiana Opge (Osservatorio permanente giovani editori).

Infine, una terza e cruciale sfida per i prossimi anni riguarda la gestione della privacy. Se è chiaro cosa sappiamo fare quando siamo online, meno chiaro è cosa facciamo sapere quando siamo in Rete. Quanto siamo consapevoli del fatto che le nostre pratiche sociali online si trasformano per le grandi aziende come Google, Amazon, Facebook e Apple (Gafa) in dati, nuovo petrolio da cui estrarre valore? Da una semplice ricerca di un ristorante o di un biglietto aereo all’uso dei social, le aziende sfruttano le informazioni su di noi che più o meno consapevolmente concediamo. Molti si ricorderanno la #challenge2019, dove Facebook invitava i propri utenti a postare e comparare due foto a 10 anni di distanza. È stato sollevato il dubbio che non si trattasse di un semplice gioco, ma di un escamotage per accumulare dati su cui allenare l’intelligenza artificiale del software di riconoscimento facciale. Quanti di coloro che hanno partecipato al gioco ne erano consapevoli?

D’altra parte, il mercato dei beni e servizi offerti per Internet e il Web ha visto emergere posizioni di monopolio di grandi aziende – come Amazon, Facebook e Google (la cosiddetta “Trinità”): non solo ci sono implicazioni negative per il principio di concorrenza, ma anche per i consumatori finali. Si pensi che, a scapito della promessa di uno scambio più efficiente e autonomo, oggi il 70% di tutto il traffico Internet avviene sulle piattaforme di Facebook e Google, o da loro controllate, mentre Amazon controlla il 50% dell’e-commerce. Ma le posizioni di monopolio non hanno quasi mai implicazioni positive per l’economia, la società e la politica. Sia dal lato dei lavoratori (le condizioni di lavoro di questi colossi sembrano riportarci alla fase del primo capitalismo liberale, come il recente sciopero dei lavoratori Amazon di Piacenza ha portato all’attenzione pubblica nel novembre del 2018), sia da quello dei consumatori (si pensi all’uso dei termini e delle condizioni di Facebook giudicato da molti spregiudicato oppure allo scandalo Cambridge Analytica).

Per tanti di questi motivi, in diversi Paesi sono allo studio misure di bilanciamento (come la Web tax, l’imposta sui servizi digitali offerti dai colossi di Internet, più volte avanzata anche in Italia) o di smembramento di tali posizioni dominanti con misure antitrust (come le recenti proposte della senatrice democratica americana Elizabeth Warren).

Per continuare ad avere una rete Internet aperta, globale, sicura e affidabile la regolazione pubblica occupa un ruolo decisivo. Innanzitutto, servono strumenti e norme adeguati a inquadrare e tutelare le nuove forme del lavoro (si pensi ai riders delle principali piattaforme di consegna del cibo a domicilio) o di economia (la sharing economy e in particolare il caso di Airbnb offrono molti elementi sul tema della tassazione, della sostenibilità economica o dell’integrazione sociale a livello urbano).

Poi, ci sono temi che sembrano lontani dagli usi quotidiani che facciamo di Internet, ma che sono invece centrali per continuare a fare quello che consideriamo ormai normale. È il caso della guerra in corso negli Usa e in Europa per conservare la “neutralità della Rete” rispetto alle spinte corporative provenienti dalle grandi società. Più in generale, sono necessari investimenti in conoscenza scientifica tanto nelle rinomate scienze dure quanto nelle scienze sociali e umanistiche.

Internet, dunque, non è solo cavi e codici. Il suo futuro dipende da come si intrecciano e bilanciano le forze che regolano la società, il mercato e lo Stato, e cioè dagli equilibri che cittadini, imprese e governi sapranno trovare per orientare in senso positivo, con lo stesso spirito collettivo e libertario che ne ha caratterizzato la nascita e la cultura per l’innovazione che favorirono la partecipazione italiana alla sua sperimentazione in quel lontano 1986.

Spagna: le urne restringono la furia di Vox a minoranza rumorosa

I rappresentanti del partito VOX erano decisi ad entrare in Parlamento abbattendo  la porta e, alla fine, si sono ritrovati a farlo suonando il campanello e chiedendo il permesso.

Lo scrive il quotidiano spagnolo “El Mundo”, precisando che la formazione di estrema destra, guidata da Santiago Abascal, ha ottenuto il 10,3 per cento, pari a circa 2,5 milioni di voti, e conquistato 24 seggi.

La mobilitazione della sinistra e l’alta partecipazione a queste elezioni del 2019, hanno contenuto l’irruzione elettorale di Vox che, nonostante le sue alte aspettative per aver organizzato gli eventi più numerosi dell’intera campagna, ha visto sciogliersi come neve al sole le sue prospettive.

Inoltre il partito non ha fatto altro che ricevere gli stessi voti ottenuti a dicembre in Andalusia .

Tuttavia, se comparati con i 47mila consensi ottenuti alle politiche del 2016, i risultati registrati da Vox sono molto significativi e decretano l’ufficiale debutto della formazione all’interno del blocco nazionale della destra, a pochi punti percentuali dal Partito popolare (Pp) e Ciudadanos (Cs), rispettivamente al 16,7 e al 15,9 per cento.

Un drastico quanto inaspettato crollo dei voti è stato infatti registrato per il Pp che ha perso quasi 4 milioni di voti, crollando da 7,9 milioni a 4,3 milioni di consensi, e passando a 66 eletti dai 137 di Mariano Rajoy.

Il settore più critico del Pp ha accusato della debacle l’eccessiva virata a destra impressa da Casado e la discutibile campagna acquisti del giovane leader che, nonostante la forte opposizione interna, ha deciso di rinunciare a molti degli storici dirigenti del Pp, per ingaggiare esponenti della società civile e volti noti, come giornalisti e toreri.

Il Comune di Modena strizza l’occhio alla mobilità sostenibile

Bike sharing, scooter sharing, parcheggi scambiatori e incentivi sono elementi in crescita nel contesto della mobilità urbana dei diversi comuni italiani. Il Comune di Modena, già forte della passata esperienza, mette in campo la sua ricetta per la sostenibilità  confermando anche quest’anno il contributo per l’acquisto di biciclette a pedalata assistita, dell’equipaggiamento che trasforma le due ruote a pedali in biciclette elettriche, di ciclomotori e motoveicoli a trazione esclusivamente elettrica.

L’incentivo può arrivare fino al 20% del prezzo di costo, Iva inclusa, per un massimo di 200 euro per le bici a pedalata assistita, 100 euro riguardo al kit per l’elettrificazione, e 300 euro per ciclomotori e motoveicoli.

I contributi saranno liquidati secondo l’ordine delle domande pervenute, fino all’esaurimento del fondo disponibile che per quest’anno è pari a 19.700 euro. I cittadini, le organizzazioni private, le imprese e le associazioni, possono richiedere il contributo per un solo veicolo o attrezzatura per l’elettrificazione. La richiesta deve essere presentata entro 90 giorni dalla data di acquisto del mezzo o del kit (farà fede la data riportata sulla fattura o sulla ricevuta fiscale). Non sarà possibile fare domanda per un nuovo contributo finché non siano trascorsi almeno 24 mesi dalla data di erogazione del precedente.

Medici: 1 su 3 si sente poco sicuro

Oltre il 38 per cento degli operatori sanitari si sente poco o per nulla al sicuro e più del 46 per cento dichiara di sentirsi abbastanza o molto preoccupato di subire aggressioni.

Il dato allarmante è la rassegnazione dei medici: il 48 per cento delle vittime di un’aggressione verbale la ritiene un evento abituale e il 12 per cento inevitabile, quasi fosse un rischio professionale, e queste percentuali cambiano poco anche in chi ha subito un’aggressione fisica (42% e 16%).

La violenza si manifesterebbe di più nei presidi territoriali di emergenza o assistenza isolati, o dove è scarsa l’illuminazione e infine se e dove il personale medico-sanitario non è adeguatamente formato a riconoscere e arginare l’aggressività

 

Entro 10 anni la Cina vuole costruire una base di ricerca sulla Luna

Dopo il successo della missione Chang’e-4, la Cina non vuole più fermarsi e annuncia la costruzione di una base di ricerca nel Polo Sud della Luna. Lo ha dichiarato Zhang Kejian, capo dell’agenzia spaziale cinese Cnsa (China National Space Administration), durante il discorso inaugurale della cerimonia di apertura del China’s Space Day a Changsha, capoluogo della provincia di Hunan, nella Cina centrale.

Come ha dichiarato Zhang, l’obiettivo dell’agenzia spaziale è quello di lanciare la prima missione con astronauti diretti verso la stazione lunare entro dieci anni. Nel frattempo, dopo aver raggiunto con successo il lato oscuro della Luna, la Cina vuole continuare con lo studio del satellite terrestre e prevede per la fine del 2019 il completamento della missione Chang’e-5, il cui scopo sarà quello di raccogliere e riportare sulla Terra dei frammenti di superficie lunare, che saranno conservati in nuovi depositi realizzati ad hoc, tra cui quello di Shaoshan, città natale del defunto leader cinese Mao Zedong. Infine, Zhang ha annunciato che la prima sonda cinese diretta verso Marte partirà nel 2020.

 

Roma: La Raggi non si arrende presto da Casalotti a Battistini in funivia

Prende forma il progetto della funivia Casalotti-Battistini, l’infrastruttura per la quale la Sindaca Raggi vorrebbe porre la prima pietra entro fine mandato, dunque per la metà del 2021.
Un tracciato di 3,85 km con 7 stazioni, due attestamenti terminali e cinque intermedie: Battistini, Acquafredda, Montespaccato, Torrevecchia, Campus, Collina delle Muse/GRA e Casalotti/GRA. Tempo di percorrenza poco meno di 18 minuti. Questo quanto emerge dal rendering pubblicato da Roma Metropolitane.

La tipologia di impianto  è quella della cabinovia: un impianto monofune di tipo aereo a movimento continuo che sgancia la cabina dalla fune traente/portante durante l’attraversamento delle stazioni, per consentire il passaggio nelle banchine a una velocità ridotta agevolando così l’imbarco e lo sbarco dei passeggeri.

Le cabine ospiteranno 10 persone, con due file di 5 posti uno di fronte all’altro, i sedili saranno di tipo individuale e reclinabili per ospitare sedie a rotelle, biciclette o passeggini. Per soddisfare la richiesta di trasporto saranno utilizzate circa 200 cabine da 10 posti ognuna.

I moderati: La politica ne può fare a meno? – Parte prima

I Popolari, uniti, devono far sentire la loro voce. A confronto con Castagnetti.

Dopo aver chiarito l’equivoco dovuto alla pubblicazione sul “Domani d’Italia” di un articolo apparso per errore a sua firma, con Pierluigi Castagnetti il colloquio si rianima di ragioni utili per aspetti e contenuti di ordine generale. Siamo abituati alla sincerità e al rispetto reciproco.

Pierluigi difende l’attività dell’Associazione “I Popolari” da lui presieduta con il fermo proposito di ottemperare alla deliberazione dell’ultimo congresso del Ppi, tenutosi a Roma nella primavera del 2002. In effetti, nella sua nota di qualche giorno fa, ha battuto con forza su questo tasto.

Ecco il punto. L’Associazione, a seguito della decisione di sospendere l’attività del partito per contribuire alla nascita della Margherita, aveva il compito di salvaguardare e diffondere il patrimonio ideale del popolarismo. A questo impegno Castagnetti è rimasto indubbiamente fedele. Nessuno intende sollevare obiezioni a riguardo.

Si potrebbe osservare, tuttavia, che il mandato del congresso non si estendeva a ulteriori passaggi, in particolare al superamento della stessa Margherita e alla fondazione del Partito democratico. Se ne è discusso in passato, sia pure con fastidio e un pizzico di negligenza, ma oggi non avrebbe senso riaprire i termini di un ipotetico contenzioso.

A me preme segnalare che le difficoltà riscontrate da Castagnetti, in primis il dilagare di una secolarizzazione politica che rispecchia lo stato del cattolicesimo italiano, laddove la caduta delle vocazioni alla vita consacrata agisce come fattore di rallentamento dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, deve stimolare ancor più tra di noi la ripresa di un confronto serrato sulle responsabilità dei laici tanto nel mondo ecclesiale, quanto in quello civile (e dunque politico).

Che dibattito, allora? Ritengo per parte mia che il Partito democratico non contempli adeguatamente la ricchezza della nostra visione “cristiano democratica e popolare”; ma non per questo, dinanzi alle scelte compiute e alle preferenze consolidate, è lecito che s’imponga di “mettere (o rimettere) ai voti” l’esito di una vicenda politica a dir poco complessa.

Basta semmai riconoscere che l’Associazione conserva integra la sua natura e funzione anche se – parlo per me, ma non solo per me – l’indirizzo democratico e riformatore ha trovato risposte individuali diverse, al fianco ma non dentro il Partito democratico, sempre in aderenza però alla cultura degasperiana del “centro che muove verso sinistra”. L’importante è riprendere il filo di una comune riflessione sul futuro della democrazia e sul modo di viverne, da Popolari autentici, il travaglio in corso.

Oggi si fa più acuta la preoccupazione attorno alla rinascita di una destra radicale, giunta al potere in connubio con il populismo, per cui siamo chiamati innanzi tutto a definire in tempi rapidi la forma di una nuova alleanza democratica. Forse potremmo contribuire a questa opera di ricostruzione aggiornando e affinando la nostra esperienza di cattolici democratici. E le imminenti elezioni europee e amministrative costituiscono un decisivo terreno di verifica.

Se potessimo far sentire la voce dei Popolari, unitariamente, così da mostrare quella sintonia che solo un timore infondato c’impedisce di cogliere, alla pubblica opinione e agli elettori daremmo un forte segnale di vitalità e soprattutto di responsabilità.

In Spagna hanno vinto i Socialisti

In Spagna hanno vinto i Socialisti grazie anche ad un’affluenza record superiore al 75 per cento, 9 punti percentuali in più rispetto alle ultime elezioni.

Al PSOE, il partito di Sánchez, vengono attribuiti 122 seggi, mentre all’altro partito di sinistra, Unidos Podemos, 42 seggi. I due sarebbero vicini alla maggioranza di 176 seggi, anche se probabilmente Sánchez dovrà trovare un accordo anche con i partiti nazionalisti PNV (basco) e/o ERC (indipendentisti catalani).

Il Partito Popolare (PP) otterrebbe 65 seggi, Ciudadanos 57, Vox, il partito di estrema destra anti-immigrati e anti-femminista, 24. Il risultato di Vox in un certo senso è storico, perché è la prima volta dalla fine del franchismo che un partito di estrema destra entra nel Parlamento spagnolo

le prime parole di Pedro Sanchez, leader del Psoe, dopo la vittoria elettorale. sono state: “Il partito socialista ha vinto le elezioni generali in Spagna e con queste ha vinto il futuro. E ha perso il passato”. “Abbiamo mandato un messaggio all’Europa e al resto del mondo. Si può vincere l’autoritarismo e l’involuzione”, ha detto Sanchez. Poi ha aggiunto: “Formeremo un governo pro europeo”.

La folla ha intanto scandito fra l’altro “Sì, se puede” lo slogan che richiama quello che fu di Barack Obama candidato presidente Usa: “Yes, we can”.

 

Papa al Regina Caeli: tocchiamo in chi soffre le piaghe di Gesù

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo di oggi (cfr Gv 20,19-31) narra che il giorno di Pasqua Gesù appare ai suoi discepoli nel Cenacolo, alla sera, portando tre doni: la pace, la gioia, la missione apostolica.

Le prime parole che Egli dice sono: «Pace a voi» (v. 21). Il Risorto reca l’autentica pace, perché mediante il suo sacrificio sulla croce ha realizzato la riconciliazione tra Dio e l’umanità e ha vinto il peccato e la morte. Questa è la pace. I suoi discepoli per primi avevano bisogno di questa pace, perché, dopo la cattura e la condanna a morte del Maestro, erano piombati nello smarrimento e nella paura. Gesù si presenta vivo in mezzo a loro e, mostrando le sue piaghe – Gesù ha voluto conservare le sue piaghe –, nel corpo glorioso, dona la pace come frutto della sua vittoria. Ma quella sera non era presente l’apostolo Tommaso. Informato di questo straordinario avvenimento, egli, incredulo dinanzi alla testimonianza degli altri Apostoli, pretende di verificare di persona la verità di quanto essi affermano. Otto giorni dopo, cioè proprio come oggi, si ripete l’apparizione: Gesù viene incontro all’incredulità di Tommaso, invitandolo a toccare le sue piaghe. Esse costituiscono la fonte della pace, perché sono il segno dell’amore immenso di Gesù che ha sconfitto le forze ostili all’uomo, il peccato, la morte. Lo invita  a toccare le piaghe. È un insegnamento per noi, come se Gesù dicesse a tutti noi: “Se tu non sei in pace, tocca le mie piaghe”.

Toccare le piaghe di Gesù, che sono i tanti problemi, difficoltà, persecuzioni, malattie di tanta gente che soffre. Tu non sei in pace? Va’, va’ a visitare qualcuno che è il simbolo della piaga di Gesù. Tocca la piaga di Gesù. Da quelle piaghe scaturisce la misericordia. Per questo oggi è la domenica della misericordia. Un santo diceva che il corpo di Gesù crocifisso è come un sacco di misericordia, che attraverso le piaghe arriva a tutti noi. Tutti noi abbiamo bisogno della misericordia, lo sappiamo. Avviciniamoci a Gesù e tocchiamo le sue piaghe nei nostri fratelli che soffrono. Le piaghe di Gesù sono un tesoro: da lì esce la misericordia. Siamo coraggiosi e tocchiamo le piaghe di Gesù. Con queste piaghe Lui sta davanti al Padre, le fa vedere al Padre, come se dicesse: “Padre, questo è il prezzo, queste piaghe sono quello che io ho pagato per i miei fratelli”. Con le sue piaghe Gesù intercede davanti al Padre. Dà la misericordia a noi se ci avviciniamo, e intercede per noi. Non dimenticare le piaghe di Gesù.

Il secondo dono che Gesù risorto porta ai discepoli è la gioia. L’evangelista riferisce che «i discepoli gioirono al vedere il Signore» (v. 20). E c’è anche un versetto, nella versione di Luca, che dice che non potevano credere per la gioia. Anche a noi, quando magari è successo qualcosa di incredibile, di bello, viene da dire: “Non ci posso credere, questo non è vero!”. Così erano i discepoli, non potevano credere per la gioia. Questa è la gioia che ci porta Gesù. Se tu sei triste, se tu non sei in pace, guarda Gesù crocifisso, guarda Gesù risorto, guarda le sue piaghe e prendi quella gioia.

E poi, oltre alla pace e alla gioia, Gesù porta in dono ai discepoli anche la missione. Dice loro: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (v. 21). La risurrezione di Gesù è l’inizio di un dinamismo nuovo di amore, capace di trasformare il mondo con la presenza dello Spirito Santo.

In questa seconda domenica di Pasqua, siamo invitati ad accostarci con fede a Cristo, aprendo il nostro cuore alla pace, alla gioia e alla missione. Ma non dimentichiamo le piaghe di Gesù, perché da lì escono la pace, la gioia e la forza per la missione. Affidiamo questa preghiera alla materna intercessione della Vergine Maria, regina del cielo e della terra.


Dopo il Regina Coeli

Cari fratelli e sorelle,

ieri a La Rioja, in Argentina, sono stati proclamati Beati Enrique Angel Angelelli, Vescovo diocesano, Carlos de Dios Murias, francescano conventuale, Gabriel Longueville, sacerdote fidei donum, e Wenceslao Pedernera, catechista, padre di famiglia. Questi martiri della fede sono stati perseguitati per causa della giustizia e della carità evangelica. Il loro esempio e la loro intercessione sostengano in particolare quanti lavorano per una società più giusta e solidale. Uno di loro era francese, era andato come missionario in Argentina. Gli altri tre, argentini. Facciamo un applauso ai nuovi Beati, tutti!

Vi invito ad unirvi alla mia preghiera per i profughi che si trovano nei centri di detenzione in Libia, la cui situazione, già molto grave, è resa ancora più pericolosa dal conflitto in corso. Faccio appello perché specialmente le donne, i bambini e i malati possano essere al più presto evacuati attraverso corridoi umanitari.

E preghiamo anche per quanti hanno perso la vita o hanno subito gravi danni per le recenti alluvioni in Sudafrica. Anche a questi nostri fratelli non manchi la nostra solidarietà e il concreto sostegno della Comunità internazionale.

Saluto tutti voi, fedeli romani e pellegrini dell’Italia e di tanti Paesi, in particolare i fedeli di Tlalnepantla (Messico), i giovani di Valencia, gli studenti di Tricase, gli adolescenti di Arcore e quelli di Carugo; i fedeli di Modugno e di Genova. Un saluto speciale al pellegrinaggio diocesano delle famiglie dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie, come pure ai devoti della Divina Misericordia convenuti oggi nella chiesa di Santo Spirito in Sassia.

Ai nostri fratelli e sorelle delle Chiese Orientali che oggi, secondo il calendario giuliano, celebrano la Santa Pasqua, porgo auguri cordiali. Il Signore risorto doni loro gioia e pace! E un applauso anche per tutti i cattolici e ortodossi orientali, per dire loro: “Buona Pasqua!”.

Infine, ringrazio tutti coloro che in questo periodo mi hanno inviato messaggi di auguri per la Pasqua. Li ricambio di cuore invocando ogni bene per ciascuno e per ogni famiglia.

Buona domenica a tutti! E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci.

Onu: Oltre 40.000 gli sfollati in Libia

E’ salito a 40.100 il numero degli sfollati dall’inizio degli scontri armati a Tripoli e dintorni. Lo scrive l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari umanitari, precisando che le aree a sud di Ain Zara, Khala, Azizya, Qasr Bin Ghashir, Wadi Rabiya e Suani sono largamente inaccessibili agli operatori umanitari a causa dei combattimenti.

Oltre 3mila rifugiati e migranti restano intrappolati in centri di detenzione libici.

Al momento i profughi che sono stati salvati dal centro di detenzione di Qasr bin Ghashir, sono stati spostati nel centro di Zawiya, in una zona più distante da quella dei combattimenti e quindi più sicura. Le persone più deboli, tra cui donne e bambini, sono invece state trasferite al Centro di raccolta e partenza dell’UNHCR a Tripoli, che dall’inizio dei combattimenti ha organizzato quattro trasferimenti di gruppi di migranti.

Comunque la situazione rimane critica, soprattutto visto che nei centri di detenzione della Libia le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno.

 

Mangialo con l’involucro: la nuova pericolosa sfida che spopola tra gli adolescenti

Involucro Challenge: è una preoccupante e pericolosa sfida che sta spopolando in rete tra gli adolescenti, che “per gioco” mangiano gusci dei cibi, bucce di frutta, ma anche scatole di cartone e persino contenitori di plastica. Con rischi enormi per la loro salute.

Il terribile gioco è stato lanciato su Snapchat da Liam Hamm, studentessa al secondo anno presso la McClintock High School in Arizona (Usa) che, invece di mangiare delle sane carote, consuma anche il loro involucro, di plastica. E scrive sotto: “Mangerete il pranzo con o senza il guscio”, invitando i suoi coetanei, di fatto, ad una sfida.

I medici che si dicono preoccupati per la salute dei giovani che partecipano a questa follia social. “Mangiare bucce di banana e gusci di noce non causa danni irreparabili all’organismo, a differenza della plastica che può provocare tumori

 

1° Maggio, vacanze finite per 2 italiani su 3

Con i rientri del fine settimana si sono concluse le vacanze di oltre 2 italiani su 3 (70%) che avevano programmato un viaggio approfittando della fortunata combinazione di ponti nel periodo compreso tra la Pasqua, 25 aprile e il primo maggio. E’ quanto emerge dall’analisi Coldiretti/Ixe’ che evidenzia peraltro che ci sono circa 5 milioni di italiani fortunati che trascorreranno in vacanza il giorno dei lavoratori. Tra i souvenir di viaggio dei turisti italiani nei ponti primaverili – sottolinea la Coldiretti  – il preferito è stato quello alimentare, con i prodotti tipici che sono scelti come ricordo ideale da riportare a casa o regalare ad amici dal 45% dei vacanzieri, largamente davanti a prodotti artigianali e gadget.

Non è un caso che oltre 1/3 della spesa in vacanza in Italia – rileva la Coldiretti – è destinata alla tavola per consumare pasti in ristoranti, pizzerie, trattorie o agriturismi, ma anche per cibo di strada o specialità enogastronomiche in mercati, feste e sagre di Paese.  L’alimentazione non solo è diventata la principale voce del budget turistico ma spesso – sottolinea la Coldiretti – e spesso indirizza le destinazioni. Infatti – precisa la Coldiretti – nella scelta della meta del viaggio il 59% dei turisti italiani valuta come importante o importantissima la presenza di un’offerta enogastronomica e fra le esperienze più apprezzate ci sono, nell’ordine, la visita a un’azienda agricola (39%), di una cantina (31%) e di un caseificio (27%), secondo l’ultimo Rapporto sul turismo enogastronomico 2019.

Il cibo – conclude la Coldiretti – è diventato il vero valore aggiunto della vacanza Made in Italy che può contare sul primato dell’agricoltura più green d’Europa con 297 specialità Dop/Igp riconosciute a livello comunitario e 415 vini Doc/Docg, 5155 prodotti tradizionali regionali censiti lungo la Penisola, la leadership nel biologico con oltre 60mila aziende agricole biologiche, 23mila agriturismi, la decisione di non coltivare organismi geneticamente modificati (Ogm), 40mila aziende agricole impegnare nel custodire semi o piante a rischio di estinzione e il primato della sicurezza alimentare mondiale con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici irregolari (0,4%).

Festival delle religioni: Cacciari, “è solo nel cristianesimo che il filosofo vede un’ancora di salvezza per l’uomo”.

Articolo già pubblicato sulle pagine di Agensir

“Per Kierkegaard l’umanità è formata da singoli individui che vivono il singolo attimo. In questa unione di “singolarità” l’atto di fede è un avvenimento eccezionale che interrompe il continuum del tempo”. È quanto affermato dal filosofo Massimo Cacciari, nella sua lezione dal titolo “L’ora di Kierkegaard”, durante la quarta edizione del Festival delle religioni in corso all’Abbazia di San Miniato al Monte, a Firenze. Cacciari, nel soffermarsi su come filosofia e teologia si intreccino nel pensiero di Søren Kierkegaard, ha ricordato che “è solo nel cristianesimo che il filosofo vede un’ancora di salvezza per l’uomo. E’ attraverso la fede che riesce infatti a risollevarsi dalla sua dimensione di angoscia”.

A margine della sua riflessione, Cacciari si è soffermato su come la religione possa aiutare nella ricerca della verità e della giustizia: “La religione è per chi crede, ciò che indica una via da seguire. Una via che anche chi decide di intraprendere con un percorso razionale, può però raggiungere, attraverso un’onestà intellettuale”. Infine ha parlato del rapporto tra religione e politica: “Non è possibile porre questa relazione in generale, se non dal punto di vista di Kierkegaard, cioè vederne la radicale distinzione, dove per distinzione non si intende astratta separatezza, ma radicale divisione. Perché le categorie del politico sono categorie del generale, dell’etico, mentre quelle del religioso sono del singolo e dell’ora”.

Governo Conte agli sgoccioli

L’idea che si possano definire semplici sceneggiate a fini elettorali le randellate che i due partiti di governo si danno con violenza quanto più ci si avvicina alle elezioni europee del 26 maggio, è sbagliata.

È ormai evidente anche ai ciechi che tanto il rapporto politico tra 5stelle e Lega quanto quello personale tra Di Maio e Salvini si siano consumati e, con essi, si sia dissolto il governo che di fatto ha già superato il patto del cosiddetto “contratto”. In altri tempi (e altre epoche) qualche mese di galleggiamento non sarebbe stato difficile, in questo quadro e sulla base di un’alleanza politica così fragile, oltre che nel contesto di una recessione-stagnazione sfibrante, quattro mesi di “non governo” non potevano, e non potranno, non lasciare un segno profondo nel corpo del Paese, e della sua economia. Come già certificano molte istituzioni internazionali, dall’Fmi alla Bce, anche di fronte allo spread che è tornato tra i 260 e i 270 punti, hanno riconfermato il loro monito sul “rischio Italia”.

Certamente, chi si aspettava che il colpo finale al governo giallo-verde lo assestasse il nuovo pronunciamento di Standard and Poor’s, è rimasto deluso. Per fortuna, aggiungo io, perché se l’agenzia americana avesse tagliato il rating sul nostro debito sovrano, avrebbe con ogni probabilità innescato non solo una nuova tempesta finanziaria italiana, ma anche europea. Probabilmente è per questo che S&P, a un mese dal voto in Europa, non ha voluto prendersi la responsabilità di rischiare di provocare una crisi sistemica.

Di certo non sarà né il “decreto crescita” che mette in campo risorse che non arrivano a mezzo miliardo né il contraddittorio provvedimento cosiddetto “sblocca cantieri”, giudicato insufficiente dagli imprenditori dell’edilizia e delle infrastrutture, a dare la necessaria sferzata all’economia.

Di fatto, il “governo del cambiamento” si è rivelato un “non governo”, molto probabilmente oramai avviato alla fine dei suoi giorni. Ha un’importanza relativa se i ripetuti strappi di questi giorni produrranno la crisi di governo subito e le conseguenti elezioni anticipate dopo le europee per andare al voto ma occorre aver bene a mente che non basterà un nuovo parlamento e un diverso governo ad aprire una nuova stagione repubblicana. Smaltire la sbornia populista, sarà ovviamente necessario ma non sufficiente.

Per il vero cambiamento, ci vorranno forze politiche nuove, che diano vita ad un sistema politico più maturo e che, riprendendo il filo delle riforme costituzionali (il No a quella di Renzi, di cui personalmente non mi pento neppure un po’), non preclude alla possibilità di un intervento serio per modernizzare il vecchio assetto istituzionale. E per questo ci vuole una vera ripartenza attraverso il lavoro di ripensamento della Repubblica con una nuova Assemblea Costituente.

Un percorso complesso e non breve che però presto apparirà indispensabile e che l’Italia avrebbe dovuto iniziare a farlo già nel 1994. A costringerci a imboccare questa strada saranno circostanze pesanti, come la perdurante stasi dell’economia e un pericoloso isolamento in Europa. Ma, meglio tardi che mai.

Pax Christi: “Una legge sulla Legittima difesa esisteva già”

Il coordinatore nazionale di Pax Christi, don Renato Sacco, commenta la legge sulla Legittima difesa.

Una legge di “natura propagandistica” che “alimenta la paura”. “Una legge sulla Legittima difesa esisteva già”.

Questa, invece, è stata presentata e approvata con un messaggio pericoloso: è sempre legittimo sparare”. Il rischio, secondo don Sacco, è che “si sdogana ciò che succede già negli Stati Uniti”, dove è “facile l’accesso al possesso di un’arma”. La conseguenza è che “spesso persone armate entrano in scuole o altri luoghi e sparano”. “Il clima che viviamo è sempre più violento e rancoroso – osserva don Sacco -. Nel linguaggio e nei comportamenti. Sempre più armato, a tutti i livelli”. L’approvazione di questa legge indica, a suo avviso, una risposta.

“All’apparenza di buon senso e comprensione nei confronti di chi viene aggredito. In realtà, alimentiamo guerre e vendiamo armi anche se nessuno ci aggredisce; consideriamo nemici i migranti che ci ‘invadono’, anche se l’invasione non c’è; e pensiamo di essere più sicuri da eventuali aggressioni armandoci sempre di più”.

Papa Francesco dona 500.000 dollari per i migranti in Messico

Papa Francesco ha donato 500.000 dollari per l’assistenza dei migranti in Messico. La somma andrà a sostenere i 27 progetti di 16 diocesi e congregazioni religiose del Paese che fanno fronte agli arrivi dei centroamericani diretti negli Stati Uniti. L’obiettivo è continuare a fornire alloggio, cibo e beni di prima necessità alle popolazioni in fuga e trattenute al confine con gli Usa.

A beneficiare di questi aiuti in dollari saranno 13 progetti che sono stati già approvati per le diocesi di Cuautitlán, Nogales (due), Mazatlán, Querétaro, San Andrés Tuxtla, Nuevo Laredo (due) e Tijuana; così come per le Scalabriniane, la congregazione dei Sacri Cuori di Gesù e Maria e le Sorelle Josefinas. Altri 14 progetti sono in corso di valutazione.

Morti sul lavoro: il Sud è meno sicuro

Nel 2018 circa 641mila lavoratori hanno subito un incidente sul lavoro: l’84,6% di questi sono avvenuti durante l’attività lavorativa, mentre il 15,4% durante il tragitto casa-lavoro. E’ quanto emerge dall’indagine dell’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro secondo cui gli incidenti sono saliti dell’0,9% ma l’aumento degli occupati rende l’incidenza degli infortuni pari a quella del 2017. L’aumento più significativo è quello che riguarda gli incidenti con esito mortale (+10,1% nel 2018), soprattutto quando si utilizzano mezzi di trasporto.

La maglia nera per il numero assoluto di malattie cancerogene imputabili all’attività lavorativa spetta a Taranto, seguita da Torino, Napoli, Milano, Genova e Venezia. Secondo l’Osservatorio nel Tarantino il 70% dei tumori denunciati è correlato al settore metalmeccanico: nel biennio 2017-2018 il maggior numero di infortuni mortali di lavoratori si registra nella provincia di Crotone (6,3 ogni mille) e, a seguire, nelle province di Isernia (5,9‰) e Campobasso (4,7‰).

Con acquisti Consip fino al 63% di risparmi

Significativi risparmi per le amministrazioni locali che, nel 2017, hanno acquistato siringhe e aghi con la Convenzione Consip. Lo rende noto il Mef con un focus sui risparmi economici derivanti dall’utilizzo della Centrale di acquisto nazionale.

Nel confronto con i prezzi fuori convenzione, si è avuta una riduzione del 6% per gli aghi ipodermici per siringa, fino al 49,49% per gli aghi ipodermici per siringa con dispositivo di sicurezza e del 33,47% per gli aghi ipodermici per siringa misure speciali con dispositivo di sicurezza.

La categoria di spesa in cui si raggiunge il massimo del risparmio con Consip è rappresentata dagli aghi a farfalla con dispositivo di sicurezza, utilizzati in modo particolare per i prelievi ematici: si arriva, infatti, ad una riduzione di costo superiore al 63%. Spesa più che dimezzata anche per gli aghi ipodermici per penna.

Grazie alle convenzioni dirette con le pubbliche amministrazioni, si è registrata una riduzione del 36,48%, per le siringhe senza ago luer (cono centrale e cono eccentrico), del 13,28% per siringhe senza ago luerlock per infusione ed irrigazione, del 5,30% per le siringhe con cono catetere. Si raggiunge più della metà della spesa per quanto riguarda le siringhe con ago con meccanismo di sicurezza (cono centrale e cono eccentrico).

Udienza in Vaticano. De Pascale (UPI): “Le Province, Santo Padre, sono cerniera di comunità”.

Qui di seguito il testo del saluto che il Presidente dell’Upi Michele De Pascale ha rivolto al Santo Padre, stamane in Vaticano, nel corso dell’udienza concessa ai rappresentanti delle Province italiane.

Santo Padre,

a nome dell’Unione delle Province d’Italia e di tutti i Presidenti delle Province italiane mi permetta innanzitutto di ringraziarLa per averci accolto nella Sua casa.

L’incontro di oggi è per noi motivo di profonda emozione. non solo per la possibilità che Lei ci ha accordato di ascoltare personalmente il Suo messaggio, ma perché ognuno di noi, qui oggi, sente forte la responsabilità di rappresentare le comunità che amministriamo, e di essere portavoce delle città e dei paesi che, in una tessitura di straordinaria ricchezza, costituiscono il cuore dell’Italia.

Santo Padre, in questa splendida sala non ci sono solo i Presidenti delle Province italiane: qui con noi ci sono le cittadine e i cittadini dell’Italia dei territori, che in questo incontro ritrovano l’orgoglio di essere comunità e che tramite noi si stringono a Lei in un abbraccio di sincero affetto.

Un affetto che abbiamo voluto trasformare in gioia, la gioia del dono che Lei ha esortato a praticare, con una offerta dell’Unione delle Province italiane all’Elemosineria Apostolica, per contribuire a dare sollievo alle sofferenze di quanti vi si rivolgono in cerca di aiuto.

Le Province, Santo Padre, sono cerniera di comunità, una rete capillare che tiene insieme il Paese, connotate da un forte senso di appartenenza dovuto ad un bagaglio di storia, cultura e tradizioni comuni, chiamate per la loro naturale posizione tra le istituzioni più piccole e lo Stato, a costruire ponti e abbattere muri, nell’integrazione e nell’unità di intenti.

Guidare le comunità pone noi, politici impegnati in queste istituzioni locali, a doverci confrontare ogni giorno con scelte che incidono direttamente sulla vita dei cittadini, nella possibilità di ognuno ed ognuna di vedere rispettati i propri diritti e la propria dignità.  Mi permetta a proposito di citarle il Sommo Poeta Dante Alighieri, che nell’ultimo canto del Paradiso, scritto a Ravenna, la mia città, ci consegna un’immagine che racchiude la nostra profonda vocazione per l’Italia: l’essere “di speranza fontana vivace”.

A noi è affidato il compito di accompagnare, sostenere, valorizzare il percorso di formazione della conoscenza degli studenti delle scuole secondarie superiori italiane. A noi spetta la responsabilità di assicurare a questi giovani e ai loro docenti strutture sicure, moderne, in grado di favorire al meglio l’apprendimento e di facilitare le attività scolastiche. In queste scuole ogni giorno 2 milioni e mezzo di giovani entrano per cercare di costruirsi un futuro, nelle grandi città come nei piccoli paesi.

Noi amministratori provinciali abbiamo la responsabilità di riuscire a garantire sempre a tutti la possibilità di muoversi su strade sicure. Le nostre sono le strade dell’uguaglianza, che attraversano e collegano i territori e le famiglie, grazie a cui nessuno può sentirsi isolato.

Così come spetta alle nostre amministrazioni attuare interventi a protezione dell’ambiente, a difesa del suolo, per contrastare il dissesto idrogeologico, consapevoli che il territorio che ci è affidato è ambiente di vita, il luogo in cui si ritrovano «la molteplicità e la varietà» e dove tutto è in relazione, “connesso”.  Una casa comune da proteggere per farne eredità per i nostri figli.

In questa missione, Santo Padre, ci sono da monito prezioso le parole che Lei ha voluto pronunciare in occasione della 52° Giornata della Pace, quando ha ricordato che “la funzione e la responsabilità politica costituiscono una sfida permanente per tutti coloro che ricevono il mandato di servire il proprio Paese, di proteggere quanti vi abitano e di lavorare per porre le condizioni di un avvenire degno e giusto”.  

A noi, amministratori delle Province, è chiesto di assicurare a chi abita, lavora, cresce in questa Italia lontana dalle grandi città, di avere lo stesso diritto e pari dovere di partecipare alla realizzazione del bene della città, della nazione, dell’umanità.  

Un impegno che deve essere vissuto come una vocazione seguendo le parole che ascoltò San Francesco, patrono d’Italia, di cui Lei ha scelto di portare il nome: “Francesco va’, ripara la mia casa, che è in rovina”.  La nostra casa sono le nostre Province, le nostre comunità: questa la missione che noi uomini e donne delle istituzioni siamo chiamati a seguire, al servizio dei cittadini.

De Mita controcorrente: si ricandida a Nusco

Le elezioni si avvicinano a grandi passi. Populisti e sovranisti sono chiamati alla prova del fuoco delle urne. A fatica i partiti dell’opposizione tentano di piegare il consenso della maggioranza. A riguardo, la proposta del Pd di Zingaretti ondeggia pericolosamente tra orgoglio e disperazione.

Insieme alle europee, il 28 maggio si voterà anche per il rinnovo di 2850 amministrazioni locali, compresi i Comuni siciliani di questa domenica. Oggi, intanto, alla chiusura delle operazioni di deposito delle liste, avremo a Nusco la novità della ricandidatura di Ciriaco De Mita.

È una novità, sì, perché sembrava ormai consolidata, nei mesi trascorsi, la preferenza del leader storico della Dc a respingere la tentazione di un secondo mandato a Sindaco del Comune irpino.

De Mita è un combattente e dunque non rinuncia a sottoporsi al giudizio dell’elettorato. Solo questo, in considerazione di un’età che reca impresso lo stigma profano del riposo dagli affanni della vita, merita di per sé e a prescindere da tutto il rispetto della pubblica opinione.

La politica non è un contratto. Piuttosto, senza scomodare Max Weber, essa si costituisce come vocazione e dovere personale. Qui sta il punto, diremmo in effetti morale, prima ancora che politico.

De Mita non ha bisogno di fare il Sindaco per dimostrare ancora di essere De Mita. Eppure accetta una sfida poco agevole, dai contorni non proprio scontati.

Compie un gesto che si nutre di attenzione e di premura per la propria terra – l’Irpinia contaminata, essa stessa, dal morbo populista – andando controcorrente a dispetto delle circostanze e delle convenienze.

Lo era al tempo dei suoi anni verdi e come si vede lo è ancora oggi: un politico anomalo e, appunto, controcorrente. Mostra con ciò il tratto inconfondibile di una giovinezza di spirito e di temperamento. Non è poco, se pensiamo alla sovrabbondanza di rassegnazione che preme sull’Italia.

Centro sinistra, basta con la vocazione maggioritaria

Dunque, per costruire una alternativa politica e di governo all’attuale maggioranza o al futuro centro destra serve una coalizione plurale, credibile, riformista e realmente rappresentativa. Ma, soprattutto, serve una alleanza politica plurale. Ed è su questo versante che continuano ad esserci ancora troppe zone d’ombra e troppi equivoci. E’ appena sufficiente verificare come sono state costruite le varie coalizioni nelle regioni e negli enti locali riconducibili al centro sinistra per rendersi conto di una anomalia politica che continua a persistere tenacemente.

Ovvero, il Pd non ha ancora archiviato del tutto la cosiddetta “vocazione maggioritaria” del partito, che invece andrebbe consegnata al più presto alla storia. Un partito che viaggia tra il 15 e il 20% dei consensi a seconda delle varie realtà locali, non può più permettersi il lusso di distribuire le carte per dar vita ad una coalizione realmente alternativa rispetto agli avversari che si vuole combattere. Perché alla “vocazione maggioritaria” si è sostituita una singolare prassi.

Quella che prevede che il partito di maggioranza relativa, cioè appunto il Pd, decide a tavolino quali sono le formazioni che potenzialmente possono ricoprire le rispettive aree di sinistra, di destra e di centro della medesima alleanza. Insomma, l’eterno vizio della sinistra storica di essere attorniata dai cosiddetti “nani” politici che hanno il solo compito di obbedire alle indicazioni dell’azionista di maggioranza da un lato e di attendere, con pazienza e speranza dall’altro, di ottenere qualche briciola. Cioè qualche candidatura. Ora, e’ evidente a tutti che una simile impostazione non potrà per lungo tempo essere realmente competitiva sia rispetto al centro destra e sia verso altre formazioni politiche. Per una semplice ragione: una alleanza e’ credibile e competitiva solo quando rappresenta e, di conseguenza, intercetta, pezzi di società reali e interessi sociali fortemente insediati nella societa. Perché l’Ulivo, checche’ se ne dica e anche se la storia non si ripete meccanicamente, era realmente una alleanza politica, culturale e programmatica plurale e rappresentativa della società italiana in quel particolare momento storico.

Una condizione che, da molti anni, ormai è tramontata e che stenta a ritrovare una vera cittadinanza politica all’interno della potenziale alleanza di centro sinistra. Ma, per ricostruire una vera alleanza politica, plurale e rappresentativa servono almeno 3 condizioni: riconoscere sino in fondo il valore del pluralismo; ridare voce e visibilità alle culture politiche fondative del pensiero riformista italiano e, in ultimo, far sì che ogni cultura politica si strutturi e si organizzai in una forza politica vera e non finta. Ovvero, che risponda a criteri oggettivi e radicati nella società e che, come ovvio, non sia il frutto di una pianificazione decisa dall’alto dall’azionista di maggioranza. Solo così sarà possibile rendere competitivo il futuro centro sinistra.

Certo, il voto del 26 maggio non è affatto una variabile indipendente al riguardo. Dal peso elettorale dei singoli partiti dipenderà anche il processo di ristrutturazione dell’intero sistema politico italiano. E, in ultimo ma non per ordine di importanza, la necessita’ ormai improrogabile all’interno della futura coalizione alternativa al centro destra di dar vita ad un soggetto/partito/movimento di centro plurale che sappia raccogliere la miglior tradizione democratica e riformista del nostro paese. Senza questo rinnovato protagonismo politico, culturale e programmatico di un “centro democratico e riformista” l’ombra della vocazione maggioritaria e’ destinata a condizionare ancora il futuro e lo sviluppo del centro sinistra italiano nei prossimi anni.

Biden è l’America di Frank Capra: non c’è più, ma potrebbe tornare

Articolo già pubblicato dal sito internet formiche.net a firma di  Giampiero Gramaglia

Tracciamo l’identikit del perfetto anti-Trump democratico per Usa 2020: uomo bianco – Biden è ok -, con presa sulle minoranze e sulle donne – Biden è out -; moderato – ok -, ma che piace a sinistra – out -; esperto ed affidabile – ok -, ma non riconducibile all’establishment politico e istituzionale – out -.

Joe Biden, ex vice-presidente di Barack Obama per due mandati, ed ex senatore del Maryland per 36 anni, eletto la prima volta nel 1972 e rieletto a cinque riprese, somma in egual misura qualità e difetti dell’ideale anti-Trump. Forse pure per questo, e forse sottovalutandolo un po’, il magnate presidente ha dato un ironico e malizioso benvenuto nella corsa alla Casa Bianca allo ‘Sleepy Joe’, cioè a Joe ‘l’addormentato’, pregustando, magari, un dibattito grinta contro aplomb, aggressività contro ‘politically correct’. Donald Trump considera Joe Biden un avversario facile o, almeno, abbordabile, se dovesse ottenere la nomination democratica. Scrive il magnate, con la sgarberia consueta: “Spero che tu abbia l’intelligenza, a lungo in dubbio, d’intraprendere una campagna di successo nelle primarie … Se ce la farai, ci vedremo ai nastri di partenza!”, cioè all’inizio della campagna elettorale per Usa 2020, che partirà dopo le convention estive dei due maggiori partiti e andrà fino all’Election Day del 3 novembre.

Biden è al terzo tentativo: provò a ottenere la nomination nel 1988 e poi di nuovo nel 2008, ma entrambe le volte non andò lontano. Nel 2004, rifiutò la designazione a vice di John Kerry. Nel 2016, fu a lungo il convitato di pietra del match tra Hillary Clinton e Bernie Sanders, ma alla fine rimase a guardare (appoggiando Hillary): gli era da poco morto il figlio Beau, vittima di un cancro al cervello.

I primi sondaggi mostrano che, ‘addormentato’ o meno, Biden è in fuga nella pletora di aspiranti alla nomination democratica ed è pure davanti a Trump in un testa a testa presidenziale. Secondo l’ultima rilevamento di Politico – Morning Consult, l’ex vice di Obama è 8 punti avanti il magnate, con il 42% delle preferenze contro il 34%. E secondo la media dei sondaggi del sito specializzato RealClearPolitics, Biden ha 6,3 punti di vantaggio su Bernie Sanders, finora il democratico più quotato. Ma sono dati ‘drogati’ da due fattori: l’eco dell’annuncio nei media americani e la riconoscibilità sia di Biden che di Sanders a livello nazionale, che nessun altro aspirante alla nomination finora ha. Biden, 77 anni, e Sanders, 78 anni, sono i più anziani, e i più ‘consumati’, del lotto democratico: entrambi sarebbero il più anziano presidente mai eletto alla Casa Bianca, battendo Ronald Reagan che aveva 73 anni nel 1984, quando ottenne il secondo mandato – Trump non è un giovanotto: lui avrà 74 anni, nel 2020 -.

Di Biden, scrive su AffarInternazionali.it Lucio Martino, analista ed esperto di politica e istituzioni degli Stati Uniti: “Biden propone una narrativa apparentemente accattivante: il rifiuto dell’odierna polarizzazione politica. E se i democratici non si innamorano di una nuova speranza, potrebbero finire con il sostenerlo. Però la nostalgia di Biden per un approccio bipartisan pare fuori dal mondo. L’ex vice di Obama gode delle simpatie dei quadri di partito e di buona parte dell’elettorato nero, ma la sua visione politica è molto lontana da quella della sinistra e ha scarsa presa sulle donne e sulle altre minoranze”.

Nel video in cui annuncia di scendere in lizza, Biden non spreca tempo a presentarsi – gli americani lo conoscono – e non usa effetti speciali: esalta i valori dell’America, con fotogrammi dello sbarco in Normandia e di Martin Luther King, e denuncia il rischio che Trump rappresenta per essi, mentre scorrono immagini dei cortei di suprematisti bianchi a Charlottesville nell’agosto 2017, che sfociarono in scontri letali. L’ex vice di Obama dice: “E’ una battaglia per l’anima di questo Paese … I valori fondamentali di questa nazione, il nostro posto nel mondo, la nostra stessa democrazia, tutto ciò che fa l’America è in gioco”.

‘Sleepy’ Joe rappresenta, forse, un’America che oggi non c’è, ma che potrebbe tornare e che molti, in Europa, ma anche in America, sperino che torni presto: l’America campione dei diritti umani e delle buone cause, l’America dei film di John Ford e di Frank Capra, l’America di Apollo XIII e d’Independence Day. Un’America di persone per bene: ’a decent man’, vulnerabile, però, all’aggressività di un Trump e anche dei suoi rivali democratici che giocano a spararsi sui piedi l’un l’altro prima di pensare a ‘mirare al cuore’ dell’avversario repubblicano.

Così, Biden ha già dovuto difendersi – e lo ha fatto male – dalle accuse di una politica democratica che lui nel 2014 baciò – castamente, sulla nuca – senza il suo consenso. La donna, Lucy Flores, 40 anni, ex deputata del Nevada, allora candidata vicegovernatore dello Stato, oggi militante per molte buone cause, ha raccontato a una rivista e ha poi ripetuto d’essersi sentita “a disagio, disgustata e confusa” quando Biden le si avvicinò da dietro, le posò le mani sulle spalle e la baciò sulla nuca. Accadde a un comizio dove l’allora vice-presidente sosteneva la sua candidatura a vice-governatore – Lucy poi perse le elezioni -. “In tanti anni di campagne elettorali e di vita pubblica non ho mai agito in maniera inopportuna”, assicura ora Biden alla stampa. Ma, conscio dello spirito dei tempi, promette di andare a fondo sulle affermazioni della Flores, anche se non ha memoria dell’episodio: “In tanti anni, non si contano le strette di mano, gli abbracci, le espressioni di affetto e di sostegno che ho dato – spiega -. E non è mai stata mia intenzione mancare di rispetto a qualcuno”.

A favore di Biden intervengono donne che lo ebbero amico o collega o capo. Ma altre fanno riemergere episodi e imbarazzi di un lontano passato. Punture di spillo, azioni di disturbo, che, se questa non fosse l’America di #MeToo, lascerebbero il tempo che trovano, tanto la colpa di Biden appare lieve, ammesso che sia colpa. Lo strano è che, se qualcuno dicesse una cosa del genere di Trump, nessuno gli baderebbe, ché al magnate sono stati abbonati dai suoi elettori atteggiamenti e comportamenti ben più pesanti.

Invece, i rivali democratici di Uncle Joe vogliono dire la loro, Sanders per primo – la Flores, nel 2016, stava con lui contro Hillary Clinton – e poi le senatrici Warren e Klobuchar e altri che chiedono che sia fatta piena luce (ma su cosa?).

Moderato, ma profondamente democratico; poco carismatico, ma molto esperto; non un leader, ma una persona affidabile, Biden è il ventesimo candidato alla nomination democratica: oltre a lui e Sanders, ci sono, in ordine alfabetico, Cory Booker, Pete Buttigieg, Julian Castro, John Delaney, Tulsi Gabbard, Kirsten Gillebrand, Kamara Harris, John Hickenlooper, Jay Inslee, Amy Klobuchar, Wayne Messam, Seth Multon, Beto O’Rourke, Tim Ryan, Eric Swalwell, Elizabeth Warren, Marianne Williamson, Andrew Young. E l’elenco potrebbe ancora allungarsi, perché c’è gente che ancora ci pensa. Fra i repubblicani, Trump ha per ora un solo avversario: William Weld, un libertario che non lo preoccupa.

Se non avete mai sentito nominare buona parte dei candidati democratici, non fatevi crucci: neppure gli americani li conoscono. Tant’è vero che pochi, finora, superano i criteri – un mix tra sondaggi e fondi – fissati dal Partito democratico per avere accesso ai dibattiti d’autunno prima delle primarie: di sicuro, ce la fanno la Warren, che completa il terzetto degli ‘stagionati’, l’ex deputato O’Rourke, tre fra senatori e senatrici – Booker, la Harris, la Klobuchar -, l’ex governatore del Colorado Hickenlooper e l’outsider Buttigieg, sindaco gay di South Bend nell’Indiana, fenomeno mediatico di questa fase della campagna. Frank Bruni scrive, sul New York Times, che non sarebbe sorpreso di vederlo “nei final four”, negli ultimi quattro, la prossima primavera.

Gregori: ascolto e confronto per ridare centralità alla città di Roma

Su Roma si deve avere l’obiettivo di rifondare il modello di lavoro, rivoluzionando al contempo il modo di fare politica. Il principio da cui si deve partire è semplice: chi amministra una città, deve conoscerne a fondo ogni aspetto. Oggi viviamo troppo spesso di slogan.

Si deve partire dalla promozione e dal supporto dell’elaborazione di ricerche, analisi, studi e proposte condivise con i maggiori attori economici, sociali e politici della capitale, per avere una visione della città completa e più vicina alle reali esigenze dei cittadini. Non esiste buona politica senza una buona preparazione. Ci sono amministratori, anche all’opposizione ed al governo di alcuni Municipi, oltre a tante realtà civiche, dell’associazionismo, del mondo imprenditoriale e universitario, che hanno le competenze giuste per aiutarci a ripartire.

Dobbiamo mettere a sistema queste energie, ovvero metterci tutti al servizio, con idee e progetti vincenti. Roma prima di tutto. E costruire insieme una nuova visione della nostra città, che torni ad attrarre persone e imprese da tutto il mondo. Parliamo del salva Roma, oppure di come Roma può tornare centrale e salvare il nostro Paese?

Si deve partire dall’ascolto e dal confronto, per arrivare alla profonda conoscenza di cosa è importante per la città, punto di partenza per riprogettare, ed offrire al contempo una vera idea di futuro. Per il miglioramento dell’amministrazione capitolina, con le sue tante specificità, bisogna essere in grado di offrire una gestione della cosa pubblica adeguatamente modulata.

Questa deve essere interpretata e sostenuta da parte dei componenti degli organi più prossimi ai territori. Per questo i Municipi di Roma vanno resi maggiormente partecipi nella vita amministrativa della città, troppo spesso in ostaggio dei soffocanti limiti posti alle loro ristrette competenze. Gli enti municipali hanno un costo elevato, e ricoprono un numero limitato di competenze. Bisogna invece che questi ultimi possano incidere e siano messi nelle condizioni di poter fare, prima di ogni cosa.

Per questo a Roma serve una riforma amministrativa e occorrono più poteri e più risorse. Per questo Roma deve essere trattata come la vera Capitale europea, a livello nazionale, dando la giusta importanza al suo rilancio, affinché possa incidere e rigenerare l’intero paese, tornado ad essere la vetrina d’Europa.

La Bibbia scuola di empatia

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Gabriele Palasciano

La tela di Richard Bagguley Crucifixion at Oxford circus 2, realizzata nel 2010, è forse l’opera d’arte contemporanea che esprime al meglio almeno tre delle possibili reazioni delle donne e degli uomini di tutti i tempi di fronte al mistero cristiano della presenza, nonché della manifestazione, di Dio in Gesù crocifisso. Si tratta dello scandalo, della stoltezza e dell’indifferenza di una folla il cui flusso eracliteo sembra travolgere rispettivamente il passato, il presente e il futuro della fede cristiana. Le prime due reazioni sono “storiche”, ossia ben note perché documentate nel Nuovo Testamento. Paolo di Tarso affermava che predicare Cristo crocifisso significa annunciare uno scandalo e una stoltezza. Difatti, per i giudei, non solo è «maledetto colui che è appeso al palo» (Deuteronomio 21,23), ma l’idea stessa di un Messia crocifisso contraddiceva le proprie rappresentazioni centrate su un liberatore glorioso, potente e pieno di successi militari e politici. Lo skàndalon consisteva proprio in un ostacolo che fa cadere: non è possibile credere in un Messia rigettato dagli uomini, che ha subìto il supplizio della croce — simbolo per antonomasia dell’oppressore romano — che inoltre è stato anche rigettato da Dio. Nel mondo greco-romano del i secolo dell’era volgare, la stupidità di una fede in un uomo crocifisso era chiara: una tale fine lo allontanava dall’ingresso trionfale nel pantheon delle divinità.

Nessuna apoteosi era possibile, dato che questa costituiva il coronamento di una carriera di per sé illustre, ma solo una considerazione negativa: Gesù era un fallito a motivo della sua morte così crudele (si pensi a quanto scrivevano sulla crocifissione Cicerone, Tacito, Seneca e Giuseppe Flavio), mentre la fede dei primi cristiani nel Messia crocifisso appariva come una forma di «superstizione irragionevole e senza misura» (Plinio il Giovane, Epistole, x, 96, 4-8). Riguardo alla terza forma di reazione, l’indifferenza è diffusa. Per molti contemporanei, la morte di Cristo è inglobata nella banalità dello scorrere della vita, un ricordo che al massimo, per quanto triste, si evoca con dispiacere, ma che non esercita una forza di trasformazione sul mondo. Ritrovare il valore della crocifissione di Cristo è un compito arduo per il pensiero e la fede dei cristiani. Il teologo cattolico Kurt Appel, docente di teologia fondamentale all’università di Vienna, illustra la specificità e la potenza del messaggio del Crocifisso per la nostra epoca.

In passato, l’interpretazione teologica della croce di Gesù di Nazareth, il Cristo di Dio, con il suo carico d’ignominia, sofferenza e morte — che costituiscono poi i simboli delle diverse realtà e strutture di schiavitù, angoscia e annichilimento dell’essere umano di tutti i tempi — si iscriveva nella prospettiva di una visione religiosa del mondo e della conoscenza di sé. Professor Appel, questa “lettura” le sembra ancora valida? Oppure, nel caso in cui ritenesse che abbia perso valore, la ritiene riproponibile?

La croce è e rimane un simbolo estremamente potente che supera la nostra immaginazione. La morte sulla croce non era solo collegata a una tremenda sofferenza fisica, ma anche a segni di un’estrema umiliazione. Coloro che venivano crocifissi erano nudi, e questa nudità pubblicamente esibita era, in Oriente, la peggiore ingiuria che si potesse arrecare a qualcuno, addirittura peggiore della stessa morte fisica. Il fatto che il Messia di Dio muoia sulla croce, nudo e perciò stesso abbandonato fin nel più intimo alle mani dell’uomo e alle bestie (avvoltoi, insetti, e così via); che l’Inviato e il Figlio di Dio venga umiliato al massimo grado dall’uomo; e che Dio, a sua volta, non punisca questa umiliazione con l’annientamento dell’uomo, ecco: tutto questo è ancora oggi una delle più grandi provocazioni offerte dalla presenza del cristianesimo.

Sta di fatto che, nel mondo attuale e postmoderno, sempre più contrassegnato dalla rivendicazione dell’autonomia e dell’emancipazione dell’individuo, certe categorie teologiche, soprattutto quella di un “Dio crocifisso” o di un “Dio redentore”, rischiano di perdere — o hanno addirittura già perso — il loro significato.

Nella nostra società, il simbolo della croce subisce una prima, importante svalutazione proprio da coloro che vogliono ridurlo a mera simbolica culturale. Le croci appese nelle aule scolastiche, esibite negli spazi pubblici o utilizzate come ornamento personale: in tutto ciò si può senz’altro osservare la dichiarazione o il segno distintivo di una storia peculiare, qualcosa cioè che inerisce alla confessione delle radici cristiane costitutive della nostra società. Allo stesso tempo, tuttavia, una tale onnipresenza non può non significare la banalizzazione del suo senso. Ciò accade in particolare quando, ad essere dimenticato, è esattamente lo sfondo reale della croce: la croce è — come ha ben espresso il vescovo brasiliano Dom Orlando Dotti, in occasione di una riunione di senza terra e di contadini espropriati — un simbolo che si pone di traverso. Esso, infatti, relativizza ogni pretesa e ogni forma umana di potere: queste vengono intese dal punto di vista individuale o sul piano socio-economico. Il simbolo della croce mostra pertanto, nel senso più autentico dell’espressione, che Dio non vive affatto nei palazzi del potere, sia esso di ordine politico, economico o persino religioso. Invece, egli se ne sta in compagnia di coloro che soffrono, camminando assieme a tutti gli oppressi della storia.

Ci si dovrebbe chiedere allora qual è il senso della croce di Gesù per la vita attuale, nonché concreta, del cristiano.

Senza alcun dubbio, Gesù ha vissuto la misericordia di Dio nella sua vita e in lui si rende incontrabile, in maniera esperienziale, la gloria di Dio che risiede nel suo nome biblico jhwh. Esattamente in questa vita di Gesù, Dio si è fatto prossimo, mai più di così. L’uomo, tuttavia, non ha sopportato una simile vicinanza. E precisamente per questo motivo: perché noi esseri umani siamo così tanto abituati a nasconderci dietro svariate maschere, a blindarci attraverso il possesso di beni materiali, con le convenzioni e lo status sociale. E tutto questo al solo scopo di non lasciare che la vita, nella sua propria vulnerabilità ed esposizione, si avvicini a noi. In Gesù, Dio ci redime, ovvero ci scioglie da tutti i nostri travestimenti, mascheramenti, inganni; cioè si espone senza riserve, facendo letteralmente comunità con coloro che si lasciano toccare dalla vita, mostrando misericordia e compassione.

Esiste un simbolismo proprio della croce, il quale possiede anche una forte carica spirituale ed etica.

Sin dalle prime generazioni di cristiani, la croce si lasciò rappresentare quale albero della vita, esprimendo con questo l’estremo di un paradosso. Tuttavia, a una considerazione più profonda, emerge la verità di questo simbolismo: essere un soggetto significa essere-in-connessione con gli altri. Il nostro organo più importante allora si rivela essere la pelle: noi cioè viviamo internamente ad essa e ci possiamo connettere con l’ambiente. Infine, attraverso di essa siamo anche radicalmente vulnerabili. Patire (pàthein) sulla croce significa essere connessi con la vita, capace di creare affetti e di soffrire. In un certo qual modo, la croce è diventata la “pelle di Dio”, avvolgendo e accogliendo tutti i tempi e gli spazi, indossandoli come forme di affettività. Sulla croce di Gesù, Dio ha rivelato una volta per tutte che egli è affezione. In ultimo, se la Chiesa è il corpo di Cristo, e dunque anche il sacramento per il mondo, non potrà non essere lo spazio presso il quale ogni essere vivente ha modo di toccarsi e di percepirsi in reciprocità.

Da questo luogo di sofferenza qual è la croce, quali prospettive di liberazione crede possano aprirsi per l’umanità?

La croce significa liberazione dalla nostra corazza emotiva, dall’indifferenza nei confronti dell’Altro. Oltre a ciò, nella Bibbia si trova un’ulteriore considerazione, davvero splendida: nel giudaismo, infatti, il Santo dei Santi era identificato con il Tempio e più specificatamente con l’arca dell’Alleanza, il cui propiziatorio (coperchio) coincideva con lo stesso trono di Dio, laddove il mondo terrestre e quello celeste si toccavano. In questo luogo sacro, il sommo sacerdote era chiamato a celebrare solo una volta nel corso dell’anno il cosiddetto rito di espiazione, mediante il quale Israele riceveva il perdono dei propri peccati. Qui alcune gocce di sangue, simbolizzanti la vita di Israele, venivano spruzzate sul propiziatorio. Il popolo di Israele offriva così simbolicamente la sua vecchia vita segnata dalla colpa, ricevendo nuova vita mediante lo zelo di questo gesto. Sulla scorta dell’esperienza della risurrezione, i cristiani hanno interpretato la croce quale nuovo tempio, ossia luogo della vita nuova e dimora di Dio. Gesù offre la sua vita per l’intero creato, ricevendo vita nuova in rappresentanza di tutta la creazione. Questa nuova vita è contrassegnata da una prossimità, intima e corporea, di Dio alla vulnerabilità della sua creazione.

Sulla base del legame tra Antico e Nuovo Testamento, quali altri simbolismi evoca la croce?

La profezia dell’Antico Testamento contemplava l’attesa del giorno in cui, alla fine dei tempi, saranno riunite tutte le nazioni della terra presso il tempio di Gerusalemme, per celebrare la presenza di Dio e la sua riconciliazione. Nel Nuovo Testamento, la croce costituisce ormai il luogo presso cui la globalità della creazione incontra, nella sua vulnerabilità, la propria riunificazione dentro l’apertura e la dedizione di Gesù. La croce del Messia è pertanto simbolo di salvezza, perché è esattamente il luogo in cui il mondo intero è toccato nella reciprocità del contatto tra Gesù e il Padre suo. Dio, cioè, si è fatto più vicino a noi di quanto siamo in grado di avvicinarci a noi stessi. In altre parole, la croce è il luogo presso cui alla brutalità e al potere fisico dell’essere umano viene a rispondere la tenerezza divina.

Soffermiamoci su alcune considerazioni di carattere storico e teologico. Iniziamo con la storia. La croce di Gesù di Nazareth non è riducibile a un errore giuridico, tantomeno a una condanna di ordine politico. Ciò che sembra caratterizzarla più profondamente è la realtà del “disprezzo” religioso, politico e — aggiungerei — teologico. Dal punto di vista religioso, Gesù è accusato di essere un bestemmiatore della Torah, mentre dal punto di vista politico è considerato un sovversivo e ribelle contro il potere dell’occupante romano. Da un’angolatura teologica, cosa vuol dire che Gesù Cristo è morto come un bestemmiatore e un rivoluzionario politico?

Gesù venne crocifisso a motivo della messa in questione, attraverso la sua vita e il suo insegnamento, del centro sacrale del mondo di allora, ovvero il tempio di Gerusalemme. La gloria di Dio aveva infatti lasciato il tempio, come Ezechiele aveva già visto in una delle sue visioni. Nella persona di Gesù aveva finalmente trovato una nuova dimora ciò che si rivelava dalla peculiarità del suo insegnamento e dal suo operare: nelle guarigioni di storpi, nel suo volgersi alla cura dei peccatori e dei prigionieri di ogni sorta. Il regno di Dio, inaugurato con l’avvento di Gesù — ossia il mondo in cui Dio si è fatto sperimentare con un’intensità del tutto nuova — ha messo in questione, nel suo più intimo, lo stesso impero romano. Non si può non cogliere la sottile, profonda ironia nella esemplarità di quel momento mostratoci dalla narrazione giovannea: nel fronteggiare il governatore Pilato, Gesù, il prigioniero, fa capire che il suo regno non appartiene all’ordine di questo mondo. Qui Gesù non sta facendo riferimento a un aldilà lontano; egli piuttosto attesta di appartenere a un mondo che ha principi diversi rispetto a quelli di Pilato. L’essenza del mondo di Roma si identifica, infatti, con la forma della Pax Romana e il corrispondente apparato militare ed economico, mentre la venuta del Messia rende inoperoso esattamente il dominio di quella violenza, portandone allo scoperto l’intrinseca insensatezza. In questo modo possono così emergere nuove forme di amicizia e di solidarietà e nuovi rapporti di fiducia, che sono più affidati a Dio che ai dominatori di questo mondo. Gesù non doveva essere un guerrigliero per essere ritenuto un vero rivoluzionario: fondamentale è stata infatti la sua messa in discussione non violenta del potere sacerdotale e governamentale. I potenti di allora hanno almeno compreso la forza dirompente scaturita dalla vita e dall’annuncio di Gesù; a differenza di teologi e cristiani contemporanei che non sono più in grado di riconoscere la sfida socio-politica e religiosa che Gesù suscita.

Che cosa distingue la croce di Gesù dalle altre innumerevoli croci issate dai romani e subite dagli uomini dimenticati e sconosciuti della storia?

Da una parte, la croce di Gesù si colloca in una storia interminabile di sofferenza umana. Dall’altra parte, essa differisce qualitativamente dalle altre per il fatto che la risurrezione di Gesù è venuta ad attestare l’insuperabile approssimarsi di Dio a Gesù e, mediante Gesù, all’intero creato rigenerando la vita nuova. Quindi solo in virtù di Gesù la croce ha realmente un’efficacia redentiva. In un altro modo, ossia senza Gesù, essa rimarrebbe circoscritta ad esprimere unicamente la violenza dell’uomo e la conseguente sofferenza.

Dal piano storico, passiamo ora a quello teologico. Il “disprezzo” da cui è segnata la croce di Gesù può essere letto anche come un abbandono da parte di Dio?

Dio non lascia da solo Gesù sulla croce. Si ricordi che Gesù, già crocifisso, prega il Salmo 22, dove Dio si rende esperibile nella situazione di profonda tribolazione e di abbandono; si noti, per inciso, come il Vangelo di Marco ne citi l’inizio, mentre quello di Giovanni la fine. Il Crocifisso diviene così un vero e proprio spazio di risonanza della presenza paterna. Il paradosso di Dio consiste proprio nel suo essere presente persino nelle più inaccessibili profondità e nelle più estreme situazioni di indigenza che contrassegnano l’esistenza umana; ossia proprio quando all’uomo, a causa di questa distanza, Dio risulta non più invocabile né rappresentabile. Nella sofferenza — così come in esperienze intense di gioia e di amore — vanno in frantumi tutte quelle immagini e concezioni di sé in cui l’essere umano ordinariamente può concepirsi. Certo, l’uomo può essere distrutto dalla sofferenza, ma da un punto di vista biblico prende consistenza la speranza che Dio sarà stato vicino all’uomo perfino in questo suo andare in frantumi, soccombere, naufragare. Precisamente in ciò si rivela l’onnipotenza di Dio: l’essere, anzi l’esser-ci per noi, proprio lì dove l’essere umano è giunto alla fine di ogni sua possibilità.

Dinanzi a un Dio che accetta di essere accanto alle sue creature, che accetta di soffrire con e per l’essere umano, c’è da chiedersi cosa resta della categoria di onnipotenza.

L’espressione intensiva e più pregnante dell’onnipotenza di Dio risiede nella sua capacità di trasformare un luogo di morte in un luogo di vita. La consistenza — se così si può dire — del vero potere di Dio si mostra pertanto nella sua forza di amore, in virtù della quale si rende possibile anche un profondo riconoscimento.

Il teologo protestante Jürgen Moltmann ha raccontato di aver scritto «Der gekreuzigte Gott» («Il Dio crocifisso», Queriniana, 1973) in risposta al dramma di Auschwitz e all’orrore, da lui stesso sperimentato, scaturito dalla Seconda Guerra mondiale. La grande domanda che si pone è quella classica della teodicea. Quale contributo offre la teologia della croce al problema che pone il male nel mondo?

Il pericolo della questione della teodicea — ovvero la possibilità dell’esistenza di un Dio giusto a fronte della sofferenza del mondo — consiste nel tentativo di volersi immunizzare di fronte alla sofferenza e alle tante domande esistenziali formulate dall’uomo. Credo che la prospettiva biblica non rappresenti un tentativo di risposta alla domanda della teodicea di impianto scolastico. Essa si rivolge piuttosto al lettore come un caloroso invito a percepire la vulnerabilità della creazione, a cogliere quella bellezza che risiede proprio in questa fragilità. La Bibbia è una vera e propria scuola di empatia, che ci rivela la bellezza del mondo, nella misura in cui impariamo a entrare in questa empatia.

Quale nuova visione antropologica e del tempo porta con sé il Crocifisso-Risorto?

Paolo ha compreso in modo straordinario il messaggio della croce, allorché indica Dio come colui che sceglie la debolezza di questo mondo. Questo messaggio si pone ancora oggi, per così dire, di traverso rispetto alla logica del mondo; e tuttavia è ciò da cui scaturisce non solo la Chiesa, ma anche la cultura che noi qualifichiamo come “occidentale”. Tradire il senso umano fondato su questo messaggio, che si esteriorizza nella percezione empatica dei deboli e di tutti coloro che si ammassano ai margini delle nostre società, equivarrebbe a negare la croce.

In un anno 20mila minori non accompagnati in Europa

Nel 2018, 19.700 richiedenti asilo in cerca di protezione internazionale giunti negli Stati membri dell’Unione europea erano considerati “minori non accompagnati”. “Ciò rappresenta un calo di oltre un terzo rispetto al 2017 (31.400) e un ritorno a un livello inferiore a quello registrato nel 2014 (23.100), quando era stato registrato un primo aumento rispetto al periodo 2008-2013 durante il quale si era verificato un numero relativamente costante di domande di circa 12.000 all’anno”.

Lo scorso anno a livello Ue i minori non accompagnati rappresentavano il 10% di tutti i richiedenti asilo di età inferiore ai 18 anni. Lo attesta Eurostat con uno studio pubblicato oggi. Nel 2018, “la maggioranza di questi minori non accompagnati era costituita da ragazzi (86%). Tre quarti hanno un’età compresa tra 16 e 17 anni (14.800 persone), mentre quelli dai 14 ai 15 anni rappresentavano il 17% (3.400 persone) e quelli sotto 14 anni sono il 7% (1.400 persone)”.

Più della metà di richiedenti asilo considerati minori non accompagnati nell’Ue nel 2018 erano cittadini di sei Stati: Afghanistan (16%), Eritrea (10%), Pakistan e Siria (7% ciascuno) e Guinea e Iraq (6% ciascuno). Il maggior numero di richiedenti asilo considerati minori non accompagnati è stato registrato in Germania (4.100 minori non accompagnati, il 21% di tutti i minori non accompagnati registrati negli Stati membri Ue), seguita da Italia (3.900, 20%), Regno Unito (2.900, 15%) e Grecia (2.600, 13%).

La pace fiscale arriva ad un milione di domande

In base agli ultimi dati, sono quasi 865 mila le domande presentate all’Agenzia delle entrate-Riscossione, di cui circa 725 mila riguardano la cosiddetta rottamazione-ter e 140 mila il “saldo e stralcio”. Ma l’andamento delle richieste è in forte crescita e potrebbe raggiungere il milione. Tra le regioni è il Lazio seguito dalla Lombardia quella con il maggior numero di richieste.

La Lombardia si piazza al secondo posto con circa 127 mila richieste complessive, ma è prima per numero di adesioni al saldo e stralcio, quasi 19 mila (sono 108 mila quelle per la rottamazione ter). Sul podio anche la Campania dove le istanze totali presentate sono circa 99 mila di cui 18 mila per il saldo e stralcio e 81 mila per la rottamazione-ter.

Nella giornata di oggi, dalle ore 8.15 alle 13.15, saranno aperti in via straordinaria gli sportelli dell’Agenzia di Riscossione presenti nei capoluoghi di provincia e in alcuni altri comuni (l’elenco è consultabile sul sito www.agenziaentrateriscossione.gov.it), con esclusione delle operazioni di cassa. Per presentare la domanda non è comunque necessario andare allo sportello, ma si possono utilizzare anche i canali online presenti sul sito internet di Agenzia delle entrate-Riscossione, con la possibilità di verificare, in modo semplice e veloce, le cartelle che si possono “rottamare” e di inviare le istanze di adesione in qualsiasi momento, inclusi i giorni festivi.

Mozambico, 305.000 bambini senza scuola

L’istruzione di oltre 305.000 bambini in Mozambico è stata interrotta a causa dei danni causati dal ciclone Idai che ha flagellato l’Africa sud-orientale alcune settimane fa.
Almeno 3.400 aule sono rimaste danneggiate o distrutte nelle regioni colpite dal ciclone, 2.713 delle quali nella sola provincia di Sofala.
In alcuni casi, le scuole avranno bisogno di importanti operazioni di recupero dopo essere state usate come centri di accoglienza per le famiglie sfollate a causa dalla calamità. Le strutture scolastiche dovrebbero inoltre essere ricostruite con criteri che permettano loro di resistere ai futuri disastri naturali.
Qualsiasi interruzione prolungata dell’attività educativa rischia di avere conseguenze devastanti sui bambini, nel breve come nel lungo periodo. L’istruzione è essenziale per aiutare i bambini a ritrovare unsenso di normalità dopo un evento traumatico come il ciclone, ma lo è anche per il loro sviluppo e per il loro avvenire.

L’Obesità

L’obesità è una condizione medica caratterizzata da un eccessivo accumulo di grasso corporeo che può portare effetti negativi sulla salute con una conseguente riduzione dell’aspettativa di vita.

Il termine deriva dal latino «obesitas», che indica la condizione di chi è «grasso, grosso o paffuto», a sua volta derivato da «esum», participio passato di «ĕdere» («mangiare»), con l’aggiunta del prefisso «ob» («per, a causa di»). L’uso del vocabolo «obesity» è documentato nella lingua inglese a partire dal 1611.

Si tratta di una patologia tipica, anche se non esclusiva, delle società dette “del benessere”. L’Organizzazione mondiale della sanità definisce l’obesità attraverso l’indice di massa corporea (IMC), un dato biometrico che mette a confronto peso e altezza: sono considerati obesi i soggetti con IMC maggiore di 30 kg/m², mentre gli individui con IMC compreso fra 25 e 30 kg/m² sono ritenuti in sovrappeso.

Dieta alimentare corretta, esercizio fisico e approccio psicologico sono le basi per la terapia preventiva e curativa dell’obesità; per favorire il trattamento possono essere prescritti farmaci dimagranti che agiscono riducendo l’appetito o inibendo l’assorbimento del grasso. Come stabilito delle linee guida internazionali elaborate nel 1991, qualora l’IMC sia superiore a 40 kg/m² oppure sia compreso fra 35 e 40 kg/m² con contemporanea presenza di fattori di rischio, si ricorre alla chirurgia bariatrica, per esempio introducendo un palloncino intragastrico.

L’obesità rappresenta la principale causa di morte prevenibile in tutto il mondo, con l’aumento della prevalenza in adulti e bambini, ed è considerata uno dei più gravi problemi di salute pubblica del XXI secolo. Essa è stigmatizzata in gran parte del mondo moderno (in particolare nella civiltà occidentale), anche se in alcuni momenti storici è stata percepita come un simbolo di ricchezza e fertilità, come è tuttora in alcune regioni del globo.

Con Biden il mondo può accantonare il tempo della baldoria

Dunque, Joe Biden, 78 anni, sfida Donal Trump. L’ex vice presidente di Obama ha deciso di candidarsi per la Casa Bianca. Biden, tra i possibili concorrenti Democratici, è quello che sembra avere le maggiori potenzialità di sconfiggere l’attuale presidente.

Ricordiamoci che tutto è partito con Trump. O, meglio, con ciò che Trump ha saputo rappresentare: l’America della rivalsa, del rancore e della paura. Obama aveva interpretato un’alta America. Hilary Clinton ci aveva provato, ma non era stata capace di farlo. Il “vecchio” Joe pare possa farcela. Più dell’altro rispettabile vecchio Bobby Sandres. E molto più di altri candidati democratici improvvisati sull’onda del nuovismo.

È forse il ritorno alla “politica”, con le sue categorie un poco consumate, certo, ma ancora necessarie per evitare derive bizzarre e pericolose. Dall’elezione di Trump in poi l’Occidente si è concesso un periodo di “baldoria” e adesso incomincia forse a tornare alla realtà.

Una dura realtà: come il mal di testa dopo una serata senza limiti e senza freni.
Restano i problemi drammatici di prima: disuguaglianza crescente, ceti medi impoveriti, disordine geopolitico e rischi gravi per la sicurezza.
Restano le incognite di un ciclo nuovo che comunque non potrà essere semplicemente quello di prima: lo sappiamo.
Ma la “baldoria” ha aggiunto nuovi e gravi problemi: lo svuotamento della democrazia; la delegittimazione di ogni valore di condivisione e di solidarietà; la mitologia del “prima noi”.

Laddove per “noi” è sempre più difficile identificare una “comunità” che non sia solo l’effimera convergenza di un interesse immediato e mutevole, dentro le Nazioni e nei rapporti internazionali.
Servirebbe anche all’Italia un Joe Biden – non necessariamente quasi ottantenne – per segnare un punto di svolta. Quello del ritorno alla “politica”, alla responsabilità, alla sobrietà dopo la “baldoria”. Trovarlo non è impossibile.

Europa ancora non pervenuta

Unfinished European Union Flag puzzle

Nonostante la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento dell’Unione europea sia entrata nel vivo, si continua a parlare solo delle cose di casa nostra. Al punto che i risultati del voto del prossimo 26 maggio sono attesi solo per valutare se sarà possibile, e se sarà il caso, di andare avanti con gli attuali equilibri parlamentari e governativi.

Non riusciamo mai a uscire dalla logica di guardarci l’ombelico, non proviamo mai a sprovincializzarci un po’ e a prendere piena coscienza che la “ marginalità” del nostro Paese, e di noi italiani, costringe a una diversa consapevolezza.

Eppure, il clima in cui nacque il governo giallo verde e le dichiarazioni apodittiche che quel clima caratterizzarono, a seguito della grave crisi istituzionale innescata con gli improvvidi attacchi al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per il clamoroso trasferimento di Paolo Savona ad altro incarico, fecero pensare che soprattutto la “ questione” europea avrebbe finito per definire l’agenda dell’esecutivo guidato dal trio Giuseppe Conti, Luigi Di Maio, Matteo Salvini. Così non è stato e, purtroppo, non è.

Invece, ci sarebbe proprio da occuparsi tutti insieme dell’Unione europea, della crisi della sua governabilità e rappresentanza e dell’evaporarsi di quello spirito popolare che ne ha animato i primi decenni di vita.

Affrontare, oggi, la questione europea non è semplice. Questa potrebbe costituire l’unica scusante di Salvini e Di Maio.

Essa si collega e s’innesta, infatti, nel più ampio riassetto degli equilibri internazionali perché la definizione, o l’ambizione di alcuni paesi ad assurgere al ruolo di potenze regionali complica, non semplifica gli assetti. Così come pesa, tantissimo, la cosiddetta finanziarizzazione dell’economia.

La vicenda libica, lo è stata in precedenza pure quella siriana, è emblematica al riguardo, mentre si aggrava la frattura interna al mondo islamico sunnita, al punto di assimilarla ad una “ faglia vulcanica”in corsa dal Mediterraneo, all’Afghanistan, all’Estremo oriente.

Il primo quesito cui dovremmo rispondere è dunque: vogliamo continuare a far sì che l’Europa giochi un ruolo importante di ragionevolezza e pacificazione all’esterno, sulla scia di quello che essa è riuscita ad assicurare al proprio interno, all’indomani di quel 25 aprile del ’45 che stiamo ricordando in queste ore?

Non sono cose di poco conto. L’allargarsi dei conflitti, il favorirli, sia pure inconsapevolmente, per quanto si abbia ragioni da vendere, dovrebbe costituire il primo motivo per riscoprire, per un paese piccolo come il nostro, un ruolo di collaborazione e di tentativo di conciliare persino l’inconciliabile. Forse non basta solamente recriminare con la Francia sulla Libia.

Dopo la questione della Pace, è necessario valutare ciò che di positivo è stato costruito grazie al processo europeo con i grandi vantaggi che, come italiani, abbiamo ricevuto dal nuovo assetto continentale.

L’Italia, anche perché parte dell’Europa, ha potuto avere grandi dei progressi economici, sociali, culturali, umani e tecnologici realizzati negli ultimi decenni nel mondo intero. Ci lamentiamo oggi di quella che è la crisi della prima fase della globalizzazione, dopo l’esaurirsi dell’iniziale stimolo propulsivo basato su un’impetuosa circolazione delle idee, delle persone e delle cose in maniera prima inimmaginabile.

Con essa, la condivisione e il rafforzamento delle conquiste scientifiche e tecnologiche, la creazione dello spazio giuridico europeo, adesso in via di allargamento a un novero sempre più ampio di paesi, cosa che semplifica la definizione di controversie in atto tra persone e imprese di paesi che hanno diversi sistemi giudiziari.

Si è creato un mercato unico di oltre 500 milioni di persone con gli enormi vantaggi portati alla nostra economia, profondamente legata ai mercati del resto d’Europa.

La discussione sulla Brexit in Gran Bretagna ruota soprattutto attorno a questo, non c’entrano più niente i vecchi sentimenti isolani e isolazionistici. Provate oggi a spiegare a un giovane di Londra o di Manchester che non può più liberamente muoversi verso quello che è diventato parte della propria quotidianità o che deve pagare la pasta, la mozzarella, i formaggi francesi o la birra belga di più perché tornano le vecchie logiche doganali di un tempo.

L’Europa ha significato, e ancora significa, politica di convergenza e coesione. Ciò che ha consentito a tante aree depresse di crescere (in alcuni casi, la cosa, vedi Irlanda, oltre 3mila morti, e Paesi Baschi, altri 800 morti, ha contribuito alla fine di conflitti decennali interni sanguinosi).

E’ stata l’Italia, purtroppo, per suoi antichi vizi e deficienze, a non utilizzare queste politiche comunitarie per risollevare il Mezzogiorno nella maniera che sarebbe stato necessario fare.

Noi italiani non abbiamo mai saputo adeguatamente richiamare, per mille motivi, quell’enorme flusso di denaro dell’Unione (351,8 miliardi di euro nel solo periodo 2014 – 2020, in aggiunta a tutto il resto erogato in precedenza) ridistribuito tra i diversi paesi sulla base dei progetti a lunga scadenza. I tanto euroscettici britannici li hanno sempre utilizzati al 100%. E’ colpa loro o nostra?

Non dimentichiamo quello che l’Europa ha significato per i riconoscimenti dei diritti del consumatore, per l’impegno a favore dell’ambiente e della cultura. C’è poco da dire: senza l’Europa saremmo stati ancora più vittime degli storici ritardi della nostra politica e della nostra burocrazia in questi settori.

A fronte di tutto ciò c’è da registrare l’involuzione del processo decisionale europeo. Frutto, però, non solo dell’egoismo germanico, ma anche di quelli francese, italiano, britannico. Un egoismo, ora arricchito da quello dei nuovi arrivati dell’ex Europa orientale che, evidentemente, dimenticano i costi sostenuti da tutti noi per farli uscire dai postumi della tragedia del comunismo sovietico.

Anche noi abbiamo contribuito a questa involuzione. Basti pensare come nella scelta dei vertici apicali della Ue abbiamo sempre seguito la logica “ amicale” e di potere all’italiana. Non sempre abbiamo spedito a Bruxelles e Strasburgo servitori dello Stato capaci e leali al proprio popolo, prima che agli “ interessi” di ogni genere che li hanno sempre sponsorizzati.

I tedeschi, ma come tutti gli altri, noi compresi, hanno pensato giustamente ai propri affari.

La differenza è stata che noi abbiamo avvantaggiato gli interessi di pochi italiani (soprattutto azionisti delle grandi imprese e delle banche) a scapito di una cura attenta alle necessità nazionali più generali. Sarebbe interessante studiare l’allargamento all’estero delle banche italiane mentre avveniva la cessione ai francesi, ma solo per fare un esempio, di una buona parte della grande distribuzione nel nostro Paese. A suo tempo, con molta semplicità ma efficacia, Giovanni Marcora, allora ministro dell’Agricoltura, parlava dello scambio, fatto sempre con i francesi, tra Italsider di Taranto e le consistenti concessioni elargite agli agricoltori francesi o olandesi. Tutto presuppone una scelta … e un costo.

E’ chiaro che la mancanza di una nostra politica europea seria (non sappiamo davvero cosa stia facendo a questo riguardo l’attuale Governo, dopo che il ministro Savona ha abbandonato il suo incarico senza lasciare alcuna traccia rilevante, o almeno risaputa) rappresenti per l’Italia un grave handicap.

Abbiamo inizialmente sentito tante bellicose dichiarazioni da parte di Di Maio e Salvini. E’ ovvio chiedersi se siano state da noi presentate in Europa proposte sui nuovi necessari criteri da introdurre per la valutazione del debito pubblico, sulla gestione futura dell’euro e della Bce, sulla ridefinizione dei parametri di Maastricht, sulla unitarietà della politica estera, sul concetto di difesa comune ecc ecc.?  Oppure, si preferisce continuare a prendersela con i “ cattivi “ tedeschi i quali fanno molto bene i loro interessi in un’ottica globale e unitaria della difesa del loro paese?

Forse sarebbe il caso, dopo le enunciazione e la denuncia dei problemi, problemi veri!, che anche noi italiani si cominciasse ad approfondirli con virile consapevolezza anche delle nostre responsabilità.

Su tutto ciò, temo, ci sia poco da attendersi di qui al 26 maggio, prossimo venturo e forse … anche dopo.

I concili sono più importanti dei trattati

Tratto dall’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Gilbert Keith Chesterton

In tutta la confusione della spensieratezza moderna, che vuol chiamarsi pensiero moderno, non c’è nulla forse di così stupendamente stupido quanto il detto comune: «La religione non può mai dipendere da minuziose dispute di dottrina». Sarebbe lo stesso affermare che la vita umana non può mai dipendere da minuziose dispute di medicina. L’uomo che si compiace dicendo: «Non vogliamo teologi che spacchino capelli in quattro», sarebbe forse d’avviso di aggiungere: «e non vogliamo dei chirurghi che dividano filamenti ancora più sottili»?

È un fatto che molte persone oggi sarebbero morte se i loro medici non si fossero soffermati sulle minime sfumature della propria scienza; ed è altrettanto vero che la civiltà europea oggi sarebbe morta se i suoi dottori di teologia non avessero argomentato sulle più sottili distinzioni di dottrina. Nessuno scriverà mai una storia d’Europa un po’ logica finché non riconosca il valore dei Concili della Chiesa, quelle collaborazioni vaste e competenti che ebbero per scopo di investigare mille e mille pensieri diversi per trovare quello unico della Chiesa.

I grandi Concili religiosi sono di una importanza pratica di gran lunga superiore a quella dei Trattati internazionali, perni sui quali si ha l’abitudine di far girare gli avvenimenti e le tendenze dei popoli. I nostri affari di oggi, infatti, sono ben più influenzati da Nicea ed Efeso, da Trento e Basilea che da Utrecht, o Amiens, o Versailles. In quasi tutti i casi vediamo che la pace politica ebbe per base un compromesso; mentre la pace religiosa si fondava su di una distinzione. Non fu affatto un compromesso dire che Gesù Cristo è vero Dio e vero Uomo, come lo fu la decisione che Danzica sarebbe stata in parte polacca e in parte tedesca: era invece la dichiarazione di un principio la cui perfetta pienezza lo distingueva sia dalla teoria ariana, sia da quella monofisita. E questo principio ha influito ed influisce tuttora sulla mentalità di Europei, dagli ammiragli alle fruttivendole, che pensano (sia pure vagamente) a Cristo come a qualcosa di Umano e Divino nello stesso tempo. Mentre il domandare a una fruttivendola quali siano per lei le conseguenze pratiche del Trattato di Utrecht, sarebbe meno che fruttuoso.

Tutta la nostra civiltà risulta di queste vecchie decisioni morali, che molti credono insignificanti. Il giorno in cui furono portate a termine certe note contese di metafisica sul Destino e sulla Libertà, fu deciso anche se l’Austria dovesse o no somigliare all’Arabia, o viaggiare in Ispagna dovesse essere lo stesso che viaggiare nel Marocco. Quando i teologi fecero una sottile distinzione fra la sorta di onore dovuto al matrimonio e quello dovuto alla verginità, impressero alla civiltà di un intero continente un marchio di rosso e di bianco, marchio che non tutti rispettano ma tutti riconoscono anche quando l’oltraggiano.

Nello stesso modo, allorché si stabilì la differenza fra il prestito legale e l’usura, nacque una vera e propria coscienza umana storica, che anche nello spettacoloso trionfo dell’usura, nell’età materialistica, non si è potuto distruggere. Quando san Tommaso d’Aquino definì il diritto di proprietà e nello stesso tempo gli abusi della falsa proprietà, fondò la tradizione di una schiatta di uomini riconoscibili, allora e ora, nella politica collettiva di Melbourne e Chicago: e ciò staccandosi dal comunismo coll’ammettere i diritti di proprietà, ma anche protestando, in pratica, contro la plutocrazia.

Le distinzioni più sottili hanno prodotto i cristiani comuni: coloro che credono giusto il bere e biasimevole l’ubriachezza; coloro che credono normale il matrimonio e anormale la poligamia; coloro che condannano chi colpisce per primo ma assolvono chi ferisce in propria difesa; coloro che credono ben fatto scolpire le statue e iniquo adorarle: tutte queste sono, quando ci si pensa, molto fini distinzioni teologiche.

II caso delle statue è particolarmente importante in questo argomento. Il turista che visita Roma è colpito dalla ricchezza, quasi sovrabbondanza, di statue che vi si trovano. Orbene, il fatto dell’importanza dei Concili diviene ancora più impressionante quando tutto l’avvenire artistico di una terra dipende da una sola distinzione, e la distinzione stessa da un solo Uomo. Fu solamente il Papa che rilevò la differenza fra la venerazione delle immagini e l’idolatria; fu lui solo a salvare tutta la superficie artistica dell’Europa, e di conseguenza l’intera carta geografica del mondo moderno, dall’essere nuda e priva dei rilievi dell’Arte. Nel difendere quest’idea, il Pontefice difendeva il San Giorgio di Donatello e il Mosè di Michelangelo, e com’egli fu forte e deciso in Roma, così il David sta gigantesco a Firenze, e i graziosi putti di Della Robbia appaiono come squarci di azzurro e nubi nel Palazzo di Perugia e nelle celle di Assisi. Se dunque una tale distinzione teologica è un filo sottile, tutta la storia dell’Occidente è sospesa a quel filo. E se non è che un punto di affermazione, tutto il nostro passato si trova in equilibrio su di esso.

Ma il peggio non è Matteo

Articolo già pubblicato sul sito internet www.ragionepolitica.it

Eppure io faccio una differenza. Credo che una differenza tra Lega e M5s ci sia eccome. Credo che sia il M5s l’anima nera del governo, il pericolo imminente per la democrazia in Italia, il fenomeno che sta avvelenando il Paese.

Dopotutto, la Lega è ciò che è sempre stata. Era un partito di destra anche quando, nel tardo Novecento, coniugò la questione settentrionale in modo localistico e conservatore. Anche quando trascinò il tema strategico del decentramento nella palude di un secessionismo naïf. Ed è destra oggi che si rivernicia di nazionalismo antieuropeista, isolazionismo, xenofobia. Oggi che cerca consensi tra i vecchi a scapito dei giovani (quota 100) e promette un fisco non progressivo (flat tax). Liberali, popolari, socialisti dovranno provarci, a sconfiggere questa destra. Dovrà provarci un’opinione pubblica progressista, europeista, occidentale. Ma i termini della battaglia politica sono chiari.

Altra cosa, assai più insidiosa, è il M5s. Altra cosa perchè rompe le regole del gioco costituzionale e democratico. Perchè vagheggia la sostituzione della democrazia rappresentativa con la democrazia diretta, affida la costruzione della volontà popolare a una piattaforma telematica privata, prepara lo stravolgimento dell’istituto referendario, chiede l’aggravio sistematico delle pene come unica forma di governance, uccide le garanzie processuali. Perchè pratica la menzogna come oppio dei popoli. La Tav? Non esiste. La povertà? L’abbiamo abolita. Le banche? Associazioni a delinquere. Nati dal malessere epocale degli italiani, i Cinquestelle hanno fatto il pieno di consensi grazie al fascino sempiterno dei tagliagole, hanno eccitato il peggio del paese, gli strati plebei, il Sud assistenzialista, i frustrati dal progresso, gli odiatori della Rete. E ora, giunti al potere, cercano di sostituire allo stato di diritto lo Stato Orwelliano del Terzo Millennio.

Sí, sono i più pericolosi. Pericolosi anzitutto per la stabilità della democrazia liberale. Ma pericolosi per una sinistra snervata che, sognando un qualche patto di governo, sembra non capire come la spinta anti-istituzionale dei Cinquestelle ne farebbe un sol boccone. E pericolosi infine per la stessa destra di Salvini, che dal sovversivismo del M5s rischia di vedere compromesse le proprie radici rappresentative. Una minaccia sistemica che, più degli italiani, sembrano aver capito gli europei, i quali, da Farage ai gilet gialli, uno dopo l’altro, hanno rifiutato le avances di Luigi Di Maio.

Salta la fusione tra Deutsche Bank e Commerzbank

Salta la fusione tra Deutsche Bank e Commerzbank.

Lo hanno annunciato ufficialmente i due istituti tedeschi dopo che in mattinata si erano già diffuse le indiscrezioni sul fatto che le trattative fossero ormai giunte ad un binario morto.

Secondo il Financial Times la “Deutsche Bank sarebbe arrivata alla conclusione che i rischi di integrazione, i costi di implementazione e i requisiti di capitale” resi necessari dalla fusione “non giustificherebbero un’operazione complessa”.

 

Lazio: lo strepitoso Giardino di Ninfa

Il giardino di Ninfa è un monumento naturale situato nel territorio del comune di Cisterna di Latina, al confine con Norma e Sermoneta. Si tratta di un tipico giardino all’inglese, iniziato da Gelasio Caetani nel 1921, nell’area della scomparsa cittadina medioevale di Ninfa, di cui oggi rimangono soltanto diversi ruderi, alcuni dei quali restaurati durante la creazione del giardino.

Nel ‘300 Ninfa fu saccheggiata e distrutta per mano di Onorato Caetani, sostenitore dell’antipapa Clemente VII, avverso al ramo dei Caetani che possedevano Ninfa. La città, rasa al suolo, fu abbandonata e mai più ricostruita anche a causa della malaria che imperversava nella zona. La costruzione del bellissimo giardino fu voluta da Gelasio Caetani nei primi anni ’20. L’ultima erede e appassionata proprietaria del giardino incantato fu Lelia Caetani che abbinò piante e colori come si fa in un quadro e non ostacolò la naturale crescita delle piante. Rimasta senza eredi, costituì la fondazione Roffredo Caetani per garantire la cura del giardino e valorizzare il territorio lepino di cui fa parte.

Il giardino, della grandezza di otto ettari, è un giardino all’inglese che ospita al suo interno oltre un migliaio di piante ed è attraversato da numerosi ruscelli d’irrigazioni oltre che dal fiume Ninfa: il fiume prende origine dall’omonimo laghetto di natura risorgiva e scorreva, fino alla bonifica integrale, per oltre 40 chilometri nell’agro pontino nel primo tratto col nome Ninfa e poi col nome Sisto, fino a sfociare tra Terracina ed il Circeo; a partire dagli anni ’30 le acque risorgive sono state tuttavia deviate, poco a sud del giardino, nel corso del Collettore delle Acque Medie, separandole quindi dal corso del Ninfa/Sisto. Nelle acque dell’alto corso del Ninfa vive la Trota macrostigma, localmente conosciuta anche con il nome di Trota di Ninfa.

Nei pressi della chiesa di San Giovanni è possibile osservare un noce americano, diversi meli ornamentali, un acero giapponese a foglia rosa, un faggio rosso, un acero a foglie bianche e un pino a foglie di color argento. Alla spalle della chiesa di Santa Maria Maggiore una bignonia gialla, un gruppo di yucca e diversi roseti, mentre presso la facciata principale si trova un cotinus coggygria, chiamato anche albero della nebbia, con delle infiorescenze a piumino rosa, simili a zucchero filato ed un cedro sul cui tronco è poggiata una tillandsia, pianta senza radici che ricava il nutrimento dall’umidità dell’aria. Lungo il viale dei cipressi delle erythrina crista-galli, fiori di colore scarlatto simili ad uccelli tropicali, mentre lungo il viale delle lavande dei ciliegi penduli, un pino dell’Himalaya, dei banani, un pino messicano ed un’acacia sudamericana. Nella zona dedicata al giardino roccioso si trovano iberis, eschscholzia, veronica, alyssum, aquilegia, dianthus e melograni nani. Vicino al ponte del macello si trovano clematis armandii a fiori viola, ortensie rampicanti, aceri, un pioppo; proseguendo lungo il fiume si incontra un boschetto di noccioli, un acer saccharinum e un liriodendron tulipifera, chiamato anche albero dei tulipano.

È un luogo congelato nel tempo, dove forte è il ricordo della piccola città medievale, se ne trova traccia nei ruderi della chiesa e in quel che resta del castello. L’Oasi di Ninfa è il luogo perfetto per i prossimi weekend di primavera.

 

 

 

Coni e Mattm insieme per la sostenibilità: stanziati 1,5 milioni

E’ stato sottoscritto la scorsa settimana un protocollo d’intesa tra il Ministero dell’Ambiente e il Comitato olimpico nazionale italiano per promuovere iniziative di sensibilizzazione su temi ambientali e sviluppo sostenibile. L’accordo sancisce la collaborazione nella realizzazione di attività e iniziative per le quali il Ministero metterà a disposizione le proprie competenze tecniche e un finanziamento complessivo di oltre 1,5 milioni di euro da spalmare in cinque anni. L’accordo è stato siglato dal titolare dell’Ambiente, Sergio Costa, dal presidente del Coni, Giovanni Malagò, e dall’amministratore delegato di Sport e salute Spa, Alberto Miglietta.

“Questo accordo segna un salto di qualità nella valorizzazione della natura e della diffusione delle buone pratiche ecologiste e specificatamente plastic free su cui tanto stiamo lavorando – ha sottolineato Costa – se pensiamo alle immense potenzialità dello sport e alla grande passione e coinvolgimento che diffonde dai giovanissimi agli adulti, possiamo renderci conto che questo protocollo ci permetterà di compiere  un cambiamento potenziale di sensibilità in milioni di italiani. Un binomio vincente – ha continuato Costa – che significa diffusione di cultura sportiva e ambientale che da oggi si rafforza con l’avvio di una programmazione e condivisione delle conoscenze. Per questo – ha aggiunto il ministro – abbiamo investito oltre 1,5 milioni di euro che serviranno ad avviare un percorso comune, della durata di cinque anni – che spero si trasformi in una collaborazione continua tra mondo dell’ambiente e dello sport”.

Il Coni e la sua società di organizzazione eventi s’impegnano a promuovere una serie di iniziative tra cui la sensibilizzazione dei temi legati agli obiettivi dell’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile, per incentivare la formazione di dirigenti, tecnici, operatori del settore sportivo, affinché la tutela dell’ambiente venga considerata con un approccio multidisciplinare in un’ottica di economia circolare, di promuovere relazioni e partenariati con Federazioni ed Enti di promozione sportiva, Amministrazioni, enti di ricerca, università per la diffusione di una cultura della salvaguardia della biodiversità e della riduzione dell’impatto ambientale in tutti gli eventi sportivi. Ma anche di valorizzare il ruolo delle istituzioni no profit sportive e dei volontari attivi in questo settore premiando le migliori pratiche di integrazione degli obiettivi ambientali nello sport, con una particolare attenzione alle iniziative sportive che coinvolgono le fasce più deboli e marginali di giovani. Di favorire la diffusione di comportamenti virtuosi legati al “plastic free”, a sistemi di raccolta efficaci, alla riduzione delle emissioni climalteranti, alla mobilità sostenibile, agli acquisti verdi, alla promozione dei“Criteri Ambientali Minimi”, all’uso efficiente delle risorse naturali, alla minor produzione di rifiuti, all’uso consapevole dell’acqua, alla progettazione, riqualificazione ed efficientamento energetico degli impianti sportivi, di promuovere attività sportive in aree naturali protette.

Fondazione Pistoia presenta “ITALIA MODERNA 1945-1975”

Fondazione Pistoia Musei presenta ITALIA MODERNA 1945-1975. Dalla Ricostruzione alla Contestazione a cura di Marco Meneguzzo. La mostra, allestita negli spazi di Palazzo Buontalenti e suddivisa in due tappe accomunate dal medesimo intento storico critico – Le macerie e la speranza visibile fino al 25 agosto 2019 e Il benessere e la crisi visibile dal 13 settembre al 17 novembre 2019 – presenta oltre centocinquanta opere tutte selezionate dalle collezioni di Intesa Sanpaolo.

La rassegna punta a mostrare il complesso tessuto artistico italiano in uno dei periodi di trasformazione del Paese tra i più fecondi. La “Ricostruzione” e la “Contestazione” non sono infatti solo due poli cronologici entro cui si dipana l’idea della Modernità, declinata alla maniera italiana, ma sono due indicazioni culturali e mostrano già un arco di sviluppo di idee e di costumi che hanno portato l’Italia alla ribalta internazionale, sia come economia che come cultura.

Suddivisa in sezioni che non seguono solo l’andamento tradizionale ma preferiscono evocare contesti sociali e culturali in cui si incontravano anche tendenze diverse, ITALIA MODERNA 1945-1975 vuole evidenziare il clima, l’atmosfera, il tessuto connettivo dell’arte italiana, più ancora della presenza di nomi e opere già molto conosciute.